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Autore: Alaska__    31/12/2014    4 recensioni
( • Long • OCs • District 6 • 56th Hunger Games • )
Cinquantadue anni dopo i Giorni Bui l'idea di rivolta sembra quasi un'utopia. Il popolo di Panem è straziato, piegato sotto i macigno del regime di Snow, costretto, ogni anno, ad assistere a ventiquattro ragazzini che si ammazzano l'un l'altro in un'Arena.
Eppure, nel Distretto 6, uno dei più dimenticati della nazione, qualcosa sta nascendo, grazie a quattro ragazzini stanchi di vedere il loro popolo costretto a tanto dolore e desiderosi di vendetta.
Questa è la loro storia.
È la storia di Franziska e Igor, i due gemelli che vogliono assicurare un futuro migliore al loro fratellino; di Aaron, i cui genitori sono stati giustiziati pochi giorni dopo la loro misteriosa fuga dal Distretto 6; di Jimmy, il figlio del sindaco, stanco del regime oppressivo di Capitol City e desideroso di poter avere un vero rapporto con suo padre.
Sono quattro ragazzini che si sentono invincibili, che sanno di poter cambiare le sorti di Panem. Ma il male c'è sempre, ed è dietro l'angolo e loro dovranno affrontare mille ostacoli.
Nel frattempo, le Mietiture si susseguono, una dopo l'altra... e le loro vite potrebbero cambiare. Per sempre.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate, Vincitori Edizioni Passate
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sparks. '
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PARTE I



 
 
CAPITOLO I
 
Bloodwall
 
 
« Ma chi sa per quanto tempo può durare un lutto. Non è possibile che dopo trenta o quarant'anni dalla scomparsa di un figlio o di un fratello di una sorella, ci si ritrovi nel dormiveglia a pensare al defunto con lo stesso senso di nostalgia e di vuoto, la sensazione di un'assenza che non potrà mai più essere riempita.. forse nemmeno dopo la morte. »
-Stephen King; “IT”


 
 
La fredda aria di novembre le carezzò il volto, scompigliandole appena i ciuffi di capelli color del grano che erano sfuggiti alla sua coda di cavallo.
La ragazza rabbrividì, stringendosi nella felpa pesante che fungeva da giacca e sistemandosi la sciarpa nera che portava al collo. La prese per un lembo e la alzò, di modo che le coprisse la bocca.
Al suo fianco, un bambino di sei anni si circondò il corpo con le braccia magre, come a volersi dare un solitario abbraccio, e fece strisciare le mani su di esse, per scaldarle.
«Hai freddo, Deryck?»
L’ultimo del gruppo – un ragazzo – tolse la sua felpa, porgendola al fratellino. Deryck lo guardò di sottecchi, indeciso se prendere o meno l’indumento. Il giovane lo esortò, allungando ancora di più il braccio nella sua direzione. Sospirando, il bambino afferrò la felpa del fratello e si tolse il cappellino di lana, liberando una folta zazzera di capelli color pece, che gli ricaddero sulla fronte pallida.
«Grazie» borbottò, infilandosi la felpa, che gli arrivava fino alle ginocchia. «Ma così non hai freddo?»
Il giovane scosse la testa, ma un brivido rivelò che quella era una menzogna. La misera maglietta a maniche lunghe che indossava non lo proteggeva affatto dal freddo pungente dell’autunno che di lì a un mese sarebbe volto al termine.
Deryck allungò un braccio, stringendo tra le mani il suo cappellino. «Tanto a me non serve, posso tirarmi su il cappuccio. E di sicuro ti tiene più caldo di quello». Con un cenno del capo, indicò il cappello con la visiera che il ragazzo teneva ben calcato in testa; il suo inseparabile compagno che indossava sia quando faceva caldo che quando le temperature erano basse come quel giorno.
Le sue labbra – seccate dall’aria gelida – si incurvarono in un sorriso, uno di quelli che lui faceva solo in presenza dei suoi famigliari.
«Mettitelo su, Deryck. È troppo piccolo per me». Scompigliò l’arruffata capigliatura del fratellino, prima di affiancarsi alla ragazza, che, nel frattempo, era stata ferma e si guardava intorno con aria guardinga.
«Ti prenderai un raffreddore così» mormorò l’unica femmina del gruppo, mentre i suoi occhi verdi scandagliavano il corpo del ragazzo.
«Non preoccuparti, Lala» la rassicurò lui, chiamandola con quel soprannome che utilizzava sempre. «Tanto tra un attimo torneremo a casa».
Lala era un nomignolo vecchio di quattordici anni, che solo il giovane e Deryck utilizzavano per appellarsi alla sorella, il cui vero nome, in realtà, era Franziska.
«Ci conviene sbrigarci, allora». La ragazza prese per mano Deryck, non prima di avergli sistemato il cappuccio della felpa nera sulla testa. Quello ricadde dinnanzi agli occhi del piccolo, che lo scostò con un gesto della mano.
«Non vedo niente così, Ziska» si lamentò, guardando la sorella. Franziska ridacchiò, dandogli un buffetto sulla guancia – quella gota che lei voleva fosse un po’ più paffuta, perché avrebbe significato che Deryck sarebbe stato bene, come tutti i bambini normali.
«Però stai al caldo e non ti becchi il raffreddore» replicò la quattordicenne, ripetendo le stesse azioni di poco prima. «Anche perché, se Igor non si copre, mi toccherà curare tutti e due» aggiunse, scoccando un’occhiata al fratello accanto a lei.
Igor fece roteare gli occhi verdi, incrociando le braccia al petto. «Starò bene, Franziska. Appena torniamo a casa mi faccio subito un bagno caldo, se questo serve a farti stare meglio».
La giovane sospirò, cominciando a camminare, la mano sinistra di Deryck bene stretta nella sua destra. Non appena i suoi piedi cominciarono a muoversi velocemente in direzione di casa, l’aria si fece ancora più fredda e più che una carezza, quel tocco pareva uno schiaffo.
Si sforzò di mantenere quella velocità, ignorando le narici che parevano bruciare per via di tutto quel gelo. Era uno degli autunni più freddi degli ultimi anni; lo aveva sentito dire prima da una donna al mercato, che si stava stringendo nelle sue pellicce con fare drammatico – era ricca, senza ombra di dubbio.
Lei non sa minimamente cos’è il freddo vero, si era ritrovata a pensare Franziska, prima di afferrare una mela dal banchetto e correre via, verso Igor che era andato al Mercato Nero con Deryck.
Il frutto era ancora lì, nel sacchetto che lei reggeva con la mancina, pieno anche di altre cianfrusaglie – cibo perlopiù, che avrebbero mangiato quella sera, da soli, seduti al vecchio tavolo di legno della loro cucina. Un borbottio proveniente dal suo stomaco le ricordò quanta fame avesse, e Franziska si sforzò di ignorarlo, mentre le sue iridi verdi correvano in automatico a guardare il bambino magro che teneva per mano.
Il suo stomaco stava di sicuro peggio di quello della ragazza e lei non poteva accettare tutto ciò. Se c’era qualcuno che doveva star bene, quello era Deryck. Aveva solo sei anni, eppure non poteva dire di avere una vita piena di belle cose, nonostante Franziska e Igor si fossero impegnati per anni al fine di farlo star bene.
Quasi stessero pensando la stessa cosa, gli occhi dei due fratelli maggiori – due smeraldi, uguali in tutto e per tutto – si incontrarono. La loro strana telepatia si manifestava sempre così, nei momenti anche più strani, come se Igor sapesse perfettamente quello che pensava Franziska e viceversa. Le era capitato di leggere in un libro che era una cosa piuttosto comune, tra i fratelli gemelli come loro due, quasi entrambi fossero nati collegati da un filo.
«Dimenticavo di dirti che domani io non vengo a scuola». Igor si calcò il cappellino sugli occhi, abbassando lo sguardo sulle scarpe da ginnastica malconce.
«Come sarebbe a dire che non vieni a scuola?» Franziska aggrottò la fronte, stupita e anche un po’ arrabbiata, ma la sua andatura non diede segni di voler rallentare.
Il quattordicenne ficcò le mani nelle tasche dei jeans strappati in più punti, facendo spallucce. «Oggi ho trovato un accordo con la merciaia. Se domani vado a tirar giù dal treno le casse provenienti dal Distretto 8, lei mi darà qualche soldo». Igor calciò un sassolino tra i suoi piedi, e quello andò a sbattere contro un palo della luce che aveva tutta l’aria di dover cadere da un momento all’altro.
«E non mi hai detto niente?» Più che arrabbiata, Franziska era infastidita. Tra lei e Igor non c’erano segreti; odiava quando lui non le diceva le cose subito. Avrebbe potuto aiutarlo tranquillamente, del resto erano abituati a marinare la scuola insieme.
Il ragazzo si grattò la nuca, rivolgendo uno sguardo comprensivo alla sua gemella. «Preferisco che tu vada a scuola. Lo so che ti piace studiare e so quanto ci tieni ad imparare cose nuove». La quattordicenne fece per replicare, ma Igor la interruppe bruscamente. «Guarda che vedo come leggi con passione tutti i libri vecchi di mamma. E poi, Deryck ha appena cominciato la scuola, non possiamo fargliela saltare continuamente per colpa nostra; ha bisogno di essere educato come si deve».
Sentendosi preso in causa, il più piccolo dei tre alzò lo sguardo. «Ma la scuola è noiosa…» tentò di protestare debolmente, sistemandosi il cappellino.
«No, Deryck, Igor ha ragione». Franziska gli lanciò uno sguardo che non ammetteva repliche. «Non vorrai diventare come lui» aggiunse con un sorriso furbetto, facendo l’occhiolino al fratello più piccolo, che fece una risatina.
«Non ridere, Deryck. Lo so che adori il tuo fratellone». Anche Igor gli fece l’occhiolino, spostandosi dietro di lui per sollevarlo e stringerlo tra le braccia. Franziska ridacchiò, senza fermarsi dal camminare. Il sorriso di Igor e quello di Deryck erano le uniche due cose che riuscissero a scaldarla davvero in quelle giornate così fredde, ancora meglio del fuoco che scoppiettava ogni sera in quella specie di buco che loro chiamavano “camino”. Era così raro, vederli felici, che ogni volta lei sperava che non smettessero mai, perché erano volti sprecati, i loro, quando erano così tristi.
Igor, poi, quando passava dei momenti belli sembrava davvero trasfigurare e quell’aria truce che si portava sempre dietro lasciava spazio al bambino che era stato e che mai più sarebbe tornato in superficie.
«No, sei brutto, cattivo e sei anche grasso!» Deryck rise, agitandosi tra le braccia forti del fratello maggiore – il quale, inarcato un sopracciglio, replicò con aria sarcastica: «Qualche altro difetto non ce l’ho?»
Il bambino fece finta di pensarci su per un attimo, grattandosi il mento con fare innocente. «Forse per oggi basta così» ammise candidamente, rivolgendo uno sguardo di sfida ad Igor.
«Allora siccome sono brutto e cattivo è meglio se cammini con le tue gambe». Il quattordicenne rise, mettendo a terra Deryck e prendendolo per mano. «Spero che Warwick non abbia occupato il bagno. Sto gelando, ho bisogno davvero di un bagno caldo, e anche tu» commentò, e i suoi occhi dardeggiarono in direzione della sorella. Al solo nominare il padre, essi si fecero più cupi, come il sole quando è coperto da una nube.
«Magari non è nemmeno a casa» ipotizzò Franziska. Divise la sua coda di cavallo in due grosse ciocche, prendendole tra le mani e tirandole; un vano tentativo di ravviarsi i capelli arruffati.
«Oggi non è nemmeno andato al lavoro, il coglione». La mascella di Igor si contrasse per un istante, mentre Deryck gli rivolgeva uno sguardo curioso e un po’ stupito. «Scusa, Der» aggiunse il ragazzo frettolosamente, per rimediare all’errore di aver detto una parolaccia davanti al bambino. Ormai ci era abituato, ma i gemelli tenevano alla sua educazione – anche se loro non erano di certo un esempio di virtù e galateo.
«Tanto non ci cambia niente, se lui lavora o meno». Franziska si trattenne dal dire un’altra parolaccia, mentre il volto di suo padre, così spento e così lontano, si proiettava nella sua mente, accompagnato da una sensazione di disgusto ormai troppo familiare alla quattordicenne. «Magari non aveva voglia di lavorare, come sempre».
Il sacchetto stretto tra le dita sembrò farsi più pesante, come se quelle parole appena pronunciate vi avessero infilato dentro altri oggetti; o forse, si trattava solo di tutti i sentimenti chiusi nel tono irritato della sua voce, quelli che Franziska ormai era abituata a trattenere e a nascondere sotto una maschera.
«Se solo mamma fosse ancora qui…» Igor non finì la frase, e ancora la sua mascella si contrasse in uno spasmo rabbioso, mentre le sue iridi smeraldine rifuggivano quelle della sorella e del fratello minore, fisse in un punto dinnanzi a sé.
Dal canto suo, Franziska non sapeva come ribattere a quell’ultima affermazione del suo gemello. Lei stessa desiderava riavere sua madre – non passava giorno senza che non pensasse a lei, ai suoi capelli biondi, i suoi occhi verdi e il suo sorriso – ma in certi casi sentiva che il silenzio era la miglior risposta. Igor sapeva che lei lo appoggiava, sempre o comunque.
Un gruppetto di ragazzini tagliò loro la strada, correndo, ansanti, verso qualche posto in cui avrebbero potuto giocare.
Nel vederli, Franziska provò un moto di compassione misto ad una strana felicità, pensando che nonostante tutte le brutture di Panem, quei bambini riuscivano a trovare un posto – o un momento – in cui essere felici. Persino il cielo del Distretto 6 – che pareva sempre grigio a causa dei fumi delle officine – sembrava quasi diventare sereno, quasi il sole volesse partecipare ai giochi dei più piccoli.
I suoi occhi si spostarono quasi automaticamente sulla figura di Deryck, su quel visino tanto pallido, magro e triste, che pareva ancora più cupo quando lo si guardava in quegli occhi così verdi e profondi, così maturi, per uno che aveva solo sei anni. Il desiderio più grande di Franziska era vederlo correre con i suoi amici per le anguste vie del Distretto 6, ansante, ma felice e con le gote finalmente rosse e gli occhi brillanti – quel verde così intenso non sarebbe più stato lo stesso colore delle foglie nel periodo in cui l’estate abbandonava il mondo per lasciar spazio all’autunno, quel colore cupo e con venature giallastre che simboleggiavano la loro morte.
Inspirò quell’aria gelida che le schiaffeggiava il volto, sentendo le narici bruciare al suo passaggio.
L’autunno più freddo degli ultimi anni, sembrò dirle una voce interiore, e il volto flaccido della ricca donna con la pelliccia le tornò in mente, accompagnato da un moto di rabbia cieca verso coloro che vivevano nella stessa condizione di quella signora.
Li chiamavano Hunger Games, ma forse non si riferivano solo ai Giochi. Tutta la vita di ogni persona che viveva a Panem era un gioco di morte e di fame, dove il tasso di mortalità era alle stelle e chi si svegliava alla mattina ancora sano doveva ringraziare una qualche divinità in cui credeva.
Tutta la sua rabbia non fece che aumentare quando il grigio profilo della sua casa si stagliò a pochi metri da dove camminavano. Le tenebre stavano ormai calando, e rendevano ancora più tetro quel posto di quanto già non fosse. Se qualcuno avesse visto la casa dei Madison da fuori, avrebbe potuto intuire quanta decadenza vi fosse all’interno. L’intonaco delle mura era ormai scrostato in più punti e il suo colore oscillava tra il grigio e un bianco sporco, come la neve ammucchiata a lato delle strade d’inverno. Le persiane delle finestre – un tempo verdi – portavano ancora pochi rimasugli dell’antica vernice, ed erano rotte in vari punti.
Solitamente si notava in lontananza una fioca luce proveniente dal salotto, o dalla camera di Warwick, ma quella sera era tutto buio.
«Le opzioni sono due» esordì Igor, fermandosi in mezzo alla strada e costringendo Deryck a fare lo stesso. Alzò l’indice della mano destra, indicando la prima delle ipotesi. «O Warwick non è casa», alzò anche il medio della medesima mano, «oppure è saltata la corrente».
«Entrambe molto certe». Franziska sospirò, incamminandosi verso la porta di legno che dava l’accesso alla loro misera casa. Infilò le chiavi nella serratura arrugginita, pensando che da un giorno all’altro l’avrebbe cambiata. Sentito il tipico clack, girò la maniglia, ed entrò nell’atrio buio che dava sul piccolo salotto. Igor e Deryck la seguirono a ruota, e il suo gemello chiuse la porta dietro di sé, per poi allungare una mano ed accendere la misera e mal funzionante lampadina che pendeva dal soffitto, senza più un lampadario che la rendesse quantomeno decente.
«Casa dolce casa». Franziska appoggiò il sacchetto sul divano, prima di togliersi la sciarpa e gettarla malamente accanto ad esso. «Igor, ti conviene coprirti, ora» disse poi, rivolta al gemello, che, nel frattempo, aveva appeso il suo inseparabile cappellino con la visiera all’attaccapanni – se così si poteva chiamare – accanto alla porta. Il ragazzo replicò con un cenno di assenso, togliendo la cuffia dalla testa di Deryck.
«Forse conviene che tu vada a lavarti, nanerottolo» ordinò Franziska al fratellino, scompigliandogli i capelli corvini. «Vado a prepararti un po’ d’acqua calda. Intanto, fai i compiti».
Il bambino rispose a quell’ordine con un verso gutturale di puro disgusto, che suscitò l’ilarità della quattordicenne. La bionda iniziò a salire i gradini che portavano al piano superiore, evitando abilmente quelli pericolanti, saltando direttamente su quello dopo. Come salita non era lunga, ma anche le scale erano talmente rovinate che dirigersi al piano superiore diventava un gioco d’abilità.
Giunta nello stretto corridoio che terminava con una finestra dalla vista ben poco panoramica, Franziska si diresse sicura nella prima stanza a destra, dove si trovava il piccolo bagno. Aprì la porta di scatto e accese la luce, ma quello che trovò al suo interno la fece rimanere ferma sull’uscio della porta.
Sentì un conato di vomito risalirle lungo l’esofago, accompagnato da brividi freddi che la scossero nel profondo, mentre osservava il cadavere di suo padre che giaceva nella vasca da bagno.
Il capo di Warwick era reclinato all’indietro, gli occhi semiaperti, così come le labbra, che facevano intravedere i suoi denti gialli dalle incrostazioni di tartaro. Aveva le braccia spalancate, appoggiate sui bordi della vasca, e i polsi forse non potevano chiamarsi più a questo modo. Erano squartati, il sangue ancora fluiva nell’acqua ormai fredda, rendendola spaventosamente vermiglia. Sul pavimento – circondata da un alone di sangue – giaceva una lametta.
Franziska rimase impotente ad osservare quello scempio, presa da una paralisi improvvisa. Il cervello pareva essersi spento, mentre cercava di trovare una soluzione o un motivo ragionevole a tutto ciò. Non riusciva a distogliere gli occhi da quei tagli così profondi che avevano causato la morte di Warwick Madison, come se essi esercitassero un’attrazione troppo forte per lei.
Quando poi i suoi occhi si posarono sul muro scrostato, quella paralisi si trasformò in disgusto e terrore, mentre leggeva quello che suo padre aveva scritto con il sangue. Un nome, quello di colei che per anni gli era stata accanto, il nome di quella donna che con lui aveva concepito tre figli.
Grace. 

 
 
*
 
Il Mercato Nero era un viavai di persone. Gli ultimi che volevano barattare qualcosa o comprare merce di contrabbando si stavano affrettando per accaparrarsi le ultime cose, che fossero esse delle bevande alcoliche, dei pezzi di stoffa o una ciotola di zuppa calda a poco prezzo.
Aaron si guardò intorno con fare guardingo, le mani ficcate nell’enorme felpa che indossava e il cappellino da baseball rigorosamente girato al contrario.
Non era la prima volta che si recava in quell’enorme officina abbandonata e ormai i loschi personaggi che lì vi si aggiravano erano suoi conoscenti, eppure, quella sera, sentiva brividi freddi lungo la schiena. Essi non fecero che aumentare quando i suoi occhi si posarono sull’uomo che aveva dinnanzi, ma soprattutto sul coso che teneva in mano. Era una specie di lungo ago appuntito, e il suo possessore – di cui Aaron non ricordava il nome – lo stava pulendo con un batuffolo di cotone intriso di disinfettante.
«Dobbiamo proprio farlo?» balbettò all’orecchio del ragazzo in piedi accanto a lui, avvicinandosi per non farsi sentire dal bestione con l’ago in mano.
Il suo amico gli rivolse un sorrisetto ambiguo. «Direi di sì» replicò con nonchalance, incrociando le braccia al petto e guardando il tipo dietro al bancone con aria di sfida. Quello andò avanti a lucidare il suo ago come se nulla fosse; sembrava non si fosse accorto minimamente dei due ragazzini che lo fissavano con insistenza.
«Col cazzo, Jimmy». Aaron gli tirò una gomitata, guardandolo con fare supplichevole. «Non vorrai farti infilare quel coso nella pelle».
«Oggi eri molto più simpatico, quando volevi farlo anche tu». Jimmy inarcò un sopracciglio, osservando il ragazzo accanto a lui con aria risentita. «Andiamo, Aaron. Proviamoci».
Il giovane deglutì. Era tutto il giorno che parlavano di andare da quell’uomo ed Aaron era stato esaltato per tutto il pomeriggio, ma all’improvviso il suo ardore parve venire meno, mentre osservava quello che puliva la sua arma con fare carezzevole.
«E poi, devo far vedere a mio padre che non deve starmi addosso». Jimmy si grattò la nuca, fattosi improvvisamente serio. «Sarò anche il figlio del sindaco, ma sono un damerino come lui mi vuole. Andiamo, Kidman» esortò il suo amico, tirandolo per il braccio sinistro e conducendolo a forza davanti al bancone.
Aaron deglutì per una seconda volta, mentre il tipo dai capelli rossi dietro il banco alzava lo sguardo, due penetranti occhi azzurri che spiccavano su un viso tondo come la luna ricoperto in gran parte da un’ispida barba color carota.
«Salve» esordì Jimmy, appoggiandosi al bancone come se stesse facendo una chiacchierata di piacere. A testa bassa, Aaron continuava a muovere le mani nella gigantesca tasca della sua felpa nera, agitato da quello che avrebbe detto di lì a poco il suo amico.
«Salve» replicò il rosso, con voce roca e profonda, che ben si adattava a quel fisico nerboruto.
«Vorremmo provare a farci un piercing». Jimmy abbassò la voce e si allungò verso l’uomo, quasi gli stesse confessando un segreto di stato. Questi aggrottò la fronte, e quel semplice movimento bastò a riaccendere le speranze di Aaron.
«Quanti anni avete?»
«Diciotto» mentì Jimmy, con un’abilità incontestabile. Aaron si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo dinnanzi alla sfacciataggine del suo migliore amico.
«E dove lo volete, questo piercing?» L’uomo guardò Aaron dall’alto in basso, un sopracciglio rosso che formava un perfetto arco e una smorfia ad increspargli le labbra carnose. Il giovane sostenne il suo sguardo, ma le mani gli tremavano per la paura – mista a speranza – che non avesse creduto alle parole di Jimmy. Malgrado la sua altezza, Aaron presentava un volto dai tratti fanciulleschi, che rivelava pienamente i suoi acerbi quattordici anni – e forse, se lo si fosse solo guardato in faccia, si sarebbe potuto pensare che fosse stato addirittura più giovane.
«Al labbro». Jimmy si picchiettò con un dito a lato del labbro inferiore. «Sia io che lui» aggiunse, muovendo lo stesso dito verso l’amico.
«Una specie di segno della vostra amicizia». Tra l’ispida barba dell’uomo comparve un sorriso, mentre si alzava dalla sedia e gettava il batuffolo di cotone in un cestino.
Jimmy si voltò verso Aaron, facendogli l’occhiolino con aria complice. Il quattordicenne rispose incurvando le labbra in su, nel primo e sincero sorriso di quella giornata.
Non sarebbe stato solo un segno d’amicizia, quel piercing, ma anche un segno di ribellione, quella a cui loro tanto agognavano. Tra i ragazzi con cui si divertivano a dipingere i muri del Distretto per protestare, ve ne erano alcuni che li portavano con aria fiera. Gli stessi avevano loro rivelato che li avevano fatti illegalmente, come segno di ribellione.
Aaron si era ritrovato a guardarli attonito, incredulo da quelle parole che non gli sembravano sensate, ma Jimmy si era subito esaltato e lo aveva trascinato al Mercato, del tutto convinto che un piercing lo avrebbe fatto apparire come un ribelle agli occhi dei genitori e non più come il dolce ed educato figlio del sindaco che lui non voleva essere.
«Seguitemi». Il rosso fece loro segno di andare dietro al bancone, esortandoli con un cenno della mano. I due obbedirono, Jimmy in testa e Aaron dietro, che si sistemava il cappellino in maniera quasi febbrile.
«Chi inizia?»
«Jimmy». Senza neanche pensare alle parole che gli erano appena uscite dalle labbra, Aaron diede una spintarella al suo migliore amico e questo, preso alla sprovvista, rischiò di andare addosso al colosso, che già aveva l’ago pronto in mano.
«Io?» Jimmy si voltò verso Aaron con espressione a metà tra lo stranito e l’arrabbiato, al quale il quattordicenne ribatté con la sua migliore faccia da angioletto.
«Vai, vai. Non voglio privarti di questo privilegio».
«Andiamo, forza!» L’uomo assestò una pacca sulla spalla di Jimmy, e il suo busto andò pericolosamente in avanti. Aaron si ritrovò a sogghignare sotto i baffi, mentre il proprietario del banchetto conduceva il quattordicenne dietro un telo. Quest’ultimo, prima di seguirlo, freddò il suo amico con uno sguardo, mimando con le labbra qualche parola: “Dopo ti ammazzo”.

 
 
*
 
Le corde vocali sembravano quasi tremarle per quell’urlo che non voleva saperne di uscire.
Fissava incantata il nome di sua madre scritto con il sangue, Franziska, gli occhi verdi fissi su quelle cinque lettere che un tempo rappresentavano una persona, una madre, una donna.
Il silenzio era opprimente, così come il lezzo di sangue che pervadeva il minuscolo stanzino. Si infilava nelle sue narici, dandole quasi l’impressione di stare soffocando. Nemmeno le ultime gocce color rubino che cadevano sulle mattonelle del pavimento facevano rumore. Scendevano silenziose, mute testimoni della vita di quell’uomo, perché quel sangue, un tempo, scorreva nelle sue vene, lo rendeva una persona. E per quanto Franziska lo avesse odiato, ripudiato, insultato, in quel momento pensare al fatto che anche quello – che lei non aveva mai nemmeno chiamato papà – era stato una persona viva e in carne ed ossa, con dei sentimenti, la stordiva ed inquietava al tempo stesso.
Finalmente, con grande sforzo, le sue labbra martoriate dall’aria fredda si schiusero, facendo uscire quell’urlo che aveva trattenuto per quegli interminabili secondi di silenziosa contemplazione.
«Igor!»
Il nome di suo fratello, la prima persona a cui lei aveva pensato nel vedere il corpo privo di vita del padre.
«Igor!»
Ancora, spaventata, lo ripeté con maggiore veemenza, e una nota di terrore si insediò nel suo tono di voce. Quel lezzo sembrò farsi improvvisamente insopportabile, e quasi senza che se ne accorgesse, Franziska indietreggiò di un passo, verso il corridoio buio.
I passi di suo fratello si fecero più veloci – forse l’aveva addirittura chiamata, ma lei non se ne ricordava; non aveva sentito, persa in quel mondo fatto solo di sangue, polsi straziati e nomi scritti sui muri.
Grace.
Lo rileggeva, lo ripeteva. Era stato l’ultimo desiderio di Warwick, l’ultima cosa a cui aveva pensato prima di morire.
«Ziska». Igor l’afferrò per il braccio, prima che i suoi occhi si posassero sull’interno del bagno. La quattordicenne non disse niente, si limitò ad osservare con freddo stupore – ancora una volta – i polsi di suo padre, dai quali il sangue continuava a colare, inesorabile, come un rubinetto chiuso male dal quale continuano a scendere delle fastidiose gocce d’acqua.
E quel sangue iniziò a darle fastidio. Voleva farlo sparire, cancellarlo, togliere quel nome dal muro insieme al cadavere di suo padre, magari levandolo del tutto da quegli anni di vita passata che sembravano ormai lontanissimi.
Igor sgranò gli occhi, fissando impotente quel cadavere reso freddo dalla morte, la cui pelle stava diventando già blu. Il volto del ragazzo si fece pallido, e il suo pomo d’Adamo risalì lungo la gola al ritmo della sua deglutizione nervosa.
«Cazzo» sibilò, facendo un passo indietro, tirando la sorella per la manica della felpa. «Dobbiamo… dobbiamo chiamare qualcuno» biascicò, respirando affannosamente. Franziska annuì, finalmente distogliendo lo sguardo da quello scempio.
«Carine». Un nome, una salvezza, una certezza. Carine era l’unica che avrebbe potuto aiutarli in quel momento.
Igor annuì e, lanciato un ultimo sguardo disgustato a Warwick, scese le scale di corsa. Qualche secondo più tardi, Franziska sentì la porta chiudersi, accompagnata dalla sottile vocina di Deryck che chiedeva informazioni, senza tuttavia ottenere risposta.
Quella composta freddezza che l’aveva assalita mentre osservava il corpo inanimato di suo padre lasciò spazio ai sentimenti e alle emozioni più forti che potesse provare, grazie al semplice ascolto della voce del fratellino.
Deryck. Tanto piccolo e dolce, con un padre assente, una madre morta e due fratelli troppo piccoli perché sostituissero i genitori. Deryck, così piccolo, ma così forte e segnato, con gli occhi che si illuminavano ogni volta che Franziska e Igor riuscivano a rubare un dolcetto per portarglielo e farlo felice.
Con rinnovata forza, la quattordicenne si diresse verso la vasca da bagno, camminando di corsa, quasi avesse premura di portare via quel corpo – anche se da sola, lo sapeva, non ce l’avrebbe mai fatta.
Doveva compiere quel gesto per Deryck, per non fargli vedere quello scempio.
Cauta, si avvicinò alle braccia di Warwick, osservando i tagli sui suoi polsi. L’odore di sangue la investì come un treno in piena corsa e un secondo conato le risalì lungo l’esofago, trattenuto a stento.
Si era tagliato i polsi così profondamente che doveva essere morto in poco tempo – l’ultima sofferenza di una vita piena di sofferenze.
Quell’odore nauseabondo iniziò a diventare insopportabile e Franziska si alzò in piedi, uscendo dal bagno e chiudendo la porta. Voleva evitare che Deryck sentisse quell’odore, che anche lui stesse così male.
Scese i gradini quasi di corsa, saltando quelli malconci e spiccando un balzo quando ne mancavano tre al pavimento.
Il salotto malamente illuminato era nelle stesse condizioni in cui lo aveva lasciato pochi minuti prima, con il sacchetto sul divano insieme alla sua sciarpa, e il cappellino di Igor appeso accanto alla porta.
Deryck era seduto su una poltroncina sfondata, e giocherellava con un trenino, facendolo girare sul bracciolo. Sentiti i passi poco femminili della sorella, alzò lo sguardo verso di lei, con rinnovata curiosità.
«Perché Igor è corso fuori a quel modo?»
Sospirando, la quattordicenne si avvicinò a lui e lo fece alzare dalla poltrona, prendendolo in braccio. Le gambe le tremavano e la testa le pulsava. Non sapeva bene come comportarsi in certe occasioni, non le era mai capitato prima.
Ingoiando un po’ di saliva, si costrinse a guardare il suo fratellino negli occhi. Allungò una mano verso la sua fronte, scostandogli un ciuffo di capelli neri come il cielo notturno, che creavano un bel contrasto con quella pelle di porcellana.
«Perché è successa una cosa un po’ brutta e deve chiamare Carine».
A sentire nominare colei che per anni lo aveva trattato come un figlio, le gote di Deryck si fecero più rosse dalla felicità e gli occhi lampeggiavano dalla gioia.
«Brutta quanto?» domandò poi, perdendo l’improvviso sorriso e avvicinando il volto a quello di Franziska.
«Mentirei se ti dicessi che non ce ne frega niente. È piuttosto brutta, Der». Un brivido freddo le corse lungo la spina dorsale, ma non era per il freddo. «Si tratta di Warwick».
«È scappato?» Il bambino aggrottò la fronte, per niente impressionato. Franziska scosse la testa in segno di diniego, prendendo una mano del piccolo tra le sue.
«Più o meno. È scappato in cielo».
Per un breve istante, gli occhi del piccolo si sbarrarono e le labbra si dischiusero leggermente. «È… morto?»
Indugiò su quella parola, troppo forte e misteriosa per un bambino di appena sei anni come lui. Franziska sapeva che la parola morte gli faceva paura perché lui aveva fatto anni ad abbinarla alla sua nascita, al giorno in cui la sua mamma se n’era andata per sempre.
«Sì».
Il piccolo abbassò lo sguardo a fissare il lurido tappeto che ricopriva il pavimento del salotto, poi, come se nulla fosse, fece spallucce.
«Dovrei sentirmi triste, vero? Tu eri triste, quando la mamma se n’è andata in cielo?»
Quelle lacrime che Franziska aveva trattenuto per anni sembrarono premere per scorrere lungo le sue gote, mentre ripensava al giorno in cui il corpo di Grace aveva perso qualsiasi funzione vitale, lasciando di lei null’altro, se non un corpo che ormai doveva essere stato del tutto mangiato dai vermi che vivevano sotto terra.
«Quando la mamma è morta, era diverso». Strinse a sé Deryck, annusando l’odore di pulito – così inusuale, in quella casa – che emanavano i suoi vestiti, mentre i ricordi di quella sera – quella della nascita del piccolo – tornavano alla sua mente con prepotenza, dandole una botta all’animo, quasi un aereo vi si fosse schiantato.
 
La mamma urlava da far paura, alternando strilli acuti a versi gutturali di puro dolore. La sua faccia – rossa dallo sforzo – era ridotta ad una maschera di paura e angoscia, trasfigurata dalla smorfia che avevano assunto le sue labbra.
«Spingi, Grace, ci sei quasi». Le lacrime scorrevano lungo le gote di Carine, mentre diceva quelle parole con calma. «È quasi nato, avanti, ci sei quasi». Ben presto, anche quelle incitazioni divennero una bassa litania, come una preghiera, rotta solo dalle urla della donna distesa sul letto.
Franziska stava in piedi, carezzando i capelli della mamma come se fosse la cosa più naturale del mondo. Quando lei era triste e voleva farsi coccolare, Grace glieli pettinava sempre con le dita, cantandole una canzone dolce.
Igor, accanto a lei, le teneva la mano e osservava una donna che guardava tra le gambe della mamma. Il volto del bambino era terrorizzato, gli occhi lucidi dalle lacrime che si sforzava di trattenere.
La bambina strinse ancora più forte la mano del gemello, come se quel contatto potesse trasmettersi anche alla mamma, che non la smetteva di urlare e respirare con affanno.
Con uno sguardo, freddò il padre che stringeva la mano della moglie, mentre lacrime silenziose scorrevano lungo il suo volto.
«Dille qualcosa» avrebbe voluto urlare Franziska, ma le sue labbra rimasero serrate, mentre carezzava quasi ipnotizzata i capelli della mamma.
Neanche un minuto dopo, nella stanza ci fu un nuovo suono. Il pianto di un bambino aleggiò nell’aria, forte, facendo trasparire la voglia di vivere di quel cosino rosso e urlante.
Grace si abbandonò sul cuscino, stanca, respirando appena. Sembrava impossibile che si muovesse, ma pian piano alzò una mano, facendo cenno ai due figli di avvicinarsi. Warwick si scostò, lasciando posto ai due bambini.
Franziska sentiva le lacrime che scendevano lungo le sue guance, calde e salate, e la sua presa sulla mano di Igor si fece ancora più salda.
Era davvero quella la sua mamma? Lei era sempre stata una donna in forze, bella, ma quella che aveva davanti era l’immagine della stanchezza e della morte.
«Prendetevi cura di Deryck». La sua voce era poco più di un sussurro, mentre debolmente asciugava le lacrime della bambina. «Siete gli unici che potete farlo». Il suo braccio ricadde sul materasso e i suoi occhi si socchiusero, mentre rivolgeva un ultimo sorriso ai due figlioletti. «Vi voglio bene» soffiò, e poi morì.
 
Chiuse gli occhi, appoggiando la fronte alla spalla del fratellino, che li cinse il collo con le braccia magre.
«È davvero tanto brutto il fatto che non sento niente, Ziska? Sono cattivo». La sua voce era intrisa di tristezza e lacrime mai fatte uscire, di sensi di colpa e di paura.
Franziska alzò il capo, dandogli un bacio sulla guancia. «Non sei cattivo, Deryck. Ti dirò: anche io non sono triste. Lui era solo l’uomo che ha messo incinta mamma, ma non si è mai comportato come un padre».
Nel pronunciare le ultime parole, la quattordicenne sentì un’ira repressa a stento venire a galla, ma si sforzò di non mostrarla. Deryck era abituato a sentire lei e Igor mentre inveivano contro Deryck – fin da piccolo gli avevano insegnato che lui non era nessuno, se non un coinquilino silenzioso e spesso assente – ma in quel momento, lei doveva insegnargli ad avere rispetto della morte e delle cose più grandi di lui.
Per quanto una parte del suo animo desiderasse dire che lei era contenta, che suo padre quella morte se l’era meritata, un’altra parte le suggeriva che non era giusto, perché nessuno sarebbe dovuto morire a quel modo, nemmeno un uomo spregevole come Warwick Madison.
Se l’è cercata, tentò di convincersi, alzando il fratellino e posandolo a terra. Si alzò poi dalla poltroncina, sistemandosi la felpa e stropicciandosi gli occhi, in preda ad una stanchezza che parve crollare sulla sua schiena come un macigno.
«E adesso che facciamo?» Deryck la tirò per una manica della felpa, con fare preoccupato.
«Non lo so. Aspettiamo Carine… e poi speriamo che si sistemi tutto».
Un po’ a sorpresa, il bambino circondò la vita della sorella con le sue braccine, affondando il capo nel tessuto pesante.
«Andrà tutto bene, Lala».
E Franziska sperò che le parole del fratello potessero essere vere.

 
 
*
 
«Merda, che male!»
L’imprecazione di Jimmy risuonò nel buio della sera tarda, in quel vicolo scuro che lui e Aaron stavano percorrendo per tornare nelle loro case.
Le uniche ad osservare il loro passaggio erano le stelle del cielo, parzialmente coperte da un velo di sottile nebbia, che rendeva ancora più fioca la loro luce.
Per le strade del Distretto 6 non c’era nessuno, se non qualche gatto randagio che miagolava stizzito o che li osservava con gli occhi che brillavano. Le persone, a quell’ora, erano tutte in casa ad attendere che il coprifuoco scattasse. Di lì a pochi minuti, i Pacificatori avrebbero iniziato a pattugliare la città, cercando eventuali trasgressori della legge da punire. Non importava cosa stessero facendo, se semplicemente camminando senza dare fastidio a nessuno, o dipingendo le mura con scritte oscene. I soldati della Capitale li avrebbero puniti comunque, con frustate sulla schiena e in casi estremi con la morte – che fosse essa veloce e indolore come una fucilata o lenta e dolorosa come la tortura.
Aaron rabbrividì e tirò su la zip della giacca nera, quasi fino al mento. Il labbro gli faceva ancora male, dopo che l’uomo dai capelli rossi vi aveva infilato l’ago per bucarglielo, e l’aria gelida sembrava far aumentare il dolore. Mentre camminava, capitava che se lo tastasse come a verificare se fosse ancora lì o per vedere se davvero spurgava, come gli aveva detto il tizio. Per due settimane circa avrebbe fatto uscire del liquido giallastro, anche se non si sarebbe notato molto, e aveva dato ordine ai due quattordicenni di non toglierlo per nessuna ragione al mondo. In realtà, gli aveva proprio detto che un piercing era per sempre, e avrebbero dovuto tenerlo su quasi per tutta la vita – toglierlo spesso li avrebbe fatti ammalare per un’infezione e nessuno dei due teneva a morire per una cosa così banale come un anello al labbro.
«Sei stato tu a volerlo» rispose con calma Aaron, tastandosi delicatamente il piercing.
Jimmy sbuffò e una nuvoletta di fiato si condensò nell’aria fredda della sera. «Tanto passerà» replicò, facendo spallucce, prima che il suo volto fosse attraversato da un ghigno soddisfatto. «Voglio proprio vedere la faccia del mio vecchio quando noterà il mio nuovo piercing». Ridacchiò soddisfatto, tirando un calcio ad una lattina che andò a sbattere contro un cestino dei rifiuti accanto al quale era accovacciato un gatto. L’animale se la diede a gambe levate, miagolando arrabbiato.
Aaron non rispose, sentendo lo stomaco contrarsi in una morsa. I suoi zii si sarebbero arrabbiati di certo nel vederlo tornare a casa con quell’anello sul labbro – o forse, come sempre, avrebbero alzato gli occhi al cielo e avrebbero parlato con lui, chiedendogli se qualcosa non andava.
Vivo a Panem, nel Distretto 6, che è quello più schifoso. Ogni anno devo prendere delle tessere per far sì che tiriamo avanti perché i soldi dello zio non bastano e dobbiamo nutrirci degnamente, visto che siamo in sette. Ah, sì, e dimenticavo gli Hunger Games, sai zietta, da due anni posso essere estratto come tributo.
Ogni volta che Katy gli chiedeva come stava, Aaron avrebbe voluto rispondere in questo modo, ma alla fin fine, ribatteva con un sorriso sbarazzino e un’alzata di spalle, dicendo che no, non c’era nulla che non andava, stava bene ed era solo un periodo un po’ brutto.
Mentire era facile come camminare, pensare o aggiustare qualche motore, per lui. Apriva la bocca e uscivano un mare di bugie, la chiudeva e lo assalivano i sensi di colpa.
«Mi ascolti?»
Preso com’era a seguire il filo invisibile dei suoi pensieri, il quattordicenne non si era accorto che Jimmy gli stava parlando. Ormai l’amico era abituato a quel modo di fare di Aaron, così strano per un ragazzino della loro età – per un maschio, soprattutto. Non erano rari i momenti in cui lui si perdeva, partendo da un pensiero e concludendo con una corsa in salita, perché numerose altre idee si erano affollate nella sua testa.
«Sì, scusa, stavo-»
«… pensando ad altro» completò Jimmy per lui, prima di dargli una pacca sulla spalla. «Vado a casa. Buonanotte, Kid!»
«’Notte» rispose Aaron, prendendo la via che conduceva alla modesta casa dei suoi zii. Jimmy andò a destra, verso la sua ben più lussuosa abitazione; un privilegio che solo i ricchi come lui potevano permettersi, in un luogo come il Distretto 6.
La casetta dove abitava non era molto distante, solo a poche centinaia di metri. In lontananza, vide subito le luci della cucina e del salotto, nonché alcune del piano superiore. Non erano luci forti, ma fioche. Di meglio non potevano permettersi, se non qualche misera lampadina che pendeva dal soffitto. Lo stipendio dello zio Martyn non era tanto alto, così come quello di suo figlio più grande Keegan e del mezzano, Jarod, e i soldi che Aaron guadagnava nell’aiutare Martyn erano perlopiù degli spiccioli di mancia, dati per non farlo restare a bocca asciutta.
Ogni tanto gli capitava di sentire i suoi zii discutere in cucina, mentre tutti  i giovani erano nelle loro camere e si preparavano per la notte. In quei momenti, Aaron si sentiva triste e arrabbiato al tempo stesso, perché avrebbe voluto cambiare le cose. Ma pensarlo non bastava al Distretto 6, dove la povertà dilagava, e anche farlo comportava dei rischi enormi.
Giunto sui gradini che conducevano alla porta di casa, Aaron sospirò, tastandosi un’ultima volta il piercing, prima di afferrare con sicurezza la maniglia della porta e spalancarla.
Il salotto malamente illuminato era perlopiù vuoto, se non per Katy e Martyn che sedevano sul divano sfondato. Con la coda dell’occhio, il quattordicenne notò che la cucina era occupata da Keegan, intento a lavorare su un pezzo di ricambio di qualche treno o hovercraft, la lingua che sporgeva appena dalle labbra chiuse, segno che il ventenne era estremamente concentrato, al punto che non sentì nemmeno la porta sbattere.
«Sono tornato». Aaron si tolse la giacca, mettendola sull’appendiabiti colmo di felpe, giacche e quant’altro. Sua zia si alzò dal divano, guardandolo mentre compiva quella semplice azione. Aveva un sorriso dolce e il naso un po’ arrossato dal raffreddore, ma nel complesso sembrava in forma – molto più di quella mattina, quando era stata costretta a buttar via almeno un centinaio di fazzoletti.
Quando però vide la faccia del nipote, lo sguardo di Katy si fece attento e incuriosito, il tutto condito con un pizzico di sorpresa e – forse – rabbia, nonostante l’ira della donna fosse sempre contenuta e mai esplosiva.
«Aaron! Che cavolo ti sei fatto al labbro?» chiese, indicando la faccia del nipote. Richiamato dalla voce preoccupata della moglie, Martyn si girò verso Aaron, facendo ricadere lo scotch con il quale stava aggiustando un libro di scuola di uno dei suoi figli. Nel vedere il piercing, anche la sua espressione divenne seria.
«Questo?» Era ovviamente una domanda retorica, ma Aaron sperò di temporeggiare. Si picchiettò il piercing con un dito. «Nulla. È semplicemente un piercing».
«Semplicemente?» tuonò Martyn, ma più che arrabbiato sembrava sconvolto. «Ti sei fatto bucare la pelle!»
«Oh, Aaron…» esclamò la zia, passandosi una mano tra i capelli lunghi per spostarli dal viso. «Perché mai ti sei fatto fare un buco sul labbro, sentiamo?»
Il quattordicenne fece spallucce, all’improvviso a corto di parole. Alzò lo sguardo verso le scale che portavano al piano superiore, notando i volti di suo fratello minore Brenton e di suo cugino Patryck che lo osservavano dalla sommità della scalinata.
«Jimmy voleva farlo».
«E tu, ovviamente, lo hai seguito?» Martyn si massaggiò le tempie con fare esasperato. «Aaron, se Jimmy fa qualcosa non devi farlo anche tu. Se lui si vuole buttare da un p-»
«… se lui si vuole buttare da un ponte, io che faccio, lo seguo o no? La risposta è che lo manderei a cagare, zio, come sempre». Aaron completò la frase dell’uomo. Ormai, quella predica era ben radicata nella sua mente per via di tutte le volte che l’aveva sentita. «Non l’ho fatto per lui. È… stata una scelta comune» aggiunse, ben calibrando le parole da dire.
Un lampo di delusione passò negli occhi dei suoi zii e per un istante anche Aaron si sentì deluso da se stesso. Loro lo trattavano come un figlio, senza fargli mancare nulla, e lui li ripagava sempre con dei colpi di testa improvvisi, che mai e poi mai nessuno si sarebbe aspettato da un ragazzo come lui.
«Mi dispiace… volevo… l’ho fatto per me e…» si impappinò, cercando le parole per chiedere scusa a Martyn e Katy. Non era facile, per Aaron era la cosa più difficile del mondo.
«Ormai la frittata è fatta». La zia si avvicinò a lui, prendendolo piano per il mento e guardando il piercing del quattordicenne. «Va curato».
«Lo so. Il tipo che ce li ha fatti ha detto di non toglierlo per due settimane perché deve spurgare liquido giallo, ma se spurga liquido verde devo andare in farmacia. Ah, e non devo nemmeno toglierlo e rimetterlo troppo spesso, oppure rischio un’infezione» recitò come un bravo scolaretto, e la zia sembrò farsi più tranquilla.
«Se succede qualcosa, avvertimi subito, d’accordo?» Gli stampò un bacio in fronte, evitando il cappellino che Aaron teneva ancora in testa. Se ne accorse solo in quel momento e lo tolse, liberando una zazzera castano scuro.
«A proposito» Martyn si avvicinò al nipote con le braccia conserte, mentre questi appendeva il copricapo accanto alla giacca, «ho un nuovo lavoro».
Quelle parole parvero risanare Aaron, che sorrise felicemente e guardò lo zio con gli occhi che mandavano lampi di gioia. Anche Martyn, seppur in modo contenuto, aveva le labbra incurvate in su.
Un nuovo lavoro significava nuove opportunità e – sperò Aaron – un salario più alto, così Brenton e Patryck non sarebbero stati costretti a prendere le tessere, una volta in età da mietitura. Quel giorno si avvicinava sempre di più. Solo due anni mancavano al momento in cui Brenton Kidman e Patryck Andrews sarebbero diventati solo due nomi nelle bocce della Mietitura, e non passava giorno senza che Aaron pensasse a quanto quell’evento avrebbe portato scompiglio nella vita dei due più piccoli, specialmente in quella di Brenton.
«Davvero? Dove?»
«Mi hanno trasferito in un’altra officina, dove c’è molto lavoro e dove potranno darmi una paga un po’ più alta». Il volto dell’uomo si fece d’un tratto più buio.
«C’è forse qualche problema?» Aaron era allarmato da tutto quel mistero. Temeva che ci fosse qualche problema insormontabile da risolvere, qualcosa di grave. Forse lo zio voleva dirgli che Brenton e Pat avrebbero dovuto prendere comunque le tessere, oppure che il salario non sarebbe comunque bastato per portare avanti una famiglia di sette persone.
«Lo sai che io non sono d’accordo sul fatto che tu prenda le tessere». Martyn gli lanciò uno sguardo fugace, dal quale emergeva tutta la sua rabbia nei confronti dei Giochi e la sua paura. Incurante dei pensieri degli zii, Aaron aveva deciso di prendere comunque le tessere. Keegan lo aveva fatto prima di lui, e anche Jarod, quindi non aveva visto il perché non avrebbe dovuto farlo anche lui. Sentirsi un peso in quella famiglia era già abbastanza senza che si sentisse anche in colpa, malgrado tutte le attenzioni riservategli dagli zii.
«E lo sai che io non sono d’accordo sul fatto che tu non sia d’accordo». Sorrise come a voler confortare lo zio. «Sul serio, zio, che problema c’è?»
«Ho paura che dovrai prenderle ancora» ammise l’uomo, abbassando lo sguardo sul pavimento. «Jarod non ne può più prendere, lo sai, e ormai sei l’unica fonte di sostentamento per quanto riguarda le tessere. Questo salario sarà più alto, ma di poco. Voglio che Keegan e Jarod tengano da parte i loro soldi perché abbiano un futuro migliore. Così come voglio che tu tenga da parte i tuoi». Sospirò, poi, facendo ricadere le braccia lungo i fianchi. «E tu verrai a lavorare con me tutti i pomeriggi» concluse, questa volta con un sorriso sornione.
Aaron strabuzzò gli occhi. Non era una novità, quella, ma solitamente andava in officina a giorni alterni, oppure stava qualche ora e poi andava in giro a vagabondare per il Distretto con Jimmy e, occasionalmente, con qualche altro ragazzo della loro banda.
«Tutti i giorni?»
«Tutti i giorni, Aaron».
«Ma devo studiare». Quella magra giustificazione sembrò non far crollare le salde condizioni di Martyn, che fece una risatina sarcastica.
«Tu non studi mai, Aaron, non dire cavolate. Da domani. Tutti i giorni. Io e zia Katy pensiamo che potrebbe aiutarti a smetterla questi colpi di testa». I suoi occhi si posarono prima sull’anello di ferro sul labbro del nipote, e poi vagarono in cerca della moglie, che si intromise nella discussione annuendo convinta.
«Almeno imparerai il mestiere» soggiunse la donna.
Il quattordicenne sospirò, passandosi una mano tra i capelli arruffati. «Bene» commentò, prima di dirigersi sulle scale.
«Buonanotte, Aaron». Sua zia lo salutò e lui rispose con un cenno della mano, dirigendosi verso la camera che condivideva con Keegan e Jarod.
Nel farlo, passò una mano tra i capelli del fratellino, ancora sulle scale.
«Domani inizia una nuova vita, gnometto» disse, e chissà che quelle parole non contenessero una verità incontestabile. 


 

Alaska's corner

Miao!
Eccomi qui con il primo, vero capitolo di questa storia, in cui vi do già un assaggio di chi saranno i personaggi principali della prima parte: i Madison, i Kidman e Jimmy.
Dunque, innanzitutto vorrei chiedere a chi legge di non avere dei pregiudizi riguardo il comportamento dei protagonisti – in particolare quello di Franziska, Igor e Deryck nei confronti del padre. Lo so che è sconvolgente veder morire un genitore, dev’essere una cosa che ti uccide dentro, e quindi la reazione dei tre fratelli potrebbe essere sembrata… ambigua. Mi sto trattenendo perché tecnicamente i personaggi dovrebbero raccontarsi da soli, ma per ora vi basti sapere che quello che c’era tra loro tre e Warwick era odio, odio puro, non intendo una semplice antipatia come spesso capita tra genitori e figli nel periodo dell’adolescenza. Franziska, Igor e Deryck odiavano profondamente il padre perché anche lui odiava loro. Era uno psicopatico, ecco.
Poi non vorrei che ci si mettesse a fare paragoni con i personaggi della saga, nel senso che Franziska non è Katniss, così come Igor non è Gale e Deryck non è Prim (?). È una cosa a cui tengo particolarmente, ecco. Specialmente perché io tengo molto a questi personaggi e mi sono sforzata di dar loro una caratterizzazione quantomeno decente, oltre che renderli un po’ originali. Poi, so che sembrano molto strani per la loro età, ma loro sono parecchio maturi, specialmente Deryck perché non avendo i genitori è stato costretto a crescere abbastanza in fretta perché l’unica figura vagamente simile ad una madre era la Carine nominata alla fine, su cui saprete di più nel prossimo capitolo. (Il nome, comunque si legge come Karin :3)
Ah, la scena del suicidio me l’ha ispirata quel gran pezzo di libro che è It Più in là ci saranno altri riferimenti a questo libro, ma più che altro nella seconda parte – che arriverà tipo tra mille anni, ma speriamo di no.
Poi ci sono anche Aaron e Jimmy, belli de mamma ♥ Le loro parti sono un po’ più corte di quelle dei Madison, ma perché questi primi capitoli saranno incentrati molto sui tre fratelli e poi, tra pochissimo, saprete anche qualcosina in più su loro due – specialmente su Aaron. Per intanto, sapete già qualcosa: hanno entrambi quattordici anni (come Franziska e Igor), uno vive con gli zii e i cugini – oltre ad avere anche un fratello più piccolo – mentre l’altro è figlio del sindaco e si vede che hanno un rapporto non proprio tutto rose e fiori.
Per quanto riguarda i piercing, ho sempre immaginato che a Panem li facessero di contrabbando, non so perché xD Almeno, prima della rivolta, ma magari c’erano anche dei negozi specializzati che costavano troppo – Aaron, infatti, non potrebbe mai permetterselo.
Ah, e la parte in cui dice che spesso ha un po’ la testa tra le nuvole, non implica nulla di speciale: Aaron è semplicemente molto distratto; capita sempre anche a me quella cosa di concentrarmi e poi perdere il filo, quindi lo capisco bene. xD
Ultimo, ma non ultimo, vi do una breve spiegazione sul titolo del capitolo: Bloodwall penso non voglia dire niente (?); è semplicemente una storpiatura di Wonderwall, la famosa canzone degli Oasis. Non trovando un titolo, stavo pensando a qualcosa che collegasse il muro, il sangue, il suicidio e mi è venuto fuori questo.
 
Vi lascio anche i prestavolto di alcuni di loro – e queste note stanno diventando lunghissime, help.
Aaron Kidman
Brenton Kidman (Dovrebbe assomigliare a Douglas Booth molto giovane, ma ci assomiglia più o meno come io somiglio a Megan Fox, quindi dettagli)
Deryck Madison
Franziska Madison (Immaginatevela come una specie di Kate Hudson molto giovane e maschiaccio; personalmente non riesco a figurarmela in nessun altro modo >.< )
Igor Madison (Idem per lui, immaginatevelo come Jensen Ackles molto giovane. xD)
Jimmy Raimond
Keegan Andrews
Jarod Andrews
Patryck Andrews
 
Ecco qua, termino questo papiro augurandovi un buon anno e ringraziando tutti coloro che hanno letto ♥ Vi invito a cliccare un “Mi piace” sulla mia pagina facebook: Il brutto anatroccolo, per rimanere aggiornati sulla storia o semplicemente leggere qualche spoiler (?).
Alla prossima!
Alaska. ~    

 
   
 
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