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Autore: _ayachan_    03/11/2008    21 recensioni
A cinque anni dalle vicende de "Il Peggior Ninja del Villaggio della Foglia", che ne è stato delle promesse, dei desideri e delle recriminazioni dei giovani protagonisti?
Non si sono spenti con l'aumentare dell'età. Sono rimasti sotto la cenere, al caldo, a riposare fino al giorno più opportuno. E quando la minaccia è che la guida scompaia, quando tutt'a un tratto le scelte sono solo loro, quando le indicazioni spariscono e resta soltanto il bivio, è allora che viene fuori il carattere di ognuno.
Qualunque esso sia.
Versione riveduta e corretta. Gennaio 2016
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'eroe della profezia'
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Penne 15
Capitolo quindicesimo

Cambiano i piani





I polpastrelli delle dita che premevano sui suoi fianchi.
Il fremito quando le labbra sfregavano il collo.
Il suono della sua voce, roca come non l'aveva mai sentita...
Chiharu aprì gli occhi di scatto. Il cuore le batteva veloce come quello di un topo, gli occhi guizzarono istintivamente in cerca di pericoli.
L’alba era dietro l’angolo, e Kotaro era già di ritorno dai cespugli. Vedendola sveglia le rivolse un sorriso. «Buongiorno» mormorò chinandosi sullo zaino.
Chiharu grugnì una risposta, con una malcelata sensazione di nausea. Aveva dormito più o meno sette minuti, tutti gli altri li aveva passati a considerare che Hitoshi era a meno di un passo di distanza e che in quello stesso buio, l’ultima volta, si erano trovati molto più vicini. Nonché nudi.
Viaggiavano da un giorno e una notte, ma ancora non riusciva a rimuovere dalla testa quei momenti. Non ne era nemmeno stata soddisfatta, era tuttora convinta di aver commesso un errore madornale, eppure lo sapeva: se per disgrazia Hitoshi si fosse avvicinato nel suo sacco a pelo avrebbe ceduto; perché sì, perché il suo corpo le diceva che era piacevole e che ne voleva ancora, nonostante la testa protestasse.
Non può essere così difficile, giusto?, borbottò parodiando se stessa. Lo era, invece. Lo era tantissimo.
Si passò una mano sul viso tirato e sentì che anche Hitoshi si svegliava. Se non altro sembrava ancora più stanco di lei.
«Come va l’emicrania?» si informò Kotaro scrutandolo preoccupato.
«Male.»
Era iniziata poche ore dopo la partenza, più o meno verso l’alba. Se nella notte passata con Chiharu il dolore sembrava averlo abbandonato completamente, non appena avevano iniziato la missione era tornato più feroce che mai.
«Ce la fai?» chiese Kotaro guardandolo di sottecchi.
«Per forza» sibilò Hitoshi alzandosi. «Il piano non funziona se non siamo almeno tre.»
Kotaro guardò Chiharu in cerca di sostegno, ma lei era troppo occupata a voltare la schiena a entrambi. Sospirò e scrollò le spalle.
«Va bene... Ma se non ce la fai, dillo. Mangiamo qualcosa e ripartiamo.»
Secondo le indicazioni ricevute da Gaara, a quel punto dovevano aver già oltrepassato il confine ed essere penetrati in uno degli staterelli che dividevano il Paese della Sabbia da quello della Roccia. Se non avevano commesso errori si trovavano a un passo dal Paese della Pioggia. Poco oltre c’era il Fuoco.
Allontanandosi da Suna il terreno si era fatto molto più verde. Presto si erano trovati a percorrere sentieri che si snodavano in una campagna rigogliosa, fino a camminare per boschi umidi e paludi. Quindi il clima era cambiato così rapidamente che nell’arco di poche ore erano tornati a una calura secca e arida che asciugava la gola. Sotto i loro passi il terreno si era indurito fino a diventare roccia, e qua e là si aprivano macchie di cespugli riarsi.
Verso mezzogiorno furono costretti a una sosta forzata, perché l’emicrania di Hitoshi si era fatta così forte da impedirgli di capire dove metteva i piedi. Si fermarono a mangiare su una zolla di erba rinsecchita, e Kotaro costrinse il compagno a stendersi e prendere un analgesico, anche se era largamente appurato che su di lui non funzionavano. Per non perdere tempo ripassò il piano insieme a Chiharu.
Nessuno di loro voleva ammetterlo, ma erano preoccupati: Hitoshi non era mai stato così male.
«Hai fatto qualcosa di diverso dal solito?» tentò di chiedere Kotaro.
Chiharu si irrigidì. Hitoshi si rifiutò anche solo di fingere di ascoltarlo e rimase steso ad occhi chiusi.

Verso il tramonto arrivarono alla loro meta. Da lontano era soltanto un costone roccioso che pendeva sghembo dalla montagna: qualche albero smagrito protendeva i suoi rami verso il cielo, pericolosamente sospeso nel vuoto, e ai piedi del marmo e del granito c’era il letto prosciugato di un ruscello. Più o meno a venti metri dal suolo si apriva nella roccia un passaggio quasi invisibile, collegato a terra mediante una cengia scoscesa perfettamente mimetizzata. Sotto, a un centinaio di metri, c’era un edificio di fortuna attorno al quale si muovevano due figure.
Accovacciati tra i cespugli sull'altura di fronte, Chiharu, Kotaro e Hitoshi spiavano le guardie e cercavano di capire i loro movimenti.
«Quante saranno?» sussurrò Chiharu.
«Due a terra. Altre due stanno scendendo da lassù» bisbigliò Kotaro indicando il sentiero. «Nella caverna ce ne sarà almeno un altro... Cinque?»
«Sì, mi pare buono. Per precauzione diciamo che sono sei. Sono tanti, ma potrebbe essere il cambio della guardia.»
Restarono in silenzio mentre i due che scendevano dal sentiero si fermavano a scambiare qualche parola con quelli a terra. Li videro gesticolare verso la parete alle loro spalle, poi uno entrò nel rifugio.
«La donna è nella grotta?» chiese Chiharu.
«Sì. Non credo che l’abbiano spostata.»
«E’ là per forza» sibilò Hitoshi ad occhi chiusi. «E’ una trappola perfetta, molto più difendibile di quell’ammasso di legno marcio.»
Chiharu e Kotaro lo fissarono. Erano abituati al suo tono tagliente, ma non al gemito con cui concluse la frase. Scambiarono un'occhiata tra loro.
«Quante sono?» chiese Kotaro sollevando tre dita nella sua direzione.
Hitoshi gli scoccò un’occhiata furente.
«Dimmi quante sono!»
L’Uchiha sbatté le palpebre per alcuni lunghi istanti e sforzò la vista al massimo. Davanti ai suoi occhi le dita sembravano tre. Per un momento. Poi diventavano due, sei, una, quattro, cinque.
«Quattro» provò a indovinare.
«Sbagliato. Sono tre» Kotaro scosse la testa. Esitò un momento, poi, a malincuore, aggiunse: «Hitoshi, non ce la fai.»
Hitoshi lo afferrò per il bavero. «Ce la faccio» sibilò tra i denti. «Ce la faccio, dammi solo un minuto! Sono tre stupide dita.»
«Se non ci vedi come pretendi di reagire a un attacco?» replicò Kotaro, scrollandoselo di dosso bruscamente. «Tu non ce la fai, Hitoshi! L’emicrania ti sta uccidendo e io mi rifiuto di scendere in campo con una zavorra
Chiharu strinse una mano sul braccio di entrambi, zittendoli. Con un cenno indicò gli uomini di guardia. Hitoshi si sottrasse al suo tocco e si allontanò rabbiosamente tra i cespugli in cui si erano nascosti. Kotaro guardò la sua schiena che scompariva tra le fronde con un misto di rimorso e compassione.
«L’unico modo per farglielo capire era essere brutale» bisbigliò risentito, a mo’ di scusa.
«Lo so»» annuì Chiharu. «E lo sa anche lui.»
Kotaro posò a terra lo zaino chinando la testa. Si sentiva molto piccolo e meschino: anche se lo aveva fatto con le migliori intenzioni, aveva calcato la mano, e lo aveva fatto apposta. Non solo per il bene di Hitoshi. Alzò a malapena lo sguardo, scrutando Chiharu che radunava le foglie secche per crearsi un giaciglio.
Quanto ancora sarebbe riuscito a mantenersi neutrale?


*


Il cielo era grigio e basso, il giorno in cui Sasuke rientrò dal lavoro prima del tramonto. Sakura lo vide spuntare sulla porta della cucina mentre si preparava un tè e lo fissò ad occhi spalancati. Solo il giorno prima aveva preso la risoluzione di lottare per la sua vita, ma in quel momento non era proprio pronta; pensava che avrebbe avuto più tempo.
«Ce n'è per me?» mormorò Sasuke stancamente, lasciandosi cadere su una sedia.
«Sì» sussurrò lei affrettandosi a dargli le spalle.
Con movimenti molto poco naturali aggiunse dell’acqua al bollitore e lo rimise a scaldare. Quindi prese una tazza in più, si avvicinò al tavolo lentamente e si sedette davanti a lui.
Non restavano soli dal giorno in cui lei gli aveva fatto quella mezza scenata, nell’ufficio dell’Hokage. Per tutto quel tempo i loro incontri si erano limitati alle notti che trascorrevano nello stesso letto, e spesso arrivavano e se ne andavano quando l’altro era già via o addormentato. Sakura non sapeva se Sasuke lo avesse fatto apposta o se negli ultimi tempi fosse solo molto impegnato, ma di sicuro sapeva che lei non aveva fatto nulla per cercarlo.
Intrecciò le mani sul tavolo, nervosa, e le fissò.
Sasuke la guardò.
«Come va in ufficio?»
Sakura trasalì e per sbaglio tirò un calcio al tavolo. «Con Naruto?» si lasciò sfuggire. Stare insieme a Sasuke significava tradurre tutti i discorsi in ‘Naruto’ e ‘Fay’, si rese conto con sgomento.
Sasuke si irrigidì e distolse gli occhi. «Volevo sapere più che altro cosa succede con la spia. Quel ragazzino... avete scoperto qualcosa?»
Sakura si strinse nelle spalle e si rese conto che da alcuni giorni non si interessava più ai suoi compiti di Hokage, ma si limitava a timbrare fogli senza nemmeno vederli.
«Credo... Forse... Dovresti chiedere a Na... a Shikamaru» farfugliò.
Sasuke annuì. «Bene.»
«Bene» ripeté lei in un sussurro.
Cadde il silenzio. L’acqua iniziò a bollire sommessamente e un fischio si librò nell’aria. Sakura andò a prendere il bollitore, versando all’interno le foglie di tè. Mentre lo faceva le sue mani tremavano.
E’ ora. Non puoi rimandare ancora, non con questa occasione.
Attese che l’infuso fosse pronto. Rimase immobile per cinque interi minuti, raccogliendo il coraggio e le parole adatte, cercando di prepararsi al peggio. Poi portò la teiera in tavola. Versò il tè. Per sé, per lui. Si sedette di nuovo.
Nessuno dei due toccò la tazza che fumava.
Sakura prese la parola.
«Mi tradisci?»
Sasuke finalmente alzò gli occhi. Attese che lei facesse altrettanto.
«No» disse poi pacato, come se si fosse sempre aspettato una domanda del genere.
Sakura sentì un nodo che si scioglieva nel suo stomaco, ma capì anche che qualcosa non andava. Non poteva semplicemente rispondere no, non era così che funzionavano le cose.
«No?» ripeté con voce tremante. «Tutto qui?»
Sasuke non rispose, inspirando a fondo, e a Sakura sembrò di cogliere una nota di disprezzo nel suo sguardo. Scosse la testa. «Non è tutto qui. Non mi basta» bisbigliò fissando un angolo del tavolo. «Io ti ho visto con quella donna, Fay. Ho visto come vi parlavate, ho visto come la ascoltavi, ho visto quanto eravate vicini. E tu non sei uno che dà confidenza facilmente, tu non... non stai vicino alle altre donne così!» di scatto, con il viso arrossato, tornò a fissarlo. «E poi te ne sei uscito con quella frase! Non mi fido di me. Cosa vuol dire?»
Sasuke scosse la testa quasi infastidito. «Non hai capito niente.»
«E allora spiegamelo!» Quasi urlò, Sakura, protendendosi verso di lui. «Ti sto solo chiedendo di spiegarmelo! Voglio solo...»
«Fay è la donna di Neji.»
Sakura si bloccò a metà dell’invettiva.
«Fay ha una relazione con Neji» ripeté Sasuke parlando veloce. «Da cinque anni. Si vedono, si incontrano, fanno sesso, dillo come preferisci. Stanno insieme. E non deve diventare di dominio pubblico.»
Sakura sbatté le palpebre, stordita. «E tu... tu cosa c’entri?»
«Io l’ho scoperto per caso. Li aiuto a tenerlo segreto. Nient’altro.»
Di nuovo Sakura scosse la testa. «Forse questo è anche peggio del semplice no» commentò amareggiata. «Come diavolo fai a inventarti una storia del genere?»
Negli occhi di Sasuke passò un lampo d’ira. «Gli Hyuuga vogliono che Neji si sposi. Con una donna della casata principale, naturalmente, visto che Kakashi ha avuto la cattiva idea di mettere in mano il clan alla casata cadetta. Hanno già predisposto tutto, nessuno di loro accetterà che una come Fay entri a far parte del clan. Sai come sono gli Hyuuga, lo sappiamo tutti. Se si sapesse che Neji e Fay si vedono sarebbe una tragedia: non so fino a che punto potrebbero spingersi, ma se Neji insistesse per restare con lei, e se anche lei fosse d’accordo...» fece una brusca pausa. «Io non posso permettermi di fare a meno di un elemento come Fay, né posso permettere che gli Hyuuga creino problemi al Villaggio.»
Di nuovo silenzio. Il tè fumava placido nelle tazze intatte. Sakura fissava Sasuke ad occhi sgranati.
«Ma allora... se è per questo...» mormorò confusa. «Se stai solo cercando di proteggere Neji e Fay perché mi hai detto quella frase?»
Sasuke assottigliò gli occhi amareggiato, ma Sakura, come sempre, vide solo disprezzo.
«Perché sono un idiota» mormorò. «Quando ti ho sentito dire che avevamo fatto del male a Naruto io ho ricordato tante cose... All’epoca sapevo che stavate insieme. Lo sapevo ma non mi sono fermato, e ho trascinato te e lui in quel disastro. Io non l’ho mai dimenticato, per me quella è ancora una cosa che...» si interruppe. «Tu invece hai pensato subito che stessi tradendo te» Sasuke si passò una mano sulla fronte. Il peso degli anni che aveva tentato di dimenticare piombò nuovamente sulle sue spalle. «Nella tua testa sono sempre sul punto di tradire come vent'anni fa...»
Sakura trasalì. «No! No, non quello, non in quel senso!» scattò, quasi spaventata. «Che diavolo dici? Io non... mai...»
Sasuke si alzò dalla sedia, senza guardarla, senza guardare il tè sul tavolo. «Sono stanco» disse troncando i suoi balbettii. «Vado a dormire nella stanza degli ospiti.»
«Sasuke!» lo chiamò Sakura balzando in piedi. «Non puoi andartene adesso!»
Ma Sasuke aprì la porta senza girarsi. Sulla soglia trovò due pallidissimi Nobi e Liara che lo fissavano spaventati. Con delicatezza scostò Liara e li oltrepassò, uscendo nel corridoio.
Sakura rimase ferma accanto al tavolo, livida, le mani premute sul ripiano nero e le palpebre che sbattevano sugli occhi tentando invano di arginare le lacrime. Abbassò lo sguardo sui bambini.
«Non è successo niente» mormorò rapida, afferrando le tazze sul tavolo e portandole fino al lavello. «Non è successo niente» si ripeté con la vista offuscata, rovesciando il tè bollente giù per lo scarico. «Niente...»
Solo con il primo singhiozzo si accorse di essersi ustionata le dita.

C’erano diversi incubi nelle notti di Sasuke.
Molti parlavano del suo clan, della famiglia, di suo fratello.
Ma tanti altri parlavano dei suoi amici, di sua moglie, del suo maestro. Dello sguardo deluso di chi è stato tradito.
E per lui quelli erano i peggiori.


*


Chiharu trovò Hitoshi dopo neanche cinque minuti di ricerche. Com’era prevedibile si era rintanato in una macchia ombrosa e si era steso sul primo fazzoletto di foglie secche che aveva incontrato, con un braccio premuto sugli occhi.
Prima di rivolgergli la parola si fermò a guardarlo, cercando di nascondere anche a sé stessa l’inquietudine. L’ultima volta che erano rimasti soli lei aveva sfoderato in tutta la sua magnificenza il suo fenomenale punto debole, e francamente non teneva molto a ripetere l’esperienza – oh sì invece che voleva! Deglutì, mandando al diavolo il pensiero perverso che le diceva ‘tanto è già steso e inerme’, e ciò che fece fu avvicinarsi producendo più rumore possibile.
Hitoshi sospirò, senza muoversi, finché non la sentì accanto a sé. «Arrivo» disse soltanto.
«Idiota» replicò lei, fissandolo dall’alto del suo imponente metro e sessanta.
Hitoshi scostò il braccio e la scrutò torvo.
«Non sono qui per riportarti indietro, ci mancherebbe» sospirò lei. «Volevo sapere se dovevamo seppellire il tuo cadavere.»
«Risparmiami il sarcasmo!» ringhiò Hitoshi tornando a nascondersi dietro il braccio. «Cazzo!»
Per una volta Chiharu decise di non infierire. Non sapeva se fosse per l’improvvisa debolezza di Hitoshi o per quello che era successo tra loro, ma non aveva più voglia di fargli del male gratuito: le sembrava una cosa particolarmente spregevole.
«Non passa proprio?» chiese piano, inginocchiandosi accanto a lui.
«No» rispose Hitoshi a mezza bocca. «E’ come un martello. O un trapano, largo come un campo d’addestramento. E’ lì, dietro la fronte, e le ho provate tutte, mi manca solo il vudù, ma quello non si calma.»
«Nemmeno quando dormi?»
«Pensi davvero che riesca a dormire in queste condizioni?»
Chiharu controllò l’irritazione. «Beh, sagace umorista, se hai tanto spirito in corpo pensi di restare qui a fare la muffa ancora a lungo?» chiese.
«No. Te l’ho detto, adesso arrivo» sibilò lui nervosamente.
«Okay. Allora ti aspetto con Kotaro» sbottò Chiharu – la sua tolleranza aveva limiti ridottissimi.
Ma lui la afferrò per un polso prima che potesse alzarsi in piedi. «Aspetta» sussurrò, sempre nascosto dietro il braccio.
Il cuore di Chiharu accelerò nel petto. Senza volerlo ricordò il giorno in cui lui aveva provato a fermarla nello stesso modo, al parchetto, e ricordò il disprezzo con cui si era liberata dalla sua stretta. Quante cose erano cambiate...
«Mi sembrava di infastidirti» mormorò polemica, ma senza allontanarsi.
«Non è vero. L’ultima volta che sono stato davvero bene ero con te, quindi resta.»
Chiharu lo vide arrossire leggermente. Non ribatté. L’ultima volta era un’introduzione che aveva il potere di ammutolirla, in quel momento.
Così rimase ferma, inginocchiata accanto a lui, con la sua mano fredda stretta attorno al polso. Rimase lì e non parlò, non sbuffò, non sbadigliò, non fece assolutamente nulla fuorché pensare a quali rimedi conosceva contro l’emicrania, a cosa sarebbe successo se Kotaro avesse deciso di cercarli in quel momento, a quanto il suo stupido corpo le suggerisse che in due abili mosse poteva essere su di lui... Finché Hitoshi non se ne uscì con quella cosa – e lei capì che prima o poi sarebbe dovuto accadere, e maledì il momento in cui si era sentita pietosa nei suoi confronti.
«Baciami.»
Chiharu trasalì. Lo fissò, con un’espressione che era un curioso miscuglio di sorpresa, orrore e incredulità. «Scusa?»
Hitoshi sbuffò e tolse il braccio dalla faccia, lasciandolo cadere sulle foglie secchie. La guardò. «L’ultima volta stavo bene. Davvero bene, intendo, nemmeno un vago accenno di emicrania. Ora invece non passa, e forse non è sufficiente che tu sia qui. Forse erano le cose che facevamo a... Insomma, mi capisci?»
Chiharu si trovò di nuovo con la bocca asciutta di fronte all’incipit l’ultima volta. Da qualche parte, dentro la sua testa, un neurone aveva dato il via a un’entusiasmante manifestazione di giubilo.
«Haru?» la richiamò Hitoshi. Ormai aveva intuito che quando si introducevano certi argomenti Chiharu perdeva tutta la sua verve, ma vederla così imbarazzata solo per un bacio non sapeva se era irritante o semplicemente ridicolo.
«Sei un cretino» sibilò lei riscuotendosi dal torpore, il viso arrossato. «Nel mezzo di una missione in territorio nemico e con Kotaro a venti metri tu mi chiedi un bacio. Ti sei bruciato più cervello di quanto immaginassi.»
«Se io sono un cretino tu sei una deficiente» replicò Hitoshi stancamente, incapace di raggiungere la vera esasperazione. «Sono due giorni che non ci tocchiamo neanche, e se sei umana lo sai anche tu cosa si prova. Se fossimo stati almeno in quattro avrei mollato Kotaro con Naruto molto prima e saremmo rimasti soli.»
A quella confessione una parte di lei si risvegliò, ma Chiharu guardò altrove e la respinse nel profondo. «Non confonderti. Io non sono un animale, come evidentemente sei tu.»
«Haru...» sbuffò Hitoshi fiaccamente.
Chiharu sentì il rumore delle foglie secche che scricchiolavano. Tornò a guardarlo in tempo per vederlo che si tirava su e la fissava.
«Baciami» le ripeté in un sussurro.
Lei sbatté le palpebre. Oh, merda, pensò con convinzione. E un attimo dopo, la convinzione a quel paese, rispondeva al suo bacio, pensando pure che anche se stava tanto male non si sentiva affatto. E due attimi dopo, mentre Hitoshi si faceva indietro con un gemito, staccava la mano dalla sua maglietta pregando che non si fosse accorto del suo trasporto.
«Non va...» sussurrò lui, appoggiando la fronte alla sua spalla. «E’ massacrante. E’ una tortura. Non riesco nemmeno a baciarti, mi sento la testa tutta rintronata...»
Chiharu ringraziò il cielo per la sua testa rintronata: altrimenti, missione o no, temeva che l’elenco dei suoi errori si sarebbe allungato.
«Rimettiti giù» gli consigliò allontanandolo delicatamente. «Io vado a scambiare due parole con Kotaro.»
Hitoshi obbedì, perché con la schiena a terra la testa almeno non girava. La guardò con un leggero dispetto: avrebbe voluto sapere cosa c’era di tanto importante da dire a Kotaro, per lasciarlo in un momento così difficile, ma tacque. Dopo la missione avrebbe messo le cose in chiaro con lui; adesso la priorità era rimettersi in sesto per eseguire il piano.
Chiharu liberò il polso e si rialzò in piedi, avviandosi verso il riparo in cui avevano lasciato gli zaini. Hitoshi non la salutò, convinto di avere davanti molto tempo per le effusioni... E questo fu un grave, ingenuo errore.

Chiharu tornò da Kotaro con espressione funerea.
«Allora?» si informò lui, seduto accanto agli zaini con una mappa tra le mani. Vederla indietro così in fretta lo rassicurò: era stato difficile non seguirla di nascosto per controllare Hitoshi.
Lei non rispose subito né si accomodò. Rimase in piedi, circondata dagli arbusti in cui si erano nascosti, e si morse nervosamente l’interno di una guancia.
«Non ce la fa» ammise alla fine. «Non riesce quasi a stare seduto.»
Kotaro fece una smorfia. «Porca miseria...» mormorò inquieto. «Così la missione salta.»
Chiharu esitò. «Non è detto» sussurrò dopo qualche istante, con una certa reticenza. «Possiamo cambiare un po' il piano...»
«Lascia perdere le copie» sbuffò Kotaro. «Se ci mollano nel mezzo delle operazioni siamo morti.»
«Lo so» sbottò lei stizzita. «Non parlavo di copie. Pensavo a una sostituzione.»
Kotaro la fissò stranito. «Che ce ne facciamo di un tronco?»
«Non quella sostituzione! Mandiamo a casa Hitoshi.»
Kotaro sollevò le sopracciglia in un'espressione sorpresa. «Hai intenzione di chiamare Naruto?»
«No. Cioè, ci ho pensato, e sarebbe l’ideale... magari verrebbe anche, scemo com’è, ma adesso è Hokage, sarebbe una richiesta idiota. Per questo...» rallentò, fece un grande respiro. «...chiamiamo Stupido.»
Anche se l’ultima missione a quattro l’aveva convinta che non potevano collaborare con nessuno, la situazione era di pura emergenza e non poteva semplicemente concludersi con un rientro. Non avrebbero avuto altre occasioni per salvare Loria: se la spia a Suna si fosse accorta del tentativo, l’ostaggio sarebbe stato spostato altrove e le condizioni di Gaara sarebbero diventate più che critiche. Non potevano abbandonare la missione e non potevano metterla a rischio con Hitoshi, quindi l’unica soluzione era chiedere a Baka di sostituire l’Uchiha, per quanto complicato apparisse. Lei forse era quella meno entusiasta di chiamare proprio Stupido – visto come si era svolto il loro ultimo incontro – ma non aveva altre proposte valide, dato che non avrebbe mai chiamato Yoshi per una missione fuori dal Paese del Fuoco.
Oh, Hitoshi non l'avrebbe presa affatto bene... Chiharu si sentiva molto a disagio all'idea di comunicare la notizia all'Uchiha: avrebbe avuto più tempo per decidere come affrontare la situazione con lui, ma contemporaneamente avrebbe rischiato di offenderlo abbastanza da non avere più niente di cui discutere.
Kotaro fissò Chiharu con cautela, aspettandosi di vederla scoppiare a ridere da un momento all’altro.
«Stai scherzando, vero?» chiese quando il silenzio si fu protratto considerevolmente.
«No» sbottò lei un po’ irritata. «Hitoshi è K.O., non possiamo perdere tempo e Baka è l’unico che abbia mai vagamente collaborato con noi, l’unico che possa reggere il ritmo.»
«Ma è una follia!» esclamò Kotaro. «Baka è un Anbu, avrà le sue missioni! Non può mica fare fagotto e venire con noi solo perché tu pensi che sia adatto! Piuttosto Jin!»
«Jin è con Kakashi.»
«Come lo sai?»
«Ho ficcato il naso prima di partire...» Chiharu si mantenne sul vago.
«Comunque non esiste. Un Anbu non può staccarsi dalla sua squadra per venire ad aiutare noi, e Hitoshi...» Kotaro si lasciò andare a un’esclamazione sprezzante. «Piuttosto che farsi rimandare a casa - per di più sostituito da Stupido! - preferirebbe far incidere il suo nome sulla lapide degli eroi!»
«Non ho intenzione di tornare a Konoha con un nulla di fatto per salvare l’orgoglio di un Uchiha! E Baka verrà. Naruto ce lo spedirà di corsa, lo recupererà ovunque lui sia, fidati. Se fosse già diplomato mi sarei fatta spedire Yoshi, ma data l’importanza della missione chiamarlo sarebbe un rischio...»
Kotaro dentro di sé pesò Yoshi e Stupido e si rese conto che nello scambio gli era andata bene. Ma comunque restava un’idea destinata al fallimento: chi avrebbe portato a casa Hitoshi? Quanto tempo ci sarebbe voluto perché Baka arrivasse? Come li avrebbe trovati? C’erano troppi punti di domanda, e Kotaro lo fece presente. Ma Chiharu, a sorpresa, sospirò come se si fosse sempre aspettata quella parte della discussione.
«Temo di poter intervenire io...»
«Stai dicendo che sai come portare Hitoshi a casa, farci trovare da Baka e farlo arrivare in tempi ragionevoli?» allibì Kotaro.
Lei alzò gli occhi verso il cielo che si tingeva d’arancio e perse qualche secondo in calcoli.
«Ad occhio e croce direi che per domani notte Baka sarà qui.»
«No. No, è assurdo» Kotaro si arruffò i capelli. «E’ fisicamente impossibile! Che diavolo stai dicendo?»
«Senti, il cervello del gruppo sono io, giusto? Ho fatto i conti e ti dico che ce la possiamo fare.»
«Ma... Ma... Anche se fosse, Hitoshi...»
«Per domani Hitoshi non capirà nemmeno chi è» promise lei cupa. «E, per quanto sembri una minaccia, in realtà è solo una previsione.»
Kotaro la fissò ansiosamente. Era un piano raffazzonato in fretta e furia, lacunoso, approssimativo... Chiharu sembrava sicura di sé, ma a lui pareva che le probabilità che tutto andasse per il verso giusto fossero infime. Scosse la testa, per niente convinto, e scrutò torvo i suoi occhi, che invece erano quelli a cui era abituato, gli stessi che dicevano in lettere capitali: NON ME NE FREGA NIENTE DI QUELLO CHE PENSI TU.
«E’ proprio l’unica soluzione?» mormorò con una smorfia.
«Ne ho valutate altre, ovviamente, ma questa è la più sicura» sbuffò Chiharu. «Per chi mi hai preso?»
Kotaro si strinse nelle spalle sconsolato. Se questa è la più sicura, siamo messi davvero male, disse dentro di sé. E a quel punto, come previsto, come era scontato e come era necessario, scrollò le spalle e assentì con il capo.
A fare tutto senza nemmeno parlare con Hitoshi si sentiva un verme. Ma sapeva che guardandolo negli occhi avrebbe perso quel poco di convinzione che Chiharu gli aveva inculcato, così preferì voltargli le spalle e seguire la via più semplice. Per il bene di tutti, si disse, e cercò di convincersi che quella fosse la sola ragione... Anche se era difficile sentirsi con la coscienza pulita.
«Vado a spedire il messaggio» concluse Chiharu, e prima che Kotaro le chiedesse come aveva intenzione di fare scomparve tra i cespugli sfilandosi il kunai dalla cintura.


*


Ormai era quasi impossibile tenere la bocca chiusa. Jin si aggirava per le strade di Anka famelico, nervoso come un trentaquattrenne esaurito, le mani pesantemente affondate in tasca e le occhiaie sulle guance di ragazzino.
Mentre camminava per quella che gli sembrava l’ennesima vita - anche se si trattava solo di un paio di giorni - senza trovare nulla di utile, senza sentir parlare di donne dai capelli rossi e soprattutto senza sapere niente di passaggi segreti, capì che sarebbe stato molto difficile non sommergere Kakashi di domande quando lo avesse rivisto. Gettò un’occhiata alla montagna su cui si ergeva la rocca dei mercenari, già illuminata dalle torce. Non dovette nemmeno socchiudere le palpebre per contrastare il chiarore del tramonto vicino a scomparire. Era ora di rientrare.
Con passo nervoso girò per una stradina delle tante che ormai conosceva come le sue tasche e si trovò immerso in un’ombra più densa di quanto si aspettasse. Si fermò per abituarsi all’oscurità, ma non si agitò: la sera prima un povero idiota aveva avuto il coraggio di provare a sfogare le sue perversioni su di lui ed era tornato a casa con il naso fratturato e una spalla lussata.
Trottò senza far rumore fino in fondo al vicolo, sbucando in una piazzetta squallida e ancor più buia al cui centro troneggiavano i resti di una fontana coperta di muschio. Probabilmente tanti anni prima Anka era stato un villaggio ricco e prospero. Forse c’era stato un uomo importante che ne aveva controllato i campi, le entrate, le provviste, forse c’era stato un capovillaggio forte, persone ricche, facce felici. Ma evidentemente quell’epoca era tramontata da tanto tempo che nessuno sembrava ricordarsene più.
Jin scattò di lato e puntò il kunai alla gola dell’uomo che lo seguiva.
«Calma» disse subito quello, levando le mani. La voce era di Kakashi.
«Zio?» ribatté Jin senza abbassare l’arma.
«Sono tuo padre.»
Jin si rilassò e fece un passo indietro. Ogni volta che si incontrava con Kakashi gli faceva una domanda a trabocchetto per verificare che non fosse un nemico trasformato, ma quella sera la conferma non lo rilassò granché.
«Allora?» chiese seccamente. «Abbiamo qualcosa o no, finalmente?»
«Forse» Kakashi raggiunse il limitare della piazza e percorse un vicolo senza spiegarsi. Jin lo seguì stizzito, ma non lo costrinse a parlare finché non ebbero raggiunto l’edificio che usavano come nascondiglio dal giorno del loro arrivo. Kakashi si assicurò che le imposte fossero sigillate e accese una candela.
«Oggi ho giocato a dadi con un mercenario» spiegò cercando il suo zaino. «Aveva lavorato come guardia nella rocca, mi ha descritto gli appartamenti interni» Tirò fuori un rotolo di pergamena bianca e una penna. Prima di continuare tracciò alcune righe sul foglio mentre Jin si inginocchiava accanto a lui. «Ci sono due ali principali, quella del signore e quella delle donne e dei bambini. I domestici dormono quasi tutti in una stanza nell’ala delle donne e comunicano con l’esterno grazie ai mercenari. Nessuno esce e nessuno entra, gli scambi avvengono qui» cerchiò l’ingresso principale.
«Aspetta, fermo» lo interruppe Jin. «Noi a cosa puntiamo di preciso?»
«All’ala delle donne.»
«La mamma è lì, vero?» un fremito nella voce.
«Jin, hai promesso di non fare domande.»
«Devo sapere cosa andiamo a fare!»
I due shinobi si fissarono corrucciati.
«Papà, non fare il vigliacco» mormorò Jin. «Non puoi tirarti indietro adesso che siamo arrivati qui.»
Kakashi non rispose. Più si avvicinava il momento di agire e meno era sicuro di come muoversi. Nelle sue indagini non aveva sentito parlare di donne dai capelli rossi.
«Non è così semplice» si passò una mano sul viso. «Nemmeno io so con certezza cosa stiamo facendo.»
A quelle parole Jin sentì tutta la frustrazione covata negli ultimi giorni risalire in gola ed esplodere, e non fece nulla per arginarla: «cosa vuol dire che non sai cosa stiamo facendo?» gridò. «Siamo partiti da Konoha nel massimo segreto, come dei ladri! Hai mollato la carica di Hokage per venire fin qui, e non sai perché?» Kakashi non ribatté. Jin tirò una manata al suo zaino, che rotolò sul pavimento perdendo parte del suo contenuto. «E’ davvero per la mamma, almeno?» domandò con voce vibrante.
«Spero di sì» mormorò Kakashi crollando le spalle. Stanchezza e tensione gli pesavano addosso come macigni. «Non so se riuscirei ad affrontare la sua morte per la terza volta.»
«Cosa?»
Kakashi si protese per radunare le cose sfuggite dallo zaino, rimproverandosi per l’attimo di debolezza.
«Jin, ti avevo esposto chiaramente le condizioni» disse riacquistando rapidamente il controllo della situazione. «Io comando, tu esegui. Non fai domande, obbedisci e basta. Adesso ti parlerò del piano. Qualunque rimostranza o lamentela tu voglia fare, rimandale a quando avremo varcato i confini del Fuoco. Mi sono spiegato?»
Jin deglutì un paio di volte prima di annuire rigidamente. Non era particolarmente turbato dal tono severo di Kakashi, quanto dalla breve frase che si era lasciato sfuggire. Terza volta?
«Allora» riprese il Jonin puntando la mappa. «Dobbiamo raggiungere l’ala delle donne, e per farlo passeremo dallo scolo del laghetto del giardino.»
«Impossibile. Ho controllato il perimetro, non ci sono varchi. Il canale di scolo è ostruito da una grata infissa nella roccia» mormorò Jin.
Kakashi sfilò dallo zaino un involto e glielo tese: all’interno era pieno di bombe carta impermeabilizzate per essere utilizzate sott’acqua.
«Non sei riuscito a scoprire niente sul passaggio segreto?»
Kakashi scosse la testa e proseguì: «una volta entrati restiamo nel canale fino a raggiungere il laghetto, ed emergiamo in un punto riparato. Da lì ci insinuiamo sotto le fondamenta e strisciamo fino all’ala delle donne. Tutto chiaro?»
«Come evitiamo le guardie?»
«In questo lato del palazzo la sorveglianza è minore. I mercenari sono alloggiati negli appartamenti esterni e il signore del villaggio è dall’altra parte della residenza. Sarà sufficiente non farsi scoprire in mezzo al giardino.»
«E per la fuga?»
«Usiamo la stessa via per cui siamo arrivati, oppure ci inventiamo qualcosa al momento.»
Jin si passò una mano sulla fronte, osservando lo schizzo di mappa sulla pergamena e cercando di ricordare la zona vicino al canale di scolo. Gli sembrava un piano troppo vago e pieno di incognite, ma capiva che non avrebbero avuto informazioni più precise.
«Quante possibilità ci sono che sia un fallimento?» chiese con la gola secca.
«Dipende da cosa intendi per fallimento» rispose Kakashi.
Jin annuì. Sulla punta della lingua sentiva fremere un milione di domande che esigevano una risposta, ma ne selezionò solo una, quella che aveva più probabilità di non essere zittita bruscamente. «L’obiettivo della missione... Come la riconoscerò?»
Kakashi però scosse la testa. «Lascia stare. Se c’è la riconoscerò io.»


  
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