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Autore: Tecla Sunrise    06/01/2015    1 recensioni
Mi chiamo Jada Montgomery e ho un problema.
Bene, Jada, proprio così: tutti sanno che il primo passo sulla via della guarigione è ammettere di avere un problema in prima battuta.
Ho un grosso problema. Enorme.
Brava, hai centrato il punto: mai sottovalutare questo tipo di situazioni.
È un cataclisma.
A volte è anche utile esagerare leggermente, solo per essere sicuri di averne compreso appieno la gravità.
Sbuffai.
Era chiaro che fossi sull’orlo di una crisi di nervi: non solo intrattenevo conversazioni mentali con me stessa, ma tentavo anche di usarle per calmarmi.
Squadrai il laptop appoggiato sulle mie gambe, sperando di riuscire a trovare uno straccio d’ispirazione nella pagina bianca di word.
Sono nei guai.
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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THUNDERS
 
Mi chiamo Jada Montgomery e ho un problema.
Bene, Jada, proprio così: tutti sanno che il primo passo sulla via della guarigione è ammettere di avere un problema in prima battuta.
Ho un grosso problema. Enorme.
Brava, hai centrato il punto: mai sottovalutare questo tipo di situazioni.
È un cataclisma.
A volte è anche utile esagerare leggermente, solo per essere sicuri di averne compreso appieno la gravità.
Sbuffai.
Era chiaro che fossi sull’orlo di una crisi di nervi: non solo intrattenevo conversazioni mentali con me stessa, ma tentavo anche di usarle per calmarmi.
Squadrai il laptop appoggiato sulle mie gambe, sperando di riuscire a trovare uno straccio d’ispirazione nella pagina bianca di word.
Sono nei guai.
Sbuffai un’altra volta, raccolsi i miei capelli in uno chignon disordinato e mi accesi una sigaretta, decidendo di meritarmi una pausa.
Da cosa, poi, non lo sapevo neanche io, visto che era ormai un’ora che ero seduta sul divano nel tentativo di cominciare a scrivere.
Quando Sara Fawcett, la mia agente, mi aveva sollecitato per l’ennesima volta a mettermi al lavoro, mi ero vista costretta a cedere, ormai incapace di riuscire ad ignorare la costante pressione della data di scadenza.
La data di scadenza per finire il mio libro, la data di scadenza della mia carriera, che si avvicinava sempre più in fretta.
Inutile precisare che non solo ero ben lontana dal finire questo capolavoro, ma non avevo neanche cominciato, non avevo una trama, nessun tipo di personaggio delineato, né situazione storica.
Non sapevo quale potesse essere una scelta vincente: avrei potuto inventarmi un qualche regime dittatoriale in un futuro post-apocalittico – le distopie vanno molto di moda in questo periodo – creando un personaggio femminile con un passato drammatico che avrebbe attirato orde di ragazzine. Magari con anche una storia d’amore struggente.
Sicuramente sarebbe stato un successo, probabilmente sarei anche riuscita a vendere i diritti a qualcuno perché vi realizzasse un film.
No, Jada, no.
Spensi la sigaretta, stizzita: non avevo nessuna intenzione di cedere al mercato.
Avrei scritto quello che volevo io e non l’ennesima storia d’amore e guerriglia strappalacrime; non era per i soldi che facevo questo lavoro, e un’occhiata veloce al salotto del mio appartamento non avrebbe potuto che confermare la mia ultima affermazione.
La definizione di caos creativo raggiungeva livelli nuovi e sconfinati quando si trattava della mia miserabile tana: vestiti buttati sulle sedie, cartoni di cinese take-away lasciati sul tavolo, fogli di carta in pile disordinate e lattine di birra disseminate per le stanze erano solo alcuni dei tratti distintivi che, entrando, si notavano a prima vista.
Sapevo che avrei dovuto mettere a posto, magari mi avrebbe anche aiutato a concentrarmi.
Sì, decisamente mi avrebbe aiutato.
Mi aggrappai a quella scusa e chiusi velocemente il computer, lanciandolo senza molto riguardo sulla poltrona, prima di alzarmi e mettermi al lavoro.
Tre ore e un livido dopo ero al punto di partenza, ma almeno ora il mio bilocale profumava di vaniglia e citronella, e quello poteva essere considerato un passo avanti.
Feci per riprendere la mia postazione sul letto quando uno squillo attirò la mia attenzione; ci misi qualche secondo per rendermi conto che doveva essere il telefono di casa.
Assurdo che nel ventunesimo secolo ci fosse ancora qualcuno che chiamasse a casa; probabilmente era un venditore di aspirapolveri, ma decisi di rispondere lo stesso: non si può mai sapere da dove arrivi l’ispirazione, alla fine.
“Pronto?”
Signora Montgomery?
La voce nasale e pimpante all’altro capo dell’apparecchio mi fece quasi rabbrividire.
“È signorina. Chi parla?”
La risatina che seguì la mia risposta era antipatica, decisi senza pensarci due volte, già pentita di aver alzato la cornetta.
Mi scusi! Sono Michelle Wood, lavoro alle risorse umane dell’HarringtonDaisy!
HarringtonDaisy? Perché mi suonava familiare?
“Um, piacere. In cosa posso esserle utile?”
Lo sapevo, ne ero certa, era come un pensiero addormentato in un antro sperduto della mia testa, ma ero convinta di conoscere quel nome.
Tentai di ragionarci logicamente: se conoscevo quel nome, probabilmente era perché avevo lavorato con loro; feci una veloce analisi mentale del mio curriculum, ma HarringtonDaisy non si trovava da nessuna parte.
Signorina, l’ho chiamata per sollecitarle la consegna del suo manoscritto il più presto possibile. Nonostante la data ultima sia solo tra due settimane, ci chiedevamo se le fosse possibile portarcelo prima.
Oh, accidenti!
Ecco perché mi suonava familiare: la HarringtonDaisy era la mia casa editrice.
Non avevo parole, un conto era essere distratti, ma che neanche riuscissi a ricordarmi il nome di chi pagava il mio affitto non era rassicurante.
“Oh, Michelle, mi farebbe piacere, davvero, ma purtroppo sarò fuori città…” mentire, mentire sempre “E tornerò soltanto tra due settimane, in tempo per la data di scadenza! Buona giornata!”
Riattaccai senza dare il tempo alla ragazza di dire altro e cominciai immediatamente a digitare un numero ormai impresso a fuoco nella mia memoria, quello della mia agente.
Rispose dopo quattro lunghissimi e agonizzanti squilli.
“Sara!”
S-sì? Chi parla?
“Come chi parla! Sono Jada! Ma stavi dormendo?”
Mi sentii leggermente in colpa, prima di dare un’occhiata al mio orologio: erano le sette di sera e tutta la mia compassione sparì.
No!” s’indignò Sara, con la voce ancora impastata, tipica di chi s’è appena svegliato “Sono in ufficio! Che vuoi, comunque?
Sara, in tutta onestà, non era solo la mia agente: c’eravamo conosciute al college, quando ancora eravamo delle matricole piene di speranza, ed eravamo state compagne di stanza per quattro lunghi e tediosi anni; ormai potevo definirla la mia più cara amica, ma solo perché ero stata di grado di far scappare la maggior parte delle mie conoscenze.
Sara, invece, era bloccata con me per via del lavoro; tuttavia la sua credibilità con me era quasi nulla, avendola vista bere mojto annacquato e pagarne le conseguenze una volta di troppo.
Ah, a volte mi mancavano le feste delle confraternite.
“Mi ha chiamato una squinzia dalla HarringtonDaisy dicendomi – no, sollecitandomi – di consegnare ora il mio manoscritto! Le ho detto che sono fuori città.”
Sentii la mia amica sospirare. Non il migliore dei segni.
Jada, per l’ennesima volta: hai scritto qualcosa che io possa usare?
Il silenzio che seguì la sua domanda fu più eloquente di mille parole.
Jada!” continuò, facendomi alzare le spalle nel tentativo di nascondermi “Non so più come dirtelo! Hai un contratto da rispettare!
“Lo so!” mi lamentai, accendendo un’altra sigaretta senza neanche accorgermene “Ho cominciato!”
Bugiarda.” Fu la sua unica risposta, e il tono mi ricordò talmente mia madre che mi venne voglia di sotterrarmi tra i cartoni di take-away sparsi per la casa, prima di ricordarmi di averli buttati.
“Ok, senti, devi aiutarmi.” Passai direttamente alla supplica, conscia di non avere altre carte da giocare “Non so che fare! Non riuscirò a scrivere un libro di 500 pagine in due settimane!”
Dimmi qualcosa che non so.”
“Oh Dio, Sara!” il panico cominciava a prendere una forma più seria nella mia mente, e la gravità del mio ritardo mi colpì come un treno in corsa. Ero fregata. “Quelli mi uccidono!”
Nessuno ti ucciderà, Jada.
“Già vedo i titoli di giornale: Giovane scrittrice trovata morta nel suo appartamento, il suo agente sostiene che se la fosse cercata!”
Ora stai facendo la melodrammatica e non credo ti aiuterà in alcun modo.
“Sono fregata.” Dissi, arrendendomi. Mi lasciai cadere sul letto senza un lamento.
Ecco cosa farai, Jada: ti depilerai, ti metterai un vestito e sarai pronta ad uscire nel giro di un’ora. Andiamo a bere.
“Non mi sembra una prospettiva utile per il mio lavoro!”
Sarà utile per i tuoi nervi. Chi lo sa, magari da sbronza ti verrà in mente la trama del secolo!
“Ci credo poco.” Borbottai, rotolando sul letto e saltando giù “Passi tu a prendermi?”
E neanche hai la patente. Che scusa patetica di ventottenne sei?
“A dopo!”
Riattaccai e mi lasciai andare per un attimo, gridando frustrata; mi ero cacciata in guai senza via d’uscita, e c’ero riuscita tutta da sola.
Ben fatto davvero, Jada.
Mi rassegnai ad andare in bagno e mettere una pezza al mio stato di ventottenne presto senza impiego, consapevole che tornare a vivere dai miei nel New Jersey era una possibilità sempre più reale e inevitabile.
Avrei lavorato come assistente nello studio di dentisti di mio padre, sposato un dentista bruttino e poco intelligente e avrei vissuto il resto della mia vita a fare la scrittrice fallita con quattro mocciosi urlanti e un cane.
Rabbrividii.
***
 
“Si può sapere che diavolo ti sei messa addosso?”
Adoravo Sara. Davvero. Aveva sempre una parola gentile per tutti.
“Buonasera a te, raggio di sole.” Sbottai, chiudendo la portiera della Porche della mia amica.
Non era difficile indovinare chi delle due avesse avuto successo nella vita fino ad ora.
Guardai il mio vestito verde lime e non ci vidi niente di male, anzi: aveva sempre accentuato le mie curve in maniera fantastica, mi stava a pennello.
“Non saprei neanche definire il colore di quell’orrore.” Continuò Sara, sgommando per rientrare nel flusso di macchine della trentaquattresima strada.
“Si dà il caso” cominciai, prima di attaccarmi immediatamente alla portiera per evitare di finire contro il parabrezza. Sara aveva una guida molto sportiva.
La vidi abbassare il finestrino e fare un gestaccio ad un taxista davanti a noi e decisi che era il caso di mettermi la cintura.
“Stavo dicendo” riprovai quando fummo abbastanza lontane dal taxi e Sara smise di insultare il genere umano “Che è verde lime. Ed è bellissimo.”
“Come preferisci.” Si limitò a rispondere Sara, accendendo la radio. Guardai cosa lei si era messa addosso e inarcai un sopracciglio.
“E poi tu parli? Quel vestito potrebbe essere chiamato maglietta senza problemi!”
Sara sbuffò “Scusa mamma, ora torno in camera e mi metto la mia divisa da suora.”
Scossi la testa, lasciando cadere l’argomento. Con Sara raramente era possibile averla vinta.
“Dove andiamo?” chiesi allora, accendendomi una sigaretta, sapendo che così avrei perso tutto il mio rossetto, ma non m’importava più di tanto.
“Devi davvero fumare nella mia macchina?” fece stizzita Sara, abbassando la capotte per fare in modo che circolasse aria.
“Stiamo andando nel Village, c’è un locale di un tizio che ho conosciuto, dovrebbe farci entrare gratis.”
Il tono noncurante della sua risposta non mi convinse neanche per un secondo “Un tizio? Chi?”
Sara fece spallucce, prendendo una curva con un po’ troppa foga “Un tizio. L’ho conosciuto da Carla.”
Carla, l’altra nostra amica del college, era un’ereditiera di una qualche famiglia di industriali Spagnoli, e il suo unico impegno era quello di organizzare feste nella sua casa nell’Upper East Side.
Oh, sì, faceva anche finta di fare pratica in uno studio di avvocati, ma era più un hobby che altro.
Sbuffai “Per colpa tua e di quel dannato libro non vado da Carla da almeno tre settimane!”
“Non credo che tu possa dare la colpa a me, pigrona.” Scherzò Sara, prima di tornare seria.
“Jada, comunque sei nei guai. Posso chiamare L’HarringtonDaisy per farti dare un altro mese, ma è il massimo che riuscirò ad ottenere. Poi dovrai pagare la penale, e ti ricordo che non hai la liquidità per farlo.”
Mi portai la mano sul viso e massaggiai leggermente una tempia, più per un tic nervoso che per un vero mal di testa “Lo so, Sara. Da domani mi metterò al lavoro seriamente.”
“Ancora non riesco a credere che tu abbia speso tutti i tuoi soldi in quella maniera sconsiderata.”
Era vero, non ero stata la migliore delle economiste.
Un anno e mezzo prima era uscito il mio primo libro, Fear, ed era stato un best-seller planetario, in cima alle classifiche per settimane.
E avevo guadagnato. E avevo speso.
Ed ora ero al punto di partenza, solo che avevo la pressione di un libro fantastico come paragone per qualunque cosa sarei riuscita a scrivere e un conto in rosso.
“Ai tempi sembrava una buona idea andare a Dubay e spendere undici mila dollari a notte per la Suite Imperiale.”
Sara si limitò a parcheggiare e a chiudere la capotte.
“Andiamo, squattrinata.” Disse, dandomi una pacca consolatoria sulla spalla “Stasera offro io.”
“Il tuo tizio, vorrai dire.”
“È uguale.”
Alzai gli occhi al cielo “Come si chiama?”
“Jake”
***
 
Il Thunders era il classico locale del Village: luci soffuse, divanetti di velluto e atmosfere anni venti/trenta.
Adoravo il Village fin da quando mi ero trasferita a New York: era pieno di vita, arte, musica e follie; il posto perfetto per un’artista come me.
Sara ci mise meno di tre minuti per trascinarmi verso bancone, navigando nella folla con consumata esperienza, dando gomitate e sorridendo poi con la sua tipica faccia da schiaffi; mi bastava attaccarmi alla coda del suo vestito – per quanto corto – e seguirla come se fosse la mia guida giapponese davanti a Tiffany&Co.
“Jake!” la sentii trillare davanti a me e mi sporsi immediatamente per dare un’occhiata al misterioso “tizio”.
Tale Jake era un uomo sui trentacinque anni, con una barba incolta e una chioma arruffata bionda, due occhi verdi vivaci e un fisico da buttafuori. Aveva persino un paio di tatuaggi.
Mai avrei pensato che Sara la Donna In Carriera avrebbe trovato interessante un tipo del genere: per quanto bello, Jake irradiava un’aura minacciosa; di certo non era materiale da fidanzato.
“Hey, Sara.” Surra. Tipico accento di Boston.
Mi chiesi immediatamente quale fosse la sua storia, sicuramente non doveva essere noiosa.
“Lei è Jada!” fece Sara, presentandomi; allungai la mano verso Jake, quasi spaventata, ma quest’ultimo si limitò a farmi un sorriso da predatore e a sfiorare la mia mano con le sue labbra, in un perfetto baciamano.
Il gesto fu talmente inaspettato e fuori dal suo stile che non riuscii a trattenere una risata.
Jake si limitò ad alzare un sopracciglio “Qualcosa ti fa ridere?”
Oh Dio. Che figura. Ignorai lo sguardo assassino di Sara e scossi in fretta la testa.
“No, no. Niente. Non mi aspettavo tale eleganza.”
Sentii il calcio di Sara colpire il mio stinco e repressi un sibilo di dolore, prima di forzare un sorriso di scuse verso Jake.
“Non esce molto.” Fu la scusa di Sara e, per quanto indignata, decisi di non aggiungere altra carne al fuoco e non ribattei.
Jake lasciò cadere l’argomento con un’alzata di spalle noncurante “Bevete qualcosa?”
Sara rientrò nel suo alter-ego cacciatore e sorrise in modo invitante. O almeno credo.
Sono sempre stata inetta per questo tipo di cose, era lei che di solito mi combinava appuntamenti con suoi amici.
Difficilmente si poteva ignorare Sara, però: era la classica inglese, con lentiggini, capelli color pel di carota e occhi azzurri come il cielo.
Era veramente bellissima.
“Tu che dici?”
“Dico che un paio di Tequila farebbero al caso vostro.”
“Falle bum-bum.”
Oh cielo. La conversazione sull’alcool più piena di sottintesi a cui avessi mai assistito.
“Arrivano, milady.”
Ben presto le due tequila erano diventate quattro, poi otto, e alla fine mi ero ritrovata a ballare su un tavolo, con una scarpa in mano e l’altra dispersa, un Gin-tonic e la testa leggera.
Dubitavo che tutto ciò mi avrebbe aiutato ad andare avanti col mio libro.
Dannazione.
***
 
Chiunque abbia inventato le sveglie doveva avere una vena sadica particolarmente sviluppata, un divorzio disastroso alle spalle e magari anche un problema serio con l’alcool.
Ci misi la bellezza di tre minuti per trovare la fonte di quella cacofonia illegale e finalmente riuscii a spegnere la sveglia, dando un’occhiata veloce all’orario. Erano le dieci e mezza.
Perché mai avrei dovuto mettere la sveglia alle dieci e mezza? La mia casa editrice pensava fossi fuori città, e al momento il mio unico scopo era scrivere il mio libro, un’attività che ero sicura avrebbe potuto tranquillamente aspettare fino alle tre.
Poi realizzai tre cose in contemporanea: uno, quello non era il mio telefono; due, non riconoscevo la lampada sul comodino e tre, ero completamente nuda.
Oh, perfetto.
Sospirai e mi alzai, ignorando il mal di testa assassino che mi aveva assalito appena mi ero messa in piedi: era da tempo che non mi succedeva una cosa del genere.
Ormai avevo la bellezza di ventotto anni – quasi ventinove – e avevo passato da anni la fase in cui ci si sveglia a casa di uno sconosciuto nudi e in dopo sbornia.
Pensai improvvisamente a mia madre, una tipica signora per bene del New Jersey, timorata di Dio e presa anima e corpo da associazioni di beneficenza. Credo fosse anche membro delle Figlie della Rivoluzione Americana.
Mi venne un’improvvisa voglia di ridere al pensiero della faccia che avrebbe fatto se avesse saputo una cosa del genere.
Mi affrettai a cercare i miei vestiti.
Avevo quasi portato a termine la mia missione quando mi accorsi che mi mancava una scarpa; la cercai dappertutto: sotto il letto, sopra i mobili, addirittura tra le lenzuola ma niente, nessuna traccia della mia Jimmy-Choo, rimasuglio dei bei tempi andati, quando facevo razzie di negozi aiutata dalla mia American Express Gold.
Rinunciai a trovarla e aprii la porta della camera silenziosamente, sporgendo leggermente la testa per controllare se la via fosse libera; quando fui sicura di essere da sola, camminai in punta di piedi lungo il corridoio, completamente all’oscuro di quale potesse essere la porta d’uscita.
Tentati in tutti i modi di ripensare all’ultimo avvenimento che ricordassi della serata, ma mi resi conto di avere un buco dalle due in poi.
Niente.
Non riuscivo a ricordare come fossi andata via dal club, con chi, se Sara fosse andata via con il suo tizio, niente di niente.
Non mi capitava davvero da una vita, eppure ricordavo bene quanto odiassi quella sensazione di vulnerabilità: per quanto ne sapevo, la sera prima avrei anche potuto uccidere qualcuno e comunque non me lo sarei ricordata.
“È la porta a sinistra.”
Feci un salto di due metri e lanciai la mia unica scarpa in aria, totalmente presa alla sprovvista dalla voce sconosciuta dietro di me.
“Oh Dio!” non riuscii a trattenermi dal gridare, facendo un mezzo giro su me stessa per vedere la faccia del mio interlocutore.
Essendo una scrittrice, nel corso della mia carriera avevo usato l’espressione “gli si gelò il sangue nelle vene” almeno un milione di volte, primo perché mi era sempre sembrata azzeccata e secondo perché pensavo descrivesse alla perfezione quel terribile momento in cui la sorpresa e lo shock sono talmente grandi da risultare quasi paralizzanti.
Mai mi ero resa conto di quanto quell’espressione fosse effettivamente vera, ma in quel momento mi accorsi che il sangue mi si era davvero gelato nelle vene.
Ero paralizzata.
“Jake?!”
Jake era appoggiato casualmente allo stipite della porta di quello che immaginai essere il bagno, con le braccia incrociate e un sorriso divertito sulle labbra; mi accorsi in quel momento che indossava solo un paio di jeans sdruciti e notai i tatuaggi sulle sue braccia muscolose: erano un insieme di intricate geometrie abbastanza esotiche, simili ad alcuni simboli tipici dei nativi americani che avevo studiato al liceo, durante quella che sembrava quasi la vita di un’altra persona.
La Jada del liceo non si sarebbe mai trovata in una situazione simile.
La Jada del presente invece era andata a letto con l’oggetto d’interesse della sua migliore amica.
Ancora una volta, ben fatto, Jada.
“Ciao, Jada.” Mi fece lui, assolutamente rilassato e indifferente alla mia mascella spalancata “Dormito bene? Eri parecchio su di giri ieri sera.”
“Ah, sì?” feci, completamente senza parole. Cosa si dice all’uomo con cui hai fatto sesso in preda ai fumi dell’alcool e nella casa del quale ti svegli, completamente ignara di quello che è capitato la sera prima?
Jake aggrottò le sopracciglia bionde e mi scrutò con uno sguardo curioso “Non ti ricordi assolutamente niente, vero?”
“Io, um…” contemplai l’ipotesi di mentire, non era carino fargli sapere che non mi ricordavo un accidente della sua performance sessuale, conoscevo abbastanza bene l’orgoglio maschile. “No.” Alla fine, troppo stanca per mentire, risolsi per dire la verità.
Mi sorpresi nel vederlo sorridere di nuovo, divertito “Tipico. E pensare che mi hai detto che è stata la notte più eccitante degli ultimi anni, è un peccato che non ti ricordi nulla.”
Accidenti.
“Cos’è successo?” non riuscii a trattenermi dal chiedere, incuriosita come mio solito.
Avrei semplicemente dovuto scappare da quella casa a velocità della luce, chiamare Sara e prostrarmi ai suoi piedi, prima di tornare al mio obiettivo principale: scrivere un dannato libro.
Io e le priorità facciamo schifo, proprio non andiamo d’accordo.
“Vuoi una tazza di caffè? Ce n’è di roba da raccontare.”
Acconsentii. Cosa sarebbe potuto andare peggio, a quel punto?
***
 
“E poi hai urlato al buttafuori che doveva farsi un bagno e, quando ha fatto per cacciarti fuori, hai cominciato a correre per tutto il locale, cantando Jingle Bells. A proposito, sapresti dirmi perché? Qualche brutto ricordo da bambina?”
Non mi sono mai sentita così umiliata in tutta la mia vita e questo è tutto dire, visto che a Dubay ero finita vestita e con tanto di drink dentro la piscina, durante una vivace festa di compleanno a cui mi ero imbucata.
Ho ventotto anni e la maturità cerebrale di una quindicenne.
Dal momento in cui non mi ricordavo più niente – quando ballavo sui tavoli alle due – pareva che si fosse scatenato il mio inferno personale: avevo vomitato nella borsa di Sara, pianto come una disperata nelle braccia di una collega di Jake, lamentandomi del mio blocco dello scrittore, avevo bevuto altri due Gin-tonic, cantato Jingle Bells e insultato un buttafuori grosso come un armadio, a quanto pare persino più muscoloso di Jake.
“E Sara? Che fine ha fatto?”
Jake sorseggiò il suo caffè e s’accese una sigaretta, offrendomene una; gli sorrisi, grata. Le mie erano disperse o, più probabilmente, finite.
“Verso le cinque ha deciso che era stanca di puzzare di vomito e se n’è andata. Ha provato a trascinarti via con lei, ma non c’è stato verso, ti eri praticamente incatenata ad un tavolino e piangevi ancora, stavolta per qualcosa riguardo ad un fratello.”
Trasalii alla menzione di mio fratello James e ignorai lo sguardo interrogativo di Jake.
James era il mio fratello gemello, ma non era in America in quel momento.
Era in Afganistan, l’idiota patriottico, e non sarebbe tornato prima di un altro anno, sempre ammesso e non concesso che riuscisse a sopravvivere fino a quella data.
Avevo tentato in tutti i modi di dissuaderlo, ma non c’era stato verso: appena finito il liceo, mio fratello s’era arruolato nei Marines e da quel momento era stato un continuo preoccuparsi per la sua vita.
Aveva fatto carriera in quei dieci anni di servizio, anche se non avrei mai saputo dire se fosse capitano o colonnello o generale, non ne capivo niente di gradi militari e mi ero rifiutata di impararli come segno di ribellione.
Se mio fratello decideva che poteva rischiare la vita per un ideale, io potevo a mia volta restare nell’oblio di cosa il suo ruolo comportasse o a che missioni prendesse parte.
“Alla fine Sara mi ha chiesto di rimandarti a casa con un taxi quando avrei chiuso, per le sei, sperando che per quell’ora ti saresti ripresa. Però, sai com’è, una cosa tira l’altra…”
Feci una smorfia “Ti sono saltata addosso, vero?”
Jake si limitò a sorridere.
“Um… non è che ti ho anche pregato ad un certo punto, vero?”
La sua risata mi mise in agitazione: dannazione, l’avevo pregato.
“È tutto ok, Jada, capita a tutti di avere una nottata difficile. Immagino tu abbia un po’ di problemi nella tua vita, in questo momento.”
L’eufemismo del secolo.
Mi alzai e forzai un sorriso sulle mie labbra “Beh, grazie di tutto Jake, e scusa se ti ho distrutto il locale. Immagino ci vedremo in giro.”
Mi accompagnò alla porta e l’aprì ma, prima di farmi passare, sorrise un’ultima volta e si chinò a baciarmi come se fossimo amanti.
Oh, diavolo. Il ragazzo ci sapeva fare.
Dopo qualche secondo ripresi coscienza di me e mi staccai, arrossendo come una scolaretta.
“Ci vediamo in giro.”
“Assolutamente sì.”
Corsi praticamente giù per le scale, salutata da un’ultima risata di Jake, e mi fermai solo quando raggiunsi la porta. Tirai fuori il cellulare e rabbrividii.
Undici chiamate perse di Sara. Ero nei guai.
***
 
Sara e io non ci parlavamo da due settimane, ero andata a letto con Jake altre sei volte – sei, dannazione! – e il mio libro era fermo alla seconda pagina.
La mia vita si stava sgretolando sotto i miei occhi.
Per fortuna, prima che Sara decidesse di riservarmi il trattamento del silenzio, aveva chiamato la HarringtonDaisy e aveva ottenuto un altro mese per consegnare il mio libro, dopo del quale avrei dovuto pagare una penale di trecentomila dollari.
Ero sempre più fregata.
Quella mattina, poi, un avvenimento funestò del tutto la mia giornata.
Ciao tesoro!”
Mi chiesi ancora una volta perché mi ostinassi a rispondere al telefono di casa, ma ormai il danno era fatto.
“Ciao, mamma.” Feci, abbattuta. Mi scaraventai sul letto ancora sfatto e mi accesi immediatamente una sigaretta; presi anche seriamente in considerazione l’idea di un bicchiere di vino ma dopo aver dato un’occhiata all’orologio e aver visto che segnava le dieci e mezza, decisi che fosse meglio evitare.
Ci mancava solo un problema di alcolismo nell’equazione.
Come stai? Ho visto un articolo su di te su Vanity Fair, tutti non vedono l’ora di sapere quando uscirà il tuo nuovo libro!
Sussultai al pensiero della mia faccia sbattuta su un giornale di gossip e immaginai tutte le cose che potevano aver detto di me: di quanto ero promettente e di come fossi la più grande scoperta degli ultimi dieci anni e di quanto non vedessero l’ora di leggere un altro capolavoro come Fear.
La fama era una donna volubile, su questo non c’era dubbio: quando il mio libro era uscito, la mia faccia era apparsa su tutte le copertine più prestigiose, persino Forbes mi aveva dedicato un articolo su quanto fossi una delle romanziere più pagate della scena.
E poi, dopo qualche mese, il nulla.
Abituata com’ero alla luce dei riflettori, era stato un trauma rendermi conto di essere già passata di moda.
Ed ora venivo sbattuta a pagina ottanta in qualche trafiletto di una rubrica culturale, acclamata come promessa ma anche delusione perché incapace di creare ancora.
“Oh, sì, ci sto lavorando proprio ora mamma. Meglio che ti richiami dopo!”
Ma, tesoro…!”
Riattaccai.
Non avevo la forza di avere a che fare con mia madre.
Decisi di chiamare Carla, magari sarei riuscita ad uscire di casa e svagarmi un po’.
“Hey, Carla!” esclamai pimpante quando la mia amica rispose al telefono, contenta di sentire una voce familiare. Sara mi mancava più di quanto fossi disposta ad ammettere.
Oh, J, sei tu!
C’era qualcosa che stonava nel tono di voce di Carla, ma decisi di non farci caso.
“È una vita che non ci sentiamo! Ti va un drink stasera?”
Momento di silenzio.
Ehm, Jada, stasera faccio una festa a casa…
Stupita, mi chiesi se si fosse dimenticata di invitarmi “Oh, ok, in quel caso faccio un salto dopo!”
Altro silenzio lungo e pregno di sottintesi.
“Carla?”
Oh, Jada, scusa, ma sarebbe meglio che tu non venissi stasera, ci sarà anche Sara.
Fu come ricevere un pugno nello stomaco.
“Oh. Ok. Allora alla prossima.”
Ja, aspetta, mi dispiace…
Riattaccai.
Oggi non era la mia giornata con i rapporti umani.
***
 
“Perché non scrivi di te stessa?”
Sbuffai una risata, continuando a disegnare cerchi immaginari sul petto di Jake.
Eravamo a casa sua, dove ero scappata dopo la mia disastrosa mattinata, e Jake era riuscito a tirarmi su il morale abbastanza velocemente.
“E di cosa dovrei scrivere? Di una patetica scrittrice che ha buttato volontariamente via il suo futuro e che sarebbe potuta essere grande, ma invece era destinata a tornare al New Jersey dai suoi?”
Jake sorrise, bonario, e mi distrassi un attimo ad ammirare le sue ciglia bionde, stranamente lunghe per essere di un uomo, ma bellissime come tutto di lui.
Ero fregata anche da quel punto di vista: lo sapevo, lo sentivo, che mi stavo innamorando di lui, la mia scappatella, la mia storia senza impegno.
Dannazione, non poteva esserci una cosa che andasse per il verso giusto?
“No, Jada. Scrivi di una scrittrice con un blocco dello scrittore.”
Inarcai un sopracciglio, improvvisamente incuriosita “A play in the play, dici?”
“Immagino di sì…” disse, suonando dubbioso. Jake non era la persona più acculturata del mondo, aveva semplicemente finito il liceo.
Non poteva competere con la mia laurea summa cum laude a Yale, eppure lui era il trentaduenne realizzato e io la ventottenne incapace di tenere in vita un pesce rosso e di spendere i soldi con criterio.
“Um… un po’ un cliché da Shakespeare in poi, ma almeno mi toglierebbe dai guai nell’immediato.”
“E pensa!” aggiunse Jake, illuminandosi improvvisamente “Potresti scrivere di una ragazza con il blocco dello scrittore che decide di scrivere di una ragazza con il blocco dello scrittore!”
Mi venne in mente la canzoncina c’era una volta un re, seduto su un sofà che raccontava che c’era una volta un re, seduto su un sofà etcetera, etcetera.
“Non è la trama più semplice da scrivere, anzi. È complicato star dietro ad una storia in cui il protagonista sta scrivendo una storia!”
Jake mi diede un bacio “Se c’è qualcuno che può farlo, sei tu.”
Sospirai. “È bello sapere che c’è ancora qualcuno che crede in me.”
“Ancora nessuna notizia di Sara?”
“No. Ma stasera la beccherò ad un party.”
“Ah sì? Dove?”
“A casa di Carla.”
***
 
Carla Cuartero Martinèz abitava in una casa nell’Upper East Side il cui portone era più grosso del mio bagno.
Mi feci strada verso l’addetto alla sicurezza che ogni volta assumeva per tenere fuori gli imbucati ed io, essendo stata assidua frequentatrice delle sue feste, lo conoscevo abbastanza bene.
“Hey, Bobby!”
Bobby, che a prima vista sembrava un ragazzo aggressivo, con la sua pelle scura e l’orecchino con una zanna di lupo, era in realtà un cuore tenero.
Mi fece il sorriso più aperto e contento che avessi mai avuto il piacere di vedere. Adoravo Bobby.
“Jadin! Vieni, bellissima!”
Saltai tutta la fila, riservando agli altri invitati un sorriso arrogante – anche io amavo prendermi delle piccole rivincite – e mi avvicinai a Bobby, dandogli due baci sulle guance.
Dopo aver chiacchierato per qualche minuto mi diressi all’interno, focalizzata interamente sulla mia missione Chiedere-Scusa-a-Sara.
Inutile dire che ci misi mezz’ora prima di trovarla a flirtare con un rampollo dell’Upper East Side, riconoscibile dal completo da tremila dollari e lo sguardo di chi ottiene sempre ciò che vuole.
Odiavo i tipi come lui.
“Sara!” interruppi i due e osservai Sara passare da tutta carina e sorridente ad arrabbiata come una iena solo al suono della mia voce.
Prometteva decisamente bene.
“Jada.” Rispose, riempiendo il mio nome di veleno. Trasalii “Che ci fai qua?”
“Vorrei parlarti.” Lanciai un’occhiata a Frank Gallagher, che avevo nel frattempo riconosciuto “Da sola se possibile.”
Frank si limitò a fare un cenno “Signore” disse, prima di dirigersi verso il bar.
“Cosa vuoi?”
“Mi dispiace.”
Ci fu un secondo di pausa.
“Tutto qui?”
“No. Mi dispiace davvero tanto, Sara, quella sera non ero in me e sono stata una carogna. Mi odio per come mi sono comportata.”
Sara storse il naso “Come una bambina immatura che non sa reggere un mojto e fa i capricci quando non ottiene ciò che vuole?”
“Più o meno, sì.”
Sara sospirò “Jada, a me non importa niente di Jake, l’avevo conosciuto il giorno prima, a mala pena ci avevo parlato due volte. Quello che mi ha infastidito è stato il tuo atteggiamento durante tutta la serata. Non sei l’unica ad avere problemi. E io non posso essere sempre pronta a mettere a posto le tue cazzate.”
“Lo so…” non sapevo più cosa dire, Sara aveva ragione su tutta la linea. Dovevo crescere “Scusa, davvero.”
Sara sospirò un’ultima volta, prima di sorridermi “E dimmi, com’è a letto?”
Scoppiai a ridere. La mia amica mi era mancata.
***
 
Mi chiamo Jada Montgomery e ho un problema.
Esattamente Jada. E non è la prima volta.
Ho un grosso problema. Enorme.
E diciamocelo, non sei brava a risolvere problemi.
E non è solo uno, in realtà. Sono piena di problemi.
Tipico.
Ho un fidanzato che possiede un bar nel Village ed è coperto di tatuaggi; quando mia madre l’ha conosciuto, è svenuta.
Ho una migliore amica che ha serie lacune in fatto di moralità ed è anche il mio agente.
Ho un fratello che rischia la vita ogni giorno, e lo fa con orgoglio.
Il mio appartamento è disordinato, piccolo e mi ha stufato.
Ho problemi nei rapporti interpersonali, uccido ogni pianta che sia nel raggio di dieci metri, ho comprato un gatto che non sopravvivrà – a meno che non impari ad aprirsi i suoi pranzetti da solo – e sono al verde.
Ma oggi ho finito il mio libro, con due mesi di ritardo, e l’ho chiamato Thunders.
E Jake ed io andiamo a Dubay.
 
The End
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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