Libri > The Maze Runner
Segui la storia  |       
Autore: Eibhlin Rei    06/01/2015    1 recensioni
La C.A.T.T.I.V.O. non si è limitata a seguire gli esprimenti dei gruppi A e B, ma ne ha anche condotto un altro, parallelo ai primi due. Stavolta però, le Variabili sono diverse e si tratta di un unico soggetto.
Lei deve solo osservare...
"Nonostante la sua giovane età credeva di aver smesso di avere paura, ma in quel momento la barriera che si era costruita intorno si incrinò e la realtà le arrivò addosso come una valanga: non provò più solo dolore per tutto ciò che stava abbandonando, ma anche un terrore cieco. Le avevano soltanto detto che avrebbe avuto un ruolo chiave nella cura dell’Eruzione e che avrebbe salvato la razza umana. Ma a quale prezzo? Cosa sarebbe successo a lei?"
Spoiler fino a "La rivelazione" e riferimenti a "La Mutazione".
Genere: Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Minho, Newt, Nuovo personaggio, Teresa, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ehm… ammetto che sono una frana in queste cose, ma ci tenevo a ringraziare tantissimo chi segue questa storia, quindi GRAZIE MILLE DAVVERO! *inchino* Non avete la minima idea di quanto mi state rendendo felice!
E volevo anche scusarmi con una certa Elliot per averle *coff coff* fregato *coff coff* il cognome… dite che sopravviverò?
Alla prossima e grazie ancora! :)

 
5.
 
Mamma ti voglio bene.
Il buio la lasciò andare e lei si ritrovò distesa sul letto, il braccio destro posato sul viso a schermare gli occhi. I ricordi sembrarono aleggiare ancora per qualche istante dietro le palpebre chiuse, approfittando della sua mente intorpidita dal sonno, ma lei li fece svanire subito dopo, quando fu abbastanza sveglia da capire che se non li avesse fermati le avrebbero fatto del male. E insieme a quelli scacciò via pure le lacrime.
Non fu facile togliersi di dosso il dolore e la paura che si erano ripresentati in maniera così vivida – troppo vivida – a dispetto del tempo trascorso. Morfeo le stava di nuovo mostrando il suo passato.
E non mi lascerà libera finché non avrà finito.
Ma, nonostante il turbamento, quella mattina il presente non la colse impreparata e non la fece sentire persa: sapeva esattamente dove si trovava e anche dove, con tutta probabilità, non sarebbe mai più tornata. Così quando spostò il braccio dal viso e aprì gli occhi aveva già la sua maschera indosso.
Era buio pesto, ma almeno quella situazione era possibile cambiarla accendendo la luce. Si tirò a sedere e premette il piccolo interruttore vicino al letto.
In un attimo le tenebre divennero una piccola camera da letto in cui regnava un bianco immacolato. Le pareti erano bianche. Le lenzuola e le coperte erano bianche. L’armadietto in un angolo – l’unica altra cosa presente in stanza oltre al letto – era bianco. Persino il legno del pavimento e delle porte era della tonalità più chiara possibile. E la lampadina gettava una luce fredda e asettica su tutto quel bianco, dando l’impressione di trovarsi in una stanza d’ospedale.
Ma almeno in ospedale ci sono le finestre.
In quella stanza non ce n’era nemmeno una. L’intero edificio ne aveva pochissime e tutte incredibilmente spesse in modo da proteggere le persone che ospitava dagli eventuali assalti degli infetti che stavano all’esterno.
Il piccolo orologio digitale a muro segnava le sei del mattino.
I due anni passati con zia Maggie mi hanno fatta diventare un’allodola…
Si stiracchiò e scostò le coperte. Anche il pigiama che le era stato dato era – ovviamente – bianco. Si alzò, rabbrividendo al contatto dei suoi piedi nudi con il pavimento, e rifece velocemente il letto. Non c’erano molte pieghe: per via del freddo non si era quasi mai mossa durante la notte.
Le mura e le finestre erano massicce e resistenti, ma le dita gelide dell’Alaska sembravano trovare sempre il modo di oltrepassarle e di indebolire il calore artificiale che cercava di diffondersi nella struttura.
Una volta finito, si diresse verso l’armadietto e prese la sua divisa: una maglia a maniche lunghe e dei pantaloni. Rigorosamente bianchi anche quelli. Come anche le scarpe.
Il bianco sembrava essere il simbolo della C.A.T.T.I.V.O. Era come un tentativo ribadire, tramite l’uso del più candido dei colori, il ruolo dell’organizzazione, almeno secondo i suoi membri.
Si avviò nel bagno annesso alla stanza, si tolse il pigiama e si infilò sotto la doccia. Mentre l’acqua calda le scorreva sulla pelle, togliendole temporaneamente di dosso il gelo di quel luogo, le tornò in mente una cosa che le aveva detto la signorina McVoy.
“La C.A.T.T.I.V.O. è buona.”
Era attivata solo il giorno prima in quello che aveva scoperto essere non una semplice sede, bensì il Quartier Generale dell’organizzazione, e aveva già sentito quella frase almeno una ventina di volte, metà delle quali soltanto durante il suo colloquio con la donna, partito come una spiegazione del ruolo che lei avrebbe avuto e terminato come un’appassionata arringa sulle buone intenzioni della C.A.T.T.I.V.O.
Anche tutte le altre persone che per il resto della giornata l’avevano sottoposta ad una miriade di analisi per “accertarsi di persona che fosse immune”, le avevano ripetuto all’infinito quel ritornello.
Forse dovevano essersi resi conto che andare in giro per il mondo a prelevare bambini dalle loro case per utilizzarli come cavie – o collaboratori, come preferivano chiamarli – non suonava esattamente come la cosa più integerrima del mondo.
Uscì dalla doccia e si asciugò cercando di metterci meno tempo possibile. Circa dieci minuti dopo rientrò nella sua stanza con indosso i suoi nuovi vestiti e i capelli pettinati anche se ancora leggermente umidi.
Sistemò il pigiama nell’armadietto e nel farlo le cadde l’occhio sullo specchio a figura intera all’interno dell’anta. In bagno aveva evitato accuratamente di specchiarsi, però adesso il suo riflesso la stava fissando dall’altra parte di quella lamina sottile e, per qualche strana ragione, le fu impossibile distogliere lo sguardo.
Vide uno stecchetto con la pelle bianca quasi quanto gli abiti che indossava, su cui spiccavano dei lisci capelli rossi che scendevano fino a metà schiena.
Quella vista le fece esattamente l’effetto che aveva immaginato, scatenando in lei un senso di pena e assieme di disgusto. Quella bambina non era lei. Quella bambina era Johanna Reid – le avevano dato pure un nuovo cognome –, cavia della C.A.T.T.I.V.O.
Richiuse l’armadietto e si sedette sul letto ad aspettare. Perché sicuramente c’era qualcosa da aspettare. Infatti alle sette in punto qualcuno bussò alla porta, interrompendo il religioso silenzio calato nella stanza. Erano dei colpetti molto leggeri, come se chi stava bussando avesse paura di poter svegliare qualcuno.
Andò ad aprire, ma restò interdetta quando non vide nessuno. Non con lo sguardo sollevato ad altezza adulto, almeno. Ma c’era comunque una persona ai margini del suo campo visivo.
«Più in basso», suggerì una voce, con un tono piuttosto divertito.
Lei seguì il suggerimento e si trovò di fronte una bambina che doveva avere più o meno la sua età, vestita esattamente come lei. Era talmente tanto graziosa da sembrare una bambola di porcellana, con lunghi capelli neri e degli occhi di un azzurro incredibilmente intenso.
La guardò in silenzio per qualche secondo, lievemente disorientata per aver incontrato una sua coetanea. Sapeva che c’erano altri bambini, ma il ritrovarsene una davanti quando fino a quel momento aveva avuto contatti solo con adulti le fece comunque uno strano effetto.
«Ti serve qualcosa?», le domandò cordialmente, riuscendo a riprendersi da quella sorpresa.
«Ero curiosa di conoscere la nuova arrivata, mi hanno detto che sei una tipa in gamba», rispose la bambina senza tanti giri di parole. Le tese la mano. «Mi chiamo Teresa. Teresa Agnes.»
Lei la strinse, «Johanna Reid».
«Ti porto a conoscere gli altri, sono a fare colazione», le annunciò Teresa senza perdere tempo.
Lei annuì, spegnendo la luce e chiudendosi la porta alle spalle. Lanciò una veloce occhiata alla targhetta che vi era affissa sopra.

JOHANNA REID. GRUPPO A, SOGGETTO A0. L’OSSERVATRICE
 
Lei e Teresa si incamminarono fianco a fianco per i corridoi della struttura. Il silenzio non durò che per pochi secondi. «Posso farti una domanda?», le chiese.
«Dimmi.»
«Sei qui da parecchio tempo?»
Sul volto di Teresa apparve un’espressione leggermente stupita, come se non si aspettasse una domanda come quella, ma sparì subito. «Me lo stai chiedendo o vuoi una specie di conferma?»
«Beh, mi sembra che tu sappia muoverti in questo posto… e sei venuta a prendermi da sola, segno che probabilmente hai una certa libertà di movimento, cosa che non credo si possa avere essendo qui da poco… quindi opterei per la conferma.» Quando finì di parlare si accorse che Teresa sembrava piuttosto impressionata da quella risposta.
Non fece in tempo a chiedersi se avesse detto qualcosa di sbagliato che l’altra sfoderò un sorriso compiaciuto. «Che osservatrice, sembra che ti abbiano assegnato proprio il ruolo giusto», commentò e subito dopo aggiunse, «Sono qui da quattro anni».
Non riuscì a trattenere il suo stupore. «Quattro anni?» Com’era possibile riuscire a passare quattro anni in un posto come quello?
Sempre che Teresa, o qualunque fosse il suo vero nome, le stesse dicendo la verità. Ma che vantaggi avrebbe avuto a mentire su una cosa del genere?
Beh, in un posto in cui ti cambiano il nome e ti usano come cavia non si può mai sapere.
«Esatto, quattro anni», confermò Teresa tranquillamente. «Ma meglio essere al sicuro qui dentro che circondata da Spaccati la fuori, non credi?»
Quella parola – Spaccati – le arrivò come una stilettata, portando con sé il viso di sua madre.
Smettila, idiota! Non puoi fare l’animale ferito ogni volta che hai a che fare con il passato!
Riuscì a controllarsi a stento, costringendosi a non lasciar trasparire nulla e stringendo le nocche fino a farle diventare bianche. «Direi di sì», rispose, stando attenta a non far tremare la voce.
Ma Teresa, con quelle fiamme azzurre che aveva negli occhi, doveva essersi accorta di qualcosa. «Ho toccato un tasto dolente?», le chiese dopo aver lasciato passare qualche attimo.
Cercò di usare un tono il più leggero possibile, come se l’argomento non la toccasse minimamente. «No, va tutto bene.»
Teresa però sembrava non voler mollare. «Hai avuto a che fare di persona con degli infetti?»
Anche troppo di persona.
«Non più di tanta altra gente, presumo.»
«Ti dà fastidio parlarne?», le domandò Teresa e le sembrò che stesse cercando di metterci più tatto possibile.
Si fermarono entrambe e lei la guardò negli occhi. Quell’azzurro ardente le fece quasi paura. Poteva fidarsi di quella bambina? La conosceva solo da pochi – pochissimi – minuti e non sapeva praticamente nulla su di lei. Però era come se ci fosse qualcosa nel suo sguardo che non le era nuovo. Per niente, anche se non riusciva a capire di cosa si trattasse.
Quindi la osservò attentamente, cercando al contempo di ricordare dove e quando potesse aver visto quel qualcosa. La risposta che le si presentò fu tanto semplice quanto scioccante: in ogni suo riflesso da circa due anni a quella parte, anche in quello di poco prima, quando aveva aperto l’armadietto.
Quello era lo sguardo di chi aveva già visto la follia e la morte. Di chi non scavava volentieri nei suoi ricordi. Di chi si era ritrovato a dover crescere troppo in fretta. Ma anche di chi, nonostante tutto questo, cercava di essere forte e andare avanti.
Capì che Teresa era come lei. E che di sguardi così ne avrebbe visti molti altri.
Annuì silenziosamente, poi le chiese, «È capitato anche a te, vero?».
Negli occhi di Teresa passò per un attimo un lampo di qualcosa che sembrava malinconia, ma poi le sorrise. «Non c’è che dire, sei davvero un’osservatrice e sei anche una dei pochi che appena arrivata qui non ha pianto fino allo sfinimento… mi sembri una tosta», le disse e le diede un colpetto sulla spalla. «Amiche?»
Sorrise anche lei e si accorse che era da un po’ che non lo faceva. «Amiche.»
Ripresero a camminare e l’atmosfera sembrava decisamente alleggerita. Poco dopo raggiunsero una porta chiusa. «Questa è la mensa», annunciò Teresa, mentre la apriva.
«Come si mangia qui?»
«Piuttosto bene e sono anche abbastanza sicura che non mettano alcun veleno nel cibo.»
La stanza aveva una pianta circolare ed era enorme e ben illuminata, con lunghe file di tavoli e sedie disposti in maniera ordinata e meticolosa.
Restò a bocca aperta: c’erano almeno un centinaio di bambini. Maschi e femmine di diverse età e di tutte le etnie. Tutti vestiti di bianco.
Ma non fece in tempo a fare nemmeno un passo che qualcuno la urtò. Fu come un impatto con un ariete e finì lunga distesa per terra. Calò un silenzio di tomba e sentì Teresa che urlava furibonda, «Minho! Tu e la tua maledetta grazia da elefante!».
Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > The Maze Runner / Vai alla pagina dell'autore: Eibhlin Rei