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Autore: pinky_neko    15/12/2014    2 recensioni
Due fratelli. Un'ossessione che soggioga le menti, induce alla paura e ti fa affogare come nel più profondo dei mari.
Due metà della stessa anima completavano un cerchio perfetto che si è spezzato quella maledetta volta.
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Seconda classificata al contest "Left Behind - Storie di Ruggine e Abbandono" indetto da -Tsunade- e Ino;Chan sul forum di efp.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quella maledetta volta









Respirare. Un gesto semplice.
Inspirava. L’aria entrava prepotente, spilli ghiacciati che perforavano la gola e congelavano i polmoni. Espirava. Non voleva, sarebbe potuta essere l’ultima volta. Allora inspirava di nuovo, ignorando il senso di paura che gli sconvolgeva le viscere.
La testa girava, la stanza sembrava diventare buia all’improvviso, l’aria mancare. Sentiva una stretta salda alla gola. La stretta della morte.
Soffocare. Non sarebbe stato così male.
Perse i contorni dei mobili, del letto appena rifatto, della pistola su di esso. Chiuse gli occhi.
Inspira, espira. Dentro, fuori.
E lo rivide attraverso le palpebre chiuse, la sua figura contornata dal sole emanava luce. Sembrava un angelo.
Gli rivolgeva le spalle. La maglietta bianca come incollata alla schiena, mentre poteva vedere gocce di sudore scendere lungo la nuca piegata in giù e sparire oltre il colletto.
Riaprì gli occhi. La luce feriva le sue iridi castane proprio come quella volta. Quella volta.
Quella volta in cui il vento soffiava intrepido attraverso gli scheletri di quelli che dovevano essere stati edifici abitati. Le macerie cadute al suolo anni prima scricchiolavano sotto il peso dei suoi passi lenti e misurati mentre dalla sua fronte corrugata cominciavano a scendere piccole goccioline di sudore. Era l’aprile più caldo di cui avesse memoria.
Il sole di mezzogiorno, alto nel cielo, bruciava la sua pelle nivea e infuocava i resti di pareti collassate e soffitti crollati, completamente aderenti a quelli che dovevano essere stati pavimenti. Ovunque voltasse il capo, il grigiore di una metropoli spopolata e abbandonata a se stessa veniva riflesso nelle sue iridi nocciola, mentre portava una mano sulla fronte, come a farsi scudo dai raggi accecanti che lo colpivano sugli occhi, stretti a fessure per riuscire a carpire anche solo uno spicchio di quel paesaggio deserto e sconsolato.
Ad ogni suo passo, un polverone di sabbia e cenere si innalzava ai suoi piedi, probabilmente dovuto ai crolli verificatisi nel corso degli anni, e ricadeva con grazia sulla terra di cemento scrostato e pericolante in diversi punti. Per essere giorno era già troppo inquietante per i suoi gusti e, più si incamminava per quelle strade ormai inesistenti e delineate solamente dagli edifici ai due lati, più sentiva l’ansia montargli nel petto. Ansia del non sapere a cosa sarebbe andato incontro avanzando, ansia di non riuscire a immaginarsi cosa avrebbe trovato dopo ogni incrocio.
In sottofondo solo il silenzio a coronare quel panorama desolato di cemento, reso asfissiante dalle alte temperature che incombevano su quelle pareti tenute in piedi solamente da una gravità che aveva deciso di graziare piccoli squarci di edifici distrutti. Crepe e buchi si stagliavano sui pochi palazzi sopravvissuti al crollo e le grandi finestre che adornavano ogni parete li facevano apparire come enormi scheletri di cemento, reduci da qualunque tipo di intemperia, dalla neve ghiacciante invernale, al sole scottante estivo.
Un’intera isola era stata svuotata. La sua vitalità e la sua energia avevano lasciato il posto alla solitudine e all’abbandono, mentre uno strato pressante di malinconia si depositava, come una coperta, sulle rovine di quartieri che una volta potevano essere stati definiti tali. La sua anima si era spenta da ormai così tanto tempo che nessuno sarebbe più riuscito a riportare a galla la dignità di quel luogo.
E poi lui, al centro di tutto. Jeremy. Lo aveva cercato per tanto tempo in mezzo a quei cumuli di macerie e, infine, se lo era ritrovato davanti.
Jeremy era sempre stato una persona impulsiva, che si lasciava trasportare dalle emozioni e dalle voglie momentanee. Proprio come quella maledettissima volta. E lui non era stato in grado di fermarlo, e lo aveva lasciato seguire l’ennesima onda della sua impulsività, quasi affascinato da quella sua particolare caratteristica che lo distingueva da tutti gli altri.
Suo fratello era così, non permetteva mai a nessuno di dirgli cosa poteva o non poteva fare, nemmeno a lui, Michael, metà della sua anima. E Michael l’aveva sempre associato alla mezzanotte, perché Jeremy era profondo come una notte fonda, di quelle senza luna e senza stelle, coperte da spesse nuvole ombrose. Era una persona che aveva tanto da dire ma che al contempo preferiva il silenzio per comunicare.
Un silenzio che lo aveva accompagnato in quel percorso, fino all’ultimo respiro.
E tutto era cominciato da una voce sentita in un bar, origliata per caso dal tavolo di fianco.
La leggenda del cane fantasma. Assurdo, impossibile, non esiste. Chiunque lo avrebbe detto.
Ma da quando Jeremy ne aveva sentito parlare, la sua mente si era totalmente focalizzata su quella diceria. Era come parlare a un bambino di Babbo Natale: i suoi occhi erano illuminati da una curiosità sopra le righe, che quasi strabordava dal confine sottile della sanità mentale. Dopo lunghe ricerche, letture di articoli in ogni lingua del mondo, era arrivato a un risultato: l’isola di Hashima in Giappone.
Ed era partito, con l’unica speranza di poter trovare l’oggetto di ogni suo interesse.
Quella volta, invece di lasciarlo andare, avrebbe dovuto fermarlo e non seguirlo in quel proposito assurdo. Avrebbe dovuto salvarlo da se stesso e dall’ossessione che stava sbocciando in lui. Per tutto l’amore che provava per suo fratello, non avrebbe dovuto permettere che si facesse del male da solo.
Si odiava per non essersene accorto prima. Si odiava perché ormai era troppo tardi per tornare indietro.
E adesso era lì, nella camera da letto buia della sua casa, con i sensi di colpa ed il rimorso che gli distruggevano l’anima.
Rivide i suoi occhi che lo avevano cercato in un attimo di esitazione, in un attimo di paura, di incertezza. Incertezza che non c’era stata un secondo dopo. Per un momento, uno solo, gli era sembrato di vedere le sue labbra increparsi in un sorriso amaro e formare lentamente il suo nome – Michael -, prima di lasciarsi cadere in mare, completamente soggiogato dalla potenza di quella voce che lo incitava a lanciarsi, a lasciarsi andare, a farsi trasportare dalle onde in un abisso sempre più profondo, senza alcun ritorno.
E proprio come una farfalla resta impigliata nella tela di un ragno, così lui era stato imprigionato nel vortice contorto delle sue paure.
Lo voleva trovare, Jeremy. Voleva vederlo con i suoi occhi, quel cane fantasma che appariva di giorno, tra i resti degli edifici abbandonati. Si diceva fosse fatto di fumo, contornato da un alone biancastro, e che rappresentasse le paure dell’uomo.
Le paure. Di cosa aveva paura suo fratello?
Non lo sapeva. Da quando erano piccoli, era sempre stato Jeremy il più coraggioso, il suo eroe, l’unico pronto a difenderlo dai bulli della scuola o il più spavaldo ad entrare in una casa abbandonata per gioco. Sempre quello che lo abbracciava nelle notti di tempesta perché lui si ritrovava a tremare ad ogni fulmine che scuoteva il cielo denso di nubi scure.
Non lo sapeva. Non aveva idea di cosa spaventasse Jeremy, perché non aveva mai visto il suo viso scalfito dall’ombra della paura.
Ma suo fratello era arrivato lì, in quel luogo sperduto e dimenticato, e aveva avuto paura.
Si era lasciato soggiogare dal racconto, nonostante fosse una stupida diceria fatta girare solo per non far venir voglia di addentrarsi nell’isola. Il cane fantasma gli era entrato dentro, lo aveva messo di fronte ai suoi limiti, ai suoi incubi più inquieti e lui non era riuscito ad uscirne.
Perché il cane fantasma era l’isola stessa, quell’isola che ti faceva provare un senso di desolazione e solitudine infinito. E lo sentivi nel pianto del vento, lo toccavi con mano in ogni pietra di quelle abitazioni distrutte. E anche Jeremy l’aveva sentito, gli aveva scavato nelle ossa da quanto profondo era. Gliel’avevano detto i suoi occhi – quegli stessi occhi uguali identici ai suoi -, così tristi e malinconici, che avevano perso la voglia di vita, la voglia di lottare e andare avanti che sempre avevano conservato.
Quando era tornato indietro, a casa sua, a quella che era stata casa loro, si era lasciato alle spalle Jeremy. E il senso di colpa l’aveva ucciso.
Inspira, espira. Un gesto semplice, ma al tempo stesso troppo difficile da continuare a compiere. La testa girava ancora mentre capiva che presto sarebbe caduto nel baratro più profondo.
Il sole era calato. La stanza si perdeva nell’oscurità della notte, la sagoma del letto appena percettibile, il freddo dell’impugnatura della pistola trafiggeva la mano destra.
E poi un colpo secco, un tonfo sordo, lacrime di sangue che si allargavano sul pavimento.
Perché lasciandosi alle spalle Jeremy gli era quasi sembrato di abbandonarlo di nuovo, di tradirlo. Non poteva permetterselo, non poteva lasciarlo solo a se stesso ancora una volta, come quando era partito per quella maledetta isola.
Quello era il suo destino, l’unico modo per espiare le sue colpe, l’unico modo per ritrovare suo fratello.
Perché erano due metà indivisibili, due metà della stessa anima. Se uno affondava l’altro lo seguiva.
Erano come il sole e la luna, il giorno e la notte.
Come un orologio fermo sulle dodici: Michael il mezzogiorno e Jeremy la mezzanotte.
E chiuse gli occhi, mentre ripensava alla sola domanda che avrebbe voluto porre al fratello.

Quella volta di cosa avevi paura, Jeremy?
Avevo paura di morire, Michael.
 

 
 
 
Note dell’autrice: Innanzitutto, grazie a tutti coloro che hanno letto questa storia, nata per il contest “Left Behind – Storie di Ruggine e Abbandono” indetto da -Tsunade- e Ino;Chan, che ringrazio moltissimo per avermi dato la possibilità di partecipare e l’ispirazione a scrivere questa storia.
L’ambientazione da cui ho preso spunto è l’isola di Hashima – anche se naturalmente la diceria del cane fantasma è di mia invenzione e non ho fatto nessun riferimento alla vera storia dell’isola– e QUI potete trovare foto e storia (quella vera! XD).
Penso sia un po’ particolare e quello che mi preme di più è che si capisca come Jeremy non sia riuscito a gestire le proprie emozioni e si sia lasciato soggiogare dalla desolazione dell’isola che lo ha messo di fronte, appunto, alla morte, la sua unica paura. Spero di essere riuscita a far passare questo messaggio dal mio testo! ^^
Un bacio, pinky_neko
  
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