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Autore: _ayachan_    29/10/2008    24 recensioni
A cinque anni dalle vicende de "Il Peggior Ninja del Villaggio della Foglia", che ne è stato delle promesse, dei desideri e delle recriminazioni dei giovani protagonisti?
Non si sono spenti con l'aumentare dell'età. Sono rimasti sotto la cenere, al caldo, a riposare fino al giorno più opportuno. E quando la minaccia è che la guida scompaia, quando tutt'a un tratto le scelte sono solo loro, quando le indicazioni spariscono e resta soltanto il bivio, è allora che viene fuori il carattere di ognuno.
Qualunque esso sia.
Versione riveduta e corretta. Gennaio 2016
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'eroe della profezia'
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Penne 14 10/02/2016

Capitolo quattordicesimo

Una bella famiglia





Anka era un villaggio particolarmente bello nella luce dell’alba. I tetti inclinati delle case si accavallavano l’uno sull’altro risalendo le pendici della montagna e il silicio usato per ricoprirli brillava al sole. Le pareti delle abitazioni erano stinte e talvolta scrostate, ma in origine dovevano essere state dipinte a colori vivaci, perché le tracce degli antichi toni erano ancora visibili.
Jin e Kakashi raggiunsero il paese con qualche ora di anticipo rispetto al previsto. Avevano pensato di arrivare in pieno giorno e confondersi tra la folla di artigiani, fabbri e ambulanti che affollavano le strade del villaggio nei giorni di mercato, invece a mezzora dall’alba avevano visto le sue mura profilarsi oltre i campi. Non erano mura solide come quelle di Konoha né altrettanto alte: si trattava in realtà di ammassi di calce e pietre che bastavano a malapena per nascondere un uomo di media statura, ed erano evidentemente state costruite in fretta e furia. Ma erano sorvegliate.
Appostato dietro una macchia di arbusti Kakashi osservava la situazione. Una volta tanto le sentinelle erano mercenari che facevano bene il loro lavoro: probabilmente quel luogo era una delle loro roccaforti, difenderlo non era più questione di denaro, ma di sopravvivenza. A giudicare dalle loro condizioni, però, quella doveva essere la fine di un lungo turno di guardia, e qua e là si aprivano vasti sbadigli e sospiri di stanchezza.
Kakashi fece un cenno a Jin, che sgattaiolò al suo fianco. Si avvicinarono all’abitato sfruttando il grigiore dell’alba, e attraverso un prato coperto di sterpaglie riuscirono a raggiungere la base delle mura acquattandosi in un angolo buio. Non c’era bisogno di parlare; addestramento e sintonia erano più che sufficienti per oltrepassare un ostacolo di un metro e sessanta: i due shinobi furono dall’altra parte prima che il guerriero di guardia finisse di sbagliare.
Kakashi fece un cenno silenzioso. Jin si separò da lui. Fece qualche passo in direzione est, scivolando non visto tra le prime case, finché non individuò un edificio abbandonato e ne sfruttò il ballatoio per studiare i dintorni. Era stanco, ma l’idea di essere così vicino, l’idea di respirare la stessa aria di sua madre e forse guardare lo stesso paesaggio era sufficiente a spingerlo avanti. Lei era lì, tra i visi assonnati che facevano capolino dietro le finestre. Era lì, a un passo di distanza, e finalmente l’avrebbe conosciuta.
La strada principale del villaggio si inerpicava zigzagando lungo la montagna, tagliata a intervalli regolari da una griglia di vie secondarie. Dopo essersi lasciata alle spalle le abitazioni del centro si faceva quasi sentiero brullo, fino a raggiungere una grande costruzione che dominava l’intero pendio: la rocca dei mercenari.
«Ottimo punto d’osservazione» approvò Kakashi comparendo al fianco di Jin. «Ho contato le sentinelle di guardia, sono sei. Vuoi che ci riposiamo qualche ora prima di iniziare a raccogliere informazioni? Questo edificio sembra abbandonato, potremmo usarlo per nasconderci.»
«No! Sono a posto. Iniziamo subito.»
Kakashi lo fissò. Jin cercò di sostenere il suo sguardo senza arrossire.
«La stanchezza è il peggior nemico» gli ricordò il padre in tono pacato. «Non strafare.»
«Sto bene» insisté Jin. «Davvero. E comunque non riuscirei a dormire.»
Era strano, rifletté Kakashi. Nonostante le labbra di suo figlio sillabassero chiaramente tutte le parole, a lui sembrava sempre di sentire soltanto 'voglio trovarla'. Ignorò la contrazione che per un attimo gli aveva serrato lo stomaco e invece fissò la strada che saliva verso la rocca. Di tanto in tanto una coppia di guardie si fermava lungo il sentiero e tirava un calcio a un sasso.
«Deve esserci un passaggio segreto» disse Jin per interrompere il silenzio. «E’ perfettamente difendibile, ma in caso di assedio deve avere una via di fuga.»
«Poco ma sicuro» mormorò Kakashi, lasciando vagare lo sguardo sul fitto bosco che sovrastava villaggio e cittadella.
«Come procediamo?»
«Ci servono informazioni. A giudicare da quel che ho visto, i rapporti tra gli abitanti e i mercenari non devono essere rosei: con le giuste maniere potremmo scoprire qualche punto debole del palazzo.»
Jin annuì. «Priorità?»
Kakashi esitò per un lungo istante prima di rispondere, quindi fissò la rocca. «Chiedi del signore del villaggio.»
Dopo aver impartito le ultime istruzioni, lasciò che Jin partisse per primo e si prese un momento di pausa.
Fece vagare lo sguardo sui tetti e le strade oltre il ballatoio. Si chiese, forse per la millesima volta, se non avesse commesso un errore madornale. Se non fosse tutta una trappola e avesse condannato a morte sé e il bambino. La mano che aveva tenuto stretto il biglietto giunto tanti giorni prima fremeva ancora al ricordo del momento in cui aveva letto quelle parole, ma i dubbi erano tanti, e con essi la paura di restare deluso di nuovo.
All’immagine di Anka si sovrappose quella di un villaggio diverso, altrove, di un bambino che lo fissava diffidente e una tomba con un nome sconosciuto. A quel tempo aveva pensato di poterci finalmente mettere una pietra sopra, ma Tsunade era stata irremovibile: per lei c’erano ancora cose poco chiare.
Kakashi avrebbe tanto voluto poter finalmente essere convinto della morte di Haruka, ma anche dopo che era stata la stessa Tsunade a morire, la sua voce in fondo al cervello continuava a ricordargli che non poteva esserne sicuro.
Fece un respiro profondo. Sia che fosse una trappola sia che non lo fosse, questa volta voleva tornare a Konoha con una certezza.


*


Sette figli non erano soltanto un numero imponente. Sette figli, soprattutto se Uchiha, erano sette Problemi con la P maiuscola, tutti diversi, tutti contorti e tutti ugualmente importanti.
Sakura sapeva che il suo dovere di madre imponeva che prestasse attenzione a ognuno di loro, dall’adolescente incompreso al bambino che voleva ancora salire in braccio, ma certe volte – parecchie volte – si diceva che non ce l’avrebbe fatta.
Era successo quando aspettava Itachi, durante l’attacco della Roccia a Konoha, e per un attimo Sakura aveva pensato di non desiderare quel bambino. In fondo al cuore era conscia del fatto che per un secondo lo aveva odiato, e che le più nobili intenzioni non l’avrebbero giustificata. Ancora adesso ogni giorno, ogni notte, ogni minuto si chiedeva se lui in qualche modo lo avesse sentito.
Era successo di nuovo quando aveva sorpreso Nobi a guardare con occhi languidi Hanako, secondogenita di Naruto, anche se erano solo bambini. Aveva pensato di poter mantenere il segreto, invece Sasuke lo aveva scoperto, e anche se non aveva detto nulla di esplicito Nobi aveva percepito che qualcosa non andava; allora aveva rapidamente smesso di guardare Hanako e aveva iniziato ad ossessionare con lo sharingan chiunque fosse disposto ad ascoltarlo. Sakura non era più riuscita a incontrare i suoi occhi verdi, gli unici di quel colore tra i suoi figli, e aveva avuto la netta sensazione di aver tradito la sua fiducia.
Piuttosto di recente c’era stata un’ultima occasione in cui davvero si era sentita una pessima madre, ed era stato a causa del mancato sharingan di Hitoshi.
Ci aveva pensato, qualche volta: si era detta che se uno dei suoi figli non avesse avuto lo sharingan lei avrebbe fatto da mediatrice tra l’orgoglioso Sasuke e il ragazzino, li avrebbe avvicinati e avrebbe fatto sì che si accettassero a vicenda. Conosceva la storia di Fugaku e voleva evitare che si ripetesse.
Ma aveva fallito clamorosamente.
Per circa due anni in casa avevano trattenuto il fiato in attesa del primo segno di sharingan negli occhi di Hitoshi; poi Fugaku aveva tagliato il traguardo davanti a tutti e l’onta, per il primogenito, era stata troppo grande. Da quel momento era diventato difficile persino parlargli al di fuori delle occasioni ufficiali, e suggerirgli di incontrare suo padre equivaleva a sferzare l’ultimo colpo alla sua dignità in pezzi.
Sakura aveva cercato di spingere Sasuke al dialogo – lo stesso Sasuke che le aveva confessato che era rimasto deluso, sì, ma che più di tutto temeva di replicare gli errori di suo padre – però lui non aveva saputo avvicinare Hitoshi: perché sapeva cosa provava, perché era la stessa inadeguatezza che lui aveva sperimentato a suo tempo e perché per quell’incubo non c’erano soluzioni. Era Hitoshi a dover cambiare, e lui non poteva – non sapeva – aiutarlo, in questo.
Sakura non era riuscita a fare nulla di ciò che si era ripromessa, meno che mai a mediare. Aveva la sensazione di essere un fallimento come madre e moglie. Sapeva che, a parte Hitoshi, gli altri suoi figli non avevano problemi particolarmente gravi, ma è normale che quando tutto è perfetto la spina nel dito mignolo si senta mille volte più del dovuto. Per sua fortuna, almeno dalla prospettiva ‘madre modello’, in quello stesso periodo oltre alla spina nel mignolo era in corso una grave forma di infezione sistemica, questa volta dalla prospettiva ‘moglie ideale’: si chiamava tradimento.
Sakura riteneva di essere fin troppo afferrata in materia, considerati i suoi trascorsi. Non ne andava fiera e francamente avrebbe preferito dimenticarlo, ma pensava almeno di saper cogliere i segnali di infedeltà, dato che era stata dalla parte opposta della barricata. Il problema era proprio che li coglieva.
Normalmente non se lo sarebbe mai nemmeno sognato. Di tutti avrebbe potuto sospettare, mai però di Sasuke, che ci aveva messo dieci anni per affezionarsi a lei e Naruto... Eppure un giorno era andata a trovarlo al dipartimento. L’avevano lasciata passare senza avvisarlo, perché era normale che ogni tanto lei gli portasse qualcosa. E lì lo aveva visto in un corridoio deserto, davanti a un distributore di bevande, con un’altra donna.
L’aveva riconosciuta subito: era l’unico membro della squadra speciale di Sasuke a non dotarsi di un cromosoma Y, e, lo ammetteva anche lei, era davvero bella, in grado di far cadere ai suoi piedi qualunque uomo. Si sarebbe fermata a una punta di gelosia e una sana dose di invidia, se i due si fossero limitati a bere un tè insieme. Ma loro non si limitavano a bere quello stupido tè; loro confabulavano a una distanza decisamente troppo ridotta, si sussurravano chissà cosa in chissà che tono. Poche volte Sakura aveva visto Sasuke concentrato come in quei momenti, pochissime volte aveva visto quella piega di attenzione all’angolo dei suoi occhi, e aveva ricordato con uno sgradevole senso di soffocamento che era così con lei. Solo con lei.
Forse avrebbe dovuto interromperli, intervenire con un sorriso e sondare la situazione. Invece, con il cuore che si contraeva dolorosamente, aveva fatto dietrofront e se ne era andata in tutta fretta, sentendo un nodo alla gola e l’orribile sensazione di essere di troppo.
Anche Naruto aveva provato quelle cose, quando aveva avuto il primo sospetto?
Non aveva mai parlato a Sasuke della sua scoperta. Aveva cercato di capire da sola da che parte tirasse il vento, era stata affettuosa ma indagatrice, lo aveva messo alla prova e tranquillizzato. Non aveva mai colto segnali strani, mai una volta; finché, poco tempo prima, Sasuke non se ne era uscito con quella frase infelice nel palazzo dell’Hokage.
Non ho mai detto di fidarmi di me.
Era una confessione? Era solo per discolpare lei? Era una provocazione? Cosa? Cos’era?
Forse Sasuke aveva una storia segreta con la donna del dipartimento e si era stufato di tenerla segreta. Forse quella... come si chiamava? Fay, quella Fay lo aveva preso tanto da spingerlo a rinunciare all’orgoglio e lasciare la moglie ufficiale, portandosi via i ragazzi – perché non li avrebbe mai lasciati indietro, oh no – a costo di farsi additare come vergogna degli Uchiha.
Era un’idea terrorizzante. Non tanto la prospettiva di trovarsi in mezzo alla strada, perché sola non sarebbe certamente rimasta, ma la prospettiva di trovarsi senza di lui. La prospettiva di vederlo per Konoha a braccetto con un’altra donna. La prospettiva di sapere che l’avrebbe amata e avrebbe passato le notti con lei, che forse avrebbero anche avuto altri figli insieme. Che avrebbero vissuto la vita che era stata sua.
Solo ora capiva appieno l’enormità di ciò che aveva fatto a Naruto. Continuava a sperare che il suo amore di diciottenne non fosse ‘per sempre’, che, anche senza il suo tradimento, prima o poi si sarebbero lasciati e lui avrebbe incontrato Hinata, che fosse una specie di scelta obbligata, o il destino. Ma, se anche per assurdo – e Sakura non osava pensarlo, non ne aveva il diritto – l’amore di Naruto per lei fosse stato meno intenso del suo per Sasuke, anche la metà, anche un decimo, si rendeva conto che tradirlo era stata la cosa peggiore che potesse fargli.
Aveva pensato che tradire fosse terribile, ma ora scopriva che essere traditi era molto peggio.
Dal giorno della discussione nel palazzo dell’Hokage Sasuke era stato sempre impegnato: il loro ufficio era sorvegliato da una spia e la polizia era stata mobilitata in gran segreto perché desse una mano agli Anbu incaricati delle indagini. Per far fronte all’emergenza Sasuke si svegliava all’alba, andava in dipartimento e tornava la sera tardi, esausto, pronto per crollare sul letto. Il che significava che presumibilmente passava tutto il giorno con quella donna.
In quei giorni Naruto aveva provato ad avvicinare Sakura in mille modi. Si vedeva che aveva capito che qualcosa non funzionava, ma a lei sembrava in qualche modo sbagliato parlare proprio a lui dei suoi timori, perché erano gli stessi che lei una volta gli aveva procurato.
Si sentiva inutile, isterica e spaventata. Voleva indietro le sue certezze, voleva la sua vita quasi perfetta e la speranza di poter intervenire tra Hitoshi e Sasuke, perché di certo non poteva farlo tra e Sasuke. Voleva ricominciare a mangiare, voleva smettere di pensare a un’improvvisata al dipartimento, voleva che suo marito la rassicurasse e, una buona volta, le dicesse che la amava.
Invece mescolava furiosamente il suo tè da circa dodici minuti, seduta da sola al tavolo della cucina, piena di astio, rimorso e tristezza. Voleva andare al commissariato a controllare la situazione, ma allo stesso tempo voleva infilarsi sotto le coperte e svegliarsi l’anno venturo. Probabilmente anche Naruto e Sasuke, per un motivo o per l’altro, erano così impegnati da non vedersi, e a quel pensiero non poté fare a meno di chiedersi tristemente che fine avesse fatto il loro gruppo sette.
A un tratto sentì la porta della cucina aprirsi. Alzando lo sguardo si trovò davanti Itachi, e anche se in realtà avrebbe voluto piangere si costrinse a sorridere e gli disse di sedersi con lei.
«Allora? Cosa c’è, hai fame?» gli chiese, mentre lui toccava la tazza e corrugava la fronte.
«E’ freddo, mamma» le fece notare.
«Lo butterò via» commentò Sakura scrollando le spalle, smise di mescolare il tè e lo spinse più in là. «Vuoi qualcosa? Un dolce?»
Itachi sembrò pensarci un po’ su, poi accettò, anche se in realtà non aveva così fame. Mentre Sakura si alzava e raggiungeva una credenza, lui la guardò e pensò che gli sembrava triste. Forse se fosse rimasto con lei l’avrebbe fatta sentire meglio... anche se qualche volta pensava di non piacerle. Cioè, raramente... Ma proprio raro raro, comunque. Era sempre la sua mamma, no?
Sakura tornò con un sacchetto di biscotti e lo mise in mezzo al tavolo, sedendosi di nuovo. Itachi allungò la mano e ne prese uno iniziando a sgranocchiarlo in silenzio.
«Mamma, sei triste?» chiese dopo un po’, fissandola con la scomoda schiettezza dei bambini.
Sakura si irrigidì. «Un po’» si trovò a rispondere, perché negare le sembrava inutile di fronte agli occhi di Itachi. «Succede, quando si diventa grandi.»
«Sempre?» chiese lui un po’ allarmato.
«Ma no, solo qualche volta. Se sei fortunato, poco poco.»
«E tu perché sei triste, mamma?»
Perché sospetto che tuo padre intrattenga una relazione extraconiugale con una collega. Improponibile come risposta. Sakura decise di non rischiare e si limitò a scompigliare i capelli di Itachi, di quel rosa così discutibile.
«Non preoccuparti delle cose dei grandi, intanto che sei piccolo» gli consigliò. «Finisci la merenda e poi vai a giocare.»
«Non posso, papà ha detto che devo allenarmi» la contraddisse lui, addentando un altro biscotto per educazione. «Ah, ma a me piace. Mi diverto... è un po’ come giocare» si affrettò ad aggiungere dopo un attimo, quasi a scusarsi.
Sakura lo fissò tristemente. Tutti tendevano a giustificare Sasuke, da sempre. Naruto prima, lei poi, e adesso anche i suoi figli. Avrebbe tanto voluto affibbiargli qualche colpa e scaricare almeno parte della sua angoscia su di lui, invece di sopportare tutto da sola.
Fece un mezzo sorriso, accarezzò il bambino e gli disse di non stancarsi troppo. Mentre Itachi usciva lei mise la tazza di tè nel lavello, i biscotti nella credenza e uscì in giardino, a guardare gli esercizi che il bambino completava alla perfezione.
Fu lì che incontrò Ryuichiro.
Quasi sussultò nel vederlo, presa com’era ad avvitarsi nella sua tristezza. Il ragazzo, alto e sottile, era fermo sulla passatoia esterna come se fosse stato sul punto di bussare. Si affrettò a salutare Sakura con un inchino.
«Sasuke è al dipartimento?» chiese dopo i convenevoli di rito, lasciando il tempo a Sakura di riprendersi dalla sorpresa.
«Sì, come sempre» rispose lei, sforzandosi di cancellare la nota metallica nella sua voce. «Avevi bisogno di lui?»
Ryuichiro le rivolse un sorriso di scusa, che, sovrapposto alle poche immagini che Sakura aveva di Itachi, le provocò un brivido di sconcerto. Faceva sempre una certa impressione vedere qualcosa di catalogabile come ‘timidezza’ su una faccia che con la timidezza non avrebbe dovuto aver nulla a che fare.
«Non è che avessi proprio bisogno» mormorò, lo sguardo su Itachi che si allenava. «Volevo solo parlargli.»
Sakura sapeva dei soldi che ogni tanto scivolavano fuori dalle casse del clan per confluire nelle tasche di Saifon. Lei e Sasuke ne avevano parlato ed erano rimasti entrambi d’accordo sull’argomento. Sapeva anche che Ryuichiro talvolta cercava Sasuke per faccende che esulavano dal lato economico, e la cosa in fondo le faceva piacere: tutto ciò che contrastava la tendenza alla solitudine di Sasuke era gradita.
«Mi dispiace, ultimamente lavora tutto il giorno» mormorò. Ed era realmente dispiaciuta, per lui e anche per se stessa che non lo vedeva mai.
Le era parso di capire che a Ryuichiro Sasuke piacesse davvero, non come Saifon che se lo faceva andar bene perché contribuiva a riempirle lo stomaco. E sapeva che Sasuke non avrebbe mai potuto rifiutare il figlio di Itachi, perché sin dalla nascita di Hitoshi Sakura aveva capito che quel nome era un po’ troppo simile a Itachi per essere casuale. Si sforzò di sorridere, cercando di apparire tranquillizzante.
«Prova a tornare nel fine settimana. Dovrebbe essere a casa, con un po’ di fortuna.»
«Va bene, lo farò» assicurò lui. Ma non se ne andò subito. Rimase qualche istante a guardare Itachi, poi di nuovo Sakura.
«E’ un bambino eccezionale» disse, senza traccia di ironia. «Non ne capisco molto, ma mi piace pensare che potrebbe essere forte quanto suo zio... Sperando che sia più fortunato di lui, crescendo.»
Sakura esitò un istante prima di annuire. Aveva notato che Ryuichiro non parlava mai di Itachi come suo padre, e se riusciva evitava di pronunciare anche il suo nome. Mentre Saifon se ne riempiva la bocca anche per chiedere l’ora – oh, ricordo che era un pomeriggio così, quando io e Itachi ci siamo conosciuti. Scusa, che ore sono? – lui sembrava voler mettere una certa distanza tra sé e il primo Itachi Uchiha. Sakura non sapeva se lo facesse per una forma di rispetto nei confronti di Sasuke o se in qualche modo covasse del rancore verso Itachi, ma la cosa l’aveva sempre avvilita, nello stesso modo in cui l’avviliva sentire Hitoshi che chiamava Sasuke ‘padre’.
«Credo che Fugaku e Mikoto abbiano cercato di crescere Itachi nel miglior modo possibile» mormorò, guardando il suo minuscolo bambino che in futuro sarebbe potuto essere qualunque cosa. «Poi la vita ci mette del suo e non sai mai come va a finire... Certe volte penso che gli sforzi di un genitore siano perlopiù vani.»
Contro ogni aspettativa Ryuichiro si lasciò sfuggire una risatina, che pur stupendo Sakura riuscì a non offenderla – Ryuichiro non riusciva mai ad offendere, in effetti.
«E’ strano sentir dire queste cose a una persona come lei» spiegò, con un cenno di scusa.
«Perché?»
«Perché è una buona madre. I suoi figli sono fortunati.»
Se in quella frase c’era un accenno a Saifon, Ryuichiro lo nascose alla perfezione. E comunque Sakura non se ne sarebbe nemmeno accorta, occupata com’era a metabolizzare il complimento. Senza volerlo arrossì. La franchezza di Ryuichiro era così cortese da non aver nulla a che vedere con quella di Sai, ma entrambe turbavano allo stesso modo.
«La ringrazio per avermi dedicato parte del suo tempo e mi scuso per averla trattenuta. Sarà meglio che vada, adesso» disse il ragazzo riscuotendola dai suoi pensieri.
«Oh, sì, capisco» Sakura annuì. «Immagino che tua madre abbia bisogno di te. Mi ha fatto piacere vederti, torna più spesso... La prossima volta ti offro un tè.»
Ryuichiro sorrise. Stranamente Sakura non sovrappose la sua immagine a quella di Itachi e lo trovò soltanto confortante.
Lo guardò allontanarsi finché non fu scomparso oltre il giardino, poi tornò a fissare il piccolo Itachi stringendosi le braccia al petto.
I suoi figli erano fortunati, aveva detto. Certamente la prospettiva di un ragazzo come Ryuichiro dava tutto un altro aspetto alla situazione... Cresciuto senza un padre, usato dalla madre come prova tangibile del suo diritto ad essere mantenuta dal clan Uchiha, educatosi da solo all’ombra di un genitore mitico morto senza farsi conoscere, probabilmente vedeva in una famiglia come la loro soltanto unione e amore.
Ma non c’era anche qualcosa di vero nelle sue parole? La famiglia che Sakura aveva cresciuto era il risultato di tanti anni di sofferenze, incomprensioni, sforzi sovrumani, ma era una bella famiglia. Lei conosceva tutti i suoi figli e conosceva Sasuke: sapeva che dietro i muri di orgoglio che avevano eretto si nascondevano una profonda dedizione e legami che andavano ben oltre il sangue. Lei conosceva le persone che le erano intorno, sapeva che non erano frammenti taglienti ma un unico insieme armonioso, per quanto la loro armonia fosse difficile da afferrare.
Cosa l’aveva resa tanto insicura? Era la scena intravista al commissariato? Erano i sensi di colpa verso Naruto che riaffioravano? L’età? Hitoshi che non le rivolgeva la parola? No, quello era niente in confronto a Sasuke che tradiva il villaggio, niente in confronto a Kyuubi che per poco non lo ammazzava in ospedale, in confronto alla nascita del suo primo prezioso bambino, al dolore, alle lacrime, ai rimorsi che in tutti quegli anni erano venuti e passati.
La ragione per cui era così ripiegata sulla propria sofferenza era che aveva permesso che accadesse, nient’altro. Se ne rese conto all’improvviso, e fu chiaro come se ci avesse riflettuto per giorni.
Ma poteva ancora fare qualcosa. Non come Ryuichiro e Saifon, perché Itachi non c’era e non ci sarebbe stato più: lei poteva agire; poteva e doveva. E voleva. Voleva diventare una donna che lotta per essere tutto quanto: madre, moglie, amante, anche con arroganza, anche con la Sakura che aveva sempre tenuto nascosta, se necessario. Voleva la determinazione della vecchia sé stessa, il suo coraggio e la sua forza, e il primo passo per ottenerle, per quanto facesse paura, era affrontare Sasuke.
Nel giardino Itachi fece un salto all’indietro e scivolò su una chiazza di erba schiacciata da Fugaku e Mikoto durante i loro allenamenti. Prima di picchiare il sedere a terra roteò agilmente e atterrò a quattro zampe.
Sakura sorrise. Non poteva essere da meno: avrebbe dovuto imparare di nuovo a cadere in piedi.


Appollaiato sulla cima di un tetto decorato da fregi e scaglie di drago Sai osservava l’ingresso della residenza che teneva d’occhio ultimamente.
Nel corso della mattinata erano stai fatti entrare due fattorini e un uomo vestito elegantemente, ma nessuna traccia di Hatsu, il vecchio membro della Radice che aveva visto scomparire oltre i cancelli di bambù poco tempo prima.
Erano passati solo un paio di giorni da quando aveva iniziato a tenere d’occhio la zona, ma anche se passava lì soltanto le poche ore libere dalle missioni la sua memoria ci aveva messo poco a catapultarlo nel passato, quando saltare giù dal secondo piano non era una cosa che richiedesse molta meditazione: aveva meno di vent’anni ed era una macchina di muscoli perfetti e movimenti precisi, con la testa piena di insegnamenti sul dovere e la fedeltà ma lo stomaco vuoto di sentimenti. All’epoca le convocazioni più segrete della Radice avvenivano tra quelle strade, dietro ingressi nascosti noti solo a pochi eletti, e lui era tra quei pochi, orgoglioso del suo privilegio. Con il passare degli anni il ricordo di Danzo si era affievolito fino a ridursi a una nebbia confusa, sovrapposto alle immagini dei suoi ultimi giorni di vita in carcere: sapeva che al tempo era stato un uomo duro e determinato, ma faticava a credere alla storia quando lo rivedeva ammalato.
Un nuovo ospite lo costrinse a distogliersi dai ricordi. Si rannicchiò meglio tra un fregio e un angolo del tetto mentre il portiere apriva i cancelli per lasciar passare un uomo ben vestito. Sai non ne fu sicuro, ma gli sembrò di riconoscere un membro del Consiglio della Foglia. Il vento portò fino a lui brandelli di conversazione, permettendogli di capire che l’uomo aveva un appuntamento con il padrone di casa, e tra i convenevoli e le espressioni di deferenza gli parve di comprendere che erano attese altre persone.
Nell’arco di una mezzora altri uomini eleganti si fecero annunciare, chi da solo e chi accompagnato dai servitori. Sai contò non meno di dieci nuovi arrivi, tra cui spiccavano un paio di persone piuttosto note e una gran quantità di anonimi misteriosi. Annotò con cura i nomi di coloro che conosceva, e quando non li conosceva tracciava uno schizzo velocissimo dei loro visi sperando di fare un lavoro discreto.
Arrivò e passò l’ora di pranzo. Per quel giorno Sai aveva preso un giorno di vacanza dal lavoro, quindi poté cambiare punto di osservazione con tutta calma. Attorno alle tre di pomeriggio rivide il primo uomo che era entrato, uno dei Consiglieri che aveva riconosciuto senza fatica, e pensò che di lì a poco anche gli altri sarebbero usciti.
Ma non accadde nulla del genere. Il nobile se ne andò tranquillamente e nessun altro uscì dall’abitazione per almeno un’ora. A quel punto, con grande sorpresa di Sai, fu il padrone di casa ad andarsene insieme a un servitore.
C’era solo una possibilità che gli veniva in mente, una volta escluso l’omicidio: gli uomini che erano entrati dall’ingresso principale dovevano essere usciti da uno secondario. Ma perché prendere una precauzione così elaborata? Li preoccupava essere notati nei dintorni?
Meditabondo, Sai si domandò quale poteva essere il ruolo di Hatsu in una faccenda così misteriosa. Le risposte che si affacciarono alla sua mente gli piacquero ben poco... Ma non aveva nulla di chiaro per le mani. Avrebbe dovuto pazientare e osservare ancora per qualche tempo.






* * *

Buongiorno a tutti!
Rieccomi con un aggiornamento più corposo,
che finalmente vi permette di dimenticare proprio la vecchia trama
(per quanto riguarda Kakashi, Jin e Sai)
ed entrare nella nuova!

Capitolo lento e noioso, lo so,
ma queste parti mi servono e talvolta devo condensarle.

Ancora un poco di pazienza,
presto sarà tutto inedito.

  
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