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Autore: Fannie Fiffi    21/11/2014    9 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buonasera miei adorati!
Perdonatemi, perdonatemi, perdonatemi, vi imploro in ginocchio. Vi chiedo scusa per l'immenso e vergognoso ritardo con cui sto postando, ma ci sono state una serie di complicazioni di cui mi sono dovuta occupare e che mi hanno impedito di aggiornare prima.
Perciò eccomi qui, la notte prima dei miei diciotto anni, a trascorrere queste ultime ore da minorenne con voi. Non sapete quanto sia felice di tutto questo.
Ringrazio con tutto il cuore e con tutto l'affetto del mondo le meravigliose persone che hanno recensito il precedente capitolo, sia i vecchi che i nuovi lettori, a cui do un grande benvenuto, e grazie anche a chi ha continuato a inserire tra le preferite e le seguite. Non meriterò mai tutto il supporto e il sostegno che mi date, ma sono comunque felice e grata di averli.
Che altro dire, questo capitolo è lievemente più corto dei precedenti, ma è pieno di azione e, diciamocelo, anche di una bella dose di ansia, quindi non ho voluto esagerare e appesantirlo più del dovuto. Avviso: potrebbe contenere scene che potrebbero urtare la vostra sensibilità, (Anche a questo è dovuto il rating arancione) ma non credo sia nulla di eccessivamente cruento. Insomma, spero di non aver offeso nessuno.
Bene, credo di avervi rubato anche troppo tempo, quindi vi lascio al capitolo e vi mando un abbraccio.

Buona lettura!




 

Is It Any Wonder?





Le orecchie di Bellamy registrarono le urla prima che il suo cervello potesse decifrare ciò che stesse accadendo, e il suo corpo scattò verso il punto da cui provenivano quasi di propria volontà.

C’era qualcosa di profondamente sbagliato, in quella situazione, perché conosceva bene quella voce: Abigail Griffin.

E, improvvisamente, al suo istinto di poliziotto si aggiunse un altro tipo di preoccupazione, quella che scaturivano le urla della madre della sua ragazza.

Senza nemmeno concedersi il tempo di processare il modo in cui aveva definito Clarke, il maggiore dei Blake si lasciò guidare dal rumore della folla e dalle voci che iniziavano a sovrastarsi l’una con l’altra.

Quando superò un blocco di ospiti proprio davanti alla seconda uscita, quella verso cui si era diretta la bionda qualche minuto prima, la scena che si trovò davanti lo costrinse a immobilizzarsi: accasciata contro il petto di suo marito, Thelonious Jaha, Abby era circondata da almeno una buona decina di persone, e la sua fievole voce sussurrava parole incomprensibili, dimentica dei suoi precedenti lamenti.

Non appena fu abbastanza vicino, Bellamy riuscì a sentire quello che stava dicendo.

« La mia bambina, la mia bambina… »

« Qualcuno chiami la polizia! » Urlò un uomo alle sue spalle, ma il moro non riuscì a fare alcunché per alcuni istanti.

Quando parve riprendersi, fece un passo avanti e con voce metallica disse: « Sono io la polizia. »

La donna, accorgendosi di lui, si allontanò dalle braccia del marito e si precipitò fra quelle del giovane, afferrandogli le spalle.

Il suo volto era rigato dal mascara, le lacrime parevano scavare profondi solchi lungo i suoi zigomi, e tutto nella sua espressione gridava angoscia.

« Bellamy, oh, Bellamy… Ti prego, devi aiutarmi! »

Il maggiore dei Blake le afferrò i gomiti, sorreggendola, e si piegò verso di lei.

« Signora Jaha, ho bisogno che mi dica cos’è successo. » In quel momento la sua voce gli pareva appartenere ad un estraneo, e il suo corpo sembrava fluttuare contro la propria volontà, mentre la realizzazione di qualcosa di orribile gli attorcigliava lo stomaco.

« L’hanno presa! Hanno preso Clarke! »



 
*

 
 
La giovane Griffin riprese conoscenza con un rumore mozzato, nasale, come se fosse appena emersa da un bagno ghiacciato. Quasi soffocò contro la benda che le era stata messa fra i denti e che sentiva premere contro la nuca, e un conato di vomito le risalì per la gola.

I suoi occhi vagarono vorticosamente contro le palpebre per alcuni istanti, ma il mal di testa era talmente forte da impedirle anche quel minimo sforzo.

Clarke non riuscì a rallentare il respiro convulso e spasmodico che le rimbombava nelle orecchie assieme al battito feroce del cuore, e la mente tentava istericamente di trovare una risposta a tutta quella situazione. Dove diavolo era? Cosa stava succedendo? Cos’era successo?

Quando fu in grado di aprire gli occhi, il buio l’accolse.

Attorno a lei c’era un silenzio terrificante e doloroso, mentre ogni parte del suo corpo faceva così male da farle credere di poter svenire da un momento all’altro.

Provò ad alzarsi, ma sbatté la testa contro qualcosa sopra di lei, perciò ricadde di forza contro la schiena.

Con impeto e furia le lacrime cominciarono a scorrere contro la propria volontà e un profondo terrore la paralizzò.

Era affannata dal lavoro folle che stavano compiendo i suoi polmoni, facendole ispirare profondamente dal naso e producendo un rumore tanto fastidioso da farle girare la testa, senza contare i denti che digrignavano e mordevano la benda che le impediva di respirare correttamente, o anche di emettere un suono.

Era sdraiata. Era attorniata dal buio. Non poteva muoversi, perché polsi e caviglie sfregavano fra di loro.

Si sentiva in trappola, completamente immobilizzata, e non riusciva a provare niente che non fosse il disperato e incessante pulsare del suo cuore e l’adrenalina che le gonfiava il petto.

Clarke iniziò a sbattere velocemente le ciglia, mentre altre lacrime di terrore si raccoglievano sul fondo dei suoi occhi stanchi, mentre la sua mente debole arrischiava inutilmente a ripercorrere la serata.

Tentò di prendere un respiro profondo, cercando di bloccare l’attacco di panico che sentiva fluirle nelle vene assieme al sangue, e si focalizzò su un ricordo preciso: il volto di Bellamy. Le sue labbra contro le proprie. Le sue mani su di lei.

Doveva ripercorrere gli ultimi attimi che riuscisse a ricordare, e solo in quel modo avrebbe potuto capire cosa diavolo stesse succedendo.

Pensò a Bellamy che la trascinava fuori dalla pista da ballo, verso l’uscita.

Lei che tornava indietro, pronta a prendere il cellulare nella macchina di sua madre. Il parcheggio vuoto.

Il parcheggio vuoto.

Sì, ecco, brava. Continua così. Sforzati, Clarke. Si ripeteva fra sé e sé. Il suo respiro frenetico, intanto, come unica compagnia.

Il rumore di quei tacchi assurdamente alti contro l’asfalto.

Un attimo, i tacchi. Non li portava più. Era scalza. Dov’erano finiti quei maledetti tacchi?

Concentrati, Clarke.

La Ford grigio metallico che pareva aspettarla, circondata da poche altre automobili.

Le chiavi nella borsetta. Il nervosismo. Lo sportello del guidatore. Un volto incappucciato riflesso sullo sportello del guidatore.

Oh, Dio.

L’odore del cloroformio. Clarke sapeva bene cos’era il cloroformio: cloro e metano. La sua mente completamente presa dal panico ripercorse tutte le lezioni di chimica in cui Monty l’aveva assistita, e la bionda rabbrividì.

Parole assurdamente inutili in quel frangente la assalirono, parole come aritmia cardiaca, come danni permanenti al fegato, ai reni.

La bionda scosse la testa, allontanando da sé quei pensieri, e un’altra ondata di panico le attraversò le membra, elettrizzandola dalle punte dei capelli a quelle delle dita. Cercò di calciare con i piedi, agitò le braccia che sentiva costrette dietro la schiena, urtò qualcosa con il fianco destro e si dimenò con tutte le forze.

Quando tentò nuovamente di mettersi a sedere, probabilmente colpì con il capo un interruttore, poiché una piccola lucina gialla si accese, e subito tutti i suoi sospetti si realizzarono orrendamente davanti ai suoi occhi: si trovava nel bagagliaio di un’automobile.

In un istante tutti i tasselli di quel folle e assurdo puzzle si incastrarono alla perfezione fra di loro, e questa volta la bionda colpì volontariamente il capo contro lo sportello, una, due, tre volte. Scoppiò in lacrime e tentò di urlare, di mordere, di dimenarsi con tutte le energie che le rimanessero.

Tutto fu cristallino, talmente assurdo da dover necessariamente essere vero, e una parte di lei si odiò per non averci pensato prima, per non aver preso in considerazione quell’ipotesi da oramai molto tempo: qualcuno l’aveva drogata, qualcuno l’aveva presa e messa in un bagagliaio, ed era sicuro come l’Inferno che quel qualcuno avesse a che fare con l’uccisione di suo padre.

Poi la macchina si fermò, e la giovane Griffin non poté far altro che smettere di respirare.
 


 
*



 
« L’ho vista uscire dalla sala… L’ho vista dirigersi verso il parcheggio… » Abby scoppiò nuovamente in lacrime, fintanto che cercava inutilmente di raccontare per l’ennesima volta la sua versione dei fatti.

Bellamy la vide in lontananza, quindi, dopo essersi assicurato che Octavia fosse al sicuro e non rimanesse da sola, si diresse verso di lei con passo veloce, quasi frenetico.

A tutti gli ospiti era stato impedito di lasciare la lussuosa sala d’albergo, in attesa di essere interrogati uno per uno, e la folla non era esattamente qualcosa con cui il maggiore dei Blake voleva aver a che fare in quel momento.

Evitò accuratamente qualsiasi persona potesse ostacolare il suo cammino e in un attimo raggiunse l’area del parcheggio incriminata.

Senza nemmeno bisogno di mostrare il distintivo ai suoi colleghi della scientifica – con cui, fra l’altro, aveva litigato dal momento in cui erano arrivati – afferrò e si alzò sopra la testa il nastro che circondava la scena del crimine, avvicinandosi celermente alla donna.

« Ci penso io. » Intimò al poliziotto che la stava interrogando, annuendo brevemente e prendendo il suo posto davanti a lei.

« Bellamy… Credevo che il tuo capo ti avesse impedito di partecipare all’… »

« Non ho intenzione di lasciare che qualcun altro si occupi del caso. Conflitto di interessi col cazzo, Signora Jaha. »

« Sono contenta di sentirtelo dire. » La più grande parve riprendersi, asciugandosi il trucco con la manica della coperta che qualcuno le aveva messo attorno alle spalle e sollevando il mento.

« Dobbiamo essere veloci. La scientifica sta prendendo le tracce degli pneumatici con il cemento dentale, ma io ho bisogno che lei mi dica tutto ciò che ha visto. Ogni singolo dettaglio, ogni minimo particolare. Prenderò quel figlio di puttana, Signora Jaha. Lo prenderò e lo… »

« Ci tieni davvero a lei, non è così? » Lo interruppe dolcemente lei, mormorando quelle parole con un sorriso appena accennato sul volto stanco.

« Io la… » Bellamy si bloccò e rimase a bocca aperta per qualche secondo, richiudendola di scatto subito dopo. « Sì. Ci tengo. E ritroverò sua figlia, la riporterò a casa sana e salva, ma ho bisogno che lei sia forte e mi racconti tutto ciò che ha visto. »

Abigail annuì, e si sporse in avanti, mentre le luci delle volanti e delle macchine fotografiche della polizia le illuminavano il viso.

« L’ho vista raggiungere il parcheggio da sola, così, beh… Ho pensato che fosse un buon momento per parlarle. »

Il maggiore dei Blake annuì, memore della notte in spiaggia in cui Clarke gli aveva raccontato dei suoi problemi con la madre – della notte in cui l’aveva baciata per la prima volta –.

« Ero proprio dietro di lei, lo giuro, ero dietro di lei, ma poi… Poi dei colleghi mi hanno fermata, volevano discutere di una procedura chirurgica che sto sperimentando, e l’ho persa per qualche istante. Erano solo pochi secondi, erano una manciata di secondi, ma quando sono arrivata era troppo tardi… »

« Cos’ha visto? » La incalzò il moro, protendendosi in avanti e scrutandola con i suoi occhi profondi.

« Un uomo », la voce della donna tremò, « che la prendeva in braccio. Clarke… Clarke doveva essere svenuta, doveva aver perso conoscenza… »

« Un uomo. » Ripeté Bellamy. « Aveva una macchina, non è vero? »

« S-sì. Ha messo Clarke nel bagagliaio. Io ho urlato e si è voltato verso di me. Non l’ho visto in faccia, indossava un passamontagna. Si è voltato di me e… »

« E? »

« Mi ha salutata. Ha agitato una mano verso di me e mi ha salutata, poi è salito in macchina ed è sgommato via. »

« L’ha salutata? Questo vuol dire che… Signora Jaha, conosce qualcuno che potrebbe volere qualcosa da lei o da Clarke? »

Nello stesso momento in cui pronunciò quelle parole, il maggiore dei Blake parve illuminarsi. Perché qualcuno dovrebbe rapire la figlia di una figura così importante? Perché qualcuno dovrebbe rapire Clarke?

E tutto fu chiaro.

« Jake. »

« Merda. »

Sussurrarono entrambi nello stesso momento, la prima con stupore, il secondo con frustrazione.

Bellamy scattò sul posto e si alzò in un attimo, i muscoli del corpo tesi verso un’unica soluzione. Prima che Abby potesse dire qualcosa o commentare sul comportamento del giovane, lui aveva già afferrato il cellulare dalla tasca dello smoking e aveva premuto il primo numero della sua rubrica.

« Capitano Sidney, lavorerò personalmente al caso Griffin. »

La risposta non fu udibile dalla madre di Clarke, ma Bellamy si incupì notevolmente, quindi rimase in ascolto.

« Me ne fotto dell’antidroga e del Bureau, per non parlare della forense, Capitano, devo essere io ad occuparmi del caso. »

« Sì, certo. Lo so, lo so. Grazie, Capitano. »

Non appena terminò la telefonata, si sedette nuovamente davanti ad Abby, e le prese entrambe le mani fra le sue.

« So cosa pensava Clarke riguardo la morte di suo marito, Signora Griffin. So cosa aveva fatto, so cosa stava facendo. So tutto. E credo sia questo il motivo per cui l’hanno presa. »
 
 

 
*



 
Qualcuno le tolse il cappuccio dalla testa – strappando e tirando via i capelli tenuti fermi dalle forcine –  e Clarke non riuscì a fare a meno di tirare un sospiro di sollievo, nonostante il dolore alla testa e l’attacco di panico che non l’aveva abbandonata nemmeno per un istante.

Il bagagliaio si era aperto e una figura coperta da un passamontagna l’aveva tirata su, inerme, per coprirle la testa con un sacco pesante, mentre la giovane aveva iniziato a dibattersi e a mugugnare contro la benda che le impediva di parlare.

Aveva provato ad urlare, a colpirlo con le ginocchia, con le spalle, ma trovarsi i polsi legati dietro la schiena non era proprio il massimo dell’autodifesa, quindi l’uomo era stato in grado di caricarsela in spalla senza difficoltà.

Avevano camminato per qualche istante, lo stomaco di Clarke sottosopra, mentre lei continuava imperterrita a dimenarsi e a colpire le scapole di lui con il capo, e poi lei aveva percepito il cambio di temperatura, un freddo che nulla aveva a che fare con l’estate fuori di lì a farle salire i brividi contro le gambe scoperte – non sapeva nemmeno come avesse fatto il vestito a strapparsi e rovinarsi così –.

Il verme l’aveva spinta con violenza contro una sedia e aveva atteso qualche istante.

Ora eccola qui. La giovane Griffin si guardò finalmente intorno e tremò: si trovava in una stanza priva di finestre, di mobilio o anche solo di una qualche stabilità.

I muri erano sporchi e ricoperti di muffa, mentre una lampadina dondolava pigramente sopra la sua testa, illuminando solamente la sua figura.

Le lacrime avevano smesso di sgorgarle copiose e indifferenti contro le guance e si erano raffreddate sulla pelle, appesantendola e confondendosi al trucco e al sudore che non smetteva di scivolarle lentamente dalla fronte e sul collo.

Esaminò con lo sguardo pieno di rabbia l’ambiente circostante per qualche attimo, poi si concentrò sulla figura incappucciata davanti a lei.

Testarda e determinata com’era, sollevò il mento in segno di sfida e si agitò sulla sedia, finendo così in ginocchio davanti all’uomo e ignorando il dolore alle gambe provocato dall’impatto.

Una vocina nella sua testa le urlò disperatamente che non era quello il momento di giocare a fare l’eroina, ma la giovane la ignorò.

Al suo posto, il ricordo di un’altra voce le riempì dolcemente i pensieri. La voce di Bellamy.

Tu sei una guerriera. Quando hai paura, quando non ti senti all'altezza, tu stringi forte i denti e ripeti: "Io sono una guerriera.”

 Non aveva paura. Non aveva paura. Lei non aveva paura.

A quel punto, l’individuo davanti a sé compì dei passi in avanti e si avvicinò, inginocchiandosi a sua volta davanti a lei e sfiorandole il mento con l’indice e il medio.

Clarke si ritrasse, disgustata e schifata, e l’altro le liberò finalmente la bocca.

« Non ho paura. » Disse subito lei, guardandolo dritto negli occhi – l’unica parte del suo viso scoperta dal passamontagna –.

« Beh… » La sua voce era roca, ma al tempo stesso familiare. La bionda tentò inutilmente di capire dove l’avesse già sentita prima. « Dovresti. »

Detto ciò, sollevò il braccio prima che lei potesse accorgersi del movimento, e lo schiaffo risuonò nel silenzio della stanza.

La giovane, colta di sorpresa e impossibilitata a difendersi, cadde su un fianco per l’impatto con cui il palmo dell’uomo si era infranto contro la sua guancia, e i capelli bagnati di sudore le ricaddero sul viso, costretto contro il pavimento sporco.

Tentò inutilmente di rimettersi in posizione eretta, ma non riuscì a riprendere equilibrio.

Lui la prese di forza per le spalle e la rimise a sedere sulla sedia, scostandole le ciocche ribelli dal volto.

« Che ne dici di stare zitta? »

« So perché mi hai presa. » Rispose invece lei, mentre l’adrenalina la elettrizzava e le infondeva un coraggio che non poteva proprio permettersi in una simile situazione.

« So quello che voi bastardi avete fatto a mio padre. » Sputò fuori con tutto il veleno di cui fosse capace, ricadendo stancamente contro lo schienale.

L’altro fece due passi avanti, si chinò, arrivando così alla sua altezza, e si tolse il passamontagna.

« Ed è per questo che morirai. »


 
*




 
Bellamy trascorse il resto della nottata impegnato a raccogliere le deposizioni di ciascuno degli invitati – fra cui sua sorella, di cui aveva stilato il rapporto praticamente senza interpellarla, e Wells – e ad occuparsi di archiviare le prove ottenute dalla scientifica.

Ora, quindici ore dopo il rapimento di Clarke, si ritrovava ad osservare con improbabile attenzione l’insalata che sua sorella gli aveva portato in ufficio.

« Sai, per nutrirti è necessario mangiarla davvero. Non basta fissarla. »

Octavia si sedette sulla sua scrivania e lo rimproverò, spingendo lievemente il contenitore di plastica nella sua direzione.

« Non ho fame. » Rispose lui fra i denti, senza spostare lo sguardo dal pasto.

La minore dei Blake si protese in avanti e, sfiorandogli il mento, lo costrinse a portare gli occhi nei suoi.

« Non hai dormito. Non hai mangiato. Hai lavorato tutta la notte e sei tornato direttamente in ufficio. Hai bisogno di riposo, Bell. »

« Quello di cui ho bisogno, O », il moro si sporse di scatto in avanti, finalmente animato da un qualche impeto, « è trovarla. »
 



 
*



 
Non appena la giovane Griffin riprese conoscenza – non sapeva quando si fosse addormentata, ma la stanchezza aveva preso il sopravvento su di lei poco dopo la sconcertante rivelazione – la figura fece nuovamente la sua entrata nella stanza.

« Ben svegliata, Principessa! »

Clarke rabbrividì al soprannome, e per un attimo si concesse di pensare alla prima persona che l’avesse mai chiamata in quel modo.

Aveva capito come sarebbero andate le cose dal primo momento in cui si era risvegliata in quel bagagliaio, e per questo aveva tentato di sopprimere e sotterrare in una parte sicura della sua mente il pensiero di tutte le persone che avrebbe lasciato dietro di sé.

I volti di suo padre, di sua madre, di Wells, di Bellamy e dei suoi scapestrati migliori amici avevano fatto per un attimo capolino sul retro delle sue palpebre, ma Clarke aveva rigettato visceralmente quell’opzione.

Non ci avrebbe pensato. In fondo, non era che non si fosse mai aspettata di trovarsi in quella situazione.

Non era che una parte di sé non avesse già temuto, duranti lunghe e tormentate notti invernali, di poter essere strappata ai suoi cari per la sua curiosità, per il suo bisogno di verità.

Lei l’aveva sempre saputo, l’aveva saputo nel momento in cui aveva dovuto trascinarsi sulle spalle l’orribile segreto che Jake Griffin le aveva confessato pochi giorni prima di morire.

L’aveva saputo quando, al suo funerale, si era giurata che avrebbe scoperto l’identità delle persone che le avevano portato via l’unico uomo di cui non avesse mai smesso di fidarsi.

L’aveva saputo quando aveva usato i risparmi del college per affittare il garage 221B e quando era stata arrestata la prima volta.

L’aveva saputo nell’istante in cui aveva capito che lei e suo padre condividessero non solo il sangue, ma anche il destino.

L’aveva saputo e ora lo accettava, lo accettava e non ne aveva paura.

Clarke sollevò il volto pigramente, mentre l’acconciatura elaborata della festa era diventata ormai una treccia priva di forma, con ciocche di capelli che le ricadevano sul volto e si appiccicavano alla pelle, e reclinò il capo fino ad incontrare lo sguardo del ragazzo che la osservava.

« Non mi hai dato da mangiare. Ho visto il tuo viso. Quand’è che mi ucciderai, Dax? »

Calcò con amarezza sull’ultima parola, maledicendo mentalmente se stessa e la notte in discoteca in cui aveva permesso a quello sconosciuto di toccarla.

Il ragazzo si appoggiò alla parete poco distante da lei, poi si abbandonò ad un lieve ghigno.

« Sei intelligente, Clarke, devo ammetterlo. » La osservò ancora per qualche istante, senza aggiungere null’altro.

« Forse è questo il tuo problema. »

La giovane, nonostante la consapevolezza che la sua vita stesse ormai volgendo al termine e che presto non ci sarebbe stato proprio niente da temere, riuscì quasi a ridere. Sorrise, perlomeno.

« Dimmi chi è il tuo capo, Dax. Non lo dirò a nessuno. » Annuì in direzione delle sue mani legate, poi riportò gli occhi nei suoi. « Non hai ammazzato tu mio padre. Sei solo un ragazzino, proprio come me. Dimmi chi è stato. »

La bionda rimase a fissarlo con ostilità per qualche altro attimo, ripercorrendo nella mente tutti i file che aveva studiato, tutti i colleghi di suo padre su cui aveva investigato, tutti i documenti che aveva rubato all’Ark Corporation.

Ripensò a Marcus Kane, il suo principale e più convincente sospettato.

Si prefigurava già i titoli di copertina: “Amministratore delegato di una compagnia da milioni di dollari uccide un suo ingegnere e lo fa passare per malore. La figlia viene uccisa due anni dopo.” Beh, se non altro la storia avrebbe venduto.

Poi, come se la sua maschera si fosse lentamente sciolta sul suo volto, si sporse lievemente in avanti, i polsi che sfregavano fra loro e bruciavano.

« Dax… » Sussurrò. « Ho bisogno di saperlo. È… è la mia ultima richiesta. »

I suoi occhi si bagnarono nuovamente di tutte le lacrime che in quegli anni non era riuscita a versare, di tutte le tristezze che non era stata in grado di affrontare.

Ora, durante gli ultimi momenti della sua vita, prima di smettere di esistere, tutto quello di cui Clarke aveva bisogno era la verità. Non c’era altra cosa che potesse desiderare di più.

Il giovane sembrò intenerito solo per una millesima frazione di attimo, ma un ghigno saccente e arrogante tornò ad infestargli il viso subito dopo.

« Non posso dirtelo, signorina. Immagino che non lo saprai mai. »

Con una scrollata di spalle, le rivolse un ultimo incomprensibile sguardo e le voltò le spalle, uscendo dallo stesso punto in cui era entrato.

« Ti prego! » Clarke si scaraventò in avanti, piegandosi contro se stessa, il petto premuto contro le ginocchia, e urlò con tutte le sue forze, con tutta la pressione che i polmoni potessero permettersi, con la gola in fiamme e gli occhi bagnati, ma non ricevette alcuna risposta.



 
*




 
« Questi sono i filmati della sicurezza, sono appena arrivati. » Roma entrò nell’ufficio del maggiore dei Blake senza perdere tempo, consegnandogli una chiavetta USB e lasciandolo immediatamente solo.

Bellamy annuì con distacco, senza distogliere lo sguardo dallo schermo del computer, e attese che la porta del suo ufficio si richiudesse.

Cambiò posizione sulla sedia e prese un goccio di caffè dal contenitore di cartone che sua sorella gli aveva portato quel pomeriggio, mentre le ventiquattro e passa ore di sonno perso iniziavano a fare effetto.

Il moro si stropicciò gli occhi con il pugno destro, mentre con la mano sinistra si allungava ad afferrare il dispositivo.

Lo collegò e attese qualche secondo, poi il video di sorveglianza del Montage Beverly Hills Hotel partì.

Si concentrò principalmente sulle riprese esterne, quelle del parcheggio aperto al pubblico e quelle del parcheggio privato, facendosi scorrere davanti agli occhi l’ingresso di decine di personalità di spicco del Mount Weather Hospital e dei loro bei macchinoni sportivi.

Individuò ben presto la Ford grigio metallizzata della famiglia Jaha, da cui vide scendere il Signor Jaha, sua moglie, Wells e infine Clarke.

Quando colse con lo sguardo lo scintillio dei suoi capelli dorati, Bellamy sussultò, e il respiro gli si mozzò in gola.

Dal momento in cui aveva capito cos’era successo aveva tentato di rimanere positivo, di sperare nel meglio, ma ora una parte di lui stava iniziando a cedere. E se non fosse riuscito a salvarla? Se l’avesse trovata troppo tardi?

Sapeva bene che chiunque fosse il responsabile non avesse particolari problemi ad uccidere, e il suo stomaco si attorcigliò attorno all’idea che avrebbe potuto perderla per sempre. Che sarebbe tutto potuto finire in un attimo.

Il moro scosse la testa e deglutì, tentando energicamente di non lasciarsi sprofondare da quei pensieri malsani, e si concentrò sui filmati.

Bloccò la riproduzione nel momento in cui l’inquadratura riuscì a riflettere il volto di lei, e i suoi occhi accarezzarono il suo sorriso attraverso lo schermo.

Bellamy sorrise a sua volta, di un sorriso triste e stanco, e rimase per qualche attimo a fissare quel viso, quei dolci occhi blu e le sue spalle nude.

Bellissima.

Quando fu sicuro di aver saldato nella mente quell’immagine – l’immagine di una ragazza forte, di una ragazza che sorride quando tutto le crolla addosso –, fece scorrere in accelerazione le riprese della maggior parte della serata, arrivando presto all’ora in cui era avvenuto il rapimento.

Il maggiore dei Blake cliccò e ingrandì sulle riprese che gli permettevano la giusta prospettiva, e osservò attentamente la figura della giovane Griffin che attraversava il parcheggio deserto.

Non aveva notato alcuno spostamento sospetto nelle diverse inquadrature delle telecamere di sicurezza, quindi immaginò che il colpevole sapesse dove fossero posizionate.

Le aveva evitate accuratamente, parcheggiandosi in un punto in cui non poteva essere ripreso, ma aveva dovuto esporsi per avvicinarsi a Clarke.

Bellamy osservò attentamente il momento in cui la bionda raggiunse la macchina di sua madre, pronta a recuperare il cellulare.

« Dio… » Mormorò fra i denti, mentre rabbia e frustrazione si mischiavano vorticosamente al centro del suo petto, incredibilmente vicino al cuore.

Individuò la persona incappucciata a circa due metri da lei, che nel frattempo era distratta dalla sua borsetta.

Vide la figura aggirarsi fra le altre automobili e avvicinarsi di nascosto, sempre attenta a non mostrarsi troppo alle telecamere.

Quando fu abbastanza vicino, lo osservò tirare fuori dalla tasca della felpa nera un fazzoletto e, oramai giunto alle spalle della giovane, afferrarla da dietro e premere la stoffa contro la sua bocca, impedendole qualsiasi movimento.

La presa del moro contro il mouse del computer si serrò, e così fece la sua mascella, mentre assisteva impotente alla scena davanti ai suoi occhi.

Continuò a guardare mentre una parte di sé gli gridava di strappare lo sguardo da quella vista, di smettere di torturarsi in quel modo. Ma non poteva. Non poteva rischiare di perdere elementi importanti che potessero aiutarlo a ritrovare Clarke, dovunque lei fosse.

Fu in quel momento che vide un SUV nero avvicinarsi ai due, all’uomo che teneva fra le braccia il corpo esanime della bionda, e Bellamy rabbrividì.

Dalla testimonianza di Abigail Jaha, solamente un uomo era presente sulla scena del crimine. Era stata lei a dirglielo.

Se prima credeva che questi filmati avessero potuto aiutarlo a trovare indizi o prove sufficienti a condurlo da Clarke, ora il quadro della situazione appariva ancor più disordinato e illogico.

Perché una madre avrebbe dovuto mentire sul rapimento della propria figlia?


 
*




 
Il rumore di una porta che sbatteva fu sufficiente a far riprendere conoscenza a Clarke, la quale si era addormentata per la terza volta durante quella giornata.

Era esausta, disidratata e affamata. Non ricordava nemmeno a quando risalisse l’ultima volta in cui aveva avuto modo di mangiare qualcosa, tantomeno bere dell’acqua.

Il primo pensiero che le attraversò la mente fu se avessero intenzione di ucciderla facendola morire di fame, o se preferissero un colpo secco. Un proiettile e fine del dolore.

La giovane Griffin non si voltò nemmeno verso l’entrata, ben consapevole di chi fosse e per nulla impaziente di affrontare l’ennesimo incontro con Dax, almeno finché lui non le avesse rivelato la verità.

Bensì si limitò a fissare il vestito che indossava, oramai sporco e rovinato dal sudore che le imperlava il corpo e non l’abbandonava mai, probabilmente effetto dell’adrenalina, e a immaginare che quello sarebbe stato l’ultimo abito che avrebbe indossato.

« Sei qui per dirmi chi è il tuo capo o per finirmi? » Chiese stancamente qualche attimo dopo, domandandosi perché l’altro non avesse già iniziato a parlare.

Quando percepì dei passi alle proprie spalle, la bionda si irrigidì sul posto, raddrizzando la schiena e sollevando il capo.

Due paia di mani si strinsero attorno ai suoi polsi deboli, e in un attimo fu libera.

La giovane Griffin rabbrividì. Cosa diavolo stava succedendo? Perché la stavano liberando?

Si voltò di scatto, i capelli appiccicati alla pelle del collo, e scrutò con attenzione la persona davanti a sé.

Portava un passamontagna. Perché Dax avrebbe dovuto indossarlo?

« Dax? » Sussurrò spaesata, scattando dalla sedia e usandola come ostacolo fra lei e chiunque ci fosse dietro quel cappuccio.

« Vattene. » La voce ruggì e risuonò fra le pareti ammuffite della stanza, e la giovane Griffin non ebbe difficoltà a capire che non si trattasse dello stesso ragazzo che l’aveva portata lì.

« Perché? »

« Esci da questa porta e gira a sinistra, poi vattene. Troverai un benzinaio dal lato opposto della strada. »
Aveva già sentito quella voce.

Era sicura, dentro di sé, di averla già sentita – provò la stessa sensazione che aveva provato prima che scoprisse chi fosse il suo rapitore – ma non sapeva proprio a cosa ricondurla, a chi associarla.

« Perché? » Ripeté sconvolta, anche se il proprio istinto di sopravvivenza le urlava di smetterla di fare domande e sparire da lì.

« Vattene! » Urlò l’altro in un attimo, compiendo un passo avanti.

Clarke non se lo fece ripetere due volte: dopo un’ultima occhiata al suo strano e inaspettato salvatore, raccolse le ultime energie rimaste e iniziò a correre.


 

 
  
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