CAPITOLO QUINTO. LA DONNA
RAGNO.
Bastarono pochi secondi a Kiki
per teletrasportare Andromeda e se stesso nelle Isole Andamane. Ma quei pochi
secondi, sommandosi ai viaggi di quella lunga notte, lo stremarono enormemente,
costringendolo ad accasciarsi sulle ginocchia non appena arrivati. Andromeda
gli carezzò la testa, arruffandogli i capelli e ringraziandolo per lo sforzo,
prima di guardarsi intorno, preoccupato su come procedere.
È successo tutto così in
fretta! Si disse il Cavaliere di Atena,
ripensando alle ultime ore, prima della convocazione da parte di Mur. Agli
ultimi giorni che aveva trascorso con Nemes sull’Isola di Andromeda. Da soli,
avvolti nelle rovine di quella che un tempo era stata la località del suo
addestramento, e dell’addestramento di tanti altri ragazzi che, prima di lui,
avevano tentato di conquistare l’Armatura di Andromeda, o una delle corazze
minori nascoste sull’Isola. Quando l’anno prima Scorpio aveva sterminato
Albione e i suoi discepoli, il suolo dell’isola vulcanica era stato
sconquassato in più punti e le acque dell’Oceano Atlantico avevano trovato
facile via per sommergere alcuni lembi di terra, dando all’isola un aspetto
ancora più inospitale.
Ma Andromeda aveva voluto
recarvisi comunque, per portare un saluto al suo maestro Albione e ai compagni
del suo addestramento. Dopo la fine della scalata alle Dodici Case, Atena aveva
ordinato che i cadaveri del Cavaliere di Cefeo e dei suoi discepoli fossero
recuperati e condotti in Grecia, per avere degna sepoltura nel cimitero del
Grande Tempio. Ed era stato proprio Scorpio ad occuparsene. Lui, che
nient’altro desiderava se non lavare il disonore dell’atto di cui si era
macchiato in passato. Sull’isola erano soltanto rimaste delle croci di legno e
di pietra, semplici e spartane, come l’esistenza che Albione era stato solito
condurre. E ai piedi di quelle croci Andromeda e Nemes avevano pregato per ore.
Dopo la fine della Grande Guerra
contro Ares, Andromeda aveva deciso di prendersi un po’ di tempo per sé, per
visitare i luoghi in cui era cresciuto e diventato Cavaliere, e prima ancora
uomo. E aveva scelto di portare con sé una persona il cui destino sentiva così
tanto legato al suo, nonostante non avesse mai potuto dimostrarle quanto
affetto provava per lei, impegnato com’era stato nell’ultimo anno in guerre
continue. E Nemes, dal canto suo, non aveva mai rinunciato a stargli accanto, a
vegliare su di lui, anche solo con una preghiera da lontano. Non aveva osato
fiatare neppure quando Atena le aveva confessato, mesi addietro, il suo
desiderio di far perdere la memoria ai cinque Cavalieri di Bronzo, per
permettergli di dimenticare guerre e dolore e far vivere loro una vita normale.
Fedele alla sua Dea, Nemes aveva ingoiato anche quell’amaro boccone,
consapevole che Andromeda si sarebbe quindi dimenticato anche di lei. Ma il
tempo aveva mescolato nuovamente le carte e adesso, per la prima volta dalla
fine dell’addestramento, erano di nuovo insieme, sull’Isola di Andromeda, a
contemplare lo sfacelo di un mondo che non esisteva più.
Che sia questo il destino di
tutti noi? Aveva mormorato Andromeda,
osservando il suolo distrutto dell’Isola vulcanica. Nemes gli aveva sorriso,
prendendolo per mano e conducendolo nella costruzione dove avevano abitato
negli anni dell’addestramento. Quella almeno, seppure con numerose crepe ai
muri, era ancora intatta. E entrambi convennero che fosse un segno. Come quella
semplice abitazione, di pietra e rozzi massi, aveva resistito alla furia della
tempesta, così i sentimenti che provavano da anni, e che difficilmente
riuscivano a tirare fuori, avrebbero resistito a tutto. Anche alla morte.
Là, tra i dolorosi ricordi di
ciò che era stato e le angosciate speranze per un futuro incerto, Andromeda e
Nemes si erano uniti per la prima volta, assaporando un momento di pace
nell’infinita guerra contro il caos. Là, giorni dopo, Kiki lo aveva trovato, in
ginocchio su uno scoglio, intento a guardare il mare scivolare verso una nuova
alba. E adesso era stato sbalzato dall’altra parte dell’Africa, vicino alle
coste birmane, e vagava per isole sconosciute alla ricerca di un’antica
leggenda, l’unica che forse avrebbe potuto salvare la schiera dei Cavalieri di
Atena.
È come cercare un ago in un
pagliaio! Si disse Andromeda, guardandosi
intorno. Camminava insieme a Kiki in una fitta foresta, di chiara origine
pluviale, senza avere idea alcuna sulla direzione da seguire. Né la certezza di
trovarsi sull’isola giusta.
“Le Andamane sono un immenso
arcipelago di più di cinquecento isole e isolotti, disseminate nel Golfo del
Bengala in un arco di 500 km, a più di mille chilometri dalle coste
dell’India!” –Mormorò Andromeda, cercando di ricordare le nozioni di geografia
che aveva ricevuto un tempo, nelle limpide notti di luna trascorse assieme a
suo fratello Phoenix all’orfanotrofio a sfogliare libri ed atlanti, chiedendo
spesso perché le nazioni avessero confini. E non potessero vivere in pace.
–“Già da piccolo non c’è stato altro che abbia mai veramente voluto! Vivere in
pace!”
“Ehi, Andromeda?!” –La voce
squillante di Kiki lo distrasse dai suoi pensieri. –“E se non fosse l’isola
giusta? Come riusciremo a trovare questa fantomatica Biliku in questo labirinto
di isolotti? Dovremo girarli tutti?!”
“Non lo so, Kiki!” –Rispose
Andromeda candidamente, continuando ad avanzare nella fitta vegetazione della
foresta.
Era ormai mezzogiorno inoltrato
e il sole filtrava tra le alte fronde degli alberi, rischiarando a tratti la
visibilità, di per sé non eccessivamente accentuata. Kiki, esausto e affamato,
si lasciò cadere su un masso sporgente, asciugandosi la fronte con un
fazzoletto, pregando Andromeda di riposarsi un attimo. Il ragazzo fece per
rispondergli, quando avvertì una vibrazione nella sua catena. Un attimo dopo la
formidabile arma del Cavaliere di Atena si sollevò, saettando verso un angolo
buio della foresta, scontrandosi poco dopo con un paio di frecce.
“Qua, Kiki!!!” –Urlò Andromeda,
afferrando il ragazzo e stringendolo a sé, prima di disporre la catena a
difesa. Immediatamente un mulinello scintillante avvolse i due giovani, creando
un’impenetrabile barriera su cui un nugolo di frecce si infranse pochi istanti
dopo, mentre grida selvagge risuonavano dal profondo della foresta.
“Che sta succedendo?” –Chiese
Kiki impaurito, sentendo frusciare le fronde degli alberi attorno e vedendo
figure indistinte sfrecciare nell’ombra.
“Non lo so, ma la cosa non mi
piace affatto!” –Commentò Andromeda, continuando a roteare la sua catena e
frenando l’attacco di un altro nugolo di frecce.
Fu allora che li vide, nascosti
nell’ombra degli alberi, appollaiati sui rami più alti, come esperti cacciatori
pronti a balzare sulle prede ignare. Erano centinaia, e parevano aumentare ad
ogni occhiata che Andromeda dava attorno a sé. Piombarono nella radura uno dopo
l’altro, continuando a scagliare i loro dardi avvelenati, fatti di semplice
legno, contro Andromeda e Kiki, protetti dal vorticare impetuoso della catena.
Indossavano soltanto pezzi di pelle, con cui coprivano rade parti del corpo,
lasciando il resto scoperto e segnato da schizzi di tinture, che molto
probabilmente indicavano il loro ruolo e la tribù di appartenenza. Erano
selvaggi, come quelli che Andromeda aveva sempre visto negli atlanti o sui
libri di geografia, e li avevano circondati con una rapidità impressionante.
Andromeda ne scrutò alcuni,
quelli che osavano avvicinarsi con coraggio, continuando a scagliare frecce e
rudimentali lance dalla punta di pietra, e li trovò orribili, con schegge di
ossa piantate nel naso e nelle orecchie, denti gialli e quei suoni orribili con
cui comunicavano. Suoni che non riusciva assolutamente a decifrare, ma che, a
giudicare dall’espressione famelica sul volto dei suoi assalitori, non
lasciavano presagire niente di buono. Che fossero cannibali o meno, Andromeda
non ci teneva a scoprirlo, così decise di agire di scatto, lanciando la Catena
di Offesa all’attacco. Veloce come un fulmine, la Catena a Triangolo
sfrecciò dall’alto della difesa circolare, piombando sugli avversari e
colpendoli alle mani, facendo perdere loro la presa delle armi che stringevano,
o distruggendole sul colpo, spaventandoli e spingendoli indietro. In pochi
attimi, Andromeda disarmò i selvaggi, falciando le dita di qualcuno e
costringendo molti a fuggire via.
Ma la maggioranza, seppur
disarmata, rimase comunque compatta, formando un semicerchio attorno ad
Andromeda e Kiki, osservando con interesse i movimenti del Cavaliere di Atena e
borbottando tra loro parole indistinte. Andromeda allora, vedendo che i
primitivi si erano tranquillizzati, abbassò la difesa circolare, richiamando a
sé anche la Catena di Attacco, che strisciò sul terreno, luccicando nel sole
del pomeriggio. Esterrefatti da tale visione, i selvaggi fecero un balzo
indietro, abbandonandosi ad espressioni di stupore e profonda ammirazione.
Andromeda li sentì mormorare qualcosa, e anche Kiki prestò attenzione alle loro
voci, senza però riuscire a decifrare quell’antico linguaggio.
“Ser… pente!” –Gli sembrò di
sentire infine. –“Grande Serpente!” –Mormorò qualcun altro, prima che un uomo
si facesse avanti.
Impaurito, indicò le catene che
pendevano dalle braccia di Andromeda, prima di buttarsi ai piedi del ragazzo,
prostrandosi più volte. Pochi istanti dopo anche gli altri compagni dell’uomo
fecero altrettanto, e Andromeda si ritrovò di fronte ad una massa di primitivi
abitanti delle Isole Andamane che lo veneravano quasi fosse un Dio, in virtù
probabilmente dei poteri della sua catena, qualcosa di sconvolgente e nuovo per
le antiche tribù che popolavano quei luoghi.
“Non abbiate paura! Non voglio
farvi del male!” –Cercò di esprimersi Andromeda, avvicinandosi all’uomo
inginocchiato. Ma subito questi si mosse, scattando indietro impaurito.
–“Capite la mia lingua?”
“Grande Serpente!!!” –Ripeterono
confusamente gli uomini, indicando le catene.
Andromeda, comprendendo infine
la situazione, sciolse le Catene, lasciandole scorrere sul terreno, quasi
fossero serpenti dall’argenteo bagliore, di fronte agli sguardi intimoriti, e
al tempo stesso affascinati e eccitati, dei selvaggi che arretrarono,
prostrandosi al loro nuovo Dio. Il Serpente Cosmico, una delle più antiche
Divinità venerate dai popoli del Mondo Antico.
“Prova a chiedere loro qualcosa
su Biliku!” –Azzardò l’idea Kiki, sentendosi adesso più sollevato, nel vedere
gli indigeni succubi del fascino di Andromeda. –“Magari possono aiutarci a
risolvere questo enigma!” –Ma bastò nominare l’ancestrale creatura, che subito
i selvaggi si inquietarono, muovendo la testa con violenza e facendo gesti che
a Kiki parvero dei veri e propri scongiuri.
“Biliku!” –Esclamò Andromeda.
–“Dobbiamo trovare Biliku! Sapete dove si trova?”
“Donna ragno! Nemico del Grande
Serpente!” –Mormorò uno degli indigeni, rabbrividendo al solo nominarla. Quindi
si scosse, incamminandosi nel fitto della foresta, seguito dai selvaggi suoi
compagni, che si disposero su due file parallele, facendo cenno a Andromeda, e
a Kiki, di seguirli e camminare all’interno.
Seppur riluttanti, e sempre
pronti a difendersi o eventualmente a teletrasportarsi via, i due ragazzi
annuirono, unendosi all’improvvisata processione che attraversò la foresta
equatoriale, giungendo fino ai resti di un antico Tempio. Che fosse un
edificio, Andromeda lo comprese guardandolo da lontano, dalla forma che le
piante rampicanti avevano assunto nel corso dei secoli crescendo sopra di esso
e avvolgendolo nelle loro spire. Da vicino sembrava soltanto un’indistinta
massa verde, quasi una collina, tanto soffocante era la presa che le piante
avevano esercitato su di esso, segno evidente che da secoli nessuno era
penetrato al suo interno.
Ad un cenno dell’uomo che aveva
guidato la processione, che Andromeda capì essere il capo di tale tribù locale,
un gruppo di indigeni si avvicinò ad una parete del tempio, iniziando a
bruciare le piante che la coprivano e rivelando solide mura di pietra ornate da
antiche iscrizioni. E da una splendida, quanto inquietante, raffigurazione.
L’azione erosiva del tempo aveva reso illeggibili alcuni segni, ma il
significato apparve chiaro sia agli indigeni che ad Andromeda e Kiki.
Sull’enorme muro di fronte a loro era stata incisa una violenta scena di
caccia, che ritraeva un immenso ragno, dai lunghi tentacoli sinuosi, avvolto
nelle spire di un lugubre serpente, le cui fauci spalancate affondavano nel
tozzo corpo della creatura nemica, intenta ad avvolgerlo in fili biancastri. La
donna ragno e il serpente cosmico. Impegnati in uno scontro mortale.
Kiki osservò le incisioni con
attenzione, soffermandosi in particolare sull’ultima, dove sembrava chiaro che
il sangue della donna ragno avesse ucciso il serpente, che giaceva disteso al
suolo, in procinto di essiccarsi, ma che anche la stessa Biliku fosse rimasta
vittima del suo avversario, rinchiudendosi in una grande buca, che
rappresentava le profondità della Terra. Che fosse l’antico scontro che si era
consumato un tempo tra due potentissime forze primordiali? E che gli indigeni
vedessero in Andromeda il rinnovato Serpente Cosmico, tornato per avere la sua
vendetta? Questo Kiki non lo sapeva, ma era altamente inquieto, preoccupato da
tutta quella situazione che sembrava loro sul punto di sfuggire di mano.
In quella, ad un cenno del capo
della tribù, un gruppo di uomini spalancò con forza antichi portoni del Tempio,
rivelando un’entrata che nessun uomo doveva aver percorso negli ultimi tremila
anni. L’aria fetida che fuoriuscì dall’interno disgustò all’istante Andromeda e
Kiki, che tossirono ripetutamente, mentre alcuni uomini della tribù accendevano
delle fiaccole rudimentali, porgendole loro.
“Eeeh?! Non dovremo mica
infilarci in questo tunnel?!” –Strabuzzò gli occhi Kiki, lanciando uno sguardo
verso l’interno del Tempio. Ma non vedendo niente. Soltanto la notte più nera.
“Temo che non abbiamo molte
alternative, Kiki!” –Commentò a malincuore Andromeda, afferrando una torcia e
passandone un’altra a Kiki. –“Se davvero Biliku si è rinchiusa qua dentro, non
possiamo far altro che andare a cercarla! Per salvare il Grande Tempio di Atena
dagli istinti animaleschi della rosa di rabbia!” –Detto questo mosse un passo
avanti, dirigendosi verso l’ingresso dell’antico tempio, cercando di nascondere
la profonda inquietudine che lo aveva invaso. Davanti a Kiki, di cui aveva la
responsabilità morale, non poteva mostrarsi debole, ma risoluto, per quanto nel
suo cuore turbinassero sentimenti contrastanti. La paura prima su tutti.
Kiki sbuffò scocciato più volte,
ma poi decise di seguire Andromeda all’interno, non prima di aver afferrato la
lancia di un indigeno. Pochi passi e i due amici si ritrovarono avvolti dalle
tenebre. L’ampiezza della costruzione era immensa e sembrava scendere
progressivamente in profondità, dove l’oscurità era sempre maggiore e il
pestilenziale tanfo rendeva difficile la respirazione.
“Definirlo un immondezzaio è un
complimento!” –Ironizzò Kiki, tossendo più volte, mentre seguiva Andromeda in
quel dedalo di gallerie.
Le porte aperte dell’ingresso
erano ormai un ricordo lasciato alle spalle e la poca luce che aveva illuminato
la loro entrata era scomparsa, precipitando entrambi in una tenebra che
sembrava non avere fine. Persino con le fiaccole Kiki e Andromeda non riuscivano
ad avere una buona visibilità, dovendo continuamente fare attenzione a non
cadere in qualche buca o avvallamento del terreno. In silenzio, i due compagni
vagarono per una buona mezz’ora per le gallerie del tempio, disgustati dal
letamaio in cui erano immersi. Il solido pavimento piastrellato che aveva
caratterizzato l’entrata aveva ceduto presto il passo a un terreno molliccio, a
tratti fangoso, spezzettato da carcasse di animali sparse, avvolte in bianchi
filamenti appiccicosi. Kiki le osservò con disgusto, inghiottendo di colpo, non
osando chiedersi cosa le avesse ridotte in quello stato.
“Cosa… o chi?!” –Balbettò,
affiancando prontamente Andromeda, intento ad osservare le pareti laterali
dell’ampia galleria dove stavano camminando. Un tempo probabilmente l’intera
costruzione doveva essere stata ornata di decorazioni e di incisioni che
raccontavano la storia della creazione dell’universo secondo le credenze
animiste dell’antica popolazione di quelle isole. Ma adesso, migliaia di anni
più tardi, delle incisioni e delle leggende era rimasto ben poco, crollate
sotto il peso del tempo o delle frane, ammuffite nel ricordo o ricoperte da una
vischiosa sostanza che Andromeda individuò essere una ragnatela.
“Sembra che Biliku abbia saputo
come passare il tempo!” –Ironizzò, avvicinandosi ad una parete, interamente
ricoperta di fili biancastri, e chiedendosi quanti secoli fossero trascorsi,
quanti millenni, da quando la creatura primordiale era venerata apertamente
dagli indigeni di quelle isole.
Andromeda fece appena in tempo a
sfiorare con una mano la vischiosa superficie della parete laterale, che
dovette balzare indietro di scatto, mentre un lungo artiglio sbucava fuori
dalla massa di fili bianchi e si conficcava con rabbia nel terreno sotto i suoi
piedi. Kiki gridò spaventato, alla vista di quel peloso artiglio che scalciava
furioso, mentre il roboante movimento di un corpo immenso faceva tremare
l’intera struttura del tempio. Qualche pietra e pezzi di muro crollarono
immediatamente, mentre un secondo artiglio sfondava la parete di fili
biancastri, piantandosi nel terreno con forza e allungandosi verso i due amici,
rifugiatisi sul lato opposto. Ma in quel momento a Kiki e ad Andromeda parve
non poter trovare rifugio in alcun luogo, poiché l’intera struttura del tempio
sembrava gridare di rabbia, smossa in profondità dai pesanti movimenti di una
creatura ancestrale che forse non aveva mai conosciuto riposo.
“Ci ha osservato per tutto
questo tempo!!! Da quando siamo entrati nel tempio!” –Esclamò Andromeda, prendendo
Kiki per mano e correndo via, mentre la grossa massa deforme si muoveva accanto
a lui, separati da un muro sottile che i rozzi movimenti della creatura
facevano crollare continuamente. –“In tutti questi secoli deve aver lavorato
freneticamente, scavando tunnel paralleli a queste gallerie, da cui usciva per
uccidere le poche prede che osavano avventurarsi in queste profondità! Ciò che
non mi spiego è perché la mia catena non abbia avvertito il pericolooo!!!” –Ma
Andromeda non riuscì a terminare la frase che precipitò di colpo verso
l’abisso, trascinando Kiki con sé.
C’era una fossa improvvisa,
scavata nel bel mezzo di una galleria, e per la fretta e la scarsa luminosità i
due amici non se ne avvidero, piombandoci proprio dentro. Ma non caddero per
molto, soltanto per cinque o sei metri, il tempo di ritrovarsi sospesi a
mezz’aria, con i corpi appiccicati ad una vischiosa sostanza che rendeva
difficili i loro movimenti. Andromeda perse la presa della fiaccola, che
precipitò nell’abisso, spegnendosi in lontananza. E questo portò il ragazzo a
chiedersi quanto fosse profondo quell’anfratto, e quali altri orribili segreti
nascondesse. Con la luce dell’unica torcia rimasta, che Kiki stringeva ancora
mano, per quanto cercasse di liberarsi da quei filamenti appiccicosi, Andromeda
si rese conto che erano caduti su un’immensa ragnatela, che si estendeva da
lato a lato della cavità. Una ragnatela appositamente tessuta per ospitare due
deliziose mosche, come Andromeda e Kiki apparivano in quel momento agli occhi
di Biliku.
“Andromedaaa!!!” –Gridò Kiki,
dimenandosi selvaggiamente, prigioniero di quella tela appiccicosa.
“Stai calmo, Kiki! Più ti agiti,
più rischi di invischiarti in questo… in questa…” –Esclamò Andromeda, prima che
un luccichio lontano attirasse la sua attenzione.
Due piccoli fari, dal colore
giallo opaco, erano proprio sopra di loro, a neanche dieci metri di distanza, e
sembravano farsi sempre più vicini, mentre una pesante massa sguazzava dietro
di loro, smuovendo le pareti laterali e i fili a cui i due ragazzi erano
appesi. Biliku era finalmente arrivata, uscita dai suoi infami nascondigli per
saziarsi di carne umana, di cui da molto tempo non si cibava.
“Aaaah!!!” –Gridò Kiki,
riconoscendo la sagoma deforme che torreggiava sopra di loro. E d’istinto
concentrò i sensi, per teletrasportarsi via da lì, in un qualsiasi altro posto,
anche fuori in compagnia degli indigeni. Ma non vi riuscì. Provò più volte
senza ottenere risultati, realizzando che vi era qualcosa, forse una mistica
barriera di energia, che non era in grado di vincere. Qualche arcano sigillo
che gli impediva di esercitare i suoi poteri.
“Ma certo! Adesso ricordo le
parole di Mur!” –Esclamò Andromeda. –“Biliku, come altri ragni delle isole
micronesiane per esempio, è considerata un’entità creatrice, grande madre da
cui ha avuto origine il mondo! Non è soltanto una bestia, tutt’altro, questo è
solo il suo aspetto esteriore! Lei è molto di più! Nasconde un potere arcano
tipico delle Divinità primordiali, che fa di questo tempio un immenso luogo di
culto! Ecco perché i tuoi poteri non funzionano, e la mia Catena non ha
segnalato la sua presenza, Kiki! Perché siamo nella sua casa, nella sua tela, e
l’unico vero potere, originario e creatore, è il suo!”
“Questo cosa significa,
Andromeda? Che non abbiamo speranze e dovremo restare qua, a farci mangiare
come mosche?” –Gridò Kiki, continuando a scalciare.
“No, ma liberarci non sarà
facile!” –Commentò l’amico, cercando di tagliare i fili che lo intrappolavano.
Andromeda riuscì a liberare le
braccia e parte del busto, ma non osò trinciare altri fili, per paura di cadere
nell’abisso. Cercò di avvicinarsi a Kiki, ma in quel momento l’intera ragnatela
venne scossa da un fremito. Andromeda voltò lo sguardo verso l’alto e vide che
Biliku stava scendendo verso di loro. L’antica creatura genitrice del mondo non
aveva più voglia di aspettare. Adesso aveva fame.
“Sulle mie spalle, coraggio,
Kiki!” –Esclamò Andromeda, raggiungendo Kiki e aiutando il ragazzino a
liberarsi da quei fili vischiosi. –“Reggiti a me, e tieni sempre la fiaccola
puntata verso l’alto!”
Kiki obbedì agli ordini di
Andromeda, montando sulle sue spalle e tremando di paura come mai prima
d’allora. Non appena sollevò lo sguardo, seguendo il fascio di luce generato
dalla torcia, incrociò gli spaventosi occhi di Biliku, che gli mozzarono il
respiro, impedendogli persino di urlare. La creatura era immensa, e il suo
tozzo corpo pareva spingersi ancora nell’interno, in zone d’ombra che Kiki e
Andromeda non riuscivano a scrutare bene. Aveva un grosso busto di ragno,
putrido e peloso, da cui spuntavano quattro lunghi artigli su ciascun lato, che
Biliku muoveva in perfetta sintonia, sulle note di una melodia che pareva
averla cullata per anni. Non aveva niente di umano, niente più, rovinata dal trascorrere
del tempo, dalla solitudine e dalla follia che l’aveva colta in quegli anfratti
oscuri. Soltanto il volto pareva avere una lontana parvenza di donna, forse
nella scapigliata massa di peli che lo sovrastavano, che ricordavano mossi
capelli neri, o forse nella bocca, da cui lunghi fili di bava uscivano ogni
volta che mostrava loro i gialli denti appuntiti. O forse negli occhi, di un
pallido color ocra, macchiati al centro da una pupilla iniettata di sangue.
“È… orribile!” –Mormorò Kiki,
mentre Biliku si fermava qualche metro sopra di loro, perfettamente in
equilibrio sulla tela da lei stessa creata. –“Cosa aspetta? Perché non ci
attacca?” –Ma Andromeda gli fece cenno di tacere. E soprattutto di non
guardarsi intorno. Aveva percepito dei leggeri movimenti laterali, provenienti
dai lunghi fili che li sostenevano, ma non aveva osato informare Kiki.
Il ragazzino voltò un attimo lo
sguardo solo per rigirarlo schifato alla vista di migliaia di ragni neri che
avanzavano in fila indiana lungo i fili, dirigendosi proprio verso il centro
della tela, dove Kiki e Andromeda erano annidati. I figli di Biliku, entità
terribile e generatrice.
“Dobbiamo difenderci!” –Esclamò
infine Andromeda, cercando di reagire. E nel far questo bruciò il proprio
cosmo, muovendo le catene affinché si sollevassero. Ma non accadde niente, e le
due armi ciondolarono stanche lungo le sue braccia. Andromeda espanse ancora il
suo cosmo, dirigendo le catene verso l’alto, ma queste ricaddero poco dopo,
incollandosi ai vischiosi filamenti. –“Anche le catene risentono del campo
mistico di Biliku!!! L’arma su cui facevo maggiore affidamento è
inutilizzabile! Possibile? Che sia così grande il potere di Biliku? Che sia
davvero fonte di creazione… e di distruzione?”
“Non resteremo certo qua a scoprirlo!”
–Rispose Kiki, scendendo dalle spalle di Andromeda e ergendosi sui fili della
tela, mostrando una spavalderia che non sentiva affatto, ma con cui sperava di
nascondere il proprio timore. Concentrò il cosmo, dal color verde acqua, tra le
mani e poi diresse una sfera di energia contro un mucchio di ragni che si stava
avvicinando, annientandoli sul colpo.
“No, Kiki!!!” –Gridò Andromeda,
ma non fece in tempo ad impedire al ragazzo di caricare di nuovo il colpo, che
qualche filo si schiantò, facendo barcollare i due amici su una tela che, in
quel momento, si rivelò in tutta la sua fragilità. –“Colpendoli colpisci anche
i filamenti che ci sostengono! E senza il tuo teletrasporto, né la mia Catena a
sostenerci, precipiteremmo nell’abisso!”
“E allora cosa facciamo,
Andromeda?!” –Urlò il ragazzo, spaventato. –“Stanno venendo a prenderci!!!”
–Aggiunse, vedendo gli occhi gialli di Biliku sogghignare sinistramente.
Proprio in quel momento due
uomini ricoperti da nere armature caddero dal cielo, atterrando nel bel mezzo
della foresta equatoriale, a un centinaio di metri dal tempio di Biliku.
Inviati da Flegias per controllare che l’ancestrale creatura eseguisse alla
perfezione il compito su cui il Maestro di Ombre faceva molto affidamento,
Iemisch e Iaculo si incamminarono verso l’antico Santuario, di fronte agli
sguardi atterriti degli indigeni. Quasi sconvolti che qualcuno osasse
disturbare il rito che si stava consumando all’interno della costruzione, molti
primitivi si lanciarono contro i due guerrieri, puntando le loro lance
appuntite, ma bastò che Iaculo volgesse loro il palmo della mano per
trafiggerli tutti con sottili lance di luce, proprio all’altezza del collo. Uno
dopo l’altro gli indigeni crollarono a terra sanguinanti, portandosi le mani
alla gola, prima di esalare l’ultimo respiro. I pochi superstiti si diedero
alla fuga, disperdendosi urlando nella verde macchia circostante, di fronte
agli sguardi divertiti dei due Capitani dell’Ombra.
Le probabilità che Andromeda
uscisse vivo da uno scontro con Biliku, all’interno del luogo sacro alla
Divinità, erano molto poche, ma Flegias, che ben conosceva i Cavalieri di
Atena, che parecchio filo da torcere gli avevano dato in passato, aveva
preferito non rischiare, inviando due potenti guerrieri a controllare. E,
eventualmente, a terminare l’opera, avvertendo però loro di non avvicinarsi
all’ancestrale Biliku, i cui poteri li avrebbero certamente sopraffatti.
“Vi fidate molto di quella
Donna-Ragno!” –Esclamò la viscida voce di Athanor, l’alchimista oscuro, in
ginocchio di fronte al figlio di Ares, assiso sul trono nella caverna
dell’Isola delle Ombre. –“Credete davvero che una simile bestia possa vincere
un Cavaliere che ha sconfitto gli Dei?”
“Tu non conosci i poteri di
Biliku, il retaggio delle Divinità ancestrali di cui è portatrice! Si narra che
lei stessa abbia contribuito a creare il mondo, aggirandosi furtiva nella vasta
notte vuota, prima di sedersi e modellare la Terra con i suoi artigli. Contenta
della sua creazione Biliku vi si trasferì, portandovi il fuoco e la luce e
governandone ogni aspetto a seconda del suo umore, in particolare il tempo
atmosferico!” –Spiegò il figlio di Ares.
“Non sapevo che la conosceste
così bene!” –Commentò Athanor.
“In un certo senso… siamo figli
dello stesso creatore! Uah ah ah!” –Sghignazzò con gusto il Flagello degli
Uomini e degli Dei. –“Piuttosto… i miei servitori stanno eseguendo i compiti
che ho assegnato loro?”
“I Capitani sono già in
posizione! Dislocati dove voi avete ordinato!” –Rispose Athanor, ancora in ginocchio
di fronte al Maestro di Ombre, che annuì soddisfatto, sfregandosi le mani,
quasi gustando una vittoria vicina.
“Ma?!” –Ringhiò Flegias
improvvisamente, vedendo che Athanor non accennava ad alzarsi. –“Cosa c’è che
non va?!”
“Ikki di Phoenix, mio Signore!
Noi… non riusciamo a trovarlo!” –Confessò a bassa voce l’antico alchimista
della Regina Nera.
“Che cosa?!” –Gridò Flegias,
balzando in piedi di scatto, mentre tutto attorno a sé esplodeva il suo
furibondo cosmo di fuoco e ombre. –“Controlliamo ogni angolo di questo patetico
pianeta, forgiamo i destini degli esseri inferiori che lo popolano e non siamo
capaci di individuare un Cavaliere, uno soltanto, i cui movimenti dovreste
monitorare da mesi?!” –E afferrò Athanor per il colletto della lunga veste
nera, sbattendolo con forza contro una parete rocciosa. –“Voglio il mio
esercito pronto entro poche ore! O userò il tuo sangue per saziare la mia fame
di vita!”
“Sì, sì, mio Signore!” –Balbettò
Athanor, ricadendo a terra e strisciando via sul terreno roccioso, diretto
verso il suo laboratorio.
Maledetto Phoenix! Che il
diavolo se lo porti! Già una volta mi ha interrotto sul più bello! Esclamò Flegias, ricordando il suo primo, fallito, attacco
al Grande Tempio, assieme a Sterope del Fulmine, e la sorpresa con cui il
Cavaliere di Phoenix lo aveva travolto. Non voleva incorrere in altre brutte
sorprese, per questo motivo aveva fatto controllare le mosse dei cinque
prediletti Cavalieri di Atena, per metterli in condizione di non nuocere. Per
Sirio, Cristal, Pegasus e Phoenix, che avevano degli animali come simboli
protettori, sarebbe bastata una rosa di rabbia a scatenare i loro istinti
primordiali e portarli alla guerra perpetua. Per Andromeda era stato necessario
risvegliare Biliku.
Non che a Flegias dispiacesse,
in fondo era stato molte volte a farle visita, nel corso dei lunghi millenni
che aveva trascorso da sola, rifugiata negli abissi di quell’antico Santuario.
E ogni volta le aveva portato qualcosa con cui ingannare il tempo: uccelli,
mammiferi, persino qualche rettile che popolava la foresta equatoriale, quando
non aveva voglia di andare a caccia di uomini. Del resto, gli indigeni delle
Andamane erano in abbondanza. E Biliku amava intrattenersi con loro, per
sconfiggere la monotonia in cui era immersa. Pare che avesse scavato gallerie
così lunghe e profonde da essere in grado persino di superare il mare e
giungere sulla terraferma. Ma neppure il figlio di Ares si era mai arrischiato
a penetrarvi in sua compagnia, né quando ancora vagava sotto forma di spirito
né dopo essere stato dotato di un nuovo corpo. Quello stesso corpo che lo
avrebbe condotto alla vittoria, anticipando l’avvento della grande ombra.
Ormai, a quel momento aspettato da secoli, e dai saggi tanto temuto, mancava
più poco tempo, una manciata di granelli di sabbia nella clessidra del mondo, e
non sarebbe certamente stato Phoenix, né nessun altro, a fermare i suoi
propositi imperiali.