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Autore: Acinorev    29/11/2014    16 recensioni
"«Respiri, quando sei con lui?»
Lo ami?
«Non azzardarti ad usare contro di me le mie stesse parole», lo ammonì Emma, facendo aderire un po' di più la sua schiena alla parete fredda. Stringeva i pugni per scaricare su di essi tutta la tensione, perché non voleva mostrarla: ormai era migliorata moltissimo nel confinare e nascondere le proprie emozioni, fino a riuscire ad ingannare persino se stessa.
Harry le si avvicinò ancora, appoggiando l'avambraccio destro accanto alla sua testa e piegandosi lievemente verso di lei. Le stava respirando sul viso. «Rispondi».
Emma serrò le labbra in una linea dura, come a voler sigillare dentro di sé le parole che fremevano per uscire.
«Respiri?» ripeté lui a bassa voce.
Lo ami?
«Sì».
No.
Harry inspirò profondamente e si inumidì le labbra con un movimento lento: sembrava dovesse compiere un ultimo sforzo per ottenere ciò che più bramava. E quello sforzo si riversò in una semplice domanda.
«E con me? Respiri, quando sei con me?»
Mi ami?"
Sequel di "Little girl", della quale consiglio la lettura per poter capire tutto al meglio.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Harry Styles
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Little girl'
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Capitolo tredici - Can I?

 

Emma e Miles non si vedevano da sei giorni e non si sentivano da tre. Lui aveva continuato a scriverle riguardo le proprie giornate, inizialmente, ma i messaggi erano diminuiti sempre più, fino a scomparire definitivamente: era difficile dire se la mancanza di risposte lo avesse fatto semplicemente innervosire, o se avesse deciso di lasciarle ulteriore spazio.
Lei, d’altra parte, non si era risentita per quel particolare variato, anzi, l’aveva apprezzato con un certo sollievo: le parole di Miles erano in grado di distrarla, quindi era meglio non essere costretta ad aspettarle, essere in grado di pensare liberamente e di condurre una vita diversa, anche se solo per poco tempo. I suoi sentimenti si stavano rischiarando sempre più, conducendola verso lo spiraglio di soluzione che aveva da sempre desiderato, nonostante non si sentisse ancora pronta per un ulteriore confronto o per una presa di posizione definitiva.
Per questo motivo, trovare Miles al di fuori della sua università la stupì e quasi la spaventò: non l’aveva avvertita e lei non se lo sarebbe aspettato, ma era lì, appoggiato alla sua auto con le braccia incrociate. Un giaccone verde militare a coprirgli il busto magro e le labbra secche.
Emma rallentò il passo, incontrando subito il suo sguardo attento ed imprescindibile: avrebbe voluto saper definire la sua espressione, ma non riusciva a concentrarsi, perché era sommersa da domande e pulsioni. Nonostante l’istinto di voltarsi e camminare nella posizione opposta fosse insistente, decise di non rendersi ancora più ridicola ai propri occhi e di affrontare i risultati delle proprie azioni.
«Ciao», esclamò debolmente, schiarendosi subito dopo la voce.
Miles si inumidì le labbra e le si avvicinò per avvolgerla con le braccia, in un contatto gentile e forse contenuto: Emma chiuse gli occhi e si strinse nelle spalle, come per raggomitolarsi in un angolo protetto. Sentiva una differenza nel modo in cui le stava respirando tra i capelli, nel modo in cui le sue mani la stavano tenendo.
«Come stai?» le chiese, tornando a guardarla negli occhi: non sorrideva, ma la sua espressione non era dura.
«Tu?» ribatté Emma, lasciando sottintesa la verità: non sapeva nemmeno definire come stesse realmente, tanto più in quel momento.
Miles annuì piano con un sospiro e si passò una mano dietro il collo, evidenziando involontariamente la tensione stridente che li stava unendo.
«Possiamo parlare?»
 
Andarono a casa di Miles, sia perché vicina all’università, sia perché avrebbe garantito loro un livello di intimità e protezione al quale avrebbero dovuto rinunciare in qualunque altro posto.
Emma non sopportava più il silenzio che li stava condannando: era snervante, la preoccupava, ed il fatto di non riuscire a contrastarlo la infastidiva oltre ogni limite. Seduta sul divano, aspettò inquieta che Miles si togliesse la giacca e prendesse posto al suo fianco.
«Non so se tu sia arrivata ad una decisione», esordì lui, con la placida sicurezza che l’aveva sempre caratterizzato: la stava osservando con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, reclamando il suo sguardo per poi ottenerlo con riluttanza.
«Non ancora», rispose Emma, determinata a non relegarsi ad un tale livello di passività. «Credo», aggiunse subito dopo. Le iridi nere che aveva di fronte non le lasciavano altra possibilità se non quella di essere sincera.
«Allora forse ti sarò d’aiuto», commentò Miles, sospirando appena.
«Cosa vuoi dire?» gli chiese, corrugando la fronte ed esponendo il dubbio che la stava torturando da quando l’aveva visto. Cosa voleva dire con quegli occhi? Con quelle mani esitanti? Con quelle labbra tese?
Un respiro più profondo e nuove parole. «È stato difficile starti lontano», spiegò lui, con la voce bassa e seria, pronta a cullarla ma anche ad intimorirla. Emma temette di doversi di nuovo confrontare con i suoi sentimenti incontrastati, che erano in grado di ravvivare la sua colpevolezza e di risultare ancora più genuini di quanto non fossero. «Ma non è stato difficile come pensavo».
Miles restò in silenzio dopo quell’affermazione, forse per concederle il tempo di comprenderla fino in fondo e di metabolizzarla, ed Emma, che era stordita dai propri interrogativi e dalle altrettante certezze, si limitò a sbattere le palpebre, assottigliando gli occhi.
«Io mi sono sentito…»
Fece una pausa, abbassando per un istante lo sguardo e serrando la mascella: le sue mani si stavano stringendo l’una con l’altra, ma accompagnate da un certo contegno. «Libero», sussurrò poi.
Emma indietreggiò impercettibilmente, come se quella parola l’avesse colpita con forza e l’avesse obbligata ad arrendersi, a farsi da parte. Schiuse le labbra, forse per ribattere qualcosa, ma le serrò subito dopo.
Miles sospirò sonoramente, chinando il capo. «Non so nemmeno come dirlo», ammise, esasperato.
Lei lo osservò attentamente, cercando in tutti i modi di tenere insieme i propri frammenti, sempre più danneggiati. «Non c’è bisogno di spiegarlo», disse soltanto, aspettando di incontrare di nuovo il suo sguardo per condividere la verità.
Sapeva perfettamente a cosa si stesse riferendo, come avrebbe potuto essere altrimenti? Era naturale che Miles avesse ripreso a respirare in sua assenza, perché non c’era più lei a toglierle il fiato, a costringerlo in una costante riparazione di ferite aresponsive. Non c’erano più i suoi occhi a ricordargli gli sbagli di entrambi, né le sue mani a tremare per il passato.
Come avrebbe potuto essere altrimenti?
Eppure per Emma era una sorpresa: per tutto quel tempo aveva ammirato la sua capacità di resistere, di perseverare nonostante le eterne difficoltà, e si era chiesta perché non si fosse ancora stancato. In quel momento, aveva capito che a Miles era bastato un semplice spiraglio di una possibilità diversa per sentire il peso della loro relazione.
Trattenne il respiro. Strinse i pugni.
«Ero così impegnato a cercare di risolvere questa situazione, che… Non mi sono accorto che lo stavo facendo da solo, che stavo lottando per niente». Le iridi di Miles erano sempre state estremamente pacate, quasi come se la loro assenza di sfumature potesse garantire loro una costanza di equilibrio, ma mentre la guardava in attesa, sembrava volessero risucchiarla. Non erano più placide incastonature del suo viso spigoloso, quanto più fosse in burrasca. «Perché tu non riesci a perdonarmi, vero?» riprese piano. «Non vuoi farlo».
Era consapevolezza, quella che macchiava la sua voce, consapevolezza del tempo trascorso a perderne, delle emozioni forzate che non avevano avuto nemmeno un secondo per poter prendere coscienza del proprio significato e dei propri cambiamenti.
«Non posso farlo», lo corresse Emma. Le sillabe ridotte a dei flebili soffi.
Miles si alzò in piedi con nervosismo, in una prima manifestazione delle incrinature della sua integrità: sospirò mentre si passava le mani tra i capelli, sul volto stanco. «Allora perché? Perché sei rimasta?» le domandò con più energia, standole di fronte.
Non gliel’aveva mai chiesto, non si era mai posto il dubbio. L’amore che Emma gli aveva dimostrato era talmente incontrastato, da impedirgli anche solo di pensare che non fosse quello il motivo per cui lei aveva deciso di provarci, di resistere. Quell’amore era lo stesso che alimentava il suo corrispettivo.
Emma si guardò le mani che teneva in grembo, decisa a non lasciare ulteriore spazio alla fragilità che la stava già intorpidendo. Forse erano davvero arrivati al limite, forse quel giorno sarebbe finito tutto.
«Emma!» la richiamò Miles, alzando la voce e facendo un passo avanti.
«Non sono riuscita a lasciarti andare», fu la spiegazione che gli diede, spostando gli occhi su di lui ed ascoltando il suo cuore che bramava di darle consigli con un battito in più o uno in meno. «Ci ho provato, va bene? Ho provato a stare senza di te, ma non ci sono riuscita», continuò, mentre i ricordi tornavano ad affollarle la mente.
Miles corrugò la fronte, respirando più velocemente. «Quindi… Quindi stai con me solo perché non puoi fare altrimenti? Non capisco, Emma, davvero».
Avrebbe voluto contraddirlo, avrebbe voluto dirgli che no, non era così, e che , sì che lo amava ancora con tutta se stessa. Eppure non poteva mentirgli. Non poteva continuare a mentire anche a se stessa.
«Mi dispiace», sussurrò invece, senza interrompere il contatto visivo, al quale aveva affidato il compito di parlare al proprio posto.
Lui fece un passo indietro e sbatté le ciglia più volte, poi si irrigidì ed il suo sguardo si trasformò in una tortura rancorosa.
Consapevolezza.
«Stai scherzando?» le chiese con un fil di voce, alla disperata ricerca di una smentita.
Emma non rispose.
«Per tutto questo tempo…» disse lui tra sé e sé, guardandosi intorno. «Ma che cazzo ci fai, qui?!» sbottò subito dopo. Lei si alzò in piedi come se il suo corpo avesse obbedito ad un ordine senza nemmeno consultarla.
«Miles-»
«No», la interruppe, puntandole un dito contro. «No».
«Fammi spiegare», esclamò, spaventata dalla sua reazione. Non aveva mai voluto ferirlo, né credeva che la verità l’avrebbe colpito in quel modo, o avrebbe colpito lei: perché quei sei giorni di lontananza l’avevano spinta verso una maggiore chiarezza, certo, ma una chiarezza subdola e dolorosa, che forse avrebbe preferito ignorare.
«L’unica cosa che devi spiegarmi è perché cazzo hai passato quattro mesi a rinfacciarmi quello che ho fatto, quattro mesi a farmi sentire uno schifo, mentre tu… Tu sapevi che non sarei mai riuscito ad aggiustare tutto! E non te ne è importato, hai continuato ad insistere e insistere, ed io mi sono annullato per te!»
«Tu hai annullato me!» ribatté Emma, con la voce alta, ma anche tremante. «Cristo, Miles, io ti amavo così tanto! E mi hai tradita, mi hai tradita senza nessun motivo, mi hai tolto tutto!»
«Allora avresti dovuto lasciarmi!»
«L’ho fatto! Non ti ricordi? Ti ho lasciato e dopo nemmeno due settimane ho bussato alla tua porta e mi sono obbligata a resistere, perché era meglio convivere con il tuo tradimento, piuttosto che starti lontana!»
Sentiva gli occhi bagnarsi, ma non voleva cedere a quei ricordi, alla vergogna che provava per se stessa. Aveva fatto scelte sbagliate delle quali non si capacitava e che non si sarebbe mai aspettata, aveva calpestato ciò che in realtà era e si era abbassata a servire una fragilità che disprezzava.
Miles la osservò in silenzio, con gli occhi che dovevano affrontare qualcosa di stridente. «Non ha senso», mormorò, quasi non riuscisse a realizzare il tutto. «Tu non sei così».
Quelle parole la ferirono in profondità, obbligandola a concentrarsi sul proprio respiro per mantenerlo regolare, attivo. «No, io non sono così», ripeté in un soffio. «Questo è solo quello che è rimasto», spiegò.
Lui si passò una mano sul volto e mosse qualche passo davanti al divano, inquieto: si potevano udire solo i suoi respiri profondi, il rumore delle sue Vans sulle mattonelle e poi sul tappeto, in un alternarsi che scandiva il passare dei secondi e dei minuti. Mentre Emma lo osservava con gli occhi spenti, vuoti dei segreti che avevano dovuto nascondere per intere settimane e che era persino stato difficile ammettere, lui continuava ad escluderla dai suoi pensieri.
Quando si arrestò, alzò le iridi nelle sue e vi riversò ogni briciola di sentimento.
«Mi ami?» le chiese a bassa voce.
Lei serrò la mascella e rilassò le mani lungo i propri fianchi. «Non lo so», ammise, mentre si riempiva di ridicolo per la propria insicurezza.
Non lo so più.
«Non puoi non saperlo», la contraddisse Miles, scuotendo il capo lentamente.
«Non lo so», ripeté. Era difficile distinguere i propri sentimenti: l’amore porta inevitabilmente ad un bisogno viscerale del suo oggetto, quasi per definizione, quindi cosa succede quando il rapporto di causa-effetto si spezza? Quando resta solo il bisogno, ma non si è più certi che sia riconducibile ad un amore?
«Mi hai preso in giro», la accusò lentamente. Aspettò qualche istante prima di riprendere, forse con la speranza di essere corretto. «Tu non sei tornata perché non potevi stare senza di me, sei tornata perché non potevi stare da sola. È diverso, è… Egoista». Si interruppe e la sua espressione si macchiò di una punta di doloroso disprezzo.
La verità era ormai stata liberata, le era stato concesso di divertirsi con le reazioni che avrebbe provocato, proprio come una bestia rinchiusa per troppo tempo e che smania di ripagare i suoi carnefici. Ed Emma l’aveva temuta per così tanto, l’aveva custodita così segretamente, che il terrore di lasciarla andare si era irrimediabilmente trasformato in sollievo: nessun peso da portare, nessun pensiero da rifuggire. Così, stare di fronte a Miles e non avere più nulla da difendere la rendeva più coraggiosa, almeno un poco.
«Io ho sbagliato tutto», cominciò piano, avvicinandosi a lui di un passo. «Me ne rendo conto e me ne vergogno, perché avrei dovuto essere un po’ più forte ed evitare questi quattro mesi sia a te sia a me stessa. Ho sbagliato in mille modi, Miles, e in nessuno di questi ho mai voluto farti male», continuò, sperando che quelle parole banali e prevedibili potessero comunque esprimere la loro viscerale sincerità. «E puoi arrabbiarti con me, ma non puoi giudicarmi oltre, perché io avrò fatto un sacco di cazzate, ma tu… Tu non puoi biasimarmi se non posso perdonarti. E sai una cosa? È vero, io vorrei che fosse tutto diverso, vorrei ricominciare, anzi, vorrei che non ce ne fosse nemmeno bisogno, ma non voglio perdonarti. Non voglio passarci sopra, non voglio dimenticare quello che hai fatto, non voglio far finta di non aver dato tutto e di non aver ricevuto in cambio una scopata immotivata».
Miles la ascoltò senza interromperla e quasi senza muoversi, se non per il suo petto irrequieto. Reagì solo dopo aver recepito anche l’ultima sillaba, coprendo la distanza tra di loro con passi lenti e tesi: le si avvicinò fino a coprirle il viso con il proprio respiro e poi con le proprie mani fredde, ferme non per la sicurezza, ma per la paura di tremare troppo. Le rapì gli occhi in un modo tutto nuovo, che sapeva di impotenza sfinita e di addio, mentre lei restava inerme per conservare le poche forze che percepiva. Muovendosi impercettibilmente, arrivò a sfiorarle le labbra finalmente sincere, per poi appropriarsene con foga e senza alcuna resistenza: se Emma gli aveva rinfacciato di averle tolto tutto, in quel momento sembrava che Miles volesse prendersi ancora di più, come in una conferma dispettosa e stizzita.
Lei non rifiutò quel contatto, perché doveva affrontare il suo significato: si lasciò baciare e baciò a sua volta, con la bocca aperta e sfacciata, delicata subito dopo, esausta. E quando entrambi sentirono la necessità di rallentare, di riprendere a respirare, Miles posò la fronte sulla sua, continuando a tenere le mani sul suo viso.
«Vattene via», le sussurrò sulla pelle, chiudendo gli occhi.
Emma represse un singhiozzo involontario, più simile ad un sussulto, e comprese di non poter fare altro se non dargli ascolto. Di non volere altro.
Si allontanò lentamente, mentre lui continuava a non guardarla, e gli sfiorò casualmente una mano con la propria. Era consapevole che molto probabilmente sarebbe stata l’ultima volta, ma era come se la reale ultima volta fosse stata quattro mesi prima, come se tutte le successive fossero state semplici e sbiadite copie di qualcosa di irripetibile.
Miles riaprì gli occhi solo quando lei gli diede le spalle per uscire di casa. Dopo il chiudersi della porta, si inginocchiò sul tappeto e si coprì il volto con le mani.
 
 
 
Aveva provato a restare in casa, ad isolarsi nella propria stanza con i pensieri che le vorticavano in testa e con la speranza che la lasciassero sola, ma non aveva ottenuto alcun risultato. Le era sembrato di soffocare, di essere spiata dalla curiosità della sua famiglia, che l’aveva scrutata con occhi indagatori quando l’aveva vista rientrare sconvolta e priva di parole da dispensare.
Allora Emma era uscita e aveva raggiunto l’unico posto nel quale nessuno le avrebbe fatto domande, se non quelle necessarie, dove nessuno avrebbe cercato di capire e di sapere.
Arrivò al Rumpel quasi completamente bagnata, data la sottile pioggia che l’aveva colta di sorpresa durante il tragitto: i capelli le si attaccavano al viso, infastidendola, così come i vestiti le aderivano al corpo facendola rabbrividire.
Ty si accorse di lei immediatamente, più che altro perché attirato dal rumore delle sue suole umide sul pavimento: corrugò la fronte ed in un primo momento si indispettì – Emma stava letteralmente gocciolando ad oggi passo che muoveva – rilassandosi subito dopo, nel percepire che la situazione richiedeva un altro atteggiamento.
Il locale era quasi vuoto e ancora rischiarato dal tiepido sole delle quattro del pomeriggio: lei si avvicinò al bancone e si sedette su uno degli sgabelli alti, come innumerevoli volte aveva già fatto, appoggiando gli avambracci sottili sulla superficie liscia e che avrebbe dovuto darle conforto. Ty continuò ad osservarla in silenzio, liberandosi le mani dai bicchieri che stava sciacquando fino a pochi secondi prima: la conosceva ormai da abbastanza tempo da sapere che avrebbe semplicemente dovuto aspettare.
Emma si leccò le labbra, ancora umide di pioggia e recuperò un paio di fazzoletti di carta per asciugarsi il volto, poi sospirò piano. «Io e Miles abbiamo rotto», sussurrò, guardando Ty negli occhi, come se non ci fosse bisogno di altre parole o richieste.
Lui alzò un sopracciglio e storse le labbra in una impercettibile smorfia di dispiacere, poi annuì e si mosse velocemente. Pochi istanti dopo, con Emma ancora immobile ed infreddolita, le porse il primo bicchiere di birra bionda. Doppio malto.
 
 
 
«Perché cazzo è tutta bagnata?»
Emma si svegliò confusamente, chiedendosi perché il suo capo non fosse più appoggiato sul bancone del Rumpel e perché fosse costretta a reggersi in piedi. Aprì gli occhi, abbagliati dalle luci del locale, e si guardò intorno: qualcuno la stava sorreggendo con una mano intorno alla vita, saldamente, e stava cercando di farla camminare anche se con scarsa collaborazione.
Conosceva quel profumo, i bottoni di quel giaccone marrone. Spalancò gli occhi e si divincolò velocemente, come scottata dal corpo che le stava facendo da sostegno: barcollò per l’improvvisa instabilità, ma Harry le afferrò nuovamente un braccio e se la tirò contro per non farla cadere.
«Fai la brava», mormorò, sicuro che lei l’avrebbe sentito e ricevendo in risposta un inutile movimento di ribellione.
Le faceva male la testa.
«Ci vediamo», esclamò poi lui. Emma seguì il suo sguardo e si accorse di Ty, che li stava osservando con aria preoccupata e sollevata al tempo stesso: perché gli permetteva di portarla via?
«Lasciami», protestò allora, non appena Harry riprese a camminare verso l’uscita del bar. I vestiti erano ancora umidi, così come i capelli ormai disordinati: dalle vetrate non entrava più la luce del pomeriggio.
«No», rispose lui, stringendola un po’ di più ed aprendo la porta del Rumpel.
Emma inciampò nella porta e avvertì un fastidioso capogiro: quanto aveva bevuto?
«Non voglio venire con te. Dove… Dove mi stai portando?» protestò, guardandolo negli occhi: erano concentrati e forse lievemente preoccupati, ma sicuramente divertiti.
«Prima dovresti chiedermi dove stiamo andando e poi dovresti dirmi di non voler venire», la corresse Harry, costringendola a seguirla fino alla sua macchina: sembrava sempre la stessa, anche se con una nuova verniciatura nera e lucida. Non voleva negare che il corpo contro il quale era premuta fosse un luogo piacevole dove riposare, ma era comunque qualcosa di cui non aveva bisogno, non in quel momento.
«Ti ho detto di lasciarmi», ripeté lei, cercando di liberarsi. «So camminare anche da sola».
Harry sospirò ed aprì lo sportello dell’auto. «Va bene», acconsentì. «Allora cammina da sola fino a qui e sali in macchina».
Emma cercò un proprio equilibrio, finalmente libera dalla sua stretta intransigente. «No», lo contraddisse.
«Per favore, possiamo saltare la parte in cui ti convinco a darmi ascolto?» domandò retorico, appoggiandosi con un gomito allo sportello dell’auto. Aveva i capelli legati in modo disordinato, il viso pulito e provocatorio.
«Io non vengo da nessuna parte con te!» ribadì, con la voce stridula.
«Per tua informazione, tra i miei programmi di oggi non compariva quello di farti da balia, quindi smettila di fare i capricci e sali in macchina», esclamò Harry, in tono quasi infastidito. «E poi non ti sto portando in mezzo ad un bosco per stuprarti, devo semplicemente portarti da tua sorella».
«Be’, allora se non ero nei tuoi programmi non ti dispiacerà lasciarmi in pace», gli fece presente lei, incrociando i piedi come a darsi maggiore stabilità. La sua mente era leggermente annebbiata, quindi non riusciva ad affrontare quel discorso con lucidità. «E cosa c’entra mia sorella?»
«Se preferisci che ti porti a casa dal tuo affabile padre, mentre sei ubriaca e completamente bagnata, dimmelo subito», rispose ironicamente.
No, era fuori discussione tornare a casa in quelle condizioni, ma non voleva nemmeno andare da Melanie e Zayn, che sicuramente si sarebbero chiesti e le avrebbero chiesto cosa fosse successo.
«Non voglio andare da nessun parte», precisò.
Harry sbuffò e si morse il labbro inferiore. «C’è almeno qualcosa che tu voglia fare?»
«E tu quando sei arrivato?» domandò lei invece, cercando di fare ordine nella confusione dei propri ricordi. Sapeva di aver ordinato qualche birra, ma non era sicura del numero né di quanto tempo fosse trascorso: dal tramonto che stava oscurando il cielo poteva dire che fossero più o meno le sei, ma non di più.
«Dieci minuti fa», spiegò Harry. «Mi ha chiamato Ty, dicendomi che una certa ragazza si era appropriata del suo bancone e che non voleva restituirglielo».
Si chiese subito se Ty gli avesse detto anche altro, ma si convinse di no, altrimenti Harry avrebbe sicuramente usato una delicatezza diversa: eppure perché aveva chiamato proprio lui? L’alcool nel suo circolo le diede tregua e le ricordò che il barista aveva solo il suo numero, oltre quello di Miles – che ovviamente non avrebbe potuto contattare – anche perché lei era uscita senza nemmeno il cellulare, determinata a distaccarsi il più possibile da lui.
Emma rimuginò per qualche istante su quelle informazioni, dato che la sua capacità di processarle era piuttosto compromessa, poi si voltò e prese a camminare lungo il marciapiede.
Sentì lo sportello dell’auto sbattere e subito dopo i passi di Harry. «Si può sapere dove stai andando?»
«Sono libera di fare quello che voglio, non ti pare?» rispose, appoggiandosi con una mano alla parete dell’edificio per procedere con più sicurezza.
«Sei ubriaca», le ricordò lui.
«Non così tanto», lo contraddisse. «E tu dovresti tornare a fare qualsiasi cosa stessi facendo».
«Credimi, sono davvero tentato», ammise, sottolineando le barriere con le quali si stava scontrando nonostante stesse cercando di aiutarla. «Peccato che non sia così stupido da lasciarti sola in questo stato».
«In questo stato?!» sbottò Emma, fermandosi all’improvviso. Si morse le labbra, nel prender nota della reazione stupita che provocò in lui, e decise di non dar voce ai suoi pensieri alterati che premevano per uscire. Tornò sui suoi passi e non aprì bocca.
Harry aspettò qualche secondo, prima di ritentare. «Sta per piovere di nuovo», esclamò, sperando che potesse essere un incentivo a fermarsi.
Non ottenne risposta e cessò di cercarne una.
Sospirò e si limitò a seguirla.
 
«Ti odio», borbottò Harry, incrociando le braccia al petto. «Ti odio, cazzo».
Emma chiuse gli occhi e si appoggiò al portone in vetro, respirando velocemente: avevano dovuto correre per mettersi a riparo dal violento scrosciare d’acqua che li aveva colti di sorpresa.
Davanti a loro, l’intero paesaggio era coperto da lastre d’acqua che battevano violentemente sull’asfalto, quasi a ricordar loro cosa li avrebbe attesi se solo fossero stati più coraggiosi. Emma, di nuovo completamente bagnata, si fece scivolare contro il portone fino a sedersi a terra, con le ginocchia piegate contro il petto: era passata più di mezz’ora da quando si erano allontanati dal Rumpel e l’aria fredda le aveva concesso una ripresa più veloce, anche se non completa.
Harry sospirò e si sfregò le braccia con le mani, nella speranza di riscaldarsi, poi la imitò e si sedette alla sua destra: la prima cosa che fece fu controllare che il suo pacchetto di sigarette fosse ancora in buone condizioni, la seconda fu accendersene una.
La sua presenza non risultava più invadente o fastidiosa: Emma si era abituata ai suoi passi vicini, alle sue esclamazioni tra i denti e all’odore del fumo che ogni tanto l’aveva circondata. Aveva smesso di chiedersi quando si sarebbe stancato di seguirla e aveva iniziato a chiedersi per quanto ancora l’avrebbe fatto: una sottile ed insistente differenza.
Era rimasto con lei, nonostante l’avesse allontanato e poi rifiutato. Questo la fece riflettere:  forse lui sapeva, forse solo il sapere l’avrebbe spinto a vincere il suo orgoglio e a perseverare. Forse era quella la delicatezza che aveva usato.
«Ty te l’ha detto?» gli domandò a bassa voce, appoggiando la testa contro il vetro e guardandolo con attenzione.
Harry espirò del fumo, nella sua stessa posizione ma con lo sguardo fisso davanti a sé, ed annuì piano.
«Grazie».
«Per cosa?» le chiese, stavolta spostando le iridi scure su di lei.
«Per non aver detto niente», rispose. Non avrebbe tollerato commenti o domande, erano proprio ciò da cui stava fuggendo.
«Ah, non per averti seguito anche sotto la pioggia?» scherzò, abbozzando un’espressione di finto oltraggio.
Sorprendentemente, Emma riuscì ad inclinare le labbra in un sorriso. Subito dopo nascose il viso tra le ginocchia, ricordando il dolore che l’alcool era riuscito ad alleggerire ma che le si attaccava addosso proprio come quei vestiti bagnati.
Harry si mosse dopo qualche minuto di silenzio, dopo aver terminato la sigaretta e dopo aver aspettato invano che tornasse il sereno. Le si avvicinò e le circondò le spalle con un braccio, stringendola contro il proprio petto. «Non me ne frega se mi hai detto che devo starti lontano», mormorò tra i suoi capelli: il suo corpo era determinato, una sfida alla sua tolleranza, e non lasciava spazio a repliche.
Emma si stupì del suo gesto, ma non poté dirsene infastidita: allungò una mano per aggrapparsi alla sua giacca, stringendola nel pugno, e chiuse gli occhi sul suo petto, adattandosi meglio a quell’incastro di caldo umido. In qualche modo e contro ogni logica, era l’unica persona che aveva lasciato avvicinarsi ed era assurda quanta ilarità ci fosse, in un così semplice fatto.
Improvvisamente, si sentì in dovere di respingerlo di nuovo: lo spinse via con le mani e si spostò quanto bastava a non toccarlo più. «Non posso», esclamò velocemente, decisa.
«Che ti prende?» domandò lui, corrugando la fronte.
«Non posso stare qui con te, non posso essere così egoista», ripeté, scuotendo la testa.
«Emma, calmati», le ordinò, rilassandosi.
«Io ti ho praticamente costretto a non cercarmi più», gli ricordò, alterando la voce per la consapevolezza delle proprie contraddizioni. «E non posso rimangiarmi tutto solo perché in questo momento mi serve, non posso». Si sentiva terribilmente egoista, pronta a riavvicinarsi a lui solo per un momento di debolezza: e perché Harry non si ribellava a quel trattamento? Perché non si accorgeva di quanto fosse sbagliato?
«Puoi, se io te lo permetto», rispose. La voce bassa, rassicurante.
Emma trattenne il fiato e poi cercò di trattenere le proteste del cuore, ma senza riuscirci: non era in grado di trovare delle repliche efficaci a quelle parole, nessuna motivazione un po’ più forte che la potesse spingere a cacciarlo, a chiedergli di starle ancora più lontano. Aveva fatto il suo dovere, aveva cercato di spezzare il suo egoismo, ma il consenso di Harry aveva semplicemente reso vani i suoi tentativi, autorizzandola a sbagliare.
Doveva provare a resistere, almeno in quello. «Appena smette di piovere-»
«Come vuoi», la interruppe con aria infastidita, riportando lo sguardo verso la strada.
Restarono in silenzio per diversi minuti, sul marciapiede si accumularono altri due mozziconi di sigaretta ed Emma contò i centimetri che la dividevano dal suo corpo, per metterli in relazione alla difficoltà che provava nel doverli rispettare. Era irreale trovarsi in quella situazione, strano esserci di nuovo.
«Harry», lo chiamò, infilando le mani nelle tasche umide della propria giacca. La testa le pulsava in protesta, promemoria dell’alcool ingerito. «Perché sei tornato a Bradford?»
Non glielo aveva mai chiesto, sempre troppo concentrata sul passato, e lui non aveva mai accennato al motivo, altrettanto concentrato sul passato.
Lui sospirò e si mosse appena, prima di rispondere. «Mi mancavano i miei amici. Mio padre».
Doveva esser stato difficile ricominciare una vita così giovane in una nuova città, fra estranei e facce nuove da imparare a conoscere. Evidentemente, non aveva raggiunto risultati sufficientemente appaganti, se la nostalgia era bastata a renderli vani.
Osò.
«Io ti mancavo?»
Harry mantenne un’espressione seria, imperscrutabile. «Non più».
Non aveva pensato di essere tra le motivazioni del suo ritorno, sarebbe stato ridicolo sperarlo, ma era comunque un dubbio che si era sempre posta. Eppure non era stato un no secco: si chiedeva per quanto tempo gli fosse mancata e se gli fosse mancata fino ad impazzire, come lui era mancato a lei.
«Ti sei mai innamorato a Bristol?» gli chiese poi, spinta da una curiosità sincera, ma anche strumento per dimenticare i propri problemi.
«Sì».
«Perché è finita?» Forse era troppo invadente, forse lo era sempre stata.
Harry si voltò per guardarla negli occhi. «Non è mai cominciata», precisò. «Lei non amava me».
Emma tenne per sé i commenti, non gli chiese come potesse essersi invaghito di una persona così cieca, né si chiese perché avesse spontaneamente formato quel pensiero. Per lei era stato così semplice innamorarsi di lui, che non concepiva come non potesse essere altrimenti. E non aveva conosciuto il lato di Harry in grado di amare fino in fondo, certo, ma poteva immaginare molto bene quanto potesse colmare qualsiasi riserva: come era possibile che non fosse stato abbastanza?
 
La pioggia cessò dopo circa venti minuti, minuti riempiti solo dal suo rumore e da nessun’altra parola.
Emma si alzò subito in piedi, sollevata dall’idea di potersi allontanare e ricercare una solitudine meno piacevole, ma più efficace. Harry la imitò lentamente, tenendo una sigaretta tra le labbra umide.
«Sicura che sia una buona idea?» domandò soltanto, riferendosi alla loro imminente separazione. Lei aveva bevuto un po’ troppo, era vero, ma non così tanto da avere bisogno di protezione.
«Sì, preferisco tornare da sola», rispose annuendo.
Harry si strinse nelle spalle ed assottigliò gli occhi mentre aspirava del fumo, poi la salutò con un cenno della mano e si allontanò. Camminava lentamente, con le mani in tasca ed il capo chino: Emma lo osservò a lungo, prima di andare nella direzione opposta.
 
 
 
Un nuovo messaggio: ore 00.13
Da: Harry

“Mi manchi adesso”





 


Stranamente sono riuscita a scrivere il capitolo: stamattina, al posto di studiare, il disastro che alberga dentro di me in questo periodo mi ha permesso di dedicarmi interamente a questa storia. Se il risultato è discutibile mi dispiace, ma non sono nelle condizioni più adatte per scrivere: dato che però è un mio dovere, mi sono sforzata.
Detto questo, soliti commenti:
- Miles/Emma: la piccola variazione di cui avevo parlato è proprio la consapevolezza di Miles. Inizialmente avevo pensato che sarebbe stata Emma a lasciarlo, o comunque a prendere l'iniziativa, poi invece ho pensato a come si sarebbe sentito lui in quei giorni senza di lei: il resto è venuto di conseguenza. Se c'è qualche punto poco chiaro, non esitate a chiedere! 
Aggiungo una cosa: quando dicevo che non ci sarebbe stato un triangolo mi riferivo a questo. Emma e Miles hanno una loro storia ed i loro problemi, che sono indipendenti da Harry e da tutto ciò che rappresenta.
- Emma/Harry: spero siano chiare le dinamiche di quello che è successo (Emma morta sul bancone e Ty che non sa cos'altro fare). Harry sa quello che è successo tra lei e Miles e si comporta... Così ahha Cosa ne pensate? Riguardo a tutto il resto e al messaggio.... Lascio a voi i commenti!
AH, per chi mi aveva chiesto più volte se si sarebbe saputo qualcosa in più sulla vita di Harry a Bristol: partendo dal presupposto che è stata una vita normalissima, esce fuori un nuovo particolare, ovvero un amore non ricambiato (oltre ovviamente a diverse avventure)! Lasciamo perdere come sia possibile che qualcuno non l'abbia voluto....
Be', sono di poche parole oggi: torno nel mio angolo di tristezza e agonia! Mi auguro davvero che il capitolo vi sia piaciuto! Una domanda per voi: secondo voi in cosa è cambiata Emma, principalmente? Posso dirvi che Harry se ne è già accorto!
Vi prego di darmi i vostri pareri e vi ringrazio infinitamente per tutto!!!

PS. se volete, QUI c'è una flashfic pubblicata pochi giorni fa!


Vi lascio tutti i miei contatti:
ask - facebook - twitter 

Un bacione,
Vero.

 



  

 
  
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