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Autore: Alex e Finger    30/11/2014    1 recensioni
— Non mi sono mai sentito così poco Mentore come vicino a lui. —
— Diceva che sei così disposto ad imparare. Diceva che gli ricordavi Ishak, in qualcosa, anche se siete profondamente diversi. —
Lo sguardo di Ezio scivolò verso il tumulo e si velò per un attimo, mentre percepiva gli occhi di lei fissi sul suo viso.
— Perché mi cercavi? —
Ràhel si prese un attimo prima di rispondere, come se stesse raccogliendo le forze.
— Perché lo amavo. E perché sento che in questo breve tempo, anche tu lo hai amato. Vorrei parlarti di lui. —
Genere: Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ezio Auditore, Nuovo personaggio, Sofia Sartor, Yusuf Tazim
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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l sole stava sorgendo nel cielo limpidissimo, scansando le colline come coperte e specchiandosi sulle acque fredde del Corno d’Oro. In lontananza erano ben visibili, grazie all’aria secca e tersa tipica dell’inverno, le navi che attraversavano il Bosforo.

Ad ogni ora del giorno, tutti i giorni di tutti i Calendari del Mondo, Istanbul era la testimone chiassosa di quei silenziosi velieri che andavano e tornavano dal Kara Deniz con a bordo spezie, pietre, minerali e ricchezze d’ogni sorta.

Lentamente anche la città riprese vita: aprirono bancarelle e botteghe, la gente sbocciò in strada come i fiori nei campi, dai minareti si diffusero le litanie religiose e il vociare crebbe fino a diventare un miscuglio di suoni indecifrabili. La gente di Costantinopoli combatteva il freddo con pelli spesse, drappi di lana, pellicce abbondanti e stivali e guanti e corpetti imbottiti; ma la fresca insalata di colori e tessuti ostentava il suo sapore intenso e particolare senza riserve; il Crocevia del Mondo era caldo e vivo anche nel gelido inverno.

— Serdar lo ha portato a Costantino sud. — aveva detto Ràhel.

Yusuf aveva percorso quel tragitto correndo centinaia di volte, ma era stato costretto a procedere lentamente, tormentato dalle fitte alle costole rotte che gli rendevano faticoso il respiro e dal dolore alle altre ferite che Dönek, potesse crepare mille volte e bruciare all’inferno fra infiniti tormenti, gli aveva inferto. Il suo corpo esausto gli ordinava di fermarsi, ma la volontà lo spingeva ad andare avanti a tutti i costi. La volontà. L’ansia. Il senso di colpa. Avrebbe voluto poter volare invece di trascinarsi come un relitto per le strade ormai affollate, dove la neve caduta nella notte era ormai ridotta a una poltiglia scivolosa.

Ràhel aveva camminato al suo fianco in silenzio, il cappuccio calato sulle spalle e la treccia disfatta, la stessa stanchezza e preoccupazione sul bel viso altero. Yusuf aveva notato la sua tentazione di farglisi accanto per sostenerlo le volte che si era fermato a riprendere fiato, tremando nei vestiti bagnati e l’aveva ringraziata in cuor suo per averle resistito. Quella concessione al suo orgoglio già abbastanza ferito gli aveva fatto raddrizzare le spalle e procedere più rapido, almeno per un po’. Ad ogni passo aveva rivisto quella dannata lama trapassare Amir e il dolore era riecheggiato in tutto il suo corpo, come se fosse stato lui stesso ad essere colpito. Ad ogni passo si era sforzato di allontanare la speranza che gli si arrampicava nella mente e di prepararsi al peggio, ma ogni volta che era riuscito a spingerla fuori, quella si era riaffacciata prepotente e instancabile e così non era stato pronto quando il viso grave di Sami lo aveva accolto sulla porta del covo.

La stanza gli parve gelida nonostante le alte fiamme del focolare, l’odore del sangue forte e nauseante. Ovunque bende e tamponi inzuppati, strumenti chirurgici abbandonati, la confusione che testimoniava l’urgenza di intervenire in fretta e il silenzio. Il corpo di Amir stava abbandonato sul tavolaccio, pallido e immobile, la ferita aperta che digrignava i denti dal suo fianco. Lo sguardo di Yusuf se ne allontanò quasi con orrore, spostandosi sul viso severo e lo rivide giovane e arrogante, mentre lo scrutava su un tetto del distretto Imperiale, il giorno del loro primo incontro.

— Mi dispiace, Yusuf. — La voce di Sami alle sue spalle. — Ahura Mazdā sa se ci ho provato.—

Il Maestro non rispose e con le gambe molli fece un passo verso il tavolaccio, incespicando e appoggiandosi ad esso nel tentativo di reggersi in piedi. Strinse il braccio di Amir, percependo sotto le dita i segni che le pieghe della stoffa della manica, sotto la polsiera, gli avevano lasciato sulla pelle. Sentiva come una nebbia avvolgere ogni suo pensiero, una rimbombante penombra assediargli i sensi, le forze che lo abbandonavano e non poté impedirsi di scivolare a terra come un sacco vuoto. Si accorse a stento di Ràhel, in ginocchio accanto a lui, che lo circondava col suo abbraccio, ne riconobbe solo il calore, che non gli diede alcun conforto. Si sentiva confuso e incredulo, stretto tra la smania di urlare e il desiderio di restare in silenzio per il resto della sua vita, schiacciato tra la disperazione e l’impotenza, artigliato dall’odio, furioso e oppresso dall’urgenza di dormire, dimenticare e non svegliarsi mai più.

Resistette. Se non l’avesse fatto Amir non gliel’avrebbe perdonato. Si rialzò con fatica, allontanando le braccia della sua donna e del medico che gli offrivano aiuto.

— Sami. — disse con voce rauca, ma da cui traspariva un’autorità insospettabile solo qualche attimo prima. — Ricuci quella ferita. — Senza una parola il medico mise mano ai suoi strumenti.

— Ràhel. — Gli occhi della donna lo fissarono grandi e lucidi. — Mandami qui Serdar. — Lei si dileguò oltre la porta. Yusuf la sentì riaprirsi pochi minuti dopo, udì un suono di passi e il lamento inarticolato di una donna. Si voltò e vide Nalan sfuggire alle braccia di Serdar, precipitarsi attraverso la stanza e poi bloccarsi, come impietrita, accanto al corpo di Amir. La sua mano tremava quando la posò sulla ferita che Sami aveva appena finito di ricucire. Ne percorse i punti ad uno ad uno con dita esitanti e poi si ritrasse, fuggendo da quella pelle ormai fredda che significava una cosa soltanto. Sembrava che il respiro le mancasse. Chiuse gli occhi scuotendo la testa, come a voler negare ciò che aveva davanti e poi si chinò su di lui, appoggiandogli le mani sul petto e avvicinando il viso al suo, come a voler cercare un segno che smentisse la realtà. Non trovandolo, finalmente pianse. Singhiozzava mormorando parole sconnesse, la fronte appoggiata a quella di Amir, le dita che ora artigliavano i suoi capelli corti, ora gli accarezzavano le guance. Serdar scambiò con Yusuf uno sguardo denso di disperazione, mentre Sami se ne stava in disparte, a testa bassa. Rimasero immobili, ad ascoltare quel pianto che scavava nelle loro anime, sottraendo loro le forze già esigue. Serdar si mosse verso Nalan, ma Yusuf lo fermò con un gesto e fu lui ad afferrarle le spalle per allontanarla delicatamente, ma con fermezza, dal corpo di Amir e la tenne stretta tra le braccia, in silenzio, aspettando che si calmasse.

— Spero che chi ha fatto questo sia morto soffrendo, Maestro. — sussurrò lei alla fine, alzando gli occhi nei suoi e trovandovi le lacrime che non era riuscito a trattenere. Yusuf tacque, il sapore amaro della rabbia che gli risaliva in gola.

— Non è così? — domandò Nalan.

— Non è così. — rispose Yusuf. Lei gli sbatté i pugni sul petto, strappandogli un gemito di dolore e poi gli afferrò la cinghia dello spallaccio, strattonandola, lo sguardo come un pugnale.

— Stai dicendo che quel bastardo è riuscito a scappare? — sbottò Serdar.

— Sì. Mi aveva messo alle strette e se non fosse arrivata Ràhel non ne sarei uscito vivo. Ma lei aveva più un solo quadrello… —

Şeytan…

— Dove eravate quando è fuggito? — chiese la donna senza staccare le dita dalla cinghia.

— Nalan… —

Lei diede un altro strattone, provocandogli un’altra fitta alle costole. — Dove eravate? — chiese ancora, alzando la voce.

— All’ippodromo. —

— Formo una squadra. — Si asciugò le lacrime con l’orlo della sua fascia e uscì dalla stanza come una furia. Serdar allungò un braccio per trattenerla.

— Lasciala andare. — disse Yusuf. — La seguirei io stesso se ne avessi la forza. — Si massaggiò il costato con una smorfia sofferente.

— Vado io con lei. —

— No.— Il Maestro distolse lo sguardo, per andarlo a posare sul viso di Amir. — Tu mi servi qui. —

 

 Come prescriveva la sua religione fecero scorrere l’acqua sul suo corpo, per lavarlo dal sangue e dalla polvere, lo cosparsero di olii profumati e lo avvolsero in tre sudari di candido lino. Alcuni membri musulmani della Confraternita recitarono la Salatul Janazah per supplicare il perdono e invocare la misericordia divina. Solo dopo la preghiera Yusuf permise a Sami di medicare le sue ferite e di fasciargli il costato con una benda che quasi gli toglieva il respiro. Mandarono messaggi a tutti i covi e alla Gilda dei Ladri, annunciando la morte del secondo in comando della Confraternita Ottomana e comunicando una descrizione accurata di chi l’aveva ucciso, con l’ordine di passare la voce ad ogni spia ed infiltrato. Colombi viaggiatori forniti delle stesse informazioni furono inviati verso ogni sede conosciuta dell’Ordine, uno stormo che per qualche attimo parve oscurare il cielo sopra Galata. Poi aspettarono. Che il sole si facesse più forte e che Nalan tornasse dalla sua caccia infruttuosa.

Yusuf non si era dimenticato che quella notte aveva fatto un’altra vittima. Il corpo di Varsos era stato prelevato dalla dimora bizantina e trasportato al covo poco dopo che lui e Ràhel vi erano giunti. Dopo essere andato a rendergli il doveroso omaggio si arrampicò a fatica per la ripida scala che portava al soppalco e quando finalmente vi arrivò, trovò Ràhel e Serdar addormentati sui cuscini davanti al camino acceso. Sembravano essere crollati all’improvviso, ai due lati opposti di quel mucchio colorato, lei rannicchiata su un fianco, un braccio ripiegato sotto di sé, l’altro allungato sul tappeto, i ricci annodati a nasconderle il viso, lui sdraiato a pancia in giù, le mani infilate sotto il cuscino su cui appoggiava la testa. Rimase qualche minuto a guardarli, i superstiti di quella notte infernale, ripercorrendo con la mente le fasi della missione e valutandola nel complesso come un totale disastro. Erano partiti con l’intento di assestare un colpo fatale ed erano tornati con un risultato misero e pagato a caro prezzo. Un carico d’armi, per quanto ingente, non valeva la vita di Amir e di Varsos, né degli uomini che i Ladri aveva lasciato sul campo. Con un nuovo crampo di preoccupazione, si domandò se Latif ne fosse uscito indenne. Inseguire Donek fino all’ippodromo era stato un errore, alla luce dei fatti; aveva rischiato la pelle e quel demonio era comunque riuscito a fuggire. Avrebbe dovuto restare al fianco di Amir invece di cedere alla furia e correre dietro al suo passato. Ora suo fratello era morto e lui non aveva neppure potuto ascoltare le sue ultime parole. Con quell’ennesima stilettata nel cuore, Yusuf andò a sedersi tra Ràhel e Serdar e poi si sdraiò, faticando a trovare una posizione che desse un po’ di tregua al dolore al costato. Avvolse Ràhel con un braccio e le baciò la nuca, affondando il viso nei suoi capelli; lei non si svegliò. Il fuoco crepitava e il sole entrava dalle persiane chiuse disegnando lame dorate sul pavimento. Il covo taceva in quella mattina disperata che si trascinava a passi stanchi verso il mezzogiorno, gli allenamenti e gli incarichi erano stati sospesi in segno di lutto, mentre la Confraternita si prendeva il suo tempo per piangere e per domandarsi cosa avrebbe potuto riempire il vuoto che la morte di Amir aveva lasciato. Niente, pensò Yusuf, niente potrà mai riempirlo, non per me. Non aveva modo di sottrarsi al suo ruolo, ogni cosa accadesse nella Confraternita era sua responsabilità, ma forse poteva concedersi di dormire un paio d’ore. Sì, forse poteva…

 

Avevano attraversato il distretto di Costantino portando Amir a braccia, i cappucci abbassati, in un silenzio irreale. Sul Corno d’Oro non soffiava un alito di vento, e i barcaioli immergevano i remi in acqua con garbo rispettoso, senza sollevare spruzzi, senza produrre quasi alcun rumore. Sbarcati a Galata, Yusuf aveva fatto la sua parte a portare la salma di Amir, prendendo posto accanto a Serdar, Dogan e altri tre Maestri Assassini e inerpicandosi senza un lamento su per le strette vie lastricate fino alla Kulesi. Ràhel seguiva con Nalan e dietro di loro il gruppo di Assassini e Apprendisti che si erano dati il cambio nel trasporto lungo il tragitto.

Nonostante i turni di guardia ai covi fossero stai raddoppiati, la folla che attendeva al cimitero di Galata era imponente. Il tuo Dio ne sarà contento, fratello, pensò Yusuf , mentre la moltitudine si apriva in due ali per lasciar loro il passo e ognuno chinava il capo scoperto portando il pugno destro al cuore. Il sole del mezzogiorno invernale gettava i suoi raggi obliqui sui presenti, senza riuscire a scaldarli, strappando riflessi cristallini alla neve che ancora imbiancava le lapidi e una leggera brezza si era alzata afferrando gli orli delle vesti assassine. La fossa attendeva nella parte islamica del cimitero e alcuni apprendisti vi scesero dentro per poter deporre il corpo con delicatezza, su un fianco, la testa rivolta verso la Mecca. Yusuf piegò un ginocchio, sganciò dalla cintura la sciabola siriana che si era affibbiato al posto del suo kijil e la calò accanto all’amico, poi strinse nel pugno una manciata di terra. Fu come se la gente attorno a lui fosse scomparsa.

— E’ stata la mia più grande sconfitta… perdere te. — sussurrò. — Tu eri la mia moderazione e la mia saggezza, la voce della responsabilità e del rispetto delle regole. Sei stato una spina nel fianco, uno sprone, una forza. Ti ringrazio per le tue angherie, per gli interminabili turni di guardia, per avermi umiliato al nostro primo scontro in armi, per la tua assennatezza e prudenza, per il tuo sostegno, per il tuo affetto. — Stese il braccio e aprì le dita lentamente, lasciando scivolare la terra nella fossa. — Abbiamo perso molto tu ed io e avuto altrettanto. La pace sia con te, fratello. —

Quel discorso così intimo, per quanto mormorato, fu udito da tutti nel silenzio immobile del cimitero e avvolse ogni cuore nella commozione. Yusuf si rialzò e fece un passo indietro, asciugandosi le lacrime con un gesto determinato, lasciando al loro posto una traccia di terra.

 

— Un giorno Amir mi disse che uno dei più grandi paradossi del nostro Ordine era rappresentato dalla maggioranza dei suoi stessi Adepti. — Ràhel puntò lo sguardo verso la parte musulmana del cimitero, dove le lapidi bianche e disadorne erano tutte orientate nella stessa direzione, quella della Mecca. — Mi disse che lui era nato nella Confraternita e che io ci ero cresciuta fin da bambina. Che alcuni erano stati salvati da una vita di stenti, altri allontanati da una strada che portava dritto verso la prigione o il patibolo. Che a tutti era stata data la possibilità di decidere, ma quanti di noi avevano avuto davvero un’alternativa o un chiaro termine di paragone? Come voltare le spalle a chi ti aveva dato da mangiare o ti aveva salvato dalla morte o ti aveva fornito una ragione di vita che non fosse la pura sopravvivenza?—

Ezio ripensò a se stesso e alla sua storia, a quando aveva detto chiaramente a suo zio Mario di voler partire e alla fine, aveva finito col restare.

— Gli chiesi quale fosse la sua, di ragione di vita. Lui ci pensò un po’ su. —

— E cosa ti rispose? —

Ràhel riportò lo sguardo negli occhi di Ezio, inclinando il capo.

      — Immagina di essere tornato da un lungo viaggio. — disse poi. — Sei stanco, hai addosso la polvere di tutte le strade che hai percorso e la fuliggine di ogni fuoco di bivacco. —

Lui  fece una smorfia: non era difficile immaginarsi una cosa del genere.

— Ti immergi in una vasca di acqua calda e ti strofini per bene, poi, a malincuore, esci e ti asciughi e poi ti infili in un letto comodo, con le lenzuola pulite. —

Ezio si lasciò sfuggire un sorriso.

— Questa è esattamente la sensazione che mi da fare quello che sento giusto. E provarla è la mia ragione di vita. — continuò Ràhel. — Questo mi rispose. —

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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