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Autore: Elle Douglas    11/12/2014    1 recensioni
Cosa succederebbe se nella vita di Killian Jones, d’improvviso, tornasse il suo vero primo amore?
No, non Milah, ma qualcuno di ancora più profondo, celato, intimo e nascosto che sapeva fosse morto per sempre? Come reagirebbe Killian? Ed Emma, che ormai sembra aver trovato l’amore? Chi sceglierebbe arrivato a quel punto?
Come cambierà la storia? E quanto scopriremo di più su quest’uomo?
Scopriremo che c’è ben altro dietro Killian Jones, c’è un'altra storia nascosta e non ancora raccontata di un uomo che ha perso tutto e che più di tutti ha perso qualcosa di profondo che credeva irrecuperabile.
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‘I suoi occhi verdi, verdissimi come lo smeraldo sono dentro ai suoi, e per un attimo una lacrima gli scorre su quel viso etereo.
Quante volte aveva pianto credendola persa? Quante volte si era pentito di averle dato quella scelta? Quante volte avrebbe voluto tornare indietro e cercarla, salvarla?
Ed ora era lì davanti a lui.
Vera, viva ma prigioniera.’
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La storia inizia con gli avvenimenti della 3x17, tutto il resto è una mia idea.
Genere: Fantasy, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Killian Jones/Capitan Uncino, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I thought I'd lost you forever'
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XI CAPITOLO
 
EEEEEE son di nuovo qui, mi dispiace tanto per l’attesa che avete dovuto patire (?) ma ci è voluto un po’ per sviluppare questo capitolo, perché non volevo lasciare nulla al caso e volevo renderlo al meglio intrecciando due storie diverse e raccontandole in una nuova chiave che spero apprezziate.
Il capitolo inoltre è venuto più lungo del solito, tutta colpa della mia fantasia che divaga e non è mai in grado di fermarsi entro certi limiti.
Spero comunque che il capitolo vi prenda e mi facciate sapere cosa ne pensate, perché seriamente è stato un ‘lavoro’ scriverlo e intrecciarlo in tutto e per tutto dandogli una parvenza di credibilità, ecco.
Spero che il risultato finale vi dia la visione giusta della cosa, questo vorrebbe dire che sono riuscita nel mio intento di trasmettervi ciò che ho in testa riguardo questa storia.
Okay, ora la smetto di scrivere e vi lascio al capitolo.
 
Buona lettura. :*
 
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‘Che ti è successo?’ continuava a chiedermi mentre non faceva altro che guardarmi misurando ogni mia minima espressione.
Come se cercasse la mia storia nella pelle, nei miei gesti, negli occhi e negli sguardi che gli negavo.
La sua mano, l’unica che gli era rimasta, era intrecciata alla mia in un legame quasi indissolubile, e appena la mia pelle, la mia anima sentii quel contatto sulla propria pareva essersi ritrovata. Dopo aver vagato per secoli alla sua ricerca ora le era accanto e sembrava più calma, più serena, meno sulla continua difensiva che aveva instaurato negli anni.
Quell’intreccio e quelle dita, mai in quella vita mi erano sembrate così vere come ora. Con lui la sua rabbia, le sue difese crollavano tutte insieme.
Continuavo a guardare in basso perché sapevo quanto quella storia, quella che avevo vissuto mi avesse indebolito e rinforzato allo stesso tempo. Non l’avevo mai raccontata a nessuno, l’avevo sempre tenuta per me, dentro il mio stomaco, nelle mie viscere a logorarmi. La mia storia era in ogni mia trama, era ciò che ero, in ogni mio tessuto corporeo e solo io la conoscevo. L’avevo portata dietro come un fardello enorme e ci avevo convissuto per anni senza mai dividerne quel peso con nessuno, perché mai più di nessuno mi ero fidata in quella vita.  Come avrei potuto dopo tutto ciò che avevo passato?
Temevo che anche solo a parlarne tutta la mia sicurezza, tutti gli scudi che avevo alzato nei secoli cadessero di botto a terra davanti a lui e la paura di rimanere inerme, di nuovo, mi terrorizzava.
Non ero più quella di un tempo. L’Esmeralda che conosceva Killian aveva lasciato briciole e si era volatilizzata nel nulla, perché non era stata abbastanza. Perché si era fatta sconfiggere. Perché lui non la voleva più.
Eppure con lui accanto sembrava riemergere e ritornare bramando le sue parole e la sua pelle e stringendo ancora di più quella mano che le dava calore e protezione.
A lei che aveva dimenticato persino il significato di quel termine.
A lei che non ne sentiva più il calore.
Gli occhi mi bruciavano al sol pensiero di proferir parola a riguardo, eppure li trattenevo perché avevo paura della mia debolezza. Avevo paura di tornare la vecchia Esmeralda, quella che conosceva lui, e volevo dimostrargli che non ero più quella persona, che ero cambiata. Ero diventata più forte, ma il solo formulare parola su quella mia vita mi avrebbe fatta cadere e stramazzare al suolo.
Eravamo sul letto, quello su cui eravamo stati sdraiati per tutto il tempo quel giorno, io continuavo a fissare un punto fermo del pavimento di fronte a me senza incrociare i suoi occhi.
‘Che ti è successo durante tutti questi anni? Ti prego, dimmelo. Rendimi partecipe. Non ti giudicherò, qualsiasi scelta tu abbia preso durante quella vita non sarà affar mio.’, proferì quasi implorante.
Con l’uncino, cercò di alzarmi il viso con la massima cautela possibile, attento a non farmi alcun male, ma che male avrebbe potuto farmi un uncino appuntito di fronte a ciò che mi era stato inflitto negli anni, mi domandai.
Quando incontrai i suoi occhi, vidi la pace di quel cielo a cui secoli prima affidavo tutto, a cui raccontavo tutto, e che mi mancava tanto. Vidi quel cielo che non avevo smesso di cercare. Vidi quel capitano che negli anni era diventato la mia unica certezza e il mio unico obiettivo. La mia unica ancora in quella vita che si era rivelata una miseria e una disgrazia.
Ora come allora, mi persi in quel cielo e gli carezzai il volto quasi istintivamente.
La barba leggermente incolta mi riportava in mente ciò che avevo lasciato alle spalle, e ciò che avevo sempre cercato in chiunque incontrassi sulla mia strada.
Il suo volto, i suoi occhi, il suo sorriso, le sue cure, mi erano rimaste dentro come un segno indelebile e rovente, che il tempo non aveva distrutto e che la speranza aveva solo affievolito.
Ormai incapace di credere davvero in un nuovo incontro con lui.
‘Ti ho cercato per tanto, troppo tempo. E ora averti qui, davanti ai miei occhi mi sembra un sogno. Un'altra delle mie ennesime visioni..’ gli dissi nel modo più sincero. ‘I tuoi occhi erano l’unica cosa a guidarmi in quell’oscurità che mi era stata imposta. Una delle peggiori oscurità a cui potessi essere soggetta’, confidai mentre lui ascoltava. ‘Davanti ai miei occhi è passato di tutto. Ho varcato soglie di mille città, ho conosciuto molte persone, ho avuto veri amici, e gente che credevo fosse tale. Ho subito perdite, tradimenti, ho salvato persone, e ne ho condannate altre per salvarmi da un destino peggiore che è sopraggiunto comunque. Non ho mai trovato niente di più simile a te, che mi desse le stesse sensazioni. Le stesse emozioni. Che mi proteggesse davvero dal male che subivo. Ho vagato tanto. Quando andai via da quella locanda con quegli uomini, una parte di me sperava fosse un incubo e che tu saresti venuto a salvarmi, magari rinvenuto dalla tua decisione iniziale di lasciarmi, ma non è stato così’. Provò a parlare, ma lo zittì con un dito sulle labbra, se mi avesse interrotta in quel momento non sarei più stata capace di continuare.
‘Sapere che ero stato un peso per te in tutti quegli anni, e i tuoi ultimi comportamenti prima di andarmene, non faceva altro che avvalorare quella tesi e buttarmi giù completamente’.
Un profondo rimorso attanagliava il suo volto a quelle parole. Serrò le mascelle cercando di fare quello che gli stavo chiedendo.
‘Negli anni ho subito le peggiori angherie da parte dell’uomo a cui ero stata affidata e dei suoi uomini. Per un decennio e anche oltre, sono stata sua prigioniera. All’inizio tenevo il conto dei giorni nella speranza che qualcosa cambiasse, qualcosa succedesse, che qualcuno arrivasse. Quella speranza mi ha sempre fregata’. Sorrisi tra me di un sorriso amaro, ricordando l’esperienza con mio padre che era già successa e che avrebbe dovuto impararmi la lezione già tempo prima riguardo quella vana speranza che mi salvasse da quella che allora avevo considerato un maltrattamento.
‘Poi persi anche quella e con lei la conta di quelle torture. Mi tenevano esiliata in una segreta al di sotto di un enorme palazzo, forse un castello abbandonato, non ne ero certa. Lì sotto era costantemente buio, nessuna luce filtrava, non c’erano finestre, a volte mi chiedevo come facessi a respirare in un tale luogo, avevo continui sensi di mancanza d'aria e i muri erano costantemente freddi e umidi con un cattivo odore di muffa. Quasi come se piangessero loro per me. Non avevo qualcuno che si prendesse cura di me, nessuno pensava a coprirmi o a riscaldarmi, e non avevo altro che una vesta leggera addosso, quella vesta con cui mi hai visto l’ultima volta, secoli fa, mi era stata strappata di dosso e probabilmente venduta o non so cosa. A nessuno importava se stavo bene o meno, a nessuno importava dei miei sentimenti e del senso di ribrezzo che avessi dentro. Avevo il freddo nelle ossa, oltre che nell’anima e c’erano periodi in cui quella forza d’animo che avevo, ancora, andava smorzandosi come le fiamme delle loro fiaccole quando venivano a trovarmi. E bada, non erano visite di piacere, o almeno quel piacere non riguardava me poiché provavo tutt’altro. Passavano giorni prima che si ricordassero di me e mi portassero qualcosa da mettere sotto i denti, e questa potrebbe sembrarti la parte peggiore, ma non lo è’. Cosa poteva esserci di peggiore rispetto a tutto questo? probabilmente fu questo che gli balenò in mente mentre mi riservava un espressione corrucciata e apprensiva, mista alla rabbia che lo stava facendo diventare paonazzo. O forse fu questo che io ci lessi nel vederla.
Non proferii parole, forse perché non ne trovava.
‘Sin dal primo giorno, in quella… stanza non avevo possibilità di muovermi liberamente come sulla tua nave. Sin dal primo giorno venni legata con le mani sopra la testa a una corda che mi teneva legata al soffitto, e se non c’era la corda, c’erano le manette al muro e quelle erano un trattamento ben peggiore. I polsi erano entrambi un dolore lancinante che mi portavo dietro in quelle giornate, le corde erano così strette che pensavo che mi avrebbero tranciato le ossa prima o poi. E sai cosa pensavo in quei momenti? Per farmi forza, per non arrendermi ai fatti e al dolore che mi opprimeva? A te. A te e al tuo rum, come la prima volta quando mi curasti le ferite. In qualche modo quel pensiero mi portava avanti nel tempo. L’immaginare molte volte mi aiutava a resistere.’.
Sorrise lievemente, greve.
Prese la mano che aveva nella sua e se la rigirò per analizzarne i contenuti. Iniziò a tracciarne i solchi, che nonostante gli anni avevano lasciato dei segni evidenti sulla mia pelle, che ora facevano parte della mia storia evidente, e che negli anni avevo coperto con bracciali per non darli a vedere in modo così pronunciato.
‘Cercavo di farmi forza anche quando…’, deglutii a vuoto cercando quella forza di dirlo ad alta voce. Non l’avevo mai detto, a nessuno, nemmeno a me stessa in verità. Non avevo mai avuto il coraggio di dirlo ad alta voce nemmeno quando ero sola, e di fronte a lui provavo un senso di vergogna.
‘Quando?’, chiese lui impaziente e preoccupato.
‘Anche quando abusavano di me’. Il suo volto a quelle parole, i suoi occhi sembravano essere in tempesta, la sua mascella si serrò e i suoi muscoli in quell’istante s’irrigidirono di colpo, proseguii non badandoci. Ogni minima sua reazione sarebbe stata la mia esplosione e non potevo permetterlo.
‘Ero il loro giocattolo. Ero il loro piacere, ed ero il loro sfogo. Sei una di una bellezza rara, e io le rarità non solo le conquisto ma voglio anche possederle. Era così che aveva esordito quell’uomo quando l’aveva fatto la prima volta. Inutile dire che piansi per tutto il tempo, cercando di liberarmi e di chiedere aiuto, ma ero sola e non me la sarei cavata facilmente. Ciò che ne conseguì dopo fu la cosa che credevo più vicina alla morte. Il dolore lancinante che provai, fu pari al nulla su questa terra, e credevo di perire in quel preciso istante mentre lui non faceva altro che ridermi sopra, divertendosi in quella visione. Inghiotti lacrime amare e lui sembrava ancor di più godere a tutto questo. Il suo sguardo, le sue risa sono l’immagine più orrida che mi sono portata dietro sino ad ora. Dopodiché aspettai la morte perché non facevo altro che sanguinare, e sperai di finirla lì piuttosto che andare avanti. Ma per qualche motivo continuai a vivere sorbendo tutti i loro soprusi sulla mia pelle. Con il tempo imparai, ad annientarmi in quei momenti, come a spegnermi. Era molto più semplice. Restavo lì solo con il corpo, ma con la mente ero altrove, così da alleviare quei momenti, quei dolori, quella continua sofferenza e vergogna che provavo per essere finita in quel modo per non so quale giustizia divina. Forse era il prezzo da pagare per non essere stata uccisa da te quando mio padre non pagò il riscatto, non trovi?’, Sorrisi, tirando su con il naso e incrociando i suoi occhi specchio dei miei.
Una lacrima era incastrata tra le ciglia, pronta a cadere.
Strinsi gli occhi così che avvenisse il più presto possibile. La sua mano sfuggì dalla mia. Riaprì gli occhi impaurita del motivo. L’aveva fatto per raggiungere la mia guancia e raccoglierne quella lacrima che non ero riuscita a trattenere dentro, che non era riuscita ad essere forte e voleva mostrarsi per forza a lui. Dopodiché la riprese e la strinse in modo più saldo.
‘Sono qui, non vado da nessuna parte’, aggiunse.
Cercai di farmi forza per riprendere il filo di quel discorso, di quella vita che gli stavo donando senza farmi influenzare da quei gesti improvvisi.
Non ora. Mi dicevo, ogni volta che un magone sopraggiungeva pronto ad esplodere.
‘Passavano i giorni, e non sapevo più dare una definizione al peggiore, perché era tutto ciò che c’era intorno a me che poteva essere definito tale. Dai momenti in cui abusavano di me, ai momenti in cui presi dalla rabbia mi picchiavano. E non erano cauti nel farlo. Bastava una rissa fuori, un conto in sospeso, qualcosa successa al di fuori, e ciò che non potevano fare al dì fuori alle persone che li avevano provocati, facevano a me. Una volta in un avvenimento del genere mi spezzai anche un osso, e fu il primo di una lunga serie. Non so quanto ci volle per guarirmi del tutto, ma nonostante il dolore che avevo dovevo sopportare, perché questo non li fermava dai loro intenti, loro continuavano imperterriti …’.
‘Dove sono questi uomini?’, ringhiò lui sopraffacendomi.
Restai perplessa.
‘Sono passati secoli Killian, e poi che importanza avrebbe ora?’
‘Ogni cosa che ti hanno fatto, ogni cosa che hai subito… non possono restare impuniti. Gliel’ha farò pagare’, disse a denti stretti.
Cercai di calmarlo, cercando di prendere il suo viso tra le mani.
‘Siamo insieme ora, che importanza avrebbe?’, gli feci notare sorridendo. ‘Anche se li troveresti, anche se gliela faresti pagare, cosa cambierebbe? Niente. Il dolore che ho patito per anni resterebbe al suo posto, non me lo leveresti’. D’un tratto s’incupì.
‘Non avrei mai dovuto ubriacarmi. Avrei dovuto proteggerti e ho fallito, io non so come tu faccia a perdonarmi. Ad essere qui ora, e a guardarmi come se fossi un eroe.’.
‘Forse è vero, non avresti dovuto ubriacarti, ma Milah avrebbe trovato un altro modo per togliermi di mezzo se tanto lo voleva. E tu sei il mio eroe, perché mi hai salvata in tutti i modi in cui una ragazza dovrebbe essere salvata. In modo inconsapevole, ma lo hai fatto e mi hai dato forza per andare avanti. ’.
‘Ma se ti fossi stato accanto-‘
‘-sarei stata la ragazza più felice di tutti i reami.’ Conclusi.
Annui, arrendendosi a quel dibattito e a quell’estrema voglia di cercare una colpa in sè.
Era cambiato Killian, qualcosa del capitano che avevo conosciuto tempo prima, era scomparso. Era scomparso ciò che era con gli altri, quella maschera che indossava era sparita lasciando spazio all’eroe, e alla meravigliosa persona che era con me. Aveva lasciato spazio a sé stesso, quello vero.
Sorrisi.
‘E comunque dopo un decennio, quasi, ho trovato l’occasione di fuggire’, continuai. ‘Dopo un… incontro con uno di loro, quello era ancora infervorato dall’amplesso e non strinse bene le corde che mi tenevano legata, e non appena mi fu possibile mi feci forza sulle mie stesse braccia per innalzarmi e mentre questi era di spalle intento ad andarsene, calciai sulla sua schiena con tutta la forza e la rabbia che conservavo da tempo, e lo buttai giù, facendolo piombare a terra. Mi liberai di quella debole presa, presi le chiavi che erano cadute a terra, e scappai il più veloce verso la porta della cella e chiudendolo all’interno. Avevo poco tempo perché sapevo che mi avrebbero cercato da lì a poco appena avrebbero udito il loro compagno dare l’allarme. Con estrema cautela seguì il lungo corridoio sotterraneo fino a vedere una piccola luce, arrivai ad una porta e mi catapultai fuori, restando quasi accecata e incespicando per il sole che non vedevo da tempo e della quale avevo persino dimenticato il calore, ma mi feci forza, mi schermai il viso e cercai di avanzare prima che cercassero anche solo di riprendermi. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che ero stata fuori che quasi non riuscivo a reggere lo stupore. Persino il vento sulla pelle mi sorprendeva.
Più in là trovai uno straccio abbastanza lungo per coprirmi e mi ci avvolsi, cercando riparo. Fu la prima cosa che rubai, in verità.
Eravamo nel pieno freddo in quel periodo.
Era l’inverno più gelido che io avessi mai sentito sulla pelle in tutti quegli anni. La brina copriva ogni cosa avessi dinanzi, potevo persino vedere il vapore del mio stesso respiro. Piccole nuvole lente e dense che si spandevano davanti al mio viso prima di dissolversi nel nulla  avevo le mani intorpidite e le mie gambe non erano da meno, e nonostante il drappo non coprisse abbastanza era comunque qualcosa per coprirmi.
Per settimane dormii al riparo e ben nascosta da sguardi indiscreti mentre Febo e i suoi uomini avevano dato ordine di cercarmi in ogni dove.
Cercai di sopravvivere, da sola per la prima volta.
Pochi giorni dopo, mentre ero al molo, vidi un barcone in partenza per una nuova meta e mi ci intrufolai fingendomi una zingara.
Da lì arrivai in un nuovo paese, una nuova città che non conoscevo e che ignoravo: Parigi’.
 
Quando arrivai in quel nuovo paese mi sentii sperduta, perché non sapevo dove realmente metter piede, dove andare, o anche cosa fare per sopravvivere.
Perché dovunque andassi era sempre e comunque un sopravvivere e mai un vivere pienamente.
Mi guardavo intorno ed esploravo ogni angolo e ogni anfratto della città perché mai avevo visto niente del genere.
Enormi edifici si ergevano al mio cospetto.
Non avevo niente con me, e fu difficile trovare qualcosa.
Non mangiavo da giorni, forse settimane e il mio stomaco continuava a borbottare e a chiedere pietà. Sarei morta di fame, e di freddo pensai, perché oltre a quello straccio che avevo indosso non avevo più nulla.
Vedevo gente come me chiedere l’elemosina per un pezzo di pane, o addirittura cantare o suonare per le strade come mendicanti, così decisi di fare lo stesso. Mi sarei arrangiata a quella vita, e avrei cercato di trarne il meglio perché ero comunque sfuggita al peggio ed era pur sempre una vittoria. Cercavo di vederne il lato positivo.
Ballavo per le strade della vecchia Parigi catturando le attenzioni e facendomi musica con un tamburello rappezzato di basco, ed era l’unico modo per racimolare qualche soldo per un pasto giornaliero.
La gente si fermava dinanzi a me e mi dava qualche spicciolo affinché io ballassi.
Fu in quel momento che incontrai l’altra gente, che come me viveva per le strade e lottava ogni giorno per vivere, furono loro ad accogliermi nella loro casa, se così poteva essere definita.
Vivevano celati in un sotterraneo di un vecchio cimitero dimenticato.
Una tana, se vogliamo nascosta agli occhi di tutti che passava inosservata. Al di sotto c’era una vera e propria civiltà di gente emarginata dalla società che viveva alla giornata e cercava di uscire dalle più disparate situazioni.
Erano esattamente come me, era gente ai confini del mondo che aveva lottato e lottava ogni giorno una propria battaglia, e io ero una di loro, e non ero sola. Ognuno di loro cercava di guadagnarsi qualcosa con le proprie forze. Avevo loro, ed erano diventati una sorta di famiglia nel tempo.
Fu così che per le strade di Parigi venni riconosciuta, e chiamata, come la zingara Esmeralda.
In quella che ormai consideravo la mia gente negli anni venni considerata un entità, lo stesso capo degli zingari, Clopin, mi considerava tale per bellezza e rarità. Attiravo l’attenzione di molti perché considerata una rarità in grazia e bellezza per tutti, a quanto pare, era quello che continuavano a dirmi lì. Partecipavo per questo motivo a molte feste di paese in spettacoli e in balli per il popolo, e fu anche per questo, probabilmente, che attirai attenzione negli anni e divenni oggetto di bellezza indiscussa. E fu in una di queste feste che si tenevano a Parigi ad ogni primavera che incontrai Quasimodo’. Sorrisi al ricordo di quel ragazzo che mi era stato amico per così tanto tempo, e che in tutti i modi possibili aveva cercato di aiutarmi e di salvarmi con ogni mezzo. Mi sembrava quasi di vederlo nel ricordo.
‘Era un ragazzo straordinario, pieno di talento innato. Avresti dovuto vedere ciò che faceva, riusciva a incantarti.’, dissi cercando di rendergli l’idea. ‘Nonostante tutto però non aveva vita facile. Lui non era, non si sentiva come gli altri e non si sentiva degno di essere amato perché si sentiva diverso. E forse lo era, a primo impatto lo notavi subito che non era una cosa a cui eri abituato. La prima volta feci l’errore malsano di uscirmene disgustata appena realizzai il suo volto e me ne pentii subito dopo.’
‘Cosa c’era che non andava?’
Lo guardai cercando le parole più adatte per descriverlo.
‘Era un essere deforme, affetto da cifosi. Tutti in paese lo conoscevano come il Gobbo o il campanaro. Per questo motivo viveva recluso nella torre sinistra del campanile di Notre Dame, a causa del suo padrone. Un arcidiacono, Claude Frollo, che da piccolo lo aveva salvato e cresciuto più come un peso  che come un figlio. Lo aveva cresciuto recluso impartendogli la convinzione della sua deformità e maledizione affinché non uscisse dalla chiesa per nessun motivo e si convincesse che la gente non lo avrebbe mai accettato, a causa della malvagità che albergava nell’umanità. Lui tra tutti diventò la mia rovina. Odiava gli zingari e tra tutti aveva un ossessione per me. Sosteneva che lo avessi stregato, e mi accusava di magia nera dandomi la caccia. Mi considerava l’incarnazione del diavolo, per averlo istigato ad amarmi.
Per venti anni cercò disperatamente il nostro rifugio senza venirne a capo, per questo aveva guardie in ogni dove che dovevamo fuorviare per la nostra incolumità.
Negli anni divenne perseguitato dalla mia presenza, e da me fino a far tutto ciò che aveva in suo poter per annientare il mio popolo, affinché cedessi alle sue lusinghe e alle sue promesse, per questo motivo ci fu un periodo in cui fuggì, stanca delle sue ingiustizie e dei suoi continui abusi di potere e della sua continua caccia nei miei confronti mi allontanai senza però lasciare mai le mura della città e la mia tana, la mia unica casa. Divenni una fuggiasca.
Aveva dato ordine di trovarmi a tutti i suoi uomini, e per colpa mia fece fuori qualsiasi persona avesse avuto, o offrisse rifugio agli zingari di tanto in tanto.
Distrusse locande, affogò altra gente come me nell’estenuante mia ricerca, ne rinchiuse altri perché mi proteggevano senza dirgli dov’ero.  Diede alle fiamme la stessa Parigi per trovarmi, e io non sapevo bene che fare per evitarlo. Io che avevo sempre aiutato la gente ora la stavo condannando ed era tutta colpa mia. Gli bastava trovare un nonnulla e faceva fuori chiunque lo intralciasse nel suo obbiettivo in tutto questo io mi sentivo un inetta. Mi stavo salvando da lui, ma a che costo? I sensi di colpa mi attanagliavano lo stomaco. Voleva che io fossi sua.’ Killian serrò la mascella, combattuto quasi. ‘Per lui erano queste le opzioni: o diventavo sua o sarei stata distrutta. In tutto questo non sapeva niente della mia amicizia con Quasimodo. Non sapeva che più volte era stato lui ad aiutarmi a fuggire dalle sue grinfie, che più volte in quella latitanza mi rifugiai da lui ma iniziò a sospettarlo dopo poco quando trovò qualcosa di mio nella torre in cui Quasimodo viveva e lo attaccò violentemente, mettendolo alla prova e ingannandolo.
Presto sparirà dalle nostre vite, per sempre. Ti libererò dal suo maleficio Quasimodo, non ti tormenterà più perché so dove si trova il suo nascondiglio e domani all’alba, attaccherò con migliaia di uomini.
Quasimodo per la prima volta si fece forza e decise di uscire da quel campanile per venirmi a salvare, per l’ennesima volta. Solo lui sapeva dove mi trovavo, gli avevo donato una collana con una mappa tempo prima affinché mi trovasse se ne avesse bisogno e se avesse voluto abbandonare quelle mura che lo tenevano segregato una volta per tutte, anche se non lo fece mai. Per la prima volta si trovò ad affrontare ogni peripezia alla mia ricerca per avvertirmi di quel pericolo imminente che stava per soccombere me e tutta la mia gente. Lo stava facendo per me, di nuovo.
Avvertii il mio popolo e ognuno fece del suo meglio e tutti iniziarono a fuggire come impazziti da quella notizia. Tutti temevano Frollo. Era la cosa più orrenda e meschina che abitasse la terra, cercava il diavolo negli altri, in quelli come noi, senza accorgersi che quello vero era proprio lui.
Ma non facemmo in tempo a fuggire, ce lo trovammo davanti mentre i suoi uomini avevano bloccato ogni uscita.
Iniziarono a prendere tutti, nessuno aveva più via di scampo.
Dopo 20 anni di ricerche, la corte dei miracoli è mia, finalmente, un sorriso beffardo gli balenò sul volto mentre avanzava trionfante dinanzi a noi. Caro Quasimodo, ho sempre saputo che un giorno mi saresti stato utile. Disse accarezzando Quasimodo quasi a farlo sembrare un suo complice.
Lo guardai atterrita mentre lo stesso Quasimodo a quelle parole era sconvolto.
Ma di che cosa parlate? Incalzai a denti stretti mentre le sue guardie mi tenevano per i polsi impedendomi di attaccarlo e di fuggire.
Mi ha condotto dritto da te, mia cara. E si avvicinò avido sul mio viso.
Capii il suo trucco. Non sapeva affatto dove eravamo, ma aveva insinuato in Quasimodo il pericolo e quella voglia di salvarmi così da scoprirlo. L’aveva seguito ed era arrivato a noi. A me.
Siete un bugiardo! Ringhiai. Dopodiché si allontanò verso il centro con fare soddisfatto.
Il giorno dopo mi aspettava la fine, perché mi avrebbe bruciata sul rogo in piazza’. Alzai gli occhi per incrociare i suoi. Era inorridito, incapace di immaginare tutti quegli avvenimenti messi insieme che mi avevano perseguitato.
‘Mi accusò del reato di stregoneria. Un intero sciame di gente riempiva la piazza e proclamava la mia innocenza a gran voce, ma non sarebbe bastato anzi, non sarebbe servito a nulla.
Ero legata al patibolo con tutta sterpaglia intorno e un uomo che attendeva l’ordine di dare fuoco. Lui mi era di fronte a leggere la mia sentenza di morte e prima di prendere la fiaccola in mano mi si avvicinò.
Non è tardi. Posso salvarti dalle fiamme di questo mondo e del prossimo. Scegli me, o il fuoco. Avanzò di nuovo con un sorriso malizioso a quell’offerta che mi rivoltava lo stomaco.
Gli sputai in faccia senza pensarci due volte. Non sarei mai stata sua. Questa fu la sua scusa ad andare avanti in quell’intenzione e con fare diabolico diede fuoco agli abbondanti fasci di legname che mi circondavano.
Il fumo che ne scaturì iniziò a filtrarmi nei polmoni, riuscivo a stento a respirare e tossì convulsamente mentre il calore delle fiamme iniziò sempre più a farmi male.
La mia vista si annebbiò e l’ultima cosa che vidi fu il suo sorriso maligno e trionfante dinanzi a me.
Quando mi risvegliai ero su di una branda e una flebile luce penetrava alla mia sinistra, pensai di essere finita altrove, magari nell’aldilà, semmai ce ne fosse stata uno.
Quasimodo era poco lontano da me con ai piedi, qualcosa, qualcuno non riuscivo a distinguerlo bene. Lo chiamai con voce flebile, volevo chiedergli che era successo e perché ero lì.
Lui rinvenne e la sua felicità nel rivedermi prese posto sul suo volto adirato, mi venne incontro e mi sollevò in braccio mentre io ero ancora debole e del tutto incosciente.
È viva! Sibilò qualcuno, lo stesso qualcuno che prima era oltre Quasimodo, la stessa voce che avevo impresso da anni nella mente. Era Frollo. Rinvenni spaventata mentre Quasimodo incominciò a fuggire sulla balconata per sfuggirgli. Si arrampicò, con me in braccio come aveva fatto altre volte per farmi fuggire, per far sì che non ci trovasse ma si affacciò e ci vide, tentando di colpirci più volte con la spada nel tentativo di farci cadere entrambi nel vuoto. Alla fine io riuscì a trarmi in salvo, scavalcando Quasimodo per tornare sulla balconata dove caddi a terra spinta da lui nel tentativo di salvarmi da Frollo che stava per colpirmi, mentre lui venne buttato giù oltre la balconata da Frollo che gli cadde dietro perché Quasimodo si era aggrappato al suo mantello. Mi precipitai verso il parapetto e afferrai la sua mano mentre lui cercava di tenersi aggrappato e di tenere stretto il suo padrone. Non avrebbe mai avuto il coraggio di lasciarlo andare perché lui non era un mostro. Ma quello dondolandosi si rialzò sulla balaustra alzando la spada nell’intento di ucciderci entrambi in un colpo solo, ma qualcosa andò storto e proprio mentre temevo il peggio, la balaustra su cui si reggeva si spezzò e cadde nel vuoto trascinandolo con sé.’ Feci una pausa, intenta a riprender fiato.
‘E Quasimodo?’, chiese lui, attento.
Lo guardai cercando comprensione perché nonostante fossero passati anni quella scena era rimasta in me. Davanti ai miei occhi in modo indelebile. Cercai di trattenere quel magone che mi attanagliava le corde vocali impedendomi di parlare.
‘Non riuscii a mantenere la presa. Non riuscii a rialzarlo perché era troppo pesante per me, e dopo poco lo persi per sempre. Morì precipitando.’, dissi abbastanza provata nel ricordo di quel preciso istante con la voce smorzata. ‘Nei giorni seguenti Parigi per me assunse il retrogusto amaro del disprezzo per tutto ciò che era stato. Ero viva, ero libera ma non era più la stessa cosa. Era come se fossi morta, di nuovo. Mi sentivo perennemente sola e nonostante molte volte mi rifugiassi nel campanile nulla riusciva più a soddisfarmi. Tutto era un continuo ricordo, e stare lì era ancora peggio perché tutto di quel mio caro amico, che aveva sacrificato tutto per me fino alla sua vita era ancora lì in quelle stanze e lui non c’era più. Si era consumato per me ed ora ad attanagliarmi restava il dolore di un ennesima perdita. Mi isolai sempre più dal resto degli zingari, e tornai poche volte alla Corte dei Miracoli, per ore trascorrevo il mio tempo in silenzio a soffrire. La vita continuava a togliermi tutto e per un attimo pensai di essere davvero una strega. In pochi momenti di pace conobbi Belle, era in uno dei tanti suoi viaggi d’esplorazione e cultura a Parigi e presto, diceva sarebbe tornata a casa dove il padre l’attendeva. Mi chiese più volte di andare via insieme a lei dato il mio stato d’animo e tutto ciò che era successo e a cui lei aveva assistito, e io più volte declinai. Avrei dovuto cominciare a viaggiare senza meta nuovamente, e non mi andava di ricominciare a trovare un mio posto nel mondo anche perché non ero sicura di averlo, non più. Il mio posto l’avevo perso anni prima e quello che avevo vissuto lì era solo un palliativo di una vita che mi stava bene, e a cui mi ero adattata negli anni, anche grazie a chi avevo incontrato e mi aveva aiutata negli anni. Niente a che vedere con ciò che volevo.
Dopo un paio di settimane girava voce che in città fosse arrivato un nuovo capitano delle guardie al Palazzo di Giustizia, un capitano di ritorno dalle guerre. Il suo nome era Febo’, rabbrividì pronunciando quel nome e lasciai intendere chi fosse. ‘Mi bastò quel nome a rivalutare la proposta di Belle, che stava per partire da lì a poco. Avevo poche cose con me, raccattai quelle e volai da lei intenta a partire alla volta della foresta incantata’.
‘Sei tornata alla Foresta Incantata?’, strabuzzò gli occhi incredulo.
Annui.
‘E feci la tua stessa espressione quando mi venne rivelata la meta. Avrei rivisto quel luogo dopo anni e anni e quando approdai lì la prima cosa che feci fu cercare la mia famiglia. Non sapevo che fine avessero fatto e nonostante covassi nel cuore la paura e il ribrezzo nell’incontrare nuovamente mio padre, dopo ciò che aveva fatto anni prima, la voglia di rivedere mia madre e i miei fratelli soppravvalse su ogni altra cosa. Avevo voglia di abbracciarli, di stringerli forte e far vedere loro che ero viva e che ero tornata per restare. Immaginavo i loro volti.
I miei fratelli erano sicuramente cresciuti e se non mi avessero riconosciuta? In me quel timore avanzava. Le rughe avrebbero solcato il viso di mia madre e una nuova visione avrei avuto dinanzi a me, e se me la fossi trovata davanti e non l’avessi riconosciuta? Mi chiesi ingenuamente prima di rinvenire. Come avrei fatto a non riconoscerla? Anche tra un milione di persone il mio cuore e il mio sangue mi avrebbero condotto a lei. Con la stessa ingenuità arrivai all’ultimo luogo in cui l’avevo vista, in cui li avevo visti tutti, e riconobbi subito la terra della mia infanzia. Ero nei pressi del villaggio, ma stentavo a riconoscerlo. La maggior parte delle case che ricordavo non erano altro che macerie bruciate, altre, un po’ più lontane erano chiuse da assi, corsi più veloce verso quella che una volta era la mia casa ma quando ci fui davanti indietreggiai impaurita e inorridita, non era che una copia delle case che avevo visto lungo il cammino. Davanti a me solo macerie bruciacchiate e pericolanti. La casa in cui abitavo un tempo non aveva più nulla dei miei ricordi. Fermai un signore che passava da quelle parti, quasi strattonandolo, per cercare informazioni. Probabilmente si erano spostati, erano andati avanti, erano altrove e volevo, dovevo saperlo.
I signori che abitavano qui intende? Mi dispiace signorina ma per quel che so il padre è deceduto una settimana dopo a causa della scomparsa della figlia. Era una ragazzetta quando non si venne più a sapere niente di lei, e a quanto pare suo padre non ha retto a tanta sofferenza. Primo colpo. Senti gli occhi bruciarmi. Le lacrime volevano uscir fuori e io le trattenevo. E qualche tempo dopo, penso per i debiti del marito, le guardie della Regina vennero a prendere la moglie con i due bambini, dando fuoco alla casa. Per quanto ne sappiamo li hanno giustiziati un paio di settimane fa.
Cercai di trattenermi il più possibile a quelle rivelazioni. Camminavo a passi sostenuti e pesanti quasi avessi un macigno addosso, con dentro un vortice di emozioni tutte ammassate che non riuscivo ad estrapolare. Erano lì tutte insieme. Mio padre era morto dopo una settimana dalla mia scomparsa, probabilmente per i sensi di colpa che lo avevano attanagliato dopo la decisione presa, e mia madre insieme ai miei fratelli? Erano morti anche loro per mano della Regina che ora era qui. Eccola l’ennesima prova che non ero destinata alla felicità nella mia vita. Nemmeno a una minima parvenza, niente era lì per me e a nessuno sembrava importare, e l’unica persona che mi restava non sapevo che fine avesse fatto. Non sapevo quanto tenessi a me, non dopo quello che era successo ma dentro di me viveva ancora quella speranza di rivederti se non per riabbracciarti per chiederti spiegazioni, così iniziai a cercarti. Vagavo di regno in regno, di locanda in locanda e di porto a porto senza trovare nulla, nemmeno un accenno di quella nave che ricordavo. Ogni capitano che scendeva lo guardavo attentamente, lo scrutavo ma di te non avevano nulla, e fu così per svariati anni.’
Venni interrotta da quell’uomo dal camice bianco, senza accorgermi della sua presenza fin quando non l’ebbi davanti.
Diceva che potevo uscire dall’edificio perché ero ormai fuori pericolo. Visto ciò Killian mi prese con sé portandomi in una locanda poco lontana e mi prese una stanza.
‘Cos’è questo posto Killian?’, chiesi entrando in quella camera.
‘Ehm… lo so che all’inizio è difficile da gestire, è completamente tutto nuovo ai tuoi occhi ora e lo so per esperienza ma ti ci abituerai, te l’assicuro. Ora hai solo bisogno di riposare e di stare tranquilla. Appena starai un po’ meglio ti farò fare un giro della città. Promesso.’Annui, ispezionando la stanza che avevo di fronte senza sapere come muovermi.
Non ero abituata a tutto questo. Lui era sul ciglio della porta, quasi ad andarsene.
‘Tu dove vai?’, chiesi rivolgendogli lo sguardo e velando un certo timore nel scoprire la risposta.
‘Sarò qui fuori, non lontano’, si limitò a dire.
Annui abbassando il capo poco convinta. Stavo di nuovo ricadendo nello stesso vortice di ciò che facevo una volta. Perché non gli dicevo ciò che provavo davvero a quella risposta?
‘C’è qualcosa che non va?’, domandò preoccupato avvicinandosi.
‘Voglio che resti con me, almeno per il momento’, dissi con un filo di voce, quasi a vergognarmi di ciò che gli avevo proposto. Lui sorrise e chiuse la porta alle sue spalle.
Ci mettemmo a letto, come quel mattino, io tra le sue braccia e sul suo petto a farmi cullare dal pulsare incessante di quel cuore che batteva sotto il mio orecchio all’unisono con il mio. Finalmente l’avevo ritrovato, finalmente non c’era nessuno ad ostacolare quel rapporto ritrovato. Finalmente era mio, osai pensare e arrossì all’istante come se lui potesse udire ciò che avevo dentro.
Non avrei più fatto gli stessi errori di prima, gli avrei detto tutto stavolta a cominciare dal fatto che l’amassi, più di quanto fosse possibile e lecito.
Si, gliel’avrei detto, mi incoraggiai appena mi sarei ripresa dalle palpebre, e da quel corpo che in quella tranquillità ritrovata cominciò a lasciarsi andare a Morfeo.
Quando mi risvegliai dentro era buio pesto, solo una flebile luce illuminava la stanza facendo scorgere i suoi contorni e i suoi spigoli.
‘Killian?’, chiamai ma nulla. Nessuna voce, nessun passo, nessun movimento.
Non era nella stanza, dedussi. A tentoni cercai di raggiungere quella porta da cui eravamo entrati, un grande applauso e risate e voci in festa giungevano dalla fine del corridoio oltre le scale. Cercai di seguire quei suoni così da trovare una via d’uscita e scesi giù per le scale, fin quando non mi trovai un’altra porta davanti che da quanto scorgevo dava sulla città, allora optai per quella e l’aprì.
Mi mossi lenta senza capire bene dove stavo andando perché di fronte a me non vedevo altro che cose strane e luci strane a cui non ero per nulla abituata, appena dietro l’angolo una serie di tavoli si protraevano oltre una staccionata e su uno di essi, lui. Killian. Era lì preso dai suoi grovigli e dai pensieri mentre giocava con la sua fiaschetta sovrappensiero. Gli ero quasi di fronte ma non mi notò. Mi chiesi cosa gli passasse per la testa, cos’è lo rendeva accigliato a quel modo? E subito dopo, senza una ragione ben precisa mi chiesi se durante quegli anni in cui eravamo stati lontani lui mi avesse pensata tanto quanto io serbavo nei miei ricordi. Vidi che era solo, lontano dal fervore che avevo sentito ci fosse all’interno e presi coraggio avviandomi verso di lui con un gran sorriso per risollevarlo, ma nemmeno un passo e mi ritirai non appena sentii una porta emettere un cigolio. Una donna bionda, la stessa che avevo visto in quel capanno e in ospedale stava andando verso di lui. Lui sorrise, appena la vide. Gli sedette accanto, dandomi le spalle, e gli si avvicinò per parlargli in confidenza mentre lui restava al suo posto a guardarla.
Non sentivo una parola di ciò che gli diceva ma osservavo ogni sua espressione, dato che lui era l’unico ad essermi di fronte.
A me arrivavano solo parole smorzate e mal distribuite, ma una su tutte mi fece stare allerta. Bacio. Cercai di tendere l’orecchio per carpire di più.
Voglio ringraziarti Killian.
Era la giusta cosa da fare. Rispose lui guardandola negli occhi. Persi qualche frase, detta in maniera troppo lenta e lieve.
Ho mollato la Jolly Roger e sono scappato il più velocemente per sfuggirle. Ed una volta fuori dalla portata della maledizione ho saputo che i muri erano caduti. Che i due mondi erano collegati. Mi serviva solo un fagiolo magico. Disse con sicurezza, e stentavo a credere e a capire cosa avesse fatto e cose intendesse con quella storia.
Ma non sono facili da trovare.
Lo sono se hai qualcosa di valore da scambiare.
E che cos’era?
La Jolly Roger, ovviamente. Aveva dato via la sua nave per quella donna, per salvarla da qualcosa, qualcuno? Un moto dentro di me ebbe inizio, e non capivo bene che tipo di emozione fosse.
Qualcosa dentro di me mi avvertiva che nulla di buono stava per succedere. Non per me almeno.
Lei si allungò verso di lui raggiungendo le sue labbra, che si unirono alle sue e si muovevano insieme con passione. La mia vista iniziò ad annebbiarsi e delle lacrime copiose iniziarono a sfuggire al mio controllo, cercai qualcosa per aggrapparmi, un appiglio, ma non c’era nulla in grado di tenermi, le mie gambe iniziarono a tremare insieme a tutto il resto e mi accasciai a terra con la testa tra le mani.
E’ vero l’avevo ritrovato, ma non era mio, non lo era mai stato. Non avrebbe mai preferito me alle altre e io ero destinata a quello. Nessun tipo di lieto fine era fatto per me, io non ero per nessuno e il mio cuore, inevitabilmente a quella nuova constatazione si sfracellò in un milione di pezzi. Probabilmente, anzi sicuramente , negli anni mi aveva dimenticata, era andato avanti, mentre io ero rimasta, ero sopravvissuta in funzione di lui. Pareva, quasi, di assistere alla lacerazione di un cuore in atto. Il dolore lancinante mi andava alla testa, era un dolore acuto, assurdo da sopportare, dal suono impercettibile e dalla potenza devastante, lo sentivo staccarsi pian piano da me per raggiungere il suo e per arrivare a lui senza nessun risultato. Quante lacerazioni poteva subire un cuore prima di cedere completamente?
 
Se un piatto o un bicchiere cadono a terra senti un rumore fragoroso.
Lo stesso succede se una finestra sbatte, se si rompe la gamba di un tavolo o se un quadro si stacca dalla parete. Ma il cuore, quando si spezza, lo fa in assoluto silenzio. Data la sua importanza, ti verrebbe da pensare che faccia uno dei rumori più forti del mondo, o persino che produca una sorta di suono cerimonioso, come l’eco di un cembalo o il rintocco di una campana. Invece è silenzioso, e tu arrivi a desiderare un suono che ti distragga dal dolore.

 
NOTE:
Se conoscete ‘Il Gobbo di Notre Dame’ (film d’animazione Disney) noterete che le cose sono parecchio diverse dal film in questione e mi sono scervellata parecchio per trovare una giustificazione plausibile a quel frammento di vita di Esmeralda che tutti (?) abbiamo visto. Febo l’ho reso un po’ il cattivo della situazione, tutto perché da piccola non lo mandavo giù volentieri, non so perché. Lol
Ho dovuto far decedere anche il povero Quasimodo e di quello mi è dispiaciuto tantissimo.
Inoltre la scelta di Belle non è avvenuta a caso, in quanto se vedrete nel cartone, in un frammento appare proprio lei con un libro in mano che cammina per la piazza e da lì la voglia di introdurla e di renderla partecipe alla storia, in modo che aiutasse Esm a fuggire da una nuova minaccia.
Penso di aver chiarito un po’ tutti i punti che potevano far sorgere dei dubbi, detto ciò vi ringrazio seriamente, come sempre, per aggiungere questa mia storia ai preferiti/ricordate/seguite, e spero davvero di non avervi deluso. Fatemi avere vostri pareri, anche per capire cosa ne pensate.
 
Al prossimo capitolo. :*
   
 
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