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Autore: Reyvateil    12/12/2014    3 recensioni
"E’ assurdo, mi sembra di aver vissuto più di cent’anni e allo stesso tempo sono ingenua come una ragazzina. Ricordando ciò che sono stata, la mia anima si carica di un peso che a malapena riesco a sopportare, ma voglio scrivere. Come se fosse il primo giorno, il momento in cui un soldato mi puntò la pistola contro, in una notte piovosa e senza Dio. Il giorno in cui venni catturata, e paradossalmente la mia allora miserabile vita cambiò."
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Una storia che intreccia le la vita della protagonista e degli altri personaggi a cavallo fra due Mondi; infanzia e adolescenza da una parte, età adulta dall'altra. Una storia di crescita, consapevolezza, paure e principi per cui imparare a lottare. Enjoy.
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Nel buio i miei sensi si acuivano; esso era diventato mio amico da molto tempo e stava portando alle mie orecchie dei rumori provenienti dal corridoio di quello strano scantinato. Passi, incredibilmente pesanti, metallici, risuonavano nello spazio lontano come se fossero state delle scarpe di ferro. Man mano che si avvicinavano alla porta li sentii diventare più leggeri, meno marcati, come se la persona volesse non farsi sentire, in una maniera un po’ impacciata.
 
 
Chapter Two: Once you met him…
 
 
Ormai ero sveglia e all’erta, aspettavo solo il momento in cui la maniglia si sarebbe mossa nel buio. Il cigolio della porta mostrò uno spiraglio di luce, una sagoma molto alta si stanziava all’entrata.
“… Sto per accendere la luce…” disse una voce, aveva un riverbero innaturale.
Nonostante la lampada della stanza fosse in pessime condizioni e non illuminasse molto, dovetti stropicciare gli occhi prima di riuscire a vedere. Ciò che poi mi si presentò davanti era una armatura, alta e dalla stazza decisamente imponente. Come poteva una persona scegliere di vestirsi in quel modo?
Mi stava guardando, risposi alle sue attenzioni mentre si avvicinava alla mia gabbia molto lentamente.
“ Ciao… Per favore, non avere paura” si abbassò al mio livello.
“Non ho mai detto di averla” risposi. Come potevo essere calma? Non avvertivo nessun odore di sangue, sudore o pelle oltre all’aroma ferreo di quell’involucro gigante, e in tutta sincerità ero confusa.
“ Ah… Beh, se le cose stanno così.. eh eh…”
Sembrava piacevolmente stupito della mia risposta e decise di aprire la porta della gabbia. Rimasi all’interno, senza capire. Forse sarei rimasta più al sicuro fra le sbarre…
“Non pensi che potrei scappare?”
“ Cosa? No, non lo penso… Sembri una brava persona…”
… Una “brava persona”? Prima di tutto non ero una persona, e in secondo luogo non sapeva nulla di me. Non capivo se fosse stupido o ingenuo. Chi era questo tizio? Come poteva la sua voce essere così dolce e flebile nonostante tutta quella imponenza? Sembrava un uomo molto giovane considerandone il timbro. Ma come avrei mai potuto fidarmi dopotutto… Lentamente però mi mossi a gattoni ed uscii.
Dopo aver fatto appena pochi passi sul pavimento una scossa di dolore mi fece piegare in due, la ferita tornò a farsi sentire e strinsi i denti per non uggiolare.
Un grande guanto di maglia mi trattenne dalla caduta in avanti e le braccia rigide dell’armatura mi raccolsero, facendomi sentire leggera come una piuma. Si sedette e mi adagiò nella culla formatasi tra le sue gambe. Rimasi senza parole, gli occhi sgranati, ero improvvisamente una bambola tenuta con cura nelle mani di un abile marionettista. Non disse una parola, si limitò a sospirare con un fare apprensivo mente si assicurava di essere delicato e dolce nell’esaminare il mio fianco, nonostante quell’impedimento metallico che ero sicura non avrebbe voluto. E io lasciai fare, dio solo sa il perché, come se conoscessi i suoi movimenti da una vita.
 
Questo è il primo vero ricordo che ho di Alphonse.
 
“ Ho bisogno di chiudere questa brutta ferita” asserì “Ti hanno levato il proiettile in fretta e furia senza preoccuparsi delle tue condizioni. … Sarai anche una chimera, ma non sei certamente immortale. Ti prego quindi, non agitarti, farà un po’ male.”
Tutto ciò che feci fu un accenno con la testa. Lui aprì una valigetta piccola e bianca che aveva tenuto dietro la schiena, attaccata alla cintura, prese gli strumenti appositi e cominciò a disinfettarmi, poi a cucirmi. Il dolore era insopportabile, ma quando i miei muscoli si irrigidivano troppo dalla tensione lui si fermava, appoggiando la sua grande mano sulla mia testa, fra le nere orecchie da lupo.
Non avevo mai provato quella sensazione. Da quando ero diventata un… mostro, nessuno mi aveva mai toccata, chi avrebbe mai voluto farlo; non capivo quindi come tutto questo stesse accadendo, vedevo la situazione scivolarmi tra le dita ma silenziosamente ne accettavo ogni singolo istante, come un tacito accordo fra me e lui, quel ragazzo di cui non sapevo nemmeno il nome.
“Mio fratello mi ha mandato qui. E’ un ragazzo molto diretto e… Cinico, alle volte, ma ha un gran cuore. Forse ti avrà dato un’impressione negativa ma non farti ingannare, non riesce a vedere qualcuno in difficoltà. Sai una volta eravamo in un villaggio e…”
“Grazie.”
Il ragazzo si fermò, guardandomi in viso. Non vedevo occhi oltre la fessura dell’elmo, tantomeno un volto, eppure riuscivo a capire un abbozzo di espressione.
“… Io… A- A pensarci bene non ho chiesto nemmeno il tuo nome, ti chiedo scusa, in effetti avrei-“
Sembrò soffermarsi ancora sui miei occhi, del colore del ghiaccio più insidioso e senza l’accenno di una pupilla, così spaventosi perché innaturali, eppure era l’ultima cosa di cui qualcuno doveva davvero temere nel mio aspetto. Credo che in quel momento egli capì qualcosa di me che ancor oggi non afferro.
“Mi chiamo Alphonse Elric.” aggiunse timidamente “ E… Non serve che dici nulla, devi solo rilassarti. Ho… Sentito cosa dicevano i soldati di te, cose davvero crudeli; ma ero sicuro che in realtà non avresti fatto del male. La gente spesso non va oltre il nostro mero aspetto fisico. Ah, ma aspetta! Ti chiedo scusa, non mi hai dato nemmeno il permesso di toccarti e io già ti sto cucendo la ferita…”
L’idea che continuasse a chiedermi scusa era a dir poco paradossale per la mia situazione. Ero passata dalla disumanità di una città intera all’umanità di un’armatura gigante.
Un’armatura tuttavia troppo leggera, e troppo sospetta. Avevo ormai la sicurezza che qualcosa non andasse e di una cosa ero ancora più certa: l’alchimia è capace di creare le peggio cose.
“Non ti chiederò nulla, Alphonse, tranne che una cosa… Non sei umano vero?”
Rimase silenzioso per diverso tempo, le mani immobili sulla mia pelle bianca e uno sguardo perso nel vuoto.
 
“Io mi chiamo Laisa.” Aggiunsi finalmente “E credo che in passato abbiamo condiviso lo stesso destino.”
Cominciò a tremarmi leggermente la voce e non riuscivo a nasconderlo, probabilmente mi ero accorta troppo tardi della delicatezza dell’argomento, e di quanto potesse essere inopportuno. Ma dopo un lungo periodo di buio, aggrapparmi al flebile sollievo che poteva donarmi il trovare un “maledetto” come me mi sembrò istintivo. Immediato. Vitale. …Più avanti capii che anche Alphonse, dietro ai suoi dolci modi di fare, nascondeva una tristezza che neanche l’affetto dei suoi pochi cari poteva sanare. Si dice che la solitudine sia ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno; io sono dell’idea che si sentisse perdutamente solo nel non poter condividere quanto quella disgrazia gli fosse costata cara, forse nemmeno col suo stesso fratello, compagno delle più grandi sventure.
“Se i miei pensieri e sentimenti sono reali” riprese ad armeggiare sulla mia ferita, ma in modo più lento ed  incerto “Allora qualcosa di umano in me ancora esiste. Certe domande però rischiano di farci distogliere lo sguardo da ciò che realmente sta davanti a noi, dalla nostra missione e dalle cose vere di questa esistenza. Certe domande ci lasciano indietro, alle volte senza forze. Per questo mi sforzo di non pormele. E comunque.. Piacere di conoscerti, Laisa.”
Stava già indirettamente condividendo le sue esperienze, dandomi dei consigli che mi sarebbero stati cari in futuro. “Ecco, ho terminato” concluse.
Avevo totalmente smesso di pensare al dolore dei punti e in un attimo il lavoro fu finito; mi tornarono alla mente i rammendi di mia madre, dopo le rovinose cadute sulle ginocchia che una bambina indisciplinata come me soleva fare. La differenza stava però nel fatto che lei non cercasse in alcun modo di negarmi il dolore, come se sperasse che questo mi avrebbe dato un’importante lezione di vita.
Il ricordo mi strinse il cuore, cercai di farlo svanire così come era tornato a galla.
Alphonse rimise gli attrezzi al loro posto e chiuse la valigetta, poi si alzò “Ascolta, tra qualche giorno torneranno da te per “metterti alla prova”. E’ molto probabile che saranno bruschi con te, ma non perdere la pazienza: al primo segno di aggressività da parte tua perderanno la loro clemenza, che già è poca. Io… Non posso darti certezze, ma credo che il tuo caso sia risultato abbastanza interessante da non venire ignorato. Quindi sii fiduciosa, capito?”
“Tra qualche giorno” lo guardai con una triste speranza negli occhi “Anche tu ci sarai?”
“Io… Purtroppo non posso assicurartelo… Laisa” era strano il modo in cui pesava le parole.
“Farò del mio meglio”.
Si avvicinò alla porta e la aprì.
“Non… Non mi rimetti in cella?” dissi esitante, ero davvero confusa.
“Mi sembra di aver capito che i tuoi sensi sono ben allenati, immagino ti accorgerai in fretta se arriva qualcuno. Sarà un segreto fra noi due, ok?”
Sorrisi. Chi si ricordava cosa significasse? Mi sentii di nuovo una quattordicenne qualunque, per qualche istante, una di quelle ragazzine che si affacciano ancora piene di innocenza al mondo adulto, che magari sperano di coronare un sogno quasi sempre impossibile o sognano di tenere la mano al loro compagno di scuola. Io non avevo ancora capito molto degli adulti o dei miei coetanei, ma sapevo elencare mille motivi per cui avrei dovuto evitarli; la paura era tanta, e per una ragazzina resta sempre un trauma. Ma in quel momento mi sentii respirare a pieni polmoni, senza tremare, senza il cuore a mille o le orecchie ritte e all’erta.
“Grazie Alphonse.”
“No” disse col tono di divertita complicità, prima di richiudermi dentro al mio mondo dalle fredde e umide mura.
“…Grazie a te.”

 
 
   
 
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