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Autore: Severia85    18/11/2014    1 recensioni
Questa storia partecipa al contest "A spasso nel tempo"
Si trattava di creare nuovi personaggi, inseriti in un contesto storico preciso con elementi appartenenti all'universo di Harry Potter. In questa storia non troverete Harry e nessun'altro personaggio dei libri, ma personaggi da me inventati che vivono vicino al campo di concentramento di Fossoli, durante la seconda guerra mondiale. Unica loro particolarità: sono maghi.
Genere: Guerra, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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FOSSOLI, 1944
 
Era una grande casa di campagna a tre piani. La facciata era stata rovinata dal tempo e dalle intemperie e l’intonaco presentava numerose crepe. Grandi finestre si affacciavano sulla campagna circostante. All’interno, il piano terra era un unico ambiente, dominato da una grande stufa a legna e da un lungo tavolo al centro. La madia e la credenza erano addossate alla parete. Al piano di sopra, tre camere da letto. In soffitta, erano appesi i salami a stagionare. Alla sinistra della casa, si ergeva la stalla, a destra il pollaio.
La famiglia Carretti viveva in questa casa da quattro generazioni, ormai, lavorando la terra e allevando mucche e galline.
Ovidio Carretti era diventato il capo famiglia da qualche anno, dopo la morte del padre. Era un uomo basso e magro, con la pelle scura e segnata, tipica di chi lavora all’aperto. I pochi capelli che gli restavano sulla testa erano grigi; gli occhi erano scuri, ma ancora vispi. Era un uomo duro, a cui la vita non aveva regalato nulla.
Sua moglie Enrica era una donna di bassa statura; le gravidanze l’avevano resa rotonda sui fianchi e sull’addome. Aveva i capelli castano chiaro, anche se non erano più lucenti come un tempo. Gli occhi marroni erano teneri e amorevoli.
I coniugi Carretti avevano due figli: Luca e Irene. Il primogenito aveva diciassette anni, corti capelli neri, occhi scuri e un sorriso dolce. Era testardo come il padre, tuttavia era di animo gentile come la madre. Era sveglio e intelligente. Irene era una bimba di sette anni, allegra e vivace. Amava correre nei campi a piedi nudi, sdraiarsi sotto un albero a riprendere fiato, poi fare il bagno in un canale. Aveva i capelli lunghi e castani, sempre legati in due trecce. Gli occhi marroni rivelavano una certa intelligenza.
La famiglia Carretti viveva nella campagna di Fossoli, in fondo a un lungo viale ghiaiato, lungo il quale, nel corso degli anni, erano state costruite altre case coloniche. La famiglia Carretti nascondeva un segreto: Ovidio era un mago, così come lo erano i suoi figli. Ovidio era nato in una famiglia babbana di contadini abbastanza ricchi da potersi permettere una stalla con le mucche. I suoi genitori erano molto superstiziosi e inorridivano ogni volta che vedevano il figlio compiere qualche azione inconsueta, come far muovere da sola una vanga. Quando era piccolo, gli proibirono di compiere “stranezze” e suo padre usava spesso la cintura sulla sua schiena per inculcargli il concetto. Nessuno dei suoi fratelli o sorelle aveva quei poteri e, per lungo tempo, Ovidio fu considerato la pecora nera della famiglia. Quando aveva compiuto undici anni, mentre in tutta Europa si combatteva, un uomo alto e magro, vestito in modo alquanto bizzarro, si era presentato a casa loro, spiegando che Ovidio, in quanto mago, aveva diritto ad una bacchetta e a frequentare la Scuola di magia Leonardo da Vinci, a Bologna. Il padre di Ovidio non aveva voluto saperne: il figlio non poteva andare a scuola, ma doveva restare ad aiutarlo nei campi, così come i suoi fratelli. Non c’erano state possibilità: Ovidio aveva sentito che lo stavano privando di una parte fondamentale della sua vita, tuttavia opporsi all’autorità paterna avrebbe significato ricevere una serie lunga e dolorosa di frustate.
Gli anni erano passati e Ovidio, diventato ormai grande, si recava frequentemente in città a Carpi, ad effettuare alcune commissioni. Qui, per puro caso aveva conosciuto un altro mago: Ascari Primo, detto amichevolmente “Bertoun”, aveva una fabbrica di cappelli di paglia[1], la seconda ditta più importante della zona. Aveva sempre un’espressione corrucciata, ma aveva buon cuore e amava bere vino e farsi due risate in compagnia. Primo, accortosi delle qualità di Ovidio, lo aveva iniziato ai segreti della magia, gli aveva procurato una bacchetta (legno di corniolo, con cuore di unicorno, flessibile) e gli aveva insegnato ad usarla.
Ovidio aveva imparato gli incantesimi più semplici, quelli che avrebbero potuto aiutarlo in campagna, tuttavia, senza una vera e propria istruzione, non aveva potuto sviluppare a pieno le sue qualità magiche.
Qualche anno dopo, nel 1925, Ovidio aveva conosciuto Enrica. Si erano innamorati e nel giro di pochi mesi si erano sposati. Enrica era babbana, eppure non sembrava spaventata dai poteri del marito, anzi la facevano sentire più sicura e protetta. Nel luglio del 1927, era nato Luca. Altri due maschietti non ce l’avevano fatta ed erano morti venendo al mondo. Alcuni anni dopo, era arrivata Irene.
Ovidio aveva cercato di non commettere con i suoi figli gli stessi errori di suo padre: aveva spiegato loro che cos’erano e che cosa erano in grado di fare, ma gli aveva anche proibito di parlarne o di manifestare in pubblico i loro poteri. Quando Luca aveva compiuto undici anni si erano aperte per lui le porte della Scuola di magia. A prezzo di enormi sacrifici, Ovidio gli aveva comprato una bacchetta e gli aveva permesso di frequentare un anno di scuola. Prima che il figlio partisse gli aveva detto:
“Io no ho avuto modo di andare a scuola e voglio che tu ce l’abbia, ma mi servi nei campi e posso lasciarti un solo anno. Cerca di imparare tutto quello che puoi.”
Luca era partito pieno di buone intenzioni, stringendo la sua bacchetta. Non si era ambientato alla Scuola Vinci: era troppo abituato a vivere all’aria aperta per trovarsi bene chiuso tra quattro mura, per quanto grandi. Aveva però messo in pratica il consiglio del padre e si era applicato negli studi: in un anno, aveva imparato ben più di molti altri suoi compagni, spesso applicandosi anche come autodidatta.
Ora, a distanza di sei anni, lavorava nei campi insieme al padre, aiutandolo con tutto ciò che aveva imparato: non solo incantesimi, ma anche nozioni di erbologia.
Alcuni comandanti dell’esercito, avevano portato via la maggior parte delle mucche, due inverni prima, per cui la stalla non era più un lavoro troppo impegnativo, anche se bisognava ancora alzarsi all’alba per mungere le vacche rimaste e dar loro da mangiare. Con l’aiuto del vecchio Bertoun, Ovidio era riuscito a confondere gli ufficiali che erano venuti a consegnarli la cartolina di reclutamento ed aveva così evitato il fronte.
Insieme al figlio, era spesso costretto a recarsi nel vicino campo di concentramento, per portare latte e ortaggi ai comandanti e alle guardie. Quello di Fossoli non era un campo di sterminio: qui la gente veniva reclusa per un certo periodo, fino a quando veniva caricata su un treno, diretto in Germania.
Ovidio non sapeva nulla di quanto accadeva nel Terzo Reich, anche se le voci delle tremende violenze subite dagli ebrei erano arrivate anche in quella zona. Ogni volta che era costretto a recarsi al campo, teneva gli occhi bassi, eseguiva la sua consegna e se ne andava. Non si soffermava quasi mai a guardare i prigionieri e i loro volti stanchi e impauriti. Non era mai nemmeno entrato in una delle grandi baracche dove vivevano ammucchiati.
Luca era diverso: ogni volta che accompagnava il padre all’interno del Campo per prigionieri di guerra n. 73 veniva invaso da una rabbia feroce. Se riusciva, senza farsi vedere, moltiplicava un po’ del cibo che avevano con loro e lo passava ad uno dei prigionieri. Era un incantesimo che aveva imparato a padroneggiare bene e che permetteva alla sua famiglia di non patire la fame, in quei tempi difficili.
Quando rientravano a casa, iniziavano le discussioni:
“Perché non possiamo fare niente per loro?” chiedeva Luca, sbattendo il pugno sulla tavola.
“E che cosa vorresti fare?” rispondeva il padre, sospirando.
“Siamo maghi! Abbiamo dei poteri e abbiamo il dovere di aiutare quella povera gente.”
“Io non saprei come fare. Io ho una famiglia da mettere a tavola e di quello mi preoccupo, non di altro.”
“Ma papà… non pensi che potremmo almeno farli fuggire?”
“E a cosa servirebbe? Li ammazzerebbero mentre scappano, oppure li riacchiapperebbero dopo qualche giorno. Gli dai da mangiare: questo è già tanto.”
Luca non riusciva mai a vincere quella discussione: il padre si preoccupava solo di se stesso e della sua famiglia. Dava ai soldati quello che chiedevano, soprattutto se erano tedeschi, per non avere problemi. Eppure, Luca pensava che quello non bastasse. Qualche giorno prima, aveva avuto modo di allungare alcune patate ad un prigioniero e di scambiare qualche parola con lui.
“Come ti chiami, ragazzo?” gli aveva chiesto l’uomo con gli occhi tristi.
“Luca. Tu chi sei?”
“Mi chiamo Ododardo[2].”
“Sei qui da molto?”
“No, sono appena arrivato. Prima ero in carcere a Bologna. Non si sta male qui.”
“Ah no? E allora perché sei triste?”
“Perché stando chiuso qui dentro non posso salvare altri ebrei. E poi so che non rivedrò più la mia famiglia.”
“Hai dei figli?”
“Sette.”
“Perché aiutavi gli ebrei?”
“Perché altrimenti sarebbero stati catturati e mandati in Germania a morire.”
“Cos’hanno fatto di male?”
“Niente.”
Avrebbe voluto aiutarlo a scappare, farlo ritornare dalla sua famiglia, ma non aveva avuto il tempo di aggiungere altro, perché si era avvicinata una guardia che lo aveva allontanato.
Ora, quando andava a dormire, prima che il sonno lo vincesse, vedeva quegli occhi tristi, gli occhi di un uomo che aveva rischiato tutto, la vita, la famiglia, per aiutare persone innocenti. E lui, che cosa faceva? Pensava a se stesso, esattamente come suo padre.
 
***
Era notte fonda quando i cani cominciarono ad abbaiare. Ovidio si svegliò di colpo, afferrò il fucile che teneva vicino al letto, intimò alla moglie di non muoversi e scese di sotto. Luca lo seguì qualche istante dopo, stringendo la bacchetta.
“Torna di sopra.” Gli ordinò il padre, sottovoce. Il tono era fermo e autoritario, ma i gesti frenetici con cui caricava il fucile tradivano tutta la sua tensione.
“No.”
“Torna di sopra, subito.”
Degli spari. Uno, due. Poi le grida e ancora i cani. Si stavano avvicinando.
Al buio, acquattati contro la parete della cucina, padre e figlio sbirciarono dalla finestra.
Lumos.”
“Spegni subito quella cosa, o ci vedranno.”
Luca non ubbidì e alla debole luce della bacchetta scrutò le tenebre di fuori. Poteva intravvedere delle ombre che si muovevano in fretta. Altri spari a lacerare la notte. Grida e rumore di passi sulla ghiaia. Si sentirono ordini urlati in tedesco e i latrati dei cani. Altre voci italiane: Luca ne riconobbe una.
“Sono i Poletti.”
I Poletti erano una famiglia che abitava a qualche curva di distanza. Erano brave persone, lavoratrici.
“Dobbiamo aiutarli.” Sentenziò Luca, rivolto al padre.
“Non muoverti!” fu la risposta.
Ma l’incoscienza giovanile fu più forte. Luca si avvicinò alla porta e la aprì. Una figura scura gli piombò tra le braccia: il ragazzo la sorresse e, alla luce della bacchetta, vide che si trattava di Sara, la figlia dei Poletti.
“Entra, svelta!”
Altre figure si muovevano nella notte.
“Si sono nascosti nella stalla!” sentì urlare, con un forte accento tedesco.
Luca andò in quella direzione.
“Chi va là?” gli urlarono.
Il mago non rispose e si avvicinò di più, protetto dalle tenebre.
Il rombo di una macchina e poi il cortile fu illuminato dalla luce dei fari. Luca era allo scoperto; non perse tempo e mirò al soldato più vicino:
Vingardium leviosa!”
La pistola del soldato fluttuò nell’aria per qualche istante, poi ricadde lontano.
Un proiettile mancò Luca di un soffio. Il ragazzo ne avvertì il sibilo sinistro. Un altro scoppio, questa volta dalla direzione opposta: suo padre lo aveva raggiunto e sparava con il fucile.
Vingardium leviosa!”
Un’altra pistola volò lontana.
Un cane spiccò un salto nella sua direzione, con le fauci spalancate, pronto ad azzannarlo. Cadde a terra, abbattuto da Ovidio.
Approfittando dello sconcerto dei tedeschi, Luca si arrischiò a lanciare un incantesimo più complesso: lo aveva studiato solo come autodidatta, sperimentandolo sui gatti randagi che gironzolavano in campagna e non era certo che funzionasse anche sugli uomini.
Stupeficium!”
Un raggio rosso atterrò un soldato. Galvanizzato dal suo successo, cominciò a lanciare incantesimi a destra e sinistra. In breve, i cinque soldati tedeschi giacevano a terra, privi di sensi.
Ovidio rimase con il fucile puntato ancora per qualche secondo, per essere certo che nessun altro nemico fosse nelle vicinanze. Uno dei cani continuava a ringhiare, ma non osava avvicinarsi ai due uomini. Luca rinfoderò la bacchetta, appena prima che la ragazza che aveva soccorso si precipitasse fuori dalla casa.
“Dove sono i miei genitori?” chiese, angosciata. “E mio fratello?”
Dalla stalla arrivò una richiesta d’aiuto disperata.
I tre corsero in quella direzione.
La signora Poletti giaceva in ginocchio tra la paglia, con la testa del marito in grembo. Aveva i capelli neri disordinati, il viso bagnato di lacrime e la camicia da notte sporca di sangue. Il marito aveva la mascella serrata e si teneva la spalla destra da cui perdeva sangue. Un bimbetto di cinque o sei anni osservava la scena in silenzio, tremando per la paura.
“Bisogna fermare il sangue.” Sentenziò Ovidio, buttando a terra il fucile e chinandosi sull’uomo ferito. “Luca, vai a chiamare tua madre e porta dell’acqua e delle pezze pulite.”
Il ragazzo corse in casa.
Quando ritornò alla stalla, Enrica era con lui e reggeva una bacinella d’acqua.
“Occupati di lui.” Le ordinò il marito.
Enrica non fece domande e si chinò a ripulire la ferita nella spalla dell’uomo.
Ovidio prese Luca per un braccio e lo trascinò fuori.
“Dobbiamo far sparire i soldati prima che si sveglino.”
“Cosa facciamo?”
“La cosa migliore sarebbe ucciderli.”
Luca rabbrividì: un conto era schiantare un uomo per difendersi, un altro era ucciderlo a sangue freddo. Guardò il padre e si tranquillizzò: nei suoi occhi lesse la sua stessa angoscia.
Fecero scappare i cani e caricarono i cinque corpi sull’auto, ammucchiandoli alla bene meglio. Poi, partirono. Lungo il viale, le case erano buie e silenziose: tutti avevano sentito gli spari e le urla, tuttavia nessuno voleva guai e se ne stava ben chiuso in casa.
Ovidio e il figlio portarono i corpi privi di sensi in una cascina abbandonata a qualche chilometro di distanza. Vi lasciarono anche alcune bottiglie vuote di vino che si erano portati da casa; una era piena: la vuotarono sul pavimento e sui corpi. Quando altri soldati li avrebbero trovati, avrebbero pensato che i compagni avevano bevuto fino ad ubriacarsi e il loro racconto assurdo sarebbe stato solo frutto dell’alcool.
Ritornati a casa, trovarono ancora tutti nella stalla. Anche Irene era scesa, per non restare sola nella grande casa vuota.
“Ho ripulito la ferita,” disse Enrica. “e l’ho ricucita. Ma ha perso molto sangue: il proiettile lo ha passato da parte a parte.”
“Non possono restare qui.” Sentenziò Ovidio.
Il signor Poletti aveva perso conoscenza e ora giaceva disteso sul pavimento della stalla. Sua moglie piangeva, cullando il figlio piccolo. Sara, accovacciata accanto al padre, gli teneva la mano.
“Vi prego,” cominciò a dire, tra le lacrime. “Aiutateci. Non fateci andare via. Come faremo?”
“Perché ce l’avevano con voi?” domandò Luca, prima che il padre potesse dire qualcos’altro.
“Hanno scoperto che, per qualche tempo, abbiamo nascosto una coppia di ebrei.”
Luca fu percorso da un brivido: quelle persone erano eroi.
“Dobbiamo nasconderli.” Affermò, guardando negli occhi il padre.
“Torneranno a cercarli e se scoprono che li nascondiamo porteranno via anche noi o, peggio, ci uccideranno.”
“Ma dove possono andare? Lui è ferito e il bambino è piccolo.”
“Non è un mio problema!”
A quelle parole la signora Poletti emise un gemito strozzato.
“Possiamo tenerli su in soffitta, tra i salami.”
“Signore,” disse Sara che non aveva ancora parlato. “io vi prego: nascondeteci qui solo per qualche giorno, fino a quando mio padre non sarà in grado di camminare. Poi ce ne andremo e non vi daremo più disturbo. Io posso lavorare e aiutarvi nei campi e anche mio fratello può fare qualche lavoro domestico.”
La ragazza aveva guardato Ovidio con gli occhi neri spalancati e fieri, pieni di speranza. Tremava, nella sua camicia da notte bianca e i riccioli neri le ricadevano sulle spalle disordinati. Aveva quindici anni: non era bella, tuttavia lo sguardo magnetico e profondo attirava l’attenzione.
Ovidio si rese conto di essere osservato da tutti, dalla sua famiglia e da quella dei Poletti. Tutto dipendeva dalle sue parole e dalla sua decisione. Sapeva qual era la cosa migliore da fare per se stesso e per i suoi, però l’espressione del figlio lo metteva a disagio. Tentennò qualche istante poi sospirò:
“E sia. Mettili tutti in soffitta. Ma sia chiaro: è solo per qualche giorno. Non dovrete muovervi, né fare rumore. Sono stato chiaro?”
Annuirono tutti, anche Luca, Enrica ed Irene. La signora Poletti si lanciò ai piedi di Ovidio, gli prese la mano e cominciò a ringraziarlo, sempre piangendo.
Ovidio, imbarazzato l’allontanò.
 
Mentre le donne e il piccolo Giuseppe entravano in casa, Luca e Ovidio sfruttarono la magia per sollevare il corpo del signor Poletti fino alla soffitta. Lo adagiarono su un vecchio materasso sfondato e lo coprirono con una pesante coperta. La moglie, che nel frattempo si era cambiata, indossando una camicia da notte pulita di Enrica e una vestaglia di lana, gli si sedette accanto. Il piccolo Giuseppe trovò un angolo libero del materasso e vi si addormentò all’istante. Enrica arrivò di sopra insieme a Sara, portando altre coperte e alcuni mattoni caldi, avvolti in vecchi panni: la soffitta era molto fredda. Irene portò una bacinella d’acqua e un vaso da notte.
Le operazioni per sistemare i nuovi inquilini furono effettuate velocemente e in silenzio. Quando tutto fu pronto, i Carretti tornarono al piano di sotto: a est, il cielo cominciava a schiarirsi. Prima di chiudersi la porta della soffitta alle spalle, Luca sentì qualcosa di morbido sfiorare la sua mano e sentì la voce di Sara sussurrare un timido “Grazie.”
 
Il giorno seguente, la famiglia Carretti cercò di comportarsi nel modo più normale possibile, seguendo la solita routine e senza pensare agli ospiti nascosti in soffitta. Enrica vi si recava ogni tanto, a controllare le condizioni del signor Poletti. Era solo una bambina durante la Grande Guerra, ma aveva visto più volte la madre curare qualche soldato ferito; per questo motivo, era la più adatta ad occuparsi del paziente ancora privo di conoscenza, disteso in soffitta.
Sara si era offerta di aiutare in casa o nei campi, ma le era stato ordinato di restare dov’era e di non farsi vedere in giro. A Luca non sarebbe dispiaciuto se la ragazza lo avesse aiutato a dar da mangiare alle mucche: non perché effettivamente avesse bisogno, ma perché gli avrebbe fatto piacere la sua compagnia. Conosceva Sara da quando erano bambini e si trovavano, insieme agli altri della zona, a giocare nei campi. Era simpatica e, nonostante le gambe corte, era sempre stata una delle più veloci del gruppo. Diventati grandi, si erano persi di vista: Luca era andato per un anno alla scuola di magia e, al suo ritorno, si era dato da fare nei campi. Sara aveva imparato i lavori domestici, aveva visto le sorelle più grandi sposarsi e i fratelli partire per il fronte e non tornare più; forse per questo motivo era così legata al fratello più piccolo.
Ora, per quanto le circostanze fossero strane e pericolose, vivevano sotto lo stesso tetto. Luca, quella mattina, si era fatto la barba e si era pettinato con più cura del solito, come se fosse un giorno di festa.
“Papà,” chiese Luca, mentre assieme al padre si rinfrescava all’ombra di un albero. “Credi che i Tedeschi torneranno a cercarli?”
“Ne sono sicuro.”
Ovidio guardò verso l’orizzonte, come se si aspettasse di vedere la polvere alzata da qualche camion del’esercito.
“Che cosa faremo?”
“Non abbiamo scelta: non possiamo più tornare indietro. Se ci scoprono saremo catturati e portati via. Sempre che non ci giustizino qui, nel cortile di casa e lascino i nostri corpi ai cani.”
Luca rabbrividì di fronte alla franchezza del padre. Quella notte, spinto dal desiderio di aiutare la famiglia Poletti, non aveva pensato ai rischi e alle conseguenze delle loro azioni.
“Comunque,” riprese il padre. “Abbiamo una carta da giocare.”
“Quale?”
“Figliolo, siamo maghi. Dovrà pur servire a qualcosa.”
“Li schianterò tutti!” esclamò il ragazzo con entusiasmo.
“Non possiamo continuare a schiantare soldati e poi ricordati che loro hanno le pistole.”
La spavalderia di Luca si spense in un attimo.
“No, ragazzo. Dobbiamo usare la testa, più che la forza.”
Il sole era alto nel cielo azzurro: era quasi mezzogiorno. La campagna era tranquilla, in quel pomeriggio estivo. La guerra sembrava lontana e inoffensiva, tuttavia il pericolo era in agguato dietro l’angolo.
 
Quella sera, Luca salì le scale con due pesche in mano. Prima di raggiungere la soffitta erano diventate quattro.
Aprì piano la porta per non disturbare il signor Poletti: si era svegliato nel pomeriggio e la moglie era riuscita a fargli mandar giù qualche cucchiaiata di brodo; poi si era addormentato di nuovo.
Luca offrì le pesche che furono accolte da un silenzioso entusiasmo. Giuseppe addentò subito la sua, facendosi colare il succo sul mento.
“Immagino ci sia da svuotare il secchio.” Si offrì Luca.
“Ti accompagno.” Sussurrò Sara.
“No, è meglio di no. Devi restare nascosta.”
“Ormai è sera e fuori c’è buio: non mi vedrà nessuno.”
“Mio padre…”
“Ho bisogno di prendere un po’ d’aria. Ti prego.”
Sara non ebbe bisogno di pregare molto e, sempre in silenzio, scese fino al cortile insieme al giovane che reggeva il secchio.
Lo svuotarono nel bagno poco lontano dalla casa. La notte era tiepida e numerose stelle facevano capolino dal cielo scuro.
“Luca, che cos’è successo l’altra notte? Voglio dire: come hai fatto a fermare i Tedeschi?”
“Beh, mio padre aveva il fucile…” rispose Luca, evidentemente in imbarazzo.
“Ma tu hai fatto qualcosa e dicevi delle strane parole.”
Il giovane si guardava le mani, spostando il peso da un piede all’altro. Quando sollevò lo sguardo, la ragazza lo stava fissando con dolcezza.
“Io…so fare delle cose.”
“Che cose?”
“Delle cose. Ho… delle capacità.”
“Come aggiustare un paio di scarpe rotte?”
Luca corrucciò la fronte: non capiva che cosa volesse dire la ragazza.
“Mi ricordo che una volta quando eravamo bambini giocavamo in un campo. Tu avevi il vestito della festa perché non eri andato a casa a cambiarti e mentre giocavamo hai rotto una scarpa. Ti sei messo a piangere, pensando alle botte di tuo padre. E mentre piangevi, come per miracolo la scarpa è tornata come nuova.”
Luca ricordava quell’episodio di tanti anni prima, tuttavia si stupì che l’amica ne avesse un ricordo così chiaro.
“Ho sempre pensato che tu fossi un bambino speciale.”
“Non ti spaventa quello che so fare?”
“E perché? Ieri sera, hai salvato me e tutta la mia famiglia. So che sei buono e qualunque cosa tu sappia fare so che la userai per fare del bene.”
“Anche tu sei speciale.” Disse Luca, arrossendo. “Avete nascosto degli ebrei. Siete degli eroi.”
“Non so se siamo eroi: abbiamo solo fatto quello che ci sembrava giusto.”
***
La mattina seguente, il rombo di un motore che sovrastava il muggito delle mucche annunciò l’arrivo di alcuni soldati tedeschi.
Ovidio aveva dato a tutti istruzioni precise per fronteggiare quella situazione: mantenere la calma e continuare a svolgere le proprie attività; ai soldati avrebbero pensato lui e Luca.
Nel vedere l’auto, Irene smise di saltare la corda e corse dalla madre nel pollaio. Ovidio e il figlio andarono incontro ai soldati: entrambi erano sudati e accaldati, ma estremamente vigili.
“Heil Hitler” scandì un uomo alto e magro, alzando il braccio destro. Sulla sua divisa chiara spiccava la svastica nera.
“Signori, che cosa posso fare per voi?” domandò Ovidio, ignorando il saluto.
“Cerchiamo famiglia Poletti.” Affermò il militare con forte accento tedesco, consultando alcuni fogli dentro ad una cartellina.
“E perché li cercate qui? Abitano qualche casa più in là.”
“Sono scappati.”
Gli altri due soldati stavano già cominciando a perlustrare il cortile, puntando verso la stalla e il pollaio.
“Pensate che li nascondiamo qui?”
“È semplice controllo. Non li avete visti?”
“No. Noi ci facciamo gli affari nostri.”
“Giusto, ma bisogna collaborare con il Raich.”
“Guardate dove volete: non abbiamo nulla da nascondere.”
I soldati ritornarono in cortile, scuotendo la testa: nella stalla e nel pollaio non avevano trovato nulla. Quello che evidentemente era il loro capo fece un cenno verso la casa. Obbedendo all’ordine, entrarono, seguiti dal padrone di casa e dal figlio. Ovidio li guardò frugare dappertutto, cercare eventuali botole sul pavimento e poi dirigersi al piano di sopra. Dopo aver controllato le camere da letto, buttandole all’aria senza riguardo, iniziarono a salire le scale verso la soffitta.
Con un movimento identico e sincronizzato, i due maghi estrassero le rispettive bacchette e pronunciarono l’incantesimo:
Confundus!”
I militari si arrestarono, come scossi da un improvviso brivido di freddo; si voltarono e scesero le scale. Una volta in cortile confermarono al loro comandante che la casa era pulita. Ovidio non avrebbe saputo dire se il capo avesse notato l’espressione ebete dei suoi sottoposti, comunque si fidò, rimontò in macchina e si allontanò.
“Torneranno?” chiese Luca.
“Non lo so.” Rispose il padre, sospirando. “Dobbiamo stare sempre all’erta.”
***
“È merito tuo se i soldati non sono venuti a controllare la soffitta?” domandò Sara, quella notte.
I due giovani erano sdraiati nella paglia, nascosti da una mucca. L’aria era fresca e piacevole.
Luca tentennò, imbarazzato.
“Mio padre mi ha aiutato. Lui è come me.”
“Persone buone.”
Sara allungò una mano, prendendo quella del ragazzo. Luca si irrigidì, poi il calore di quella stretta, lo fece rilassare. Era contento di essere lì, di essere apprezzato per quello che era, di non dover nascondere i suoi poteri. Accanto a Sara, la vita sembrava più semplice.
***
“Ormai si è rimesso quasi completamente.” Comunicò Enrica al marito, durante la cena, riferendosi al signor Poletti.
“Papà, non vorrai mandarli via?” Domandò Luca in tono accusatorio.
Ovidio rimase in silenzio, concentrato sui suoi pensieri. Si alzò e andò alla finestra per ammirare la campagna, immersa nella penombra di quella sera d’estate. I grilli cantavano, ignari di ciò che accadeva nel mondo degli esseri umani.
“Se li teniamo qui, siamo tutti in pericolo.” Sentenziò .
“Ma papà…”
“Tuttavia,” continuò, interrompendo le proteste del figlio. “Se li mandiamo via e dovessero essere catturati, potrebbero fare il nostro nome e confessare in che modo ci siamo sbarazzati dei soldati: la ragazza ci ha visto.”
Ovidio pensava a quelle opzioni già da alcuni giorni. La sua priorità era proteggere la famiglia, ma gli sembrava ormai un’impresa alquanto ardua. Come facevano le altre famiglie babbane? Quelle che non potevano usare la magia per respingere i tedeschi? Come riuscivano i padri a proteggere i loro figli?
“Facciamoli restare, papà: è la scelta migliore.”
Ovidio guardò negli occhi il figlio: vi lesse coraggio, orgoglio e determinazione. Tuttavia non era il coraggio a salvarti la vita durante una guerra. Ci voleva prudenza, non bisognava dare nell’occhio, piegarsi, se necessario, di fronte al potere. Tutte cose che Ovidio aveva fatto negli ultimi anni. Aveva rovinato tutto in una notte, accogliendo i Poletti ed infrangendo le sue regole.
Fece un lungo sospiro, poi annunciò:
“Resteranno.”
Vide il sorriso allargarsi sul volto dei figli e un cenno di assenso da parte della moglie. Non bastarono però a rasserenarlo.
***
L’estate continuò lenta, nella campagna bruciata dal sole. I tedeschi non si fecero più vedere intorno alla casa dei Carretti: avevano ben altri problemi. La lotta partigiana si stava intensificando in quella zona e i nazisti avevano trasferito la struttura del Campo in un’altra zona, nonostante continuassero a sfruttarlo per radunare mano d’opera coatta.
Luca avrebbe voluto unirsi alla lotta partigiana, ma fu dissuaso dal padre.
“Pensi di poter usare i tuoi poteri davanti a tutti? Non puoi andare in giro a schiantare tedeschi come se fosse la cosa più normale del mondo!”
“Imparerò ad usare il fucile!”
“Tempo che impari a prender la mira decentemente e la guerra sarà finita. Gli Americani stanno arrivando: lascia che ci pensino loro ai nazisti.”
Enrica sostenne la tesi del marito, anche se utilizzò toni più dolci.
Furono infine le lacrime di Sara a convincere il giovane a restare a casa.
“I miei fratelli sono partiti,” disse tra i singhiozzi. “e non sono più tornati. Gli ho persi tutti. Non voglio perdere anche te.”
Luca l’aveva stretta fra le braccia e le aveva fatto una solenne promessa, suggellata con un bacio a fior di labbra.
Agosto lasciò il posto a settembre e, in un lampo, arrivarono i colori dell’autunno. L’esercito tedesco arrancava sotto i colpi delle bombe alleate e degli agguati partigiani.
La prima neve cadde a dicembre e Irene e Giuseppe uscirono a modellare un pupazzo di neve, mentre una pala si muoveva magicamente, liberando l’accesso alla casa. Al pupazzo, misero una sciarpa colorata intorno al collo e una carota al posto del naso. I due bambini risero e si rotolarono sul manto nevoso. Qualche giorno dopo, i due erano a letto con la febbre. La signora Poletti era piuttosto restia a somministrare al proprio figlio un denso sciroppo nero che Luca Carretti insisteva a dire si chiamasse Pozione Pepata. Solo quando vide Irene migliorare nel giro di poche ore, si decise a darla anche al figlio. In pochi giorni, i bambini saltellavano allegramente per la casa. Per quella volta, la malattia era stata sconfitta.
La famiglia Carretti trascorse il Natale con i Poletti: mangiarono una delle galline del pollaio per l’occasione e ringraziarono Dio per essere ancora vivi e in salute.
L’anno nuovo non portò notizie di pace: l’Italia era ancora divisa e in molte regioni si combatteva aspramente.
Luca dichiarò il suo amore per Sara nella stalla, tra la paglia. Sara era raggiante, mentre Luca cominciava già a sentirsi un capo famiglia.
Entrambe le famiglie diedero la loro benedizione e si trovarono tutti d’accordo che le nozze avrebbero dovuto attendere tempi migliori.
Modena fu liberata il 23 aprile 1945.
La famiglia Poletti poté riprendere possesso della propria casa e ricominciare a vivere una vita normale, alla luce del sole.
Il campo di concentramento non fu smantellato, ma fu utilizzato per ospitare numerosi profughi: uomini e donne entrati in Italia clandestinamente, spesso colpevoli di qualche reato, in attesa di essere identificati e inviati a nuova destinazione.
Luca e Sara si sposarono nel tempio francescano di San Nicolò a Carpi, sotto gli occhi di amici e parenti: una nuova generazione di maghi stava per fare il suo
ingresso nel mondo.
 
[1] Agli inizi del Novecento, le fabbriche che lavoravano il truciolo davano da lavorare a circa tremila carpigiani. La fabbrica Ascari era la seconda per importanza sul territorio.
[2] Odoardo Focherini (Carpi6 giugno 1907 – Hersbruck27 dicembre 1944) aiutò molti ebrei durante la guerra; fu catturato, trascorse circa un mese al Campo di Fossoli, poi fu deportato in Germania, dove morì. Una delle sue frasi più celebri è “Se tu avessi visto, come ho visto io in questo carcere, come trattano gli ebrei qui dentro, saresti pentito solo di non averne salvati di più”. È stato beatificato il 15 giugno 2013 a Carpi.
  
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