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Graeca’s
corner:
Non
saprei proprio come commentare questa os.
Credo si tratti semplicemente di un’idea venuta in un momento di noia e scritta
senza pensarci troppo su. E’ confusa e anche un po’ senza senso, ne sono
consapevole, but who cares?
Se qualcosa non vi è chiara chiedete pure.
Buona lettura c:
[Friendly Reminder: ad
Artemide è vietata solo la compagnia dei ragazzi. Traete le vostre conclusioni
c:]
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Di
lividi, Demoni
e Corone
di Viole
Vi erano notti in cui lividi invisibili si materializzavano su di lei.
Fiori violacei che solo lei era in grado di vedere sbocciavano nell'interno
delle sue pallide braccia.
Provava una morbosa attrazione per ciò che vedeva quelle notti.
Rami di vene si intricavano al di sotto di quel velo bianco che era la sua
pelle.
Su quei rami nascevano quelle gemme fatte di un'eterna vita di sofferenza
costretta in un angolo buio della sua anima.
Certe notti quel nero riusciva a risalire in superficie ed a fiorire nei punti
più visibili.
Li chiamava I Fiori Della Vita.
Le piacevano così tanto.
Eppure passava quelle notti a tentare di cancellarli. Di nasconderli, di
spingerli nel profondo di sè, in attesa del momento
in cui essi sarebbero ricomparsi.
Quelle notti Artemide avrebbe voluto che ci fosse qualcuno a vederla.
A vederla lì a terra con la veste stracciata nel tentativo di placare i demoni
che, vestiti di corone di fiori violacei, tormentavano la sua anima.
Mentre con le lacrime che colavano sulle lentiggini si graffiava i polsi e in
questo modo potava le piante di ombra che crescevano lungo le sue braccia.
Il diadema spezzato ed i capelli annodati, tante erano le volte che se li era
tirati.
Quelle notti avrebbe voluto che qualcuno la vedesse in quel modo.
Nel riflesso della sua anima.
Non vi erano specchi nella sua tenda.
Solo le schegge erano rimaste a tener compagnia al peso che le spezzava le
spalle.
Si guardava allo specchio e per quanto rendesse vecchio e decrepito il suo
aspetto sentiva ancora l'aria riempire i polmoni, le vene pompare sangue e la
vita inondare i suoi occhi.
Ma Artemide non voleva ciò.
Artemide non aveva scelto l'eternità.
Un'eternità di solitudine, passata a rompere specchi e a coltivare fiori
violacei, con la consapevolezza che nessuno avrebbe potuto riempire quel vuoto
che noi umani chiamiamo amore.
La notte in cui aveva rotto lo specchio era cominciato tutto.
Una preda difficile.
Così si era giustificata con le sue Cacciatrici.
Una preda difficile, si.
Da quella notte dava caccia alla sua anima, alla sua identità senza sosta nella
speranza di trovare la sua essenza.
Chi sono io?
Artemide non sapeva chi era.
Il nostro io si crea in rapporto allo sguardo della persona che ci ama.
Ma senza questa persona cosa siamo noi?
Come si fa a scoprire il proprio corpo se non c'è qualcuno che ci spiana le
strade fatte di pelle?
Nulla. Siamo nulla. Entità bianche che vagano mentre l'anima si rode da sè nel tentativo di trovare una risposta a quella domanda.
E questo era Artemide.
Uno, nessuno o centomila.
E così tutto questo dolore -questo nero- invadeva il Tartaro della sua anima.
Fino a che non arrivano le notti in cui sarebbe perfetto spezzare gli specchi.
Allora i fiori nascevano, le vene si incrociavano per formar rami.
E il sangue delle sue ferite andava a creare le foglie.
Quelle piante malefiche formavano gridi nel fondo della sua gola.
Quelle piante la costringevano a squarciarsi i polsi nel tentativo di porre
fine alla vita di quei parassiti.
Ma mentre asciugava l'icore che sgorgava da quelle ferite essi, insistenti,
ricomparivano.
E allora si lasciava cadere, per terra.
Un corpo senza vita, ma ancora in grado di respirare.
E poi guardava nell'unico specchio ancora integro. L'unico che non le mostrava
il suo riflesso.
Esso mostrava la parete di una casetta di legno chiaro adornato con quadri,
corone di fiori, scaccia sogni.
Quello specchio mostrava la dimora del l'unica persona capace di potare i suoi
fiori.
Da che potesse ricordare la dimora di Hecate era
sempre stata isolata rispetto a quelle degli altri dei.
Un tratto umano nello sfolgorante splendore della grandezza degli dei.
Lì dove c'era l'ultima casa dell'ultimo dio minore la nebbia copriva i rumori e
le cose.
Artemide perdeva ogni volta dieci anni della sua eterna vita -dipende dai punti
di vista se è cosa bella o brutta- perché si ritrovava sul ponte diroccato che
conduceva alla casetta della dea della magia senza rendersene conto.
Galleggiava in un mondo di soffice aria e di vento sferzante.
Ed in quel vento udiva i suoi demoni cantare -con mazzi di viole nelle cavità
vuote degli occhi- i suoi tormenti.
"Chi sei piccola dea?
Non sei nessuno.
Sarai aria per l'eternitá"
Appena mise piede sul muschio umido che ricopriva i massi che facevano da
cancello le gambe la tradirono e scivolò su uno di essi.
Negli ultimi tempi aveva perso anche la sensibilità al caldo ed al freddo.
Ma quando poggiò la guancia sulla pietra gelida sentii un brivido lungo la
schiena.
Le venne quasi da ridere.
Era ancora in grado di sentire qualcosa. Aveva ancora qualcosa di umano.
Quanto invidiava quei mortali: costretti a vivere per un arco di tempo così
breve eppure così liberi e felici.
Restò su quel masso per un tempo indeterminato, mentre il freddo si
impossessava del suo corpo ed i suoi demoni contavano più forte, sempre più
forte e ricoprivano il suo corpo delle viole del male.
Urlò quando due mani calde si posarono sulle sue spalle.
E si rese conto che forse non voleva provare nulla.
Neanche quel caldo bruciante che caratterizzava le mani di Hecate.
Forse così avrebbe avuto la possibilità di smettere di provare dolore.
Quando Artemide pensava alla parola 'casa' le prime
cose che le venivano in mente erano il cielo stellato e l'odore che vi era
nella casa di Hecate: un misto di camomilla, fiori
secchi e legno.
Artemide si auto considerava una dea nomade. Non vi era un posto in cui lei
avrebbe potuto far ritorno se tutto fosse andato storto.
Ma comunque in un angolo della sua mente c'era sempre la consapevolezza che
quella catapecchia di legno che la dea della magia si ostentava a chiamare
casa.
Era fatto completamente di un legno dal colore innaturale, un misto di bianco e
lilla. E tutte le pareti erano tappezzate da foto, disegni, mazzetti di fiori
essiccati e non, talismani, ritagli di giornali, scritte ed infine il tocco
distintivo della dea: la stella a cinque punte.
Artemide si trovava appoggiata ai piedi del letto, immersa in una pesante coperta,
impegnata a fissare dritto davanti a sè.
La creatura che le restituiva lo sguardo aveva le gote arrossate, le labbra
spellate ed i capelli ridotti in un unico groviglio di nodi.
Eppure l'universo sfrigolava nei suoi occhi.
Vi era la vita in quegli occhi.
L'eternitá.
Quando credette di essere sul punto di urlare di nuovo Hecate
posò un velo colorato coprendo lo specchio e di conseguenza sul suo riflesso.
La dea si mosse con la stessa leggerezza di una farfalla attraverso la stanza.
Si accovacciò accanto a lei e le porse una tazza con del liquido bollente
all'interno.
Gettò un'occhiata alla bevanda e la face roteare un po' muovendo la tazza.
Hecate sbuffò.
"Non ti avveleno puoi stare tranquilla."
Artemide la guardò.
Aveva la pelle diafana come la sua, ma priva di lentiggini. I capelli biondi e
ricci scendevano come un mantello fino al fondo della sua schiena.
E poi i suoi occhi. Il primissimo ricordo che aveva di lei erano i suoi occhi:
due pozze azzurro nebbia senza pupilla.
Quando li guardava ricordava ancora la sensazione di paura e nudità che aveva
provato la prima volta che il suo sguardo aveva incrociato quello della dea.
Hecate si lasciò cadere a peso morto accanto a lei,
tra la sua spalla e il cassettone.
Mentre lei buttava giù tutto d'un fiato la bevanda (che aveva identificato come
tè nero con un retrogusto di vaniglia) Hecate
intrecciava i suoi capelli con fiori bianchi e rosa presi chissà dove.
Il tè avvolse in un abbraccio caloroso il suo torace e sciolse un po’ del peso
che da millenni a questa parte portava dentro.
Artemide respirò profondamente ed appoggiò il capo nell'incavo del collo della
dea.
Hecate abbassò lo sguardo sui suoi polsi è sospirò.
"Ah questi maledetti fiori."
Si allungò per prendere una ciotola e poi si risedette.
"Non importa quante volte poti i loro rametti, ricompaiono sempre."
Scosse la testa rivolgendole un sorriso luminoso.
La scodella conteneva un impasto rosa antico. Hecate
immerse le dita nell'intruglio estraendone un po'.
Spalmò con delicatezza la pomata sui suoi polsi.
La fissò intensamente per qualche momento e quella si solidificò
istantaneamente. Hecate fece un gesto aggraziato del
polso, come se stesse spolverando un mobile invisibile e l'impasto si dissolse.
Le sfuggì un verso di sorpresa quando vide che i suoi polsi erano come nuovi.
Hecate balzò in piedi e batté le mani soddisfatta.
"Potati!" esclamò.
Non trovò la forza di contrarre i muscoli delle labbra per farle un sorriso.
Il suo sparì in un attimo.
Il silenzio è l'urlo più potente.
In quei momenti il silenzio era carico di aghi fatti di solitudine opprimente e
parole mai dette.
Poteva vedere la curiosità ardere e logorare Hecate.
Si sedette sul letto e le prese il polso.
Fece scorrere le dita a partire dal centro del palmo, percorrendo il braccio e
in seguito l'avambraccio.
"Vieni spesso qui, in cerca di aiuto.."
Centinaia di notti si era trovata stremata in cerca di respiro, mentre i suoi
demoni cantavano della sua ennesima caduta e lei rischiava di vomitare i suoi
sentimenti.
Non aveva mai chiesto nulla.
Si era limitata a rispedire i demoni e le loro viole nei meandri della sua
anima.
Aveva provato a spiegarle che tenendosi tutto dentro si stava distruggendo.
Ma lei voleva parlare.
Ma le parole le si bloccavano in gola ostacolate dal demone che si era materializzato
davanti a lei.
Le sue ossa erano del colore dei suoi occhi, del colore del suo tormento.
In ogni cavità libera vi erano mazzetti di viole.
Ballava. E cantava. La sua risata la condusse alla follia.
Sentì l'eco del suo urlo. Quello non aveva trovato nessun ostacolo.
Ma ora la pazienza della dea era stata sfaldata dalla bruciante curiosità di
sapere qual era il nome di quegli esseri cuciti sotto le sue palpebre.
Arrivò alla clavicola e lì le sue dita danzarono per un po'.
"Ma non mi hai mai detto qual é il seme che dà
vita ai fiori."
Artemide credette di stare per morire e ne fu quasi felice.
Passò il dito su tutta la riga del suo profilo e arrivata sulla fronte tracciò
un disegno invisibile.
"Cosa ti tormenta, mia signora?" bisbigliò.
Le si bloccò il respiro.
Dozzine di demoni scheletrici si erano materializzati nella stanza. I loro
canti le riempivano le orecchie. Si stringevano in torno a lei avvolgendola nel
loro freddo mondo di ombre.
Poi impazzì.
"Mi sono persa"
Sentì la gola bruciare.
"Non so più chi sono!"
Si sorprese a graffiarsi il petto, nel tentativo di scavarsi una voragine nel
petto e nella speranza che la sua anima si fosse nascosta lì.
"Chi sono io, eh?"
Si aggrappò alla gonna di Hecate singhiozzando.
"Cos’è questo mucchio di ossa se
nessuno vi mette la carne intorno?"
Abbandonò il capo in grembo alla dea e sentì le lacrime bagnargli le gote.
"Cosa sono i miei occhi se non ho nessuno che mi ami abbastanza da creare
un colore apposta per loro?"
Si ritrovai svuotata delle sue forze.
Era come se qualcuno avesse aperto il suo cuore e tutti potessero vedere i suoi
demoni danzare.
"Polvere di stelle."
Alzò il capo.
"Cosa?" Mormorò roca.
Hecate abbassò così tanto il viso che sentì il suo
naso sfiorare il suo.
"I tuoi occhi sono polvere di stelle. Fuoco celeste."
Si dimenticò come si respira.
La dea le accarezzò la guancia.
"Sii il fuoco celeste, Artemide. Sii polvere di stelle. Sii ciò che
vuoi."
Sfiorò le sue labbra con quelle di Artemide.
"Ma, ti prego.."
Ebbe un tremito.
"..Ti prego sii mia."
Non rispose.
Non ne ebbe il tempo.
Hecate unì le loro labbra.
Si accorse di essere uscita solo quando il vento
soffiò così forte da penetrarle nelle ossa.
Era sul ponte. Oscillava in modo impetuoso. Aveva i capelli sul viso e si
sentiva come se stesse per spiccare il volo.
Mosse un passo. Poi un altro. Non si resse alle corde.
I suoi piedi si mossero da soli.
Aveva voglia di urlare, di ridere, di respirare.
Ora lo sapeva.
"Sono polvere di stelle.
Sono fuoco celeste.
Sono Artemide.
Sono io.
Sono sua."
Lo urlò. La sentirono tutti probabilmente. Non le importò.
I suoi demoni si erano trasformati in bianche creature alate che la ricoprivano
di ghirlande fatte di viole, i fiori della vittoria.
Cantava a squarciagola insieme a loro.
"It's who we are doesn't matter
we've come too far
Doesn't matter it's all okay
Doesn't matter if it's not our day."
Ed
infine scoppia a ridere.
Ed infine inizia a vivere.
Forse per la prima volta.