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Autore: Dregova Tencligno    23/11/2014    0 recensioni
Ottawa. Canada. E' il giorno di Natale, è il giorno del mio compleanno. E' il giorno in cui vecchi ricordi ritornano a bussare alla porta del mio appartamento. Una canzone lontana nel tempo, vecchia quanto lo è il dolore che provo, accompagna le immagini che violente si affacciano nella mia mente facendomi ripercorrere un cammino che mi ero ripromesso non percorrere più.
E' il giorno di Natale, è il giorno in cui tutti cercano di essere più buoni, ma alcune risulta veramente difficile esserlo.
E' il giorno di Natale, sono le cinque del mattino e qualcuno bussa alla porta...
E' il giorno di Natale e il passato bussa alla mia porta chiedendo aiuto.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-Ciao.
Un tuffo al cuore e un flash di una vita non più mia. Troppo distante ma anche eccessivamente vicina per riuscire ancora a tormentarmi.
Un bambino con il naso premuto contro il vetro freddo della finestra della sua cameretta, la faccia che gli fa male ma che continua imperterrito a tenere in questa posizione. Sembra lontano il sottofondo della canzone ‘Re del blu, re del mai’ del film ‘Nightmare before Christmas’ anche se il televisore è distante da lui un metro scarso. No. È troppo importante quello che sta accadendo al di fuori del suo piccolo mondo fatto da cose che conosce a menadito, troppo importante dei magici segreti che nasconde la sua cameretta e la sua casa. I suoi piccoli occhi marroni cercano di andare al di là della nuvola sicura della sua dimora dove ogni desiderio si avvera. Per lui basta solo immaginare che tutto il male semplicemente non esista ma, a volte, non si può fare nulla per tenere l’Uomo Nero relegato sotto al letto, nemmeno una lucetta lasciata sul comodino per rassicurarlo mentre si addormenta.
Vede ma non capisce. Sua madre è inginocchiata sul marciapiede con i capelli scompigliati dal vento e bagnati da una pioggia, il cielo è marchiato da nuvole pesanti e ruggenti, serpenti di pura energia si raggomitolano, sibilano, si lanciano squarciando il cielo e facendolo sentire piccolo in confronto alla potenza distruttrice che poteva il Mondo scatenare.
Suo padre ha delle valigie in mano dalle quali escono dei vestiti, la madre le ha afferrate e strattonate, le cerniere hanno ceduto facendo volare in aria, come i coriandoli alla sua festa di compleanno mentre esprimeva il suo desiderio dal valore incalcolabile, gli abiti che poi erano stati rinchiusi in fretta nel loro bagaglio.
Un bambino con in mano un peluche, un orsacchiotto a cui manca un occhio sostituito con una spessa X. Un bambino che, nonostante ancora non capisca, non si preoccupa per quello che vede perché per lui è normale, perché tanto sa che alla fine il padre ritorna sempre. Non è nulla di strano, sempre meglio di quando litigano davanti a lui usando brutte parole di cui ignora il significato ma che gli chiudono lo stomaco e che gli fanno venir voglia di piangere. Alcune volte pensa che questo possa distrarli, far smettere di urlare e alzarsi le mani a vicenda e lanciando piatti e bicchieri che s’infrangono a terra e sui muri come i suoi sogni. Così si reca nella sua camera, si nasconde sotto le coperte e piange. Spera che si accorgano della sua assenza e che lo vadano a consolare… ma tutto si spegne nell’oblio di un sonno senza sogni.
Ma quel pomeriggio ha qualcosa diverso dalle altre volte in cui ha visto andare via. C’è qualcosa nel modo in cui si comporta che lo lascia stordito. Dopo quel pomeriggio il padre non si farà più vedere per vent’anni, per poi comparire il giorno del suo ventiseiesimo compleanno sulla soglia del suo appartamento a Ottawa.
-Shawn…-
L’orologio segna le cinque del mattino.
 
Un uomo dall’aria stanca, dall’aspetto tutt’altro che curato, preme il pulsante del campanello con l’animo pieno di speranza e gli occhi carichi di tacite suppliche.
Sente dei rumori provenire dall’interno dell’appartamento. Il suo cuore incomincia già a battere forte ma sembra uscirgli dal petto quando sente la voce di suo figlio.
-Chi è?
Non riescono a uscire parole dalla sua bocca, sono tutte bloccate in gola formando un immenso magone. Si domanda come la sua ex moglie abbia potuto mandare il loro bambino a vivere da solo in un mondo tutt’atro che sicuro.
Sente ancora vari rumori e poi il silenzio. Probabilmente, pensa, Shawn lo sta guardando dallo spioncino.
Il rumore della catenina che viene sganciata è seguito da due scatti della serratura. Una lingua di luce crescente esce dalla porta e lo illumina.
Con una mano stringe una busta contente il regalo per suo figlio mentre con l’altra la manina sudata di un bambino di undici anni. La ricompensa per le buoni azioni che non ha  mai fatto.
Quando si trova davanti al figlio, il cuore gli si stringe. È il riflesso di sua madre. Gli stessi occhi di un azzurro intenso, così magnetici da non riuscire a staccare il proprio sguardo da quei due cerchi luminosi, la carnagione olivastra e i capelli neri. Il volto non è più quello del bambino che ha lasciato, ha tratti più duri anche se pur sempre molto dolci. È bellissimo.
Le lacrime bussano dietro agli occhi, chiedono di uscire, di far vedere quanto sia felice di vedere che stia bene.
Gli sembra un angelo nonostante indossi solo una canottiera bianca e un pantalone da ginnastica. È scalzo e il volto adornato da un sottile strato di barba.
Finalmente le lacrime riescono a uscire e il peso che ha nel petto si scioglie lentamente. Una lacrima che si trasforma in un fiume che non riesce ad arginare. È così cresciuto, allontanandosi di lui ha perso tutti i momenti che l’hanno reso l’uomo che ha ora davanti. Solo adesso, dopo venti anni, questo pensiero gli attraversa la mente. Non si è mai reso conto prima di quanto avesse sbagliato. Ma il tempo non può essere riscritto. Non è un testo scritto al computer sul quale si possono apportare tutte le modifiche che si vogliono, cancellando e riscrivendo per rendere lo scritto migliore. Purtroppo la vita non permette di fare questo. Ciò che è stato fatto non può essere corretto.
Stringe più forte la mano del bambino che ha accanto, lui strabuzza gli occhi e caccia un urlo che riscuote il padre.
-Shawn…
 
Guardo quell’uomo vecchio e quel bambino.
A prima vista, mezzo assonnato, non sono riuscito ad assimilare bene le informazioni che mi sono arrivate alle cinque del mattino come un uragano. I miei occhi si soffermano sul bambino, ha qualcosa che lo rende diverso, in qualche modo speciale.
Quando il sonno si allontana dalla mia vista rendendola libera dal suo velo traslucido realizzo che è albino.
Fa di tutto per nascondersi. Si mette dietro la figura del padre, molto diverso da lui non solo per aspetto. I suoi occhi, il suo viso mi ha portato alla memoria un incubo che spesso viene a farmi visita la notte che un’amante di cui non voglio più sapere nulla. Desidero la sua scomparsa ma sembra immortale e ogni volta che sfiora la mia pelle non può fare a meno che farmi male.
L’uomo mi guarda in modo strano… come se fosse pieno di aspettative.
-Piccolo Shi.
Un sussulto.
È da tantissimo tempo che nessuno mi chiama più in questo modo. Solo una persona, che ho giurato di odiare fino alla mia morte, può sapere questo soprannome.
-Tu?!
Prendo la porta, le unghie che entrano dentro il legno per la rabbia che ho dentro, e la sbatto in faccia al mio visitatore.
L’uomo inizia a urlare, mi prega di lasciarlo entrare, ha da chiedermi un importantissimo favore.
Un favore? Dopo quello che mi ha fatto, che ci ha fatto, ha anche la faccia tosta di presentarsi dopo un’eternità con la pretesa di chiedermi un favore?
Colpisce la porta con i pugni ignorando la voce del bambino che gli chiede di smetterla.
Perché? Perché? Continuo a ripetermi.
Ha lasciato me, mio fratello e mia madre senza la minima spiegazione ed esitazione. Dopo tante ipotesi che mi hanno cotto il cervello sulla brace, ho la possibilità di chiedergli come mai si è comportato in questo modo con noi. Ma c’è qualcosa di forte che mi impedisce di tornare a guardare la porta e di aprirla. Invece, mi sussurra di tornare a letto e di chiudere gli occhi ignorando tutto quel frastuono, prima o poi se ne sarebbero andati. Questa presenza era puro odio.
-Ti prego!
Lo ha detto fra le lacrime, posso sentirlo piangere. Il coccodrillo che piange dopo aver pranzato con la sua preda. Il bambino continua a lamentarsi.
-Papà, andiamocene. Ho paura.
Sento anche delle voci, sono quelle delle altre persone che abitano nel condominio. Hanno sentito le urla, impossibile non averlo fatto, bisognerebbe essere più che sordi come una campana. Li insultano con espressioni abbastanza colorite per convincerli ad andarsene.
Mi mordo le labbra. Non posso fare diversamente, anche se mi costa molto.
Afferro la maniglia e apro la porta. Guardo il vecchio in volto e lascio che si goda la mia espressione di disgusto.
Mi sento come un Signore che può tutto nei confronti del suo sottomesso. È un’azione vile da parte mia, ma non posso farne a meno. Mi sento troppo bene per smettere.
Solo dopo che ha smesso di frignare lo faccio entrare, ma la dolce vendetta si ritira come un verme nel suo buco alla vista del bambino.
Trema e gli battono i denti.
-Shawn…
Fulmino mio padre con lo sguardo, anche se vorrei farlo con la corrente elettrica.
Com’è schifosamente familiare questa parola mentre la penso con troppa leggerezza. ‘Padre’. Un padre è quella persona che ama la sua famiglia e che non se ne va via lasciandola immersa nei debiti.
-Stai zitto. Non ho ancora deciso se farti accomodare o cacciati via a calci. Quindi non metterti comodo.
Chiaro e coinciso, come lo sono nel mio lavoro. Per colpa sua, mio fratello mi ha dovuto fare le veci di padre abbandonando tutti i suoi sogni.
Afferro delicatamente il bambino per una spalla e lo accompagno in cucina spingendolo da dietro. Fa un po’ di resistenza ma non me ne preoccupo, per lui sono un estraneo ed è normale che faccia così.
Prendo una sedia e la avvicino al bancone vicino allo spazio cottura della cucina.
-Siediti qui…
Mi ubbidisce senza fare storie, avrei scommesso in un atteggiamento molto più ostile visto come ho trattato suo padre.
-Ho bisogno di una tazza di tea caldo, lo vuoi pure tu?
Ci pensa un po’ e poi scuote la testa in segno di assenso.
Metto il pentolino con l’acqua sopra il fornello. Prendo uno sgabello e mi ci siedo sopra.
Ho il bambino accanto. Mi giro verso di lui e lo osservo con attenzione mentre lui ricambia in silenzio il mio sguardo.
-Come ti chiami?
Prima di rispondere si avvicina una mano alla bocca e incomincia a mangiarsi le pellicine.
-Aaron.
-Hai un bel nome.- gli dico sorridendo –Se hai fame posso darti dei biscotti con cui puoi anche accompagnare il tea. Invece che mangiarti le pellicine.
Non mi risponde. Annuisce e basta.
-Quanti anni hai?
-Undici.
-Quell’uomo è tuo padre?
-Sì.
Benissimo. Dopo aver abbandonato noi, si è fatto una nuova vita.
-Che scuola fai?
-Il prossimo anno devo fare il secondo anno della scuola media.
Non ce la facevo proprio ad essere duro con quel bambino, non potevo affibbiargli le colpe di mio padre.
-Immagino che tu sappia già come mi chiamo.
Si tira le maniche del giubbino fino a coprirsi le dita, gli occhi vagano un po’ per la stanza per soffermarsi ogni tanto sul mio volto.
La cosa più brutta era che, in un certo senso, più lo guardavo e più riconoscevo in lui particolari che appartenevano anche a me. Lo stesso naso piccolo, gli stessi occhi grandi e quella fossetta che esce tra le sopracciglia quando sono pensoso.
-Shawn…
Gli sorrido.
L’acqua nel pentolino incomincia a borbottare un poco. Mi alzo e spengo il fornello, l’acqua è bollente, proprio come piace a me.
Dal mobiletto sopra il lavandino prendo due tazze.
Una è neutrale, azzurra con una crepa sottile su un lato. Me l’ha regalata la mia fidanzata per il nostro anniversario.
L’altra l’ho comprata una mattina, al supermercato. Non so cosa mi abbia catturato di quell’oggetto… forse Woody di ‘Toy Story’.
Le poso sul ripiano della cucina e le riempio con l’Acqua fumante.
-Tea normale o tea verde? O vuoi la camomilla?
Ci pensa su.
-… Preferisco il tea verde.
La stessa cosa che avrei scelto io.
Apro la dispensa.
La scatola del tea è in alto a destra, vicino al tostapane. La prendo e ne estraggo due bustine.
Lascio il tea in infusione per tre minuti circa, poi butto i sacchettini nel cestino della spazzatura.
Mi allungo e prendo, dal secondo ripiano della dispensa, a sinistra, un barattolo contenente biscotti con gocce di cioccolato. Li ho fatti io in un momento di tranquillità.
-Puoi toglierti il giubbino se vuoi.
Prima di rispondermi ci pensa su. È una cosa che fa sempre. Un vizio che gli invidio. Probabilmente sa meglio di me cosa accadrà quando lascerò la parola a mio padre.
Si tira giù la zip e si toglie il giaccone rosso. Lo tiene in mano non sapendo dove appoggiarlo. Mi alzo e glielo prendo dalle mani. Socchiudo la porta e lo appendo all’attaccapanni, al livello più basso, in modo da lasciargli la possibilità di prenderlo senza aver bisogno di aiuto. Undici anni, era ancora un bambino.
-Grazie.- mi dice mentre mi siedo al mio posto.
Lo guardo e mi viene da ridere.
È così gentile che mi sembra ancora più piccolo. Chissà come ha fatto mio padre a trovarsi con un bambino che non merita.
Svito il tappo e gli metto vicino il barattolo di biscotti. Ne prende uno, poi un altro e un altro ancora.
Ha fame, non è difficile intuirlo. Basta vedere il suo viso scarno. Deve essere anche stanco, le due occhiaie sotto gli occhi sembrano essere due lividi. Come se fosse stato picchiato.
Io mangio solo un biscotto e poi bevo il tea fino a quando non inizio a sentire sulla lingua le briciole che il dolcetto ha lasciato.
Ho deciso. Sono pronto. Tanto, alla fine, avrei dovuto parlare con mio padre, anche solo per mandarlo via.
Mi alzo e faccio per uscire dalla cucina ma qualcosa mi ferma, non riesco ad andare oltre la porta e resto lì, fermo a osservare il riflesso di un uomo che avevo considerato un eroe. Si sta mangiando le unghie mentre aspetta il momento in cui gli avrei chiesto il motivo della sua visita dopo tanti anni.
Ancora, però, non ce la faccio. La voglia di strozzarlo, il desiderio di vedere la vita sparire dai suoi occhi, era troppo forte.
Per colpa sua, mia madre si è trasformata in un automa che non riusciva più a sorridere.
Avevo la possibilità di vendicare i sogni infranti di mio fratello.
Però… vari motivi mi frenano dal farlo. Il fatto di essere un uomo e non una bestia, di essere diverso da lui, e la presenza del bambino nella mia cucina.
Decido di far bollire a fuoco lento mio padre ancora per un po’.
Guardo Aaron. Ha finito di mangiare e sbadiglia come un leone assonnato.
Se non stessi provando dei sentimenti contrari verso quel bambino. Se fosse una situazione normale, avrei provato tenerezza per lui, ma la presenza di suo, nostro, padre mi irritava particolarmente.
-Vieni. Ti do uno spazzolino così ti lavi i denti.
Lo accompagno in bagno.
Accendo la luce dopo aver tastato la parete per trovare l’interruttore.
Sul volto di Aaron si disegna un’espressione di pura sorpresa-
-Che bello.- mormora.
Sorrido.
-È solo un bagno.-
Quando acquistai l’appartamento, il bagno non era un granché. I tubi del lavandino e del water perdevano da tutte le parti e lo scarico della doccia si otturava in continuazione. Dovetti spendere altri soldi per ripararlo, e non mi era uscito male.
Il lavandino rosso lo sostituii con uno bianco, anche il water fece la stessa fine. Feci sistemare la doccia rendendola più ampia. Fui costretto anche a piastrellare nuovamente il pavimento del bagno. Alla fine, comunque, il risultato fu soddisfacente. Dopo tre anni di lavoro avevo un bagno pulito ed ordinato.
Lo sguardo di Aaron mi fa sentire fiero di quello che ho fatto.
Lo vendo diventare lentamente rosso.
-Devo fare… pipì…
-Aspetta un attimo.
Lo spingo all’interno del bagno e chiudo la porta.
Mi guarda un po’ spaesato e arretra di qualche passo.
Non mi faccio tante domande sul perché di questa reazione eccessiva, visto che si è addossato alla parete, e prendo dal mobile dietro la porta un asciugamano e uno spazzolino da denti togliendolo dalla sua custodia.
Gli do tutto in mano.
-Adesso ti lascio.
Esco fuori dal bagno lasciandolo solo.
Mio padre è in cucina e mi osserva. Fa per parlarmi ma gli volto le spalle e mi dirigo verso la camera degli ospiti.
L’appartamento è fornito di due camere da letto. Per comodità avevo fatto sostituire i letti di legno, tarlato, con due letti matrimoniali in ferro. Non mi erano costati nulla. Mio zio non sapeva che farsene e così presi la palla al balzo.
Entro nella camera di solito occupata dalla sorella della mia fidanzata quando ci viene a trovare. Per questo, spesso, trovo nell’armadio biancheria femminile. Mi appunto nella mente di avvisare Emily di restituire tutti quegli indumenti alla legittima proprietaria.
Sistemo il letto cambiando coprimaterasso e il lenzuolo e poi aggiungo delle coperte. Cambio pure la federa del cuscino.
Dal bagno arriva il rumore dello scarico dello sciacquone.
Lascio la camera aperta e vado dal bambino che esce dal bagno.
-Vieni, è meglio se ti riposi.
Non ho idea di cosa il futuro gli riservi, ma spero che sia di gran lunga migliore del presente.
Lo faccio entrare nella camera da letto.
-Aspetta un attimo. Ti prendo qualcosa di comodo che puoi metterti.
Con un maglione di lana consunto e rattoppato e dei pantaloni jeans troppo piccoli per lui sembrava un bambino che si è soliti vedere per strada a chiedere l’elemosina.
Da un mobile nel corridoio prendo una mia felpa. L’ho messa tra gli abiti da indossare in casa. Questa l’avevo rovinata lasciandoci sopra il ferro da stiro. Ero troppo occupato a passare un po’ di tempo con Emily.
Quando torno nella camera dove ho lasciato Aaron, lo trovo in mutande mentre piega i suoi abiti sul letto.
-Posso…?- dico bussando allo stipite della porta.
Lui si gira e mi osserva mentre gli tendo la felpa. La prende e se la infila. Ha la schiena segnata da cicatrici lunghe.
-Cosa ti è successo?- gli chiedo.
Si ferma, le gambe scheletriche che escono fuori da una maglia troppo grande per lui.
-Non sono stanco.- dice sbadigliando.
Sorrido. –Ah, no? Allora perché sbadigli in continuazione?
-Aaron. Fai quello che ti ha detto Shawn.
-Sì papà.
Mio padre è alle mie spalle, a pochi centimetri di distanza. Troppo vicino.
-Buonanotte.
Spingo mio padre fuori dalla camera, spengo la luce e chiudo la porta. Lo accompagno in cucina.
-Siediti.- gi indico lo sgabello.
Si siede e mi osserva mentre prendo la moca e ci metto dentro il caffè. Ho bisogno di energia.
-Sei stato molto gentile con mio figlio. Te ne sono grato.
Accendo il fuoco sotto la caffettiera.
-Non è colpa sua se tu sei suo padre.
La mia affermazione sembra averlo scosso. È più insicuro di quando gli ho aperto la porta.
Ancora non ho voglia di intavolare con lui un discorso. Prima di muovere un solo passo in questa terra desolata e piena di ostacoli aspetto che il caffè sia pronto. Quando lo è, lo verso in due tazzine, una la allungo a mio padre che lo beve tutto d’un sorso. Quasi sicuramente si è scottato la lingua.
-Senti Shawn, io me ne devo andare. Aaron resterà con te.
La notizia mi fa andare il caffè di traverso e per poco non vomito.
-Cazzo! Non ci posso credere…
Dico tossendo.
Mio padre salta giù dallo sgabello e cerca di aiutarmi dandomi delle botte dietro la schiena, ma io lo caccio via con un braccio.
Mi guarda come se non riconoscesse la propria creatura, effettivamente di me non conosce nulla.
-Lo vuoi abbandonare come hai fatto con Tyson e con me?! Sei un bastardo!
-Hai ragione.- dice mortificato.
La sua affermazione mi lascia sconvolto.
-Ma il fatto è che ho combinato dei casini e…
-E Aaron ci sta andando di mezzo.- concludo. –Ho visto i graffi che ha sulla schiena e il suo comportamento mi lascia capire che ha subito degli abusi. Ha paura della vicinanza delle persone.- al pronto soccorso me ne sono capitati tanti.
Infermiere professionale.
Mio padre abbassa lo sguardo.
-Ho chiesto aiuti economici alle persone sbagliate e, quando non riuscivo a pagare in tempo i miei debiti, se la prendevano con lui. Non puoi immaginare cosa gli hanno fatto.
Sembra essersi veramente pentito, ma continuo a non fidarmi di lui.
-Come mai proprio io? Perché non alla madre? Non penso che sia nato dal nulla.
-La madre è morta durante il parto.- Proprio sfortunato quel bambino. –E poi so che si sei fidanzato con un avvocato, sono sicuro che sarà in grado di garantirti l’affidamento.
Caccia dal giubbino una busta e la poggia sul tavolo.
-Cos’è?
-È il mio testamento. Ho scritto tutto quello che vi avrei sempre dovuto dire.
-Come fai a sapere che mi sono fidanzato?
-Non penserai veramente che sia venuto a bussare alla tua porta senza prima informarmi.
-Mi hai spiato?
-Nell’ultima settimana sì. Sei la sua unica ancora di salvezza.
-Cos’hai fatto di preciso?
-È meglio che tu non lo sappia.
Sta diventando nervoso e guarda ripetutamente l’orologio che ha al polso.
-È quasi ora, devo andare.
-Non puoi dire veramente.
-Occupati di Aaron. Per lui devi essere il padre che io non sono stato. Prometto che non mi farò più vedere.
Si alza e, semplicemente, se ne va. Non si ferma neanche quando lo chiamo.
Mi rivedo nei panni di mia madre che urla, inginocchiata sul marciapiede, il nome di mio padre che se ne va via. Mio fratello che entra in camera mia con le lacrime agli occhi e mi abbraccia stringendomi forte. Non so perché, ma incomincio piangere, ma lo faccio e mi aggrappo al petto di Tyson.
La porta si chiude.
-Buon compleanno.- mi dico.
Vado in salotto e mi siedo sul divano osservando le lancette dell’orologio muoversi. Non mi accorgo di nulla, mi addormento.
Sento qualcosa toccarmi e scuotermi.
Apro gli occhi, leggermente scosso dallo scomodo risveglio. Aaron è seduto sul divano, mi stringe il braccio e mi guarda con occhi traboccanti di paura, confusione, rassegnazione.
-Dov’è papà?
Una punta di ferro su una lavagna. Dal momento stesso in cui mi sono svegliato, ho cercato una possibile scusa da dire a quel bambino, ma adesso non riesco a pensare.
Resto seduto con la bocca aperta, incapace di parlare, ma alcune volte i silenzi sono molto più eloquenti delle parole.
Capisce.
Scappa.
Mi alzo e lo raggiungo. Si è chiuso la porta alle spalle. Mi fermo e busso, non risponde nessuno e sento i singhiozzi tipici del pianto.
Afferro la maniglia, non so ancora cosa fare. L’abbasso, tanti ricordi mi affollano la mente. Apro la porta.
Aaron è disteso sul letto con la faccia immersa tra i cuscini. Mi avvicino al letto e mi ci siedo sopra. Accarezzo il capo di Aaron che per un attimo smette di piangere.
Si volta verso di me e mi abbraccia. Lo stringo forte, sembra così fragile da potersi spezzare se esercitassi un po’ di pressione in più.
Ricomincia a piangere. Capisco quello che sta provando. Quando mio padre ci ha abbandonati, mi sono sentito perso, io, a differenza sua, però, ho potuto contare su mio fratello.
Aaron non aveva più nessuno…
Lui continua a piangere e io non so cosa fare. La canottiera si sta inumidendo per le sue lacrime.
Gli accarezzo i capelli.
-Non ti preoccupare, sistemeremo tutto.
Lo dico più a me che a lui.
 
TRE ANNI DOPO
 
-Mamma, mamma…
Sempre la solita.
Non fa altro che andare su e giù per la casa per intrattenere gli ospiti e trova anche il tempo per andare in cucina. Zio Bernard non deve toccare le pietanze che abbiamo preparato.
-Amore.
Abbraccio Emily. Per adesso è l’unica cosa rilassante della serata.
-Shawn! Auguri!
Aaron corre ad abbracciarmi. Questa è la seconda cosa che mi rende veramente felice.
Ormai quest’ometto vive con me ed Emily e lo consideriamo parte della famiglia.
Mio padre è stato di parola, non si è fatto più vedere dopo la visita al mio appartamento.
Quando Emily tornò a casa dal master che stava facendo in Europa, ebbe una grande sorpresa nel trovare me che dormivo insieme al piccolo ospite. Le raccontai tutto quello che era successo, quello che mi aveva detto mio padre, le mostrai anche i documenti che mi aveva lasciato.
Si mise a lavorarci sopra, a quanto ne sapevo, oltre ad un testamento, c’erano anche dei documenti per l’affidamento. Bisognava studiare molto il caso, ma non doveva essere molto semplice… ma io di postille e di articoli e contro articoli non capivo nulla. Non mancavano gli intoppi ma, tra una cosa e l’altra, riuscimmo anche ad organizzare il nostro matrimonio.
La carriera di avvocato della mia futura moglie ha preso una svolta inaspettata. Ha avuto sotto mano dei casi che l’anno messa in bella luce con il suo datore di lavoro. Ora ha un ufficio tutto suo e degli orari molto più flessibili rispetto a quelli che aveva prima.
Abbiamo intenzione di sposarci in una chiesa piccola, vicino al nostro appartamento; proprio questa sera abbiamo intenzione di chiedere alla sorella di Emily di essere la damigella d’onore. Abbiamo colto anche l’occasione del cenone natalizio per presentare Aaron a tutta la famiglia, cercando di raccontare tutti i punti della sua storia che erano emersi indagando. Ho reso anche ufficiale l’affidamento di Aaron. In fin dei conti siamo fratelli.
Tre anni sono passati da quella inusuale sveglia.
In questo momento, con Emily e Aaron al mio fianco insieme a Tyson, mi sentivo al completo.
Anche se per il matrimonio manca ancora un mese, cerco il momento opportuno per dire ad Aaron e a Tyson che diverranno zii e mia madre, nonna.
 
Fuori, nella notte di Natale, qualche fiocco di neve volteggia nell’aria. Rappresentano la mia felicità, per questa sera saranno immortali. Niente li scioglierà.
   
 
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