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Autore: Alex e Finger    23/11/2014    1 recensioni
— Non mi sono mai sentito così poco Mentore come vicino a lui. —
— Diceva che sei così disposto ad imparare. Diceva che gli ricordavi Ishak, in qualcosa, anche se siete profondamente diversi. —
Lo sguardo di Ezio scivolò verso il tumulo e si velò per un attimo, mentre percepiva gli occhi di lei fissi sul suo viso.
— Perché mi cercavi? —
Ràhel si prese un attimo prima di rispondere, come se stesse raccogliendo le forze.
— Perché lo amavo. E perché sento che in questo breve tempo, anche tu lo hai amato. Vorrei parlarti di lui. —
Genere: Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ezio Auditore, Nuovo personaggio, Sofia Sartor, Yusuf Tazim
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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— Con l'arrivo dell'inverno, la gente preferì fronteggiare il freddo piuttosto che una minaccia invisibile e i Bizantini, improvvisamente spogliati della mantella del popolo come un albero in autunno,  si ritirarono nelle loro tane. Cominciammo a riconquistare terreno: riprese ogni attività di addestramento e Yusuf ebbe modo di organizzare una nuova ondata di reclutamento; costruimmo nuovi Covi riconquistando la maggior parte di quelli vecchi e nel frattempo sfoltivamo le file Templari, ma ben presto la paura di essere accerchiati li fece esplodere e in una notte accadde più di quello che era accaduto in un anno. —

 

 

Istambul,

Cha`bân 916

(Dicembre 1510)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a neve cadeva placida sul Corno d’Oro.

Il porto di Galata era silenzioso, una notte calma dove persino il vento non si permetteva un solo sussurro, e tra le strade nessuna creatura osava sfidare quel freddo, reso ancor più insopportabile dall’aria secca ed immobile.

Un drappello di guardie si stava scaldando attorno ad un focolare nei pressi della grande torre. Il vecchio Giannizzero si preoccupava di tenere vive le povere fiamme, mentre il miliziano e l’èlite battevano i piedi a terra con le mani sotto le ascelle, ridacchiando sottovoce a proposito dei baffi congelati del loro compagno agile.

— Questo freddo è arrivato troppo presto, dannazione, —  borbottò cupo il Giannizzero, aprendo i palmi guantati sul focolare.

— Già, ma se in quel fuoco non ci mettete altra legna, effendi, sarà lui a spegnersi troppo presto, — ironizzò l’agile.

— E allora perché non ti scaldi un po’ correndo a prenderne dell’altra, salak! — fu la risposta.

Quello scattò all’istante, scomparendo senza un suono nel fitto della notte.

— Beato Izgü: almeno lui non affonda nella neve, — commentò l’èlite irrigidendo la presa sulla lancia che il gelo aveva attaccato alla sua mano. — Io con quest’armatura cammino due piedi più in basso di lui! —

— Certo, ma spera che quel menomato torni prima di congelarsi, — disse il miliziano.

Il Giannizzero si limitava a sentire i loro discorsi, che era ben diverso dall’ascoltarli. Le orecchie nascoste sotto la maschera decorata erano tese su quello che lo circondava. D’un tratto colse un debole scricchiolio della neve venire dal cimitero, e pensò che si trattasse del suo uomo che si riuniva al comando, ma dalla nebbia emersero due figure incappucciate di bianco che, di corsa, sparirono nuovamente nella foschia.

— Assassini! Maledetti bastardi, ci accerchiano! —  ruggì l’èlite portando avanti la lancia e preparandosi a combattere.

— No, guarda, stanno fuggendo! Effendi, inseguiamoli! —  sopraggiunse il miliziano sfoderando la spada d’ordinanza ottomana.

— No, stolti! —  sbottò il Giannizzero. — Bayezid non desidera che s’infastidiscano i suoi misteriosi ma preziosi alleati, a meno che essi non ingaggino per primi. Voltatevi da un’altra parte e trovate un modo per riscaldarvi che non sia spargere sangue. Razza di dementi…—  dicendo così, tornò a fissare in silenzio le misere fiammelle scoppiettanti.

Il miliziano sbuffò. — D’accordo, ma perché Izgü ci sta mettendo tanto? —

 

L’Assassino gettò altra legna al fuoco nel grande camino del salottino comune, e le fiamme si gonfiarono sopra ogni misura esplodendo in un mare di scintille.

— Per Ahura Mazdā! — imprecò la voce di Sami, dall'alto del pianerottolo che gli Assassini avevano adibito a zona per la fabbricazione delle bombe, e sobbalzando sulla sedia. — Stiamo cercando di concentrarci, qui! Chiunque tu sia, puoi fare più piano?! —

— Ti conviene tenere la bocca chiusa, dottore: sai meglio di me che la datura rovina i denti, e il sorriso annerito non è di gusto alle signore, —  sghignazzò Kasim senza voltarsi, fissando le lingue di fuoco che si arrampicavano sui tocchi freschi.

Sami alzò gli occhi al cielo, trattenendo a forza l'impulso di lanciargli dritto dritto su quella sua bella testa folta la bomba ad innesco che aveva tra le mani. Mordendosi le labbra, tornò seduto composto al tavolo da lavoro, circondato dagli appunti che Piri aveva ceduto alla Confraternita. Da forse più di un'ora, ormai, era alle prese con un involucro a innesco lento che non ne voleva sapere di aprirsi; tanto meno esplodere. Fortunatamente aveva fatto cilecca durante un’esercitazione, ma pur di non buttar nulla Yusuf aveva convocato un'assemblea straordinaria nel cortile degli allenamenti chiedendo se c'era qualcuno disposto ad occuparsi degli ordigni difettosi.

— Ho cucito la pelle di tutti voi almeno dieci volte. Con le istruzioni del viaggiatore, Maestro, posso occuparmene io, — aveva esordito il medico. La mano meticolosa di chi dava ago e filo a carni e tendini non era poi tanto diversa da quella di chi di filo faceva stoppini da innesco.

— Perfetto, allora prepariamoci a sgombrare il Covo, fratelli! — aveva detto Kasim, come suo solito, suscitando le risate degli altri Assassini.

Tünay, una veterana madre della Confraternita, li aveva messi subito a tacere così: — E io ho cucito i vostri pannoloni quando non eravate altro che lattanti piagnucolosi che cadevano dagli alberi come piccole scimmie tonte, razza di ingrati! Se siete ancora vivi e tutti interi è merito di quest’uomo. —

Tra i due era nato del tenero, inutile negarlo.

— Passami la tenaglia, cara. — disse Sami senza staccare gli occhi dall'innesco; da qualche anno si aiutava con delle lenti doppie appoggiate al naso sotto un ponticello di rame.

La donna sedeva di fronte al medico e gli allungò l'attrezzo con un po' d'incertezza.

— Lo stoppino del mio paziente è rientrato nell’involucro. Proverò ad estrarlo senza aprire. — spiegò lui.

Erano l'unica presenza viva in tutto il Covo, se non si contava il vagabondare di Ràhel con in braccio un gatto che aveva trovato durante il suo turno di guardia o lo studiolo dove il Maestro era chiuso ormai da ore a revisionare le ultime cartine di Piri, arrivate al Covo quella mattina, fresche fresche, in risposta ai rilievi topografici fatti dagli Assassini in missione nel Mediterraneo.

Un rombo di stivali sulla passerella di legno destò i tre Assassini dai loro compiti e sull’ingresso del salotto si affacciò Amir, ancora col cappuccio alzato e della neve sui vestiti.

— Sami, dov’è il Maestro? — domandò. Aveva le labbra violacee, il naso arrossato e gli occhi lucidi per via dell’improvviso sbalzo di temperatura. Il tono di voce tradiva una gran preoccupazione, oltre alla fretta, e dietro di lui c'erano l'Assassina Nalan e l’Apprendista Fitnat con un aspetto e un’espressione non da meno.

— Nello studiolo. È stato lì tutto il giorno. — rispose il dottore senza staccare gli occhi dal lavoro.

— Penso ci sia Ràhel, con lui. — aggiunse Kasim con una risatina sommessa. — Perciò meglio se ci vai da solo e lasci le signore a scaldarsi un po'. — disse languidamente, facendosi da parte per creare posto davanti al camino. Fitnat accolse l'invito con un sorriso, abbassandosi il cappuccio sulle spalle. Un taglio maschile di capelli scuri incorniciava un viso da bambola dalle labbra carnose. Ma tutta la roba che aveva addosso, tra equipaggiamento e strati d'abiti, non era sufficiente a camuffare il seno abbondante che attirava lo sguardo di Kasim come una falena alla fiamma. Intuendo i prossimi sviluppi, Nalan raggiunse il camino in sole due falcate di gambe, frapponendosi con fare materno tra la sedicenne e lo scapestrato Assassino, a cui scoccò un'occhiataccia.

Nel frattempo Amir era scattato di corsa sulla passerella e giunse nella biblioteca dopo aver seminato neve lungo tutta la strada. Spalancò la porta dello studiolo di Ishak senza neanche bussare. L'improvvisa corrente d'aria scaraventò in faccia al Maestro le cartine che aveva davanti, spegnendo anche buona parte delle candele messe a far luce.

— Perdonami. — disse il siriano, imbarazzato, sentendo ridere da qualche parte. Amir cercò Ràhel solo con la coda dell'occhio e la trovò seduta su una pila di libri in un angolo dello studiolo. Teneva tra le braccia un gatto grigio e paffuto che faceva grasse fusa.

Non senza un po' d'impaccio, Yusuf riuscì a riarrotolare o distendere le cartine, e quando finalmente poté guardare l'amico in faccia disse: — Una certa fretta è sinonimo di una certa urgenza. —

— Invero. — Amir avanzò con aria grave. Era stravolto, il viso segnato dalla stanchezza, e ancora batteva leggermente i denti. Con lui era entrato anche inverno.

— I Bizantini. — disse, sembrando attirare persino l'attenzione del gatto che smise improvvisamente di fare le fusa.

— So dove dobbiamo colpire. —

 

La barchetta che li stava traghettando sull’altra sponda del Corno d’Oro avanzava placidamente nell’acqua scura. Tutt’intorno la foschia aveva inghiottito gli orizzonti e in quella notte buia ci si orientava solo grazie ai minareti illuminati di Hagia Sophia, la cui cupola coperta di bianco emergeva dalla nebbia. Non c’era un soffio di vento e la vela latina ammainata aveva permesso alla neve di ghiacciare l’albero e accumularsi sul fondo dello scafo. Senza parlare dei banchi, che quando i tre Assassini vi si erano seduti, avevano rischiato di rimanervi attaccati.

L'immortale traghettatore fidato della Confraternita era al timone, e avvolto in spesse pellicce, manteneva il silenzio al pari di un muto.

— Hai lasciato qualcuno sul posto? — domandò Yusuf, l'unico di loro a non indossare il cappuccio.

— Varsos. — la risposta secca di Amir.

— Da solo? —

— Ho detto a Serdar di raggiungerci. —

— Tutto qui? — obbiettò Yusuf senza riuscire ad aggrottare le sopracciglia intorpidite dal freddo.

Il Maestro di Imperiale annuì. — Un paio di calzari di troppo fanno scricchiolare il pavimento. Ho pesato le nostre forze al granello. —  disse e si voltò a guardare il riflesso nell'acqua della lanterna che portava in grembo.

Yusuf si esibì in una smorfia, e neppure quella gli riuscì come si deve per via degli zigomi intorpiditi. — Allora forse non avrei dovuto finire quei baklava... — borbottò, ottenendo come risposta ad una delle sue immancabili battute di spirito per alleggerire la tensione solo un'occhiataccia dal siriano.

— Fa troppo freddo, —  mormorò Ràhel nascondendo le mani tra le cosce. — Mi auguro che Varsos non sia morto congelato. —

 

Attraccarono silenziosi come anime al distretto nord di Bayezid, che li accolse avvolto da una fitta nebbia. Amir balzò come un gatto sul molo e vi assicurò la barchetta, dopodiché allungò una mano a Ràhel che l'accettò senza allontanare quella libera dalla balestra sotto al mantello.

Yusuf si alzò in piedi sul banco e si guardò attorno: contò una pattuglia di guardie, un mendicante a chiedere loro la carità e un cane accucciato sulle scale che portavano in strada.

— La via è libera. —  lo rassicurò Amir dalla banchina.

— Da quanto ho capito ci giochiamo tutto in questa missione, Amir. Permettimi di essere un po' più ansioso del solito. — disse Yusuf portandosi con un balzo fuori dall'imbarcazione, ma qualcuno dei suoi muscoli lo tradì prima di toccare terra e aveva già un terzo della mantella in acqua quando il siriano lo afferrò saldamente per un braccio.

— Concesso. — disse Amir tirandolo su. — Ma sappi che sei in buona compagnia. —

 

Salam,  guasta sonno. —

Il gruppo, con Amir in testa che li guidava e Yusuf a chiudere la fila, si fermò per accogliere Serdar, che si unì a loro con i vestiti pieni di neve emergendo da un vicolo avvolto dalla nebbia.

Yusuf lo guardò, interdetto, ma poco dopo gli sfuggì un risolino. — Che razza di ingrato: ti è sempre piaciuto essere al centro dell'azione. Come minimo ti toccava un turno di guardia, altrimenti. — 

— Sì, al mio cuscino. — rispose Serdar con uno sbadiglio, e si rimisero in marcia.

Si spostarono a piedi durante tutta la traversata della città. Le strade erano desolate e dovevano sforzarsi di essere altrettanto silenziosi sulla neve che crepitava sotto il peso consistente delle armi che avevano addosso. Usare la via dei tetti avrebbe significato sfidare la sorte e il suo servo invernale: il ghiaccio.

Superato il distretto di Costantino continuarono verso sud-ovest e, quando videro delinearsi le mura della città, si fermarono. Qui un piazzale rialzato ospitava un piccolo martyrion incastrato tra gli edifici. Il tempietto aveva una pianta a croce centrale e terminava con una cupoletta coperta di neve. Varsos non c'era.

— Dannato di un greco. — borbottò Serdar, che non era mai riuscito a farselo piacere fin dai tempi di Salonicco.

— Non può aver lasciato volontariamente l'appostamento. —  mormorò Amir, perplesso. Si voltò a guardare Yusuf con gli occhi cerchiati dalla preoccupazione. — È successo qualcosa. —

Serdar, le sopracciglia aggrottate sotto il cappuccio, si guardava attorno come senza capire cosa stesse succedendo e perché. Fece per domandare qualcosa ma poi un fischio che sarebbe potuto passare per il verso di un rapace attirò la loro attenzione, e i tre Assassini guardarono in alto.

Ràhel, in cima al martyrion, faceva loro cenno di raggiungerla.

 

— Tre sul quel tetto, uno ad ogni angolo. Due più a sud, senza torce e fuori dalla portata dei bracieri. L'edificio ha solo tre lati esposti, il quarto appoggia contro le mura, perciò se supponiamo che ce ne sono almeno due a terra e due al primo piano, moltiplicati per tre danno... —

— Un sacco di maledetti bastardi. E senza neanche contare quelli all'interno. — commentò Serdar, interrompendo la ragazza. — È un suicidio, Amir! Che cavolo ti è saltato in testa?! —

— Non ce n'erano così tanti. — si difese il siriano.

— Avranno chiamato rinforzi da altri covi più piccoli. — ipotizzò Yusuf.

— E perché mai avrebbero dovuto?! Un torneo di dama?! No, maledizione! Qualcuno li ha informati! — Serdar era sempre più isterico e come per tappare una damigiana che sta straripando Amir gli poggiò una mano sulla spalla.

— Impossibile. Abbiamo organizzato la missione solo poche ore fa e ne abbiamo parlato solo tra di noi. — replicò Yusuf.

— Hanno beccato Varsos. —

I tre si voltarono a guardarla e Ràhel sostenne i loro sguardi con serietà.

— Non fa una piega. — mormorò Amir.

— Quindi è una vendetta. — disse Yusuf, ricordando il povero cane che il siriano e i suoi avevano pescato nelle macerie del Covo di Imperiale nell'autunno precedente. Cercò gli occhi di Amir, che però scosse la testa.

— No, stavolta è diverso. — disse. — Tutti quei soldati là di guardia significano una sola cosa: non vogliono che ce lo andiamo a riprendere. —

— Perciò finirà anche in modo diverso. — concluse Ràhel caricando la balestra.

 

L'edificio dove i Bizantini si erano asserragliati era una vecchia residenza nobiliare, si capiva dai decori sugli archi alle finestre e dal portico colonnato che precedeva l'ingresso girando ad elle verso il lato esposto a sud; aveva forma rettangolare e sviluppava in altezza di due piani. Una delle quattro facciate, come aveva fatto notare Ràhel, coincideva con la cinta muraria della città, ma quando gli Assassini si avvicinarono notarono che c'era lo stesso spazio sufficiente a far passare un uomo. Non c'era neanche una guardia a presidiare quel lato della palazzina e quando Amir arrivò in fondo al vicolo si affacciò in strada. Lì, invece, nel chiarore di due fiaccole si scaldavano davanti al braciere ben tre uomini armati. Il siriano studiò con attenzione i rigonfiamenti sotto le loro mantelle pesanti e capì che uno di loro portava una balestra leggera simile a quella di Ràhel, mentre gli altri due avevano spade comuni e forse qualche coltello nei gambali. Mentre percorreva il vicolo all'inverso per tornare verso il punto di raccolta con gli altri Assassini, si accorse di qualcosa che non aveva notato prima. Era acqua e sembrava scorrere dentro la pietra solida del muro di cinta. Amir vi poggiò una mano e continuò a camminare, sentendo la corrente  crescere d'intensità sotto ai polpastrelli man a mano che avanzava, finché, più o meno a metà del vicolo, il muro finì improvvisamente e la mano affondò nell'oscurità. Il rumore dell'acqua era fortissimo.

 

— No, non posso fare nulla. —

Finalmente Ràhel abbassò la balestra, dopo un tempo infinito trascorso a puntare il mirino sul tetto del palazzo dove i tre bizantini si spostavano in continuazione senza fornirle neanche l'ombra di un bersaglio pulito.

Yusuf, con un ginocchio a terra al suo fianco, sospirò. Si era alzato il cappuccio sulla testa come non faceva da anni e solo perché aveva incominciato ad abbassarglisi l'udito, tanto si erano congelate le orecchie. — Ci vorrebbe un'esca. — disse a un tratto. Scambiò un'occhiata con Serdar alle sue spalle, ma quello distolse lo sguardo quasi subito, tornando a studiare gli spostamenti delle guardie bizantine in strada.

— La Gilda dei Ladri è troppo… — disse Ràhel.

Il Maestro la interruppe. — Non se ne parla. L'avete sentito, Amir, no? Un paio di calzari in più… —

— Non ti fidi della discrezione di Latif? — gli chiese Ràhel, alzandosi in piedi per sistemare la balestra sotto la mantella. — O di Latif e basta? —

In sottofondo, il borbottio di Serdar che diceva: "E poi sei tu il Maestro… perciò decidi tu come si fa la missione…"

Ma Yusuf finse di non averlo sentito e roteò gli occhi al cielo. — Seriamente, Ràhel. Non voglio coinvolgere nessun altro in questa storia. — quando però tornò a guardarla, notò che l'Assassina fissava un punto tra i tetti vicini e seguì il suo sguardo.

— Parli del Diavolo… — disse Serdar, rompendo il silenzio pieno di sgomento.

Nel frattempo Amir si era riunito a loro scalando la palazzina sul lato opposto. Disse di aver trovato un accesso discreto al Covo ma quando anche lui si accorse che avevano compagnia, parve esserne l'unico entusiasta e non si trattenne dal ringraziare il suo Dio.

 

— Non mi sento più le dita dei piedi. — sbottò d'un tratto Serdar mentre procedevano con l'acqua gelida alle caviglie.

Yusuf, in testa al gruppo con una torcia, rispose senza voltarsi: — Non dirmi che avresti preferito fartele tagliare da tutti quei Bizantini là fuori ad aspettare solo noi. —

— Forse sì, Maestro. — bofonchiò l'altro.

Amir si fermò, bloccando anche chi era dopo di lui, e allungò una mano a stringere la spalla di Yusuf davanti a sé. — La torcia. — disse solo e il Maestro la fece annegare nell'acqua. L'oscurità piombò di colpo mentre una trentina di passi più avanti una nuova fonte di luce fendeva le tenebre, delineando la figura, piccola per la distanza che li separava, di un uomo armato e in uniforme. Questi sollevò la torcia che aveva con sé nella loro direzione e gridò: — Chi c'è?! — mentre la mano libera correva all'elsa della spada.

Ràhel aveva già liberato la balestra dalla mantella quando Amir le sfiorò appena un braccio, intimandole di attendere. In fondo al gruppo, Serdar fece un'imitazione perfetta di un ratto e l'uomo parve rilassarsi: abbassò la torcia e lasciò ricadere la mano libera lungo il fianco. Appena quello diede loro le spalle, Amir liberò il braccio della ragazza.

Solo un leggero vibrare di corda e il fruscio di una piuma.

Videro la torcia cadere in acqua, attesero qualche istante nel buio e nel silenzio più totale e poi raggiunsero il cadavere. Un quadrello pennato piantato nella nuca, gli occhi ancora aperti. Lo perquisirono, ma non trovarono nulla di interessante a parte un gingillo appeso al collo: una comune croce latina intagliata in un dischetto d'avorio.

Ràhel, partita in avanscoperta appena avevano fatto secco il bizantino, tornò in quell'istante dicendo che svoltato l'angolo (e indicò da qualche parte nell'oscurità) erano ufficialmente dentro il Covo Templare.

 

— Ce l'hai ancora un po' di vino? —

— No, mi spiace. —

— Non raccontare balle, dai! Passamelo o ti pesto a sangue. —

I suoi ragazzi erano in posizione dall'altra parte della strada, Latif li distingueva appena nascosto nel covone di fieno, e attendevano il suo segnale. Il Ladro aveva aspettato di vedere gli Assassini scomparire nel vicolo che li avrebbe condotti alla terme del palazzetto e poi aveva iniziato a contare per dar loro il tempo di riuscire ad insediarsi nel Covo bizantino, prima che là fuori scoppiasse l'Inferno.

E Latif aveva un'idea tutta sua dell'Inferno.

— Allora, questo vino?! —

— Non lo trovo, amico. —

— Non prendermi per il culo! —

— Ti dico che non ce l'ho più! È… scomparso! Credimi! —

— Credimi un paio di palle! Vieni qua e fatti strizzare, così vediamo da dove ti salta fuori! —

— Non t'avvicinare, stronzo! —

La rissa era incominciata e la conta di Latif andava avanti, mentre il ladro si godeva lo spettacolo dal torpore della paglia e ogni tanto prendeva un sorso.

 

Le piccole terme private del palazzo erano collegate alla rete acquifera della città attraverso uno stretto canale sufficiente a farli passare, ma gli Assassini avevano capito che si trattava di qualcosa non esattamente legale, insomma, perché vi si accedeva direttamente dalla strada. Forse più che di vere e proprie terme si trattava di un'uscita di servizio voluta dal proprietario della tenuta, che secondo le loro fonti era morto nel terremoto con tutti gli eredi. Doveva essere stato allora che i Bizantini vi si erano insediati, approfittando del caos di quei giorni dell'Apocalisse in cui niente era di nessuno e tutto era di tutti. La facciata esterna aveva conservato miracolosamente la sua integrità, ma l'interno era stato devastato e i Bizantini non si erano certo dati una gran pena per rimetterlo a posto. I saloni erano disseminati di detriti e invasi di impalcature. Calcinacci, mattoni, tegole e vetri rotti facevano capolino ovunque.

Amir e Serdar avevano raggiunto il pian terreno, passando attraverso una botola che collegava le "terme" alla cantinetta soppalcata. Lì avevano trovato ad attenderli solo due uomini intenti in una partita a scacchi, del quale ad ogni mossa schernivano i pezzi del gioco perché diversi da quelli "occidentali" con cui erano abituati.

— E questo sarebbe un Vescovo? A me pare più un mulattiere! —

Era stato così facile neutralizzarli che Amir non ci aveva neppure provato gusto. Avevano occultato i cadaveri dietro un muro di sacchi di iuta e solo in quel momento si erano accorti che la cantina era piena di materiale bellico. C'erano dozzine di barili di polvere da sparo e tante casse d' armi da favorire un esercito. Prima di lasciare la cantina, Serdar gliene aveva indicata una piena di esplosivi simili a quelli che stavano costruendo con l'aiuto di Piri.

 

Al pian terreno la situazione era ben diversa. C'erano in tutto quattro uomini, dei quali soltanto uno non sembrava armato fino ai denti, portando giusto una spada corta legata al fianco. Yusuf e Ràhel dovevano trovare il modo di salire al primo piano senza ingaggiare battaglia. I detriti sparsi sul terreno facevano di ogni passo una scommessa, ma i pezzi più grossi offrivano ottimi ripari e i due Assassini, favoriti dalla penombra, cominciarono a muoversi con cautela verso le scale.

Latif se la sta prendendo comoda, pensò Yusuf, ma proprio in quell'istante fece capolino nel salone una guardia giunta di corsa dal cortile.

— La Gilda dei Ladri ha ingaggiato coi nostri sul lato ovest! Ci servono rinforzi! —

— Ratti schifosi! —

— Se ne pentiranno amaramente! —

Due dei quattro uomini seguirono la guardia fuori dal palazzo.

Ràhel scattò, attraversando il salone in corsa, e si avventò come una lince sul più distante degli uomini rimasti a presidiarlo. L'altro avvertì lo spostamento d'aria e si voltò, le dita già strette attorno all'elsa della spada, ma fece solo in tempo a prendere fiato prima di ritrovarsi la lama di Yusuf nella gola. I due Assassini si scambiarono un'occhiata di ammirazione reciproca, dopodiché occultarono i cadaveri dietro i resti di una tenda nell'angolo più buio. Nel frattempo Amir e Serdar li avevano raggiunti, comparendo nel salone da una porticina accanto al camino diroccato, e salirono tutti assieme le scale di pietra che portavano al secondo piano. A metà della rampa Serdar fece due passi sul muro e saltò sul grande lampadario che pendeva sopra le loro teste con l'agilità di un gatto, e da lì zompò dentro una stanza del secondo piano attraverso un buco nella parete. Amir arrivò in cima alle scale e svoltò a destra; Ràhel e Yusuf tennero la sinistra per poi dividersi a loro volta sull'ingresso per la biblioteca, la cui porta era solo accostata. Voci dall'interno ma Yusuf non fece in tempo ad ascoltare perché la sagoma di una guardia armata si delineò improvvisamente nell'angolo del suo campo visivo, in fondo al corridoio. L'Assassino lanciò un pugnale, d'istinto e quasi alla cieca, e Amir arrivò in tempo ad abbracciare il cadavere per adagiarlo a terra senza chiasso.

Yusuf distingueva solo due voci, ma non era certo che nella biblioteca ci fossero altrettanti uomini armati. Pensò di lanciare una bomba fumogena e fare irruzione nella stanza favorito dalla cortina di fumo, ma l'esplosione avrebbe attirato l'attenzione delle guardie ancora fuori dal palazzo che in un batter d'occhio si sarebbero riversate lì come formiche, a meno che Latif non avesse fatto bene la sua parte… e quella notte Yusuf non era in vena di scommesse. Guardò Amir, inginocchiato al suo fianco, che spiava concentrato dallo spiraglio della porta. Una solitaria goccia di sudore gli scintillava sulla tempia.

Quando Amir era entrato nello studiolo di Ishak, qualche ora prima, e aveva detto di essere riuscito a rintracciare la mano che tendeva i fili della rivolta bizantina, la determinazione di sempre brillava nei suoi occhi proprio come adesso brillava quell'unica goccia di sudore… Dal momento in cui aveva autorizzato la missione, Yusuf non aveva dubitato neppure un attimo di lui, ma ora quella goccia, così insignificante, lo faceva riflettere sul rischio che avevano corso sfidando la sorte e le forze bizantine più alte di numero rispetto alle loro aspettative. Uno di loro era stato fatto prigioniero o forse ucciso. I più alti ranghi della Confraternita e il Maestro stesso erano impegnati in quella missione che si stava tessendo tra due foglie secche. Una folata di vento avrebbe potuto spazzarli via tutti.

Yusuf scacciò quei pensieri prima di attirare la disfatta che tanto lo angosciava e si concentrò sui due uomini  che parlavano nella biblioteca.

Il loro bersaglio di quella notte era un uomo senza nome e senza volto, un mercenario che aveva servito principi e Visir, tra cui gli stessi Davud e Mesih Pasha, e che ora guidava la rivolta bizantina contro la Sublime Porta con rabbia, muovendo contemporaneamente ai danni degli Assassini che per qualche ignoto motivo sembrava conoscere bene e odiare con tutto se stesso...

— Il problema non è il maltempo, ma i pirati. Quelle acque ne sono infestate. Abbiamo già perso due navi. Dobbiamo spostare gli uomini via terra. —

— E rallentarci ancora di più?! No, è inaccettabile. Gli Assassini sono deboli ORA. Ma già ORA lo sono meno di quanto lo erano pochi mesi fa. Non abbiamo tempo da perdere. —

— Sono in gioco vite umane. —

— Sacrificio accettabile. —

Yusuf indietreggiò, scostandosi bruscamente dalla porta come se scottasse, e appoggiò la schiena contro la parete opposta. Lì rimase a lungo immobile, pallido e muto come una statua, finché Amir non se ne accorse.

"Che c'è?" chiese il siriano muovendo solo le labbra.

Ma Yusuf non fece in tempo a rispondere.

 

Latif si scagliò sull'uomo-armadio che aveva davanti, arrampicandosi sulle sue braccia e gambe nerborute come sui rami di un albero, e una volta arrivato in cima sedette sulle large spalle. Sentendo la fredda lama premere sulla sua gola, l'uomo si irrigidì all'istante e mollò la spada corta che aveva nella mano destra. Attorno a loro, Latif vide che i suoi abili fratelli avevano costretto alla resa allo stesso modo o in modi simili i tre quarti delle forze avversarie, e non poté non compiacersene un po', sorridendo soddisfatto. Solo due damigelle bizantine erano ancora senza un cavaliere: un omino tozzo dall'elmo un po' stretto che tremava come una mosca ferita e un greco dalla faccia smilza come un chiodo. Quest'ultimo era il più vicino dei due all'ingresso dell'edificio e si buttò oltre la porta prima che qualcuno dei ladri di Latif potesse impedirglielo.

Yusuf mi ucciderà.

 

Ràhel estrasse la lama celata dalla nuca dell'unica guardia che aveva sorpreso a presidiare la camera dove scoprì che i Bizantini tenevano Varsos. L'Assassino era sdraiato sul pavimento col cappuccio calato, una zazzera riccia inconfondibile, privo di sensi e arrotolato in un lenzuolo macchiato di sangue. La ragazza si chinò su di lui e iniziò a scuoterlo, ripetendo il suo nome. Dietro di lei comparve Serdar.

— È morto. — disse.

— No. — obbiettò Ràhel, passando in rassegna la veste lacerata di Varsos in cerca dei segni del colpo mortale, ma quello che trovò furono solo costole incrinate, contusioni d'ogni genere e un braccio rotto.

Serdar s'inginocchiò accanto a lei e allungò una mano dietro al collo del ragazzo.

— È rotto. —

Fiare (bestie)… — Ràhel serrò i pugni, sollevandosi in un fruscio della mantella che scacciò all'indietro con un gesto nervoso per impugnare la balestra già carica. Poi uscì dalla stanza.

 

La guardia sbucò dalle scale come dal nulla e quando vide i due Assassini accucciati davanti alla porta della biblioteca si bloccò trattenendo il fiato per un lungo attimo e Amir e Yusuf non si accorsero in tempo di lui, che l'attimo successivo buttò fuori l'aria che aveva nei polmoni tutta in una volta.

— GLI ASSASSINI! SONO QUI! —

Serdar gli piovve addosso gettandosi dalla rampa delle scale e Ràhel si piazzò sul pianerottolo alle sue spalle, balestra spianata, pronta ad accogliere l'orda di guardie. Ormai il danno era fatto.

Amir e Yusuf si scambiarono giusto un'occhiata; poi si sollevarono il bavero sopra il naso e fecero irruzione nella biblioteca, gettando una bomba fumogena ciascuno. L'esplosione sincronizzata degli ordigni produsse un gran botto e la cortina di fumo si sollevò all'istante, inghiottendoli. Tra colpi di tosse e bestemmie, Yusuf contò rapido le figure evanescenti attorno a sé (cinque… no, sei uomini) e capì subito dalla stazza, alta e massiccia, chi di loro era il suo bersaglio. Fece per gettarglisi addosso, ma qualcosa gli colpì dolorosamente un fianco, costringendolo a cadere con un ginocchio sul tappeto. Qualcuna delle guardie presenti, lottando contro i colpi di tosse, agitava le armi, di qualsiasi tipo, verso qualunque cosa si muovesse. Yusuf aveva avuto la fortuna di ricevere solo il colpo dell'asta di una lancia e quando il suo aggressore fu a portata di braccio non esitò a colpire, affondando la lama celata.

 

Quell'attimo di distrazione in cui Latif aveva visto fuggire la guardia bizantina dentro il palazzo gli era stato fatale. L'uomo che aveva sotto di sé era riuscito ad assestargli una testata sul mento e Latif aveva visto le scintille mentre cadeva all'indietro da quasi due metri d'altezza. L'impatto col terreno gli aveva strappato un gemito sonoro che aveva attirato lo sguardo dei suoi fratelli, e qualcuno si era fatto scappare il controllo del proprio ostaggio. I Bizantini reagirono senza risparmiare neanche un colpo e in poco, pochissimo tempo la situazione fu completamente ribaltata.

Latif riuscì a mala pena a mettersi in piedi. La vista annebbiata e le orecchie piene di suoni. Qualcuno gli urlava di correre.

Un'esplosione.

Mentre si ritiravano, davanti a sé Latif vide solo un pugno dei suoi. Lottò per non cedere alla tentazione di voltarsi, ma poi, animato da una furia cieca, piantò i piedi a terra e tornò indietro, o quantomeno ci provò, perché uno dei Ladri se ne accorse e lo bloccò in tempo per un braccio. Ci vollero tre uomini per tenerlo fermo e quattro per riportarlo verso la Gilda, allontanandolo dal Covo dei Bizantini che altrimenti sarebbe stata la sua tomba. La tomba di tutti loro.

 

Il numero di guardie che accorsero sulle scale fu tale da suggerire a Ràhel che Latif e i suoi avevano lasciato la battaglia e con numerose perdite. Il più vecchio amico di Yusuf non avrebbe mai battuto in ritirata se non per un buon motivo, e quale motivo migliore del sangue dei propri fratelli colato a fiotti sulle fondamenta di quel palazzo? Per quanto ne sapevano gli Assassini, poteva esserci persino il cadavere del capo dei Ladri in persona, steso sulle gradinate all'ingresso; che adesso, completamente sguarnito, appariva perciò come un lusinghiero invito alla fuga…

Non appena Ràhel ebbe scagliato il primo colpo di balestra, Serdar la superò, gettandosi nella mischia con la lama corta in una mano e la lama celata sguainata al polso dell'altra per dare tempo alla ragazza di ricaricare. Insieme riuscirono a tamponare l'arrivo dei Bizantini dal piano terreno, ma poi le guardie sul tetto si calarono nell'edificio attraverso le finestre del terzo piano e gli Assassini capirono che ben presto si sarebbero ritrovati stretti tra due fuochi, impossibilitati a portare avanti il loro giochetto. Mentre lo scalpiccio di piedi sopra le loro teste si faceva sempre più forte, Ràhel caricò il penultimo quadrello che le restava e lo scoccò contro la parete delle scale, solo ritardando la salita dei Bizantini che ora si tenevano fuori dalla sua portata. Questo diede il tempo a Serdar di piantare una bomba a cavo sul pianerottolo e ai due di ripiegare verso la biblioteca, prima di sentire l'esplosione seguita da urla strazianti.

 

Amir si era aperto un varco nella nebbia della bomba fumogena, come da piano, e puntò verso i due uomini attorno al tavolo con le mappe. Yusuf però era rimasto indietro, trattenuto in combattimento dalle tre guardie che una volta smesso di tossire e lacrimare si erano gettate su di lui come se fosse il solo intruso lì dentro. Costretto ad accettare l'invito a quel ballo, Yusuf estrasse il lucente kijil di Teoman dal fodero: disarmò il primo, colpì mortalmente il secondo con un fendente lungo il torace e riuscì ad allontanare il terzo uomo da sé piantandogli una ginocchiata in mezzo al cavallo.

Amir estrasse la lama celata dal collo del secondo ufficiale bizantino in tempo per pararvi l'affondo di spada del leader della rivolta, che a differenza dell'altro avrebbe venduto cara la pelle. Il siriano indietreggiò di un passo, e riprendendo fiato osservò attentamente il suo avversario: un uomo sulla quarantina, stazza possente, muscoli allenati e molto più alto di lui, circa un metro e novanta; non indossava parti di armatura tranne per uno spallaccio e un cinturone a cui era appeso il fodero della spada, una lama non comune, sottile e dal taglio a mezzaluna. La pelle del viso era verdastra e rovinata, i capelli erano neri e corti e gli occhi, sottili e allungati, si nascondevano ben affossati sotto un paio sopracciglia folte. Una barba scura di qualche settimana gli ricopriva le guance scavate, ma senza riuscire a nascondere una profonda cicatrice biancastra che gli attraversava il volto passando per la palpebra destra.

A quel punto lo scontro riprese e la spada e la sciabola esplosero in una cascata di scintille, quando il capo della rivolta tentò per primo un affondo che il siriano parò quasi con facilità, ma il suo avversario rispose alla parata con altrettanta maestria, scivolando via senza far vibrare la lama, e ricaricando verso di lui con una traiettoria incredibilmente perfetta. Amir provò a mirare più in basso, costringendolo ad allungare le braccia, ma l'altro incastrò le loro lame e ruotò su se stesso riuscendo, nella risposta, a scoprirgli un fianco. Amir lottò per ricacciare indietro il disorientamento e ricostruì con foga la sua guardia, ma questo mandò al suo avversario un chiaro segnale di difficoltà. Il bizantino partì con mezzo secondo di vantaggio e come dal nulla il maestro spadaccino Amir ibn Saad perse la presa sulla sciabola, che finì ai piedi di Yusuf mentre questi affondava il Kijil nello stomaco dell'ultima guardia con cui aveva danzato. Il luccichio nell'angolo dell'occhio richiamò la sua attenzione e Yusuf si voltò. Da una parte Amir, disarmato e irriconoscibile per via del cappuccio e del bavero ancora sollevato, e dall'altra il suo passato assetato di sangue, l'uno di fronte all'altro. Quando capì cosa stava per succedere, era troppo tardi.

Dönek trafisse Amir, affondando la lama nelle vesti che Maestro Assassino e Maestro della Confraternita avevano così simili da rendere quasi impossibile una distinzione. Dönek, invecchiato sopra ogni dire e avvolto nella porpora bizantina, si chinò a mormorare qualcosa nell'orecchio dell'Assassino e Amir spalancò gli occhi, gonfi di lacrime di dolore che tratteneva appena. Il metallo si era incastrato tra le costole, e Amir poteva sentirlo, gelido, continuare a premere. Con una spinta, poi un’altra ancora, Dönek ruppe quell’ostacolo, scavando tra i suoi organi finché la punta e buona parte della lama non riemersero dall’altra parte. Poi, con uno strattone, richiamò brutalmente la sua spada e guardò il corpo del siriano accasciarsi sul tappeto in una pozza di sangue. Dönek rilassò i muscoli delle braccia e lasciò pendere la spada mollemente al suo fianco. Il sangue fresco scivolava lungo il filo della lama e si raccoglieva sulla punta, dalla quale poi gocciava sul tappeto. Sulla faccia un'espressione indecifrabile, gli occhi gialli che nel combattimento avevano brillato di esaltazione e furia folle erano ora spenti, vuoti e freddi come una stanza dove l'inverno fosse libero di circolare.

Li separavano pochi metri, ma Yusuf non riusciva a muovere un muscolo. Il silenzio della sua mente era sconvolgente, suoni e immagini attorno a lui non erano altro che aria vuota e macchie di colore sovrapposte. Non c'era senso in ciò che aveva visto. Non poteva essere vero. Non poteva essere reale. Cose del genere, nemici o figure ancestrali che riemergevano dal passato si vedevano solo negli incubi dai quale ci si risvegliava nel cuore della notte, grondanti di sudore e alle volte urlando. Guardò Amir: era ancora vivo, ma respirava a fatica e il sangue si allargava sulle sue vesti e attorno a lui come un lenzuolo. Poi guardò Dönek, che girò appena la testa verso di lui, e i loro occhi rimasero incatenati per un istante infinito.

Ma quale incubo? Yusuf era sveglio ed era tutto vero.

Un'esplosione scosse l'intero edificio e fu in quel momento che Ràhel e Serdar comparvero sulla soglia della biblioteca.

Dönek non perse tempo e corse verso una parete coperta da tende, tuffandovisi contro. Le persiane della finestra nascosta dall'altra parte andarono in frantumi e Dönek, avvolto dalle tende che aveva portato con sé all'esterno dell'edificio, atterrò in strada in una pioggia di schegge e pezzi di legno. Le due esplosioni precedenti avevano già svegliato una gran fetta di vicinato, fatto abbaiare un numero anche maggiore di cani e avvertito una dozzina di pattuglie di Giannizzeri, alcuni dei quali si trovavano ora ai piedi del palazzo, e così, quando Dönek si liberò delle tende che lo avvolgevano mostrando i colori bizantini alla luce delle fiaccole dei Giannizzeri, quelli sguainarono i kijil e fecero per accerchiarlo, ma l'uomo riuscì ad aprirsi un varco, cavandosela giusto con una brutta botta, e corse via nella notte.

— Yusuf, no! — il grido di Ràhel, mentre Serdar si chinava sul corpo esanime di Amir e il loro Gran Maestro si lanciava all'inseguimento saltando dalla stessa finestra.

 

Dönek era veloce così come Yusuf lo ricordava: niente di quello che aveva addosso lo rallentava nella corsa o lo arrestava nei salti, sempre lunghissimi e calcolati con una precisione matematica per la sicurezza con cui atterrava sui tetti. Sembrava riuscire a non scivolare sul ghiaccio solo grazie ad ali invisibili e membranose di demone che portava sulla schiena e che la maledizione che gli era stata inflitta quand'era bambino gli aveva donato. Nonostante frapponesse diversi impedimenti tra loro, Yusuf trovava sempre una strada alternativa, ma non riusciva a guadagnare terreno. L’Assassino conosceva quella città come le sue tasche, ormai, ma Dönek, che aveva continuato a viverci pur nella condizione di reietto, poteva vantare nelle fughe un’esperienza ben maggiore. Tra un salto e l’altro riaffiorava un nuovo fantasma, il cui ricordo spingeva con forza il cuore contro il petto. Da ragazzi avevano guardato lo stesso cielo, respirato la stessa aria di guai; erano sfuggiti alle stesse guardie, avevano mangiato dallo stesso piatto come fratelli… eppure la competizione, la rivalità di quella corsa li avvicinava come non mai…

Ma l'incubo stava per finire. Quella volta Yusuf non gli avrebbe dato la possibilità di sottrarsi al destino, di scomparire e riemergere ancora dalle ombre del passato. Quella notte Dönek avrebbe cessato di esistere e con lui i dolori e i rimpianti che si trascinava dietro da una vita.

Fu con queste premesse che raggiunsero i resti dell'antico Ippodromo romano, nel cuore del distretto di Imperiale sud. La corsa attraverso la città aveva svuotato i polmoni e distrutto i muscoli di entrambi e perciò si fermarono quasi nello stesso momento a riprendere fiato, l'uno a pochi metri dall'altro come pochi attimi prima nella biblioteca del Covo bizantino. Yusuf si appoggiò con le mani alle ginocchia senza distogliere lo sguardo dalla schiena dell'altro e si accorse di tremare dalla stanchezza, di avere le orecchie tappate e vederci quasi doppio. Il cuore gli batteva all'impazzata nel petto e la gola sembrava in preda alle fiamme di un incendio. Poi d'un tratto Dönek si voltò, i loro sguardi s'incrociarono di nuovo, e scoppiò a ridere, una risata così acida da stappargli finalmente le orecchie. Yusuf si sollevò lentamente, sentendo ossa scricchiolare e muscoli supplicare pietà, e ricominciò a muoversi, prima zoppicando e poi correndo verso di lui. Dönek rimase ad attenderlo dov'era e quando Yusuf sguainò il kijil con una sicurezza invidiabile, continuando ad avanzare verso di lui ora coi passi decisi di un boia, il sorriso di Dönek si tramutò in una smorfia grottesca, mentre estraeva la spada ancora macchiata del sangue di Amir.

— Sono stufo di rincorrerti, maledetto bastardo! — gridò l'Assassino, sgolandosi. — Affrontami! —

Quando Yusuf l'ebbe raggiunto e lo scambio di colpi iniziò, capì di essere spacciato. Dönek lo superava in altezza di pochi centimetri, ma la sua massa muscolare era infinitamente più sviluppata, l'ombra che la luna proiettava sulla ghiaia dell'Ippodromo più ampia della sua quasi aspettasse di inghiottirla. Dopo neanche un minuto Yusuf perse il kijil, che schizzò sulla ghiaia facendo scintille, e ricevette un pugno che lo fece ruotare su se stesso facendogli perdere l'equilibrio, ma Dönek non gli concesse neppure il lusso di cadere e trovare sosta a terra, e afferrandolo per le vesti lo scagliò contro il duro travertino delle gradinate. Yusuf non fece in tempo a prepararsi e il colpo fu violentissimo: sentì il sangue colargli sul mento dal labbro spaccato e lungo il collo da un punto imprecisato della testa. Con la vista appannata, vide Dönek gettare via la sua spada. Aveva scoperto che sentire le ossa rompersi contro le sue nocche gli dava molta più soddisfazione, e quindi cominciò ad assestargli una serie di pugni allo stomaco, facendo lunghe pause tra un colpo e l'altro perché la stanchezza cominciava ad indebolirlo. Fu proprio durante una di quelle pause che Yusuf riuscì a frapporre una gamba tra loro e a calciare via il suo assalitore. Dönek si risolse in una capriola all'indietro sul terriccio, inciampando nella sua stessa mantella di cui si sbarazzò all'istante, e quando si fu rimesso di nuovo in piedi, dopo giusto un attimo di esitazione, si gettò verso le gradinate in cerca della fuga.

— Non di nuovo! — Yusuf gli si fiondò dietro e riuscì a raggiungerlo quasi sulla vetta; fece scattare la lama uncinata, che s'incagliò nelle vesti dell'altro aprendo un grosso squarcio, ma non appena se ne accorse, Dönek gli afferrò la mano, gli rivoltò dolorosamente il braccio e tra urla lancinanti lo attirò a sé. Poi, con gli occhi fuori dalle orbite per lo sforzo di tenere l'Assassino sospeso sopra le alte gradinate dell'Ippodromo, disse:

— I Templari mi hanno aiutato più di quanto abbia fatto tu, perciò non ho rimpianti per quello che ho fatto per loro! —

— Che cosa hai fatto, Dönek?! —

Un'ombra scurì il giallo dei occhi, solo un attimo di esitazione, ma poi i muscoli delle braccia cedettero.

— Addio, Yusuf! —

E lo lasciò cadere.

 

Si riallacciò la mantella sulle spalle e recuperò la sua spada, che però Dönek non rinfoderò subito. Si voltò a guardare il corpo di Yusuf in posa disfatta sul terriccio dell'Ippodromo. Era solo svenuto, il torace si alzava e si abbassava con regolarità dentro la lana pesante dell'uniforme degli Assassini e una nuvoletta di condensa appariva e scompariva sotto al suo naso. Mancavano ancora molte ore all'alba, ma quella sarebbe stata la notte più fredda di tutto l'inverno. Dönek inspirò l'aria gelida a pieni polmoni e poi andò verso di lui..

— Non sono stato io ad uccidervi, Yusuf. Nessuno di voi. Tua madre, tuo padre, i tuoi amici, e ora te. E' stata la tua Confraternita. — sollevò la lama, sospendendola sopra il cuore dell'altro. — Ti ha ucciso ciò che sei, ciò di cui fai parte, non io... — gli tremavano le mani mentre alzava ancora di più la spada, trattenendo a stento le lacrime che adesso gli annebbiavano la vista. — Non io... non io… — ripeteva tra i singhiozzi. — Perdonami, fratello… —

Il sibilo di un dardo da balestra gli fischiò nelle orecchie e quando il quadrello apparve come per magia nella sua spalla destra, Dönek lasciò cadere la spada con un grido e corse via senza guardare indietro. Quando si fu messo al riparo tra le rovine dell'Ippodromo, Dönek estrasse il quadrello dalla sua carne con un gesto secco e contemplò la sua coda rossa come il sangue giusto un istante prima di lanciarlo lontano nella notte. Dopodiché si alzò e imboccò il vomitorio più vicino, una piccola galleria scavata tra le gradinate e quasi quasi invisibile che gettava direttamente in strada.

Sul confine del distretto riconobbe un blocco bizantino, oltre il quale gli Assassini non avrebbero osato volare. Non aveva più fiato, forze, armi. Una vedetta del blocco lo vide e i bizantini cominciarono ad allarmarsi, ma Dönek  uscì dalle ombre dei palazzi con l'aquila a due teste ben in vista sul petto. Zoppicò fin in braccio ai suoi fratelli che lo trascinarono dentro un'abitazione e poi nel cuore della cantina, dove tre uomini parlavano attorno a un tavolo. Fu fatto sedere, mentre la vista gli si appannava sempre più e le forze non gli bastavano neppure per sedere dritto. Una voce gli chiedeva cos'era successo. Qualcuno lo stava medicando. La spalla bruciava. La cicatrice, quella che aveva in faccia, bruciava. Bruciava da vent'anni. Chiuse gli occhi e il suo incubo ricorrente si fece largo nella sua mente.

 

C'è un ragazzo, inginocchiato sul pavimento della locanda. Perde sangue dalla faccia e ci tiene le mani premute per bloccare l'emorragia. Ha smesso di gridare già da un po' ma la gola e gli occhi, che lacrimano sale, gli bruciano ancora. Quattro uomini avvolti in lunghe mantelle lo superano senza degnarlo di uno sguardo e si avvicinano all'uomo immerso tra cuscini sgargianti; gli manca un piede e al suo fianco un moro sta ripulendo con una pezza la lama di un pugnale.

Gli uomini hanno fatto un lungo viaggio, dicono, stanno cercando i cappucci bianchi. L'uomo senza un piede risponde di non averne mai visti, congeda malamente i nuovi arrivati e poi, indicando il ragazzo chino a terra, dice al suo moro di finire il lavoro. Il giovane alza la testa e grida, quasi senza più voce, ingoiando lacrime e sangue: sa dove trovare la casa di un cappuccio bianco, li condurrà da lui al solo prezzo della sua vita. Due uomini afferrano il ragazzo per le braccia e l'uomo senza un piede cerca di riprenderselo, ma rotola giù dal suo trono di cuscini come un tronco; da terra, ordina al suo moro di fermarli, ma uno degli uomini estrae un lungo spadone con una croce sull'elsa e taglia di netto la testa allo scagnozzo.

L'uomo senza un piede è ammutolito e con lui tutta la locanda. Il ragazzo sfigurato si volta a lanciargli un'occhiata indecifrabile: odio, arroganza, vendetta; ma poi sviene. Uno dei quattro uomini lo prende in braccio prima che tocchi terra mentre gli altri aprono la porta. L'uomo senza un piede, in silenzio, li guarda andare via.

 

— Orhan! —

Dönek spalancò gli occhi. Raramente si sentiva chiamare in quel modo: era il suo vero nome e anche l'unico con cui era conosciuto tra i suoi confratelli, che adesso lo circondavano. Al suo fianco il medico che viveva in quella casa stava ripulendo gli attrezzi con cui lo aveva ricucito. Una larga fasciatura pulita gli attraversava il torace correndo dalla spalla ferita al fianco opposto. Il viso era imperlato di sudore e i capelli corti si erano attaccati alla fronte. Muscoli di braccia e addominali tesi allo spasimo.

— Il dottore vi ha ricucito un taglietto, ma non avete una bella cera, signore. — disse un bizantino. — Che vi è successo? Dobbiamo informare il Maestr…? —

— No! — Dönek si alzò. — Gli parlerò di persona. Dove si trova? — cominciò a rivestirsi.

— A-a-a palazzo, signore, ma i Giannizzeri non vi lasceranno passare. Possiamo organizzare un incontro e… —

— Troverò il modo. — si allacciò addosso delle armi, ma più leggere, e riempì una scarsella di monete che prese da un forziere. — Che il Padre della Comprensione vi protegga. — disse sulla soglia, stringendo una spalla ad uno di loro. Poi sparì nella notte e lasciò la città.

  
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