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Autore: _Blanca_    30/11/2014    2 recensioni
| Assassin's Creed III | ● | Connor Kenway × Nuovo Personaggio | ● | storia in stand by |
1769. Colonia di Massachusetts Bay. Cecilia ha quattordici anni quando viene derubata di un'esistenza semplice e benestante. Rimasta sola in un mondo che si prepara alla rivoluzione e alla guerra, la ragazzina diventerà donna. E la donna scoprirà le difficoltà della vita e dell'amore.
"A Davenport Manor non si ricevevano mai visite. Così, quel tardo pomeriggio d'autunno, Cecilia, china sul focolare, quasi trasalì udendo un irruente bussare all'ingresso. Lasciò gli avanzi del pranzo a riscaldare nel caldaio, appeso sul fuoco, e attraversò di corsa la cucina: era l'ora del tramonto e rettangoli di luce si stiracchiavano pigramente sopra i porosi mattoni color tabacco del pavimento. [...] Nel buio salone da pranzo, [Cecilia] scostò qualche centimetro dei pesanti tendaggi verdi, odorosi di polvere e legna bruciata, e spiò oltre i pannelli di vetro della finestra. Era stata una giornata fresca e serena, ma nel fremere degli aceri gialli c'era un sentore di pioggia in arrivo. L'indesiderato visitatore era ancora davanti alla porta. [...] Era un nativo."
Genere: Generale, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Connor Kenway, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
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THE CORNFLOWER CAP 7

















VII

Veglia notturna










Tenuta Davenport. 19 marzo 1770

Cecilia si era assopita. Uscì dal torpore, sbattendo piano le palpebre. Intorno a lei, i mobili affiorarono poco a poco dalla penombra: sagome basse, nere, addossate alle pareti spoglie della camera da letto. La ragazza spostò una mano sul bracciolo e si alzò in piedi, abbandonandosi a un muto sbadiglio. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo fosse rimasta davanti al caminetto, con le gambe piegate sulla sedia, ma dal formicolio ai piedi intuì che la veglia notturna si era protratta più del previsto. Il rumore dei suoi passi leggeri intaccò il silenzio, mentre raggiungeva il letto, coronato dai drappi del baldacchino, per fermarsi a lato del grande materasso.
Ratonhnhaké:ton dormiva con il capo affondato nel cuscino e le lenzuola tirate fino al petto, che si alzava e si abbassava, seguendo il respiro pesante e regolare. Sul mobile vicino, un mozzicone di candela si consumava accanto a una brocca d'acqua, a un bicchiere di peltro e a una ciotola di legno, dalla quale pendeva una pezza inumidita.
«E ti stupisci che abbia la febbre?» aveva commentato Achille, placidamente, quella mattina. «Ma salvare quel tagliaboschi è stato coraggioso. Questo te lo concedo». E aveva spedito l'allievo in camera da letto, a riposare, e Cecilia in cucina, a bollire corteccia di betulla sbriciolata.
Incapace di soffocare la scintilla di contentezza accesa dal ritorno del nativo, Cecilia aveva trascurato i lavori domestici pur di passare con il giovane nativo molto più tempo del necessario. Il pudore, però, le imponeva di dissimulare e il mattino precedente, quando Ratonhnhaké:ton — sano, salvo e incollerito — si era ripresentato alla tenuta, lei gli aveva comunicato il sollievo e il piacere di rivederlo con un atteggiamento tanto compito quanto goffo.
Adesso, illanguidita dalla stanchezza, la ragazza sedette sul bordo del letto e per una volta, non vista, fu lei a concedersi di fissare. Le sembrava che neppure il sonno riuscisse ad addolcire l'espressione seria sul viso del nativo. Al soffuso chiarore della candela, ne contemplò i dettagli: le minuscole macchie sugli zigomi sporgenti e sul naso aquilino, le ciglia corte e nerissime, il disegno pieno delle labbra, la rotondità ancora infantile del mento liscio. L'attenzione scivolò sui solchi di ombre tra i muscoli del collo, e poi sul triangolo di petto, che spariva oltre i bordi della grezza camicia bianca. Osservò le mani: la destra abbandonata sopra lo stomaco, la sinistra lungo il fianco. Lì non c'era più nulla di infantile. Non erano le mani di un ragazzino. Erano le mani di un uomo, incallite dalla corda dell'arco, spellate dal freddo, graffiate dalle cortecce e dalle pietre.
Cecilia coprì la mano sinistra del ragazzo con la propria. Lasciò scivolare le dita sotto al palmo e accarezzò il dorso con il pollice, seguendo la linea delle ossa, che spingevano contro la carne. Si era sempre rammaricata di non possedere mani affusolate e dita sottili, ma accanto a quelle di Ratonhnhaké:ton, le proprie mani rivelavano il loro un aspetto munito, pallido e gracile. Troppo gracile, notò. Quanto sarebbe stato facile per lui farle del male. Ma tu non lo faresti mai, dovette rassicurarsi. Vero? Né a me né a nessun altro come me. Tu non sei... crudele.
Crudeltà. Era naturale accostare tale parola ai nativi. Cecilia li ricordava bene i sermoni del reverendo Callthorpe: gli indigeni erano pagani, selvaggi e avversi ai modi degli industriosi inglesi, si macchiavano del peccato della pigrizia e indulgevano nel vizio dell'alcol. Nelle malattie che li stavano decimando — asseriva il reverendo, dall'alto del pulpito — c'era l'imperscrutabile ma giusta volontà di Dio. Così come la presenza dei cristiani nel Nuovo Mondo era nei piani della Provvidenza. Era diritto e dovere di ogni cristiano prendere quei territori poiché Dio, nel momento della Creazione, aveva ordinato all'uomo e alla donna di riempire la terra; soggiogarla, dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente. Gli indigeni, invece, trasgredivano all'ordine divino e vivevano della terra non diversamente dalle bestie.
Non appena la mente di Cecilia aveva iniziato a emergere dalla distratta apatia dell'infanzia, non appena era stata in grado di assistere alle funzioni del reverendo Callthorpe senza appisolarsi con la testolina sul braccio di Charlotte, si era chiesta se non fosse stata una scemenza, da parte di Dio, prendersi la briga di creare tutta quella gente per poi sterminarla. Però, se gli adulti attorno a lei, seduti seri e composti sulle panche, erano d'accordo con l'uomo con le facciole bianche, allora probabilmente era lei a non capirci molto.
Ma c'erano voci che le erano rimaste molto più impresse dei forbiti discorsi del reverendo Callthorpe: le voci della gente. Parlavano di scalpi, di crani fracassati, di prigionieri di guerra arsi vivi. Dicevano che offendere un indigeno equivaleva a una condanna a morte. Si sarebbero vendicati sulla pelle del primo bianco che fossero riusciti a catturare, uomo, donna o bambino. Non conoscevano la pietà e il perdono. Una volta, al porto di Gloucester, aveva sentito un marinaio raccontare che giù nel sud, nella Florida degli spagnoli, c'era una tribù che mangiava i prigionieri. Aveva otto anni Cecilia, allora, e il racconto l'aveva impressionata a tal punto da spingerla chiedere a Charlotte se la storia fosse vera. «Tutte frottole» aveva dichiarato Charlotte, ricordandole di non prestare mai fede alle chiacchiere della gente di mare.
Cecilia accarezzò di nuovo la mano di Ratonhnhaké:ton.
Lo vide corrugare le sopracciglia in una smorfia di fastidio — o di sofferenza.
Ritrasse subito il braccio.
Lui schiuse le labbra, voltò il capo verso la candela e parlò, con una voce più debole dello sfrigolio morente del fuoco nel caminetto. Mormorò qualcosa nelle propria lingua. Parole che Cecilia non poteva comprendere. Quel che capì, invece, fu che Ratonhnhaké:ton non si stava svegliando. Dormiva e sognava. E forse la febbre insidiava i suoi sogni.
Rassicurata, Cecilia avvicinò la mano alla fronte del ragazzo. Infilò le dita tra le ciocche pesanti, scure e lisce come le penne di un corvo, e qualcosa le fluttuò nel petto, tra il cuore e la gola, lieve come un piuma e tiepido come un mattino estivo. Sfiorò la treccia sottile e accostò il dorso delle dita alla guancia: la pelle era meno calda, la febbre si stava abbassando.
Chissà cosa sogna, si chiese.
Si rese conto di quante cose non conosceva di Ratonhnhaké:ton. Sapeva che, nove anni prima, la madre era morta nell'incendio che aveva devastato il villaggio, ma ignorava quali ricordi lui conservasse della donna. Ne ricordava il volto o il sorriso? Il modo di incedere o quello di parlare? Ricordava come si ci sentiva ad essere piccoli e stretti tra le braccia materne? Li abbracciavano gli indigeni, i propri figli? Lo aveva sentito affermare di essere pronto ad uccidere tutti i Templari, da quel Charles Lee responsabile dell'incendio fino al suo stesso padre — un padre con il quale condivideva solo il sangue. Ora Cecilia si domandava se il cuore del ragazzo fosse davvero irremovibile come le parole. Possibile che non avesse mai paura? Che non conoscesse il dubbio? Che non si sentisse schiacciato dai suoi obbiettivi? Proteggere la sua gente. Seguire un Credo di cui era il solo adepto. Abbattere un'organizzazione radicata nelle Colonie come una pianta infestante. Quella notte, prima di spegnere la candela e lasciare la camera, Cecilia promise a sé stessa che, fin quando fosse rimasta alla tenuta, avrebbe tentato di capire cosa si agitava in quello stoico e strano ragazzo.










NOTE STORICHE
In merito alla percezione delle popolazioni indigene ci tengo a specificare che non ho inventato né esagerato nulla. Le informazioni provengono da resoconti di esploratori e da libelli scritti da uomini di chiesa, datati tra il 1700 e il 1750 circa.









   
 
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