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Autore: Koa__    18/01/2015    5 recensioni
#Blackbeard, King of Pirate
#Me, you and nobody else
#The old story of "East wind coming..."
#Down in a dark well Terza classificata al contest 'Pensami' indetto da DonnieTZ
#Obsession
#Losing Control
#My brother is a murderer
#Upside down
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Altro personaggio, Lestrade, Mycroft Holmes, Redbeard, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Personaggi: Sherrinford Holmes; Sherlock Holmes; Mycroft Holmes
Avvertimenti: Contiene accenni a violenza fisica e un tentativo di violenza.
Note: Prosegue direttamente dalla precedente e vi avviso che potrebbe essere una storia non facile da digerire (uomo avvisato...).
Storia terza classificata al contest Pensami, indetto da DonnieTZ
Intro: Dimmi, giovane e geniale genietto, come ci si sente ad essere il preferito?






 
Down in a dark well
 

 




C’era polvere dappertutto in quella casa, polvere che si era depositata sui libri impilati per terra accanto alla libreria, polvere anche sulla mensola sopra al camino, sugli infissi delle finestre e gli stipiti delle porte. Si trattava di un lieve pulviscolo che aleggiava nell’aria, impalpabile e che veniva di tanto in tanto illuminato dai raggi del sole che filtravano dai vetri. Se non fosse stato per la presenza di Sherlock Holmes seduto sulla poltrona o per altri dettagli come il violino perfettamente pulito e il fuoco scoppiettante, sarebbe potuto sembrare un appartamento disabitato. Una casa che era stata volutamente lasciata intatta dopo il decesso del proprietario. Nonostante le apparenze, però, non era così. C’era un allettante profumo di tè nell’aria ed un velo appena percettibile di qualcosa d’altro, un olezzo non ben definito e che proveniva dalla cucina. Se fosse stato più abituato ad avere a che fare con simili faccende, Sherrinford lo avrebbe classificato come odore di cadavere. Lui però non aveva mai avuto niente a che spartire con le scene del crimine, al contrario del celebre consulente investigativo, preferiva avere a che fare con i vivi. Oltretutto, la scienza non lo aveva mai interessato per davvero. La trovava molto noiosa e ben poco stuzzicante, aveva sempre preferito occupare i pensieri riflettendo sull’ultimo romanzo di letteratura inglese appena terminato o discutere di filosofia con qualche compagno di corso. Questo quando era sufficientemente giovane da poter perdere tempo in un ateneo. Adesso invece, trovare qualche anima pia che fosse disposta a chiacchiere con lui di tutto e niente, e senza doversi per forza infilare in insulsi circoli letterali frequentati da donnette annoiate e con la dialettica di un rinoceronte in carica, era praticamente impossibile. Ragion per cui, e dato che non poteva divertirsi così, Sherrinford preferiva altre occupazioni come la scrittura o le passeggiate nei parchi; in questo poi, la fastidiosa Londra lo aiutava. Mai nella vita però, avrebbe perduto tempo con la scienza. Nonostante, per una frazione di secondo, si fosse domandato che genere di odore fosse quello che si espandeva, non indugiò eccessivamente su di esso. Aveva preferito farsi avanti e prestare le sue attenzioni ad altro. I suoi occhi erano pertanto vagati rapidi e scaltri, pronti a classificare ogni oggetto lì presente. Certi dettagli erano più importanti, altri invece lo erano di meno. Era infatti passato oltre le partiture sparpagliate sul tavolo od il computer portatile acceso, non aveva fatto caso più di tanto ai fori di proiettile nel muro e a quella faccina sorridente dipinta di giallo che decorava la parete alla sua destra. Non ne era interessato. Già sapeva che Sherlock suonava il violino e sul fatto che ci fossero dei fori nelle pareti, beh, di quello non gliene importava niente di niente. Indugiò solamente sul teschio sopra il caminetto e sul pugnale conficcato nel legno proprio lì accanto. Quando si era accorto di quei due strani oggetti aveva arcuato un sopracciglio, arricciando le labbra mentre si domandava se fossero parte dell’arredamento. Si era chiesto inoltre se il cranio fosse vero perché doveva essere inquietante vivere con quel coso sistemato accanto alla posta. Anche se, in effetti, se suo fratello aveva dei gusti orrendi in fatto d’arredamento, il problema non era sicuramente suo. Era andato quindi oltre, pronto e ben deciso a studiare quel soggiorno polveroso. E lo aveva fatto per svariati istanti, almeno fino all’attimo in cui la sua attenzione non era stata catalizzata completamente da Sherlock. Quello stesso fratello che da bambino aveva sempre visto come troppo vivace e rumoroso, ora restava in silenzio e lo spiava fingendo disinteresse. Ai tempi della loro infanzia, Sherrinford non aveva avuto contatti prolungati con lui e in quei pochi Natali trascorsi in famiglia, aveva sempre tentato di evitarlo. Nel suo essere perennemente sorridente ed allegro, Sherlock era decisamente insopportabile. D’altra parte, per lui era già sufficiente il dover stare a sentire quella vocina stridula, controbattere con acuta intelligenza ad ogni argomento. Era profondamente infastidito dal fatto che un bambino di cinque anni avesse già così tante cose da dire e che fosse orribilmente e odiosamente geniale. Ad un certo punto della sua giovinezza, quindi, stargli alla larga divenne naturale. Naturale come prendere in giro Mycroft e dargli dello stupido, ad esempio. Ma questa era un’altra storia, una delle poche che Sherrinford amava rivivere nella propria mente e che gli dava sempre tanta gioia. La storia di com’era nato il soprannome di Mickey-Hickey e di Mycroft che non aveva mai, mai ribattuto allo scherzo. Era tanto che non ritornava su quella faccenda, di sicuro era stato il rivedere entrambi i suoi fratelli ad aver fatto riaffiorare immagini vaghe e spezzettate di quel lontano passato. Sì, penso annuendo, presto sarebbe tornato sull’argomento. Ora però doveva concentrarsi sul più piccolo degli Holmes, solo lui importava.

In fin dei conti, di quello Sherlock adulto non sapeva niente per esperienza diretta. Tutto ciò che di lui aveva imparato, lo aveva letto da qualche parte. Ritagli di quei giornali che si poteva permettere stando in galera, piuttosto che immagini raccattate qua e là per la rete e che di tanto in tanto i secondini gli passavano su ricompensa. La maggior quantità di informazioni le aveva messe insieme dopo essere uscito di prigione, quando aveva finalmente avuto la possibilità di immergersi in internet. Era stato grazie ai blog dei fan, che era stato in grado di intuire che tipo di uomo fosse. Sapeva che aveva un fan club e una rete di senza tetto rinominata: “Gli irregolari di Baker Street”. Sapeva che aveva un assistente di nome John Watson e che sul suo blog raccontava molti dei casi di omicidio che avevano affrontato insieme. Di certo, poterlo osservare dal vivo era tutt’altra cosa. E in quel preciso istante, mentre spostava lo sguardo dall’espressione corrucciata del suo viso, alle dita strette ancora all’archetto del violino che reggeva in mano, si convinse pienamente d’essere riuscito a mettere insieme un puzzle il più possibile preciso. Gli era stata sufficiente un’occhiata per cogliere ogni più piccola sfumatura di quel carattere scorbutico. Era un uomo decisamente insolito, Sherlock Holmes, molto più di quanto non si fosse aspettato. Ad iniziare dall’aspetto fisico, longilineo e slanciato, ai toni del viso accentuati da due zigomi prominenti e da quei capelli ricci disordinati e caotici. Era molto magro, scavato nelle guance e nell’addome piatto, ma i muscoli delle braccia che si intravedevano dalla stoffa leggera della camicia viola che portava, parevano essere piuttosto tonici. Inoltre e nonostante fosse seduto, mostrava anche una certa eleganza, tipica degli Holmes. Teneva la schiena dritta e le gambe erano accavallate, mentre le lunghe dita affusolate avevano lasciato cadere l’archetto sulle ginocchia ed erano ora congiunte sotto al mento.
«Sherrinford» disse Sherlock a mo’ di saluto, con tono in apparenza neutro, accennando quindi alla poltrona vuota di fronte a lui. Si riscosse soltanto quando sentì la voce baritonale inondare l’ambiente silenzioso e squarciarlo, come una nota stonata di una melodia altrimenti perfetta. E in quel momento, mentre Sherlock ancora lo studiava di sottecchi, spiandolo da dietro quei ricci morbidi che, ribelli, gli erano ricaduti sulla fronte, si rese conto di essere stranito. Non era spaventato no, ma la maniera con cui aveva pronunciato il suo nome lo aveva turbato. Nessuno mai lo aveva chiamato in quel modo, con nella voce uno strano ed insolito miscuglio di sentimenti contrastanti. Aveva notato una punta di timore che probabilmente si sforzava di tenere nascosta, oltre che a sfida e provocazione. A prevalere su tutto quanto, però, era la supponenza. Come se a chiamarlo fosse stato un bimbetto di sette anni con una benda sull’occhio e la distruttiva tendenza a scambiare ogni letto di casa per una nave da arrembare. In questo, suo fratello non era cambiato per niente, ancora odiosamente uguale a come lo aveva conosciuto. Ecco chi era Sherlock Holmes: un bimbo arrogante. Fu allora che il sorriso fino a quel momento soltanto accennato sul suo volto barbuto, si allargò fino a divenire ampio e ben visibile. In fondo, quel fratellino pestifero era molto più simile a lui di quanto non avesse osato pensare, molto meno come Mycroft di quanto avesse preventivato. Fu quel pensiero a folgorarlo e a lasciarlo stranito e confuso; come mai se il genietto di casa Holmes somigliava tanto al fratello rinnegato, Mycroft vi teneva tanto? Sperava forse di cambiarlo? Riteneva possibile il riuscire a controllarlo come invece non era riuscito a fare con lui? Non capiva, non capiva davvero e più rimaneva in quella stanza, più era sbigottito.

Sherrinford si era presentato al 221b di Baker Street, quel pomeriggio verso le cinque. Era già febbraio, ma il cielo era sereno ed anche se il sole era troppo timido per risplendere, era stato piacevole camminare di nuovo per le vie di Londra baciato dai tenui raggi solari. Non pioveva da giorni e per questo il terreno era insolitamente asciutto, il che gli aveva provocato un effetto indesiderato, dato che nei suoi ricordi amava indugiare sull’immagine dei prati perennemente fangosi del giardino dell’università. Aveva quindi camminato per una buona mezzora, facendo avanti e indietro per i viali affollati di Hide Park, soffermandosi soltanto per poter guardare da lontano le guardie di Buckingham Palace per il tradizionale cambio. Era arrivato a Baker Street senza nemmeno rendersi conto d’aver passeggiato per così tanto tempo. Si era soffermato a lungo a fissare il numero civico inciso sul portone, indeciso sul bussare o meno. Era rimasto lì per una decina di minuti, finché non aveva sollevato il volto ed allora aveva lo intravisto. Sherlock. Non si era trattato niente di più che di un’ombra sfuggente, ma gli era parso che fosse lui: magro e alto, con un violino tenuto stretto tra le dita affusolate. Se ne stava in piedi dietro al finestra e guardava di sotto ed era proprio lui, suo fratello. Era stato allora che si era detto che non poteva lasciarsi sfuggire una simile occasione, doveva mettere la parola fine a quella vecchia storia e lo doveva fare subito. Ed a quel punto, in lui era nata l’aspettativa. Era ciò che aveva provato dopo che si era visto aprire la porta da un’anziana donna che lo aveva salutato con un sorriso tirato in volto. Non si era soffermato a fare conversazione e nemmeno l’aveva salutata, era entrato senza preoccuparsi di chiudere la porta alle proprie spalle e si era fatto avanti. Inaspettatamente, si era ritrovato dominato dalla tensione e da una voglia irrefrenabile di vederlo. Il bisogno di sapere, la brama di capire erano diventate insostenibili; mai tanto forti. E quando aveva posato il piede sull’ultimo dei diciassette gradini che conducevano al secondo piano, si era fermato un istante ed aveva sorriso. Immobile. Doveva vedere Sherlock e più ne stava lontano, più sentiva montare in lui un desiderio violento. Eppure si era bloccato lì, ad un passo, carico d’aspettativa e di voglia di averci finalmente a che fare e si era goduto il momento. Si era gustato ogni cosa, la tensione dei muscoli delle gambe, tese nello spasmo di quella forzata immobilità. Le gocce di sudore che gli avevano imperlato la fronte e le dita che si erano strette al corrimano, fino a che le nocche non erano sbiancate. In quegli attimi aveva provato una forte sensazione di eternità, in bilico tra passato e futuro, tra ciò che aveva sempre creduto e la realtà più vera che potessero sbattergli in faccia. E Sherrinford, in quei momenti che non avrebbero dovuto avere una fine, ci si era crogiolato. Si era illuso che non potessero mai terminare.

Sollevò lo sguardo su suo fratello che ancora seduto in poltrona, aveva ripreso a torturare l’archetto del violino. Per quanto potesse essere sconvolto dal rivederlo, non doveva assolutamente lasciarsi sopraffare. Pertanto, dopo che lo ebbe invitato ad accomodarsi, Sherrinford non gli rispose e, anzi, preferì aggirarsi per la stanza. Era una questione di potere e predominanza, una sorta di supremazia che aveva più a che vedere con istinti animaleschi, ma alla quale non poteva proprio sottrarsi. Non doveva in alcun modo assoggettarsi e se Sherlock lo invitava a sedersi, lui faceva l’esatto opposto. Per questo prese a gironzolare per il soggiorno, con le mani infilate a forza nelle tasche dei pantaloni. E mentre lo faceva, non smetteva di sorridere. Ovviamente non era felicità, la sua, ma solo compiacimento e sì, anche un po’ di soddisfazione.
«Bel violino!» esclamò, ad un certo momento, sfiorando con la punta delle dita il prezioso strumento. «Lo hai trovato in un cestino davanti la porta di casa? O il governo inglese è così tanto gentile da regalare strumenti musicali da milioni di sterline per incentivare la cultura?» Sherlock si tese, impercettibilmente ma inesorabilmente e si rizzò un poco a sedere, come se fosse stato punto da un insetto. Forse era infastidito dal fatto che stesse toccando il violino, d’altra parte la gelosia dei musicisti nei confronti del proprio strumento gli era ben nota. Poteva trattarsi di questo o magari aveva a che vedere con l’aver nominato Mr Governo. Non lo sapeva. Tuttavia, che fosse per un motivo o per un altro, Sherrinford si ritrovò compiaciuto dall’aver suscitato una simile reazione. Pertanto, si disse, tanto valeva insistere e non accontentarsi d’aver scalfito la superficie. C’era un universo di emozioni da sconvolgere e che sembravano esser state messe lì appositamente in sua devota attesa, come se Sherlock avesse vissuto ogni attimo della sua insulsa vita per arrivare a questo momento.
«Mh» mormorò, con fare marcatamente meditabondo «io penso sia la seconda, ma non che non riguardi l’incentivare la cultura, quanto piuttosto ritengo che abbia a che vedere con la tendenza di un certo membro della famiglia Holmes, a cedere all’affetto fraterno. Uno Stradivari, un appartamento pagato e mantenuto intatto negli anni in cui eri lontano da Londra, abiti costosi e firmati… dimmi, giovane e geniale genietto, come ci si sente ad essere il preferito?» Sorrise, ben sapendo d’esserne uscito vittorioso. Sherlock era marcatamente teso ed inoltre evitava accuratamente il suo sguardo, che teneva basso e rivolto ad un punto non ben precisato del pavimento. Sì, Sherrinford poteva ritenersi già notevolmente soddisfatto di ciò che aveva scatenato, ma non gli bastava. Ancora non era sufficiente. Sapere di regali costosi o della protezione da parte dell’MI6, era nulla se paragonato a quante altre cose nascondeva. Doveva conoscere tutto quanto, sapere ogni più piccolo ed insulso dettaglio che lo riguardava o la sua fissazione non se ne sarebbe mai andata. Per questo non si scompose e proseguì la sua pigra e lenta osservazione, come se stesse contemplando un quadro dipinto dalla mano tremante di follia di Van Gogh. Follia e folle fratellanza, ma anche fraterno amore fratricida. Era questo a cui pensava mentre s’aggirava per l’appartamento, trattando suppellettili e vestiti con ben poco riguardo, spesso addirittura calpestandoli. E mentre passeggiava, rifletteva. Era certo che l’attaccamento di Mycroft fosse, in una qualche maniera, ricambiato. Eppure non era ancora riuscito ad afferrare che cosa ci fosse di tanto particolare in quel ragazzino, da sconvolgere Mickey-Hickey. L’acume di Sherlock Holmes era celebre, ma non poteva pensare che si trattasse soltanto d’intelligenza. Mycroft avrebbe potuto rispettarla, forse addirittura ammetterla (anche se era difficile visto l’egocentrismo che lo vedeva come unico al mondo e in qualsiasi campo del lavoro o della vita), ma venerarla come invece faceva… era impensabile! Assurdo. Dubitava anche che ne amasse la supponenza, l’indole a provocare, le tendenze distruttive o il suo comportarsi come un bambino troppo cresciuto. No, non poteva trattarsi neanche di questo perché a Mycroft non piacevano gli infantilismi. Cosa vedeva, quindi, il suo pigro fratellone in quel disordinato detective? Non lo sapeva, dannazione non lo sapeva. Almeno adesso riusciva a porsi le domande giuste, non era mai stato più preciso di così nei suoi pensieri. La risposta però, ancora non l’aveva.

Per quanto gli avesse fatto più che piacere aver scatenato una reazione negativa, ad un certo punto del suo girovagare per il soggiorno, Sherrinford iniziò ad annoiarsi. Si era aspettato un qualcosa di più violento e brutale e non solo alla provocazione fatta, ma alla sua stessa presenza lì. Sherlock però continuava ad indugiare, a restarsene accomodato placidamente sulla poltrona continuando a frizionare l’archetto del violino con un panno. Di tanto in tanto i loro sguardi si incrociavano, accadeva per brevi istanti perché poi ognuno prendeva a fare dell’altro. Questa sorta di stallo andò avanti finché la teiera, di là sul fuoco, iniziò a fischiare rumorosamente. Non prestò troppa attenzione a Sherlock che spariva e trafficava con placida sicurezza tra le stoviglie, semplicemente proseguì ad osservare l’ambiente. Si soffermò a leggere uno spartito scritto a mano in quella che, ipotizzò, essere la sua calligrafia. A quello badò fino a quando, minuti più tardi, il suo ospite entrò in soggiorno depositando quindi sul tavolino un vassoio. Era un tè all’inglese preparato come quelli che non beveva da anni, ma che ricordava vagamente come il protagonista assoluto di quei noiosi pomeriggi invernali, in cui non aveva niente da fare se non studiare. Assomigliava a quelli di mamma, c’era tutto il necessario persino una torretta di biscotti alla marmellata adagiati su di un piattino.
«Latte o zucchero?» si sentì chiedere.
«Entrambi» annuì Sherrinford, accomodandosi alla poltrona. Stava per commentare con una battuta sarcastica, quando notò che le tazze erano tre. «Aspetti qualcuno? Quel dottor Watson, forse?»
«No, John non verrà. È al lavoro in questo momento, se desideri conoscerlo ti conviene passare la sera, ma anche in quel caso potremmo essere fuori» affermò, dando nel frattempo un’occhiata all’orologio che portava allacciato al polso.
«Immagino… inseguire criminali, catturare pericolosi assassini da consegnare a Scotland Yard. Una vita dura, la tua.»
«Aspettavo una persona, ma è in ritardo. Ma non pensiamoci, allora, Sherrinford!» esclamò Sherlock, cambiando tono ed apparendo molto più gioviale e festoso. Quasi fosse felice di vederlo, cosa che reputava impossibile. «Sei qui per offrirmi un caso?» gli chiese, con fare sorprendentemente entusiasta mentre affondava nella poltrona. Nel sentirsi porre quella domanda non poté proprio evitare di stirare un sorriso. Giocare. Era davvero quel che voleva? Beh, lui non si sarebbe di sicuro tirato indietro.
«Brillante come si dice» gli rispose, mellifluo «e ti faccio i miei complimenti perché sei decisamente migliorato dai tempi in cui ti disperavi per la morte di Redbeard.» Accadde di nuovo e questa volta fu ancor più evidente, sempre più sfacciato nelle reazioni che gli mostrava, nell’umanità che gli forniva su un piatto d’argento. Lo vide tenersi e restare per svariati istanti con la tazza sospesa di fronte alle labbra socchiuse. L’immagine di un idiota, pensò prima di rivolgere l’attenzione al proprio tè fumante. Purtroppo però, così come era arrivata, quella tensione svanì e subito venne celata. Oltretutto, Sherlock non lasciò trasparire altro se non una leggera ansia ed un lampo di turbamento, passato velocemente nelle sue iridi chiare. Eccolo lì, il suo essere come Mycroft. Alla fine in qualcosa si somigliavano. In quegli attimi rivide il suo fratello maggiore, era proprio da lui, il cercare disperatamente un contegno che non poteva avere e il rendersi ridicolo nel tentativo. Una maschera eccessivamente sottile per poter davvero celare qualche cosa, perché il sentimento di dolore che pervadeva il volto algido di Sherlock Holmes era talmente evidente, quanto era ridicolo il provare a nasconderlo. C’era però una cosa che Sherrinford sapeva bene, ovvero che ad un occhio disattento, quel viso da sbarbatello dava sul serio l’impressione di essere indifferente. Il che era compatibile con quello che la gente credeva di lui: un sociopatico. Se lo fosse stato per davvero, ora non ci sarebbe stata una vena di malinconia nel fondo dei suoi occhi ed un evidente turbamento non gli avrebbe increspato la fronte. Sherlock era emotivo tanto quanto Mycroft.
«Non farne un dramma, Sherly caro» mormorò Sherrinford, con fare beffardo e sorseggiando dell’altro tè. «Era solo un cane, per la miseria ed è morto più di trent’anni fa. Non è ora di superare il lutto? In ogni caso, e so di essere fin troppo generoso, ti concedo di cambiare argomento: sì sono qui per un caso. C’è un mistero che voglio sottoporti, un enigma sul quale mi scervello da tutta la vita e che ho bisogno di risolvere. E chi meglio del celebre consulente investigativo Sherlock Holmes, l’unico esistente al mondo, mi può aiutare a svelarlo?» Di nuovo stirò un sorriso, prima di portarsi la tazza alla bocca e bere una buona sorsata. In effetti, il tè era decisamente ben fatto. Aveva un ottimo sapore ed il latte era del giusto quantitativo, probabilmente era perché per anni non aveva potuto berne uno decente, ma era ugualmente ottimo. E mentre sorseggiava amabilmente, ripensò all’idea del caso. Era insolitamente affascinante, non era intenzionato a mettergliela in quei termini, ma lo stuzzicava parecchio associare suo fratello a un enigma da risolvere.
«Parla e sii sintetico, non perderti in chiacchiere inutili: odio quando la gente lo fa.»
«Molto bene» annuì Sherrinford, mettendosi più ritto e posando sul vassoio la tazza già vuota.
«Vedi, tutto ebbe inizio più di trent’anni fa, ma la faccenda non riguarda me personalmente. Ci sono delle… delle cose che mi piacerebbe sapere. Innanzitutto non è necessario che trovi il colpevole, conosco sia il nome della vittima che quello del carnefice.»
«E allora che fai qui? Se conosci il colpevole, è fatta. Tanti saluti e chiudi la porta quando esci.» Sherlock fece per alzarsi, ma Sherrinford ben sapeva come trattenerlo.
«Sono qui per il movente, per capire il perché» disse e sì, era sicuro d’aver finalmente ottenuto tutte le sue attenzioni. Niente più silenzi, solo parole. Le loro. Le sue, quelle dell’Holmes rinnegato. Finalmente poteva sbattergli in faccia ciò che pensava da tutta la vita. Era teso, nervoso e quel discorso che aveva bene in mente e che si ripeteva da anni, rischiò di non nascere nemmeno dalla tanta emozione. Calma. Non poteva cedere adesso, non per colpa della propria stupida frenesia.
«Prima di tutto immagino che ti interesserà sapere chi è il nostro omicida. Lo conoscerai, il suo nome è Sherlock Holmes. La vittima era il più grande dei suoi fratelli, Mycroft Holmes. Lui era… un ragazzo diverso dagli altri.»
«Lo immagino…» lo interruppe, sarcastico.
«Era molto riservato, pigro, svogliato, ma con un intelletto senza pari. Aveva ottimi voti a scuola e a dieci anni era riuscito a crearsi un notevole giro di amicizie all’interno dell’istituto che frequentava. Fatto che portò i genitori a credere che avesse abilità politiche e manageriali. Ma c’è dell’altro, Mycroft era un ragazzo che tendeva alla dipendenza. Oh, non ha mai fatto abuso di droghe, quello no, ma non riusciva a smettere di mangiare dolci. A quindici anni pesava già troppo per un adolescente, trascorreva i pomeriggi chino sui libri e con una scatola di biscotti nascosta nel cassetto della scrivania. Sua madre lo aveva messo a dieta, ovviamente, ma ogni tentativo di fargli perdere peso fu inutile. No, lui continuava ad ingozzarsi. Psicologi, dietologi e addirittura un prete! Nessuno servì mai veramente a qualcosa, come diceva sempre lui: quelle erano solo parole vuote ed imprecise. I genitori temevano che il loro intelligentissimo bambino sarebbe andato incontro ai problemi di salute tipici dell’obesità, come pressione alta, disturbi alle articolazioni ed alla circolazione, oltre che a guai cardiaci. Un giorno però, non conosco le modalità dell’accaduto, questi si ritrovò faccia a faccia con suo fratello. Il piccolo Sherlock Holmes, che con Redbeard a fianco ed una benda da pirata sull’occhio gli disse che era troppo grasso e che doveva perdere peso. E Mycroft dimagrì.»
«Una bella storia» lo interruppe il detective, nuovamente ironico. «Ma continuo a non afferrare il perché tu me la stai raccontando.»
«Beh, è semplice! Voglio sapere il motivo. Perché se Sherlock dice che Mycroft deve dimagrire, Mycroft dimagrisce. Perché se Sherlock afferma di voler studiare il violino, Mycroft gliene fa avere uno da milioni di sterline con il quale esercitarsi. Perché se Sherlock vuole giocare al piccolo detective, Mycroft fa in modo di fargli incontrare un gentile ed affabile Detective Ispettore di Scotland Yard pronto a farsi dare una mano. Perché se Sherlock Holmes uccide, Mycroft smuove l’intera Inghilterra per salvargli il culo. Perché?» Un leggero sorriso, purtroppo troppo sfuggente per poterlo notare, si fece largo sul volto del più giovane degli Holmes. Era parzialmente nascosto dalle mani congiunte sotto al mento, quindi, Sherrinford non ebbe modo di notarlo. Tuttavia, il suo divertimento soddisfatto straripò anche dallo sguardo ora più luminoso, furbo e sagace; pareva essere tutt’alta persona rispetto a qualche attimo prima. Per certi versi si ritrovò intimidito, come se i suoi soli modi di fare fossero in grado di metterlo all’angolo. Niente più fioretto, il loro era un incontro di pugilato.
«Io penso che tu stia commettendo un errore di fondo» gli disse Sherlock, poco più tardi.
«Ah, sì? E quale?»
«La domanda non è perché a me sì, ma come mai a te no.»
«Semantica. Questione di sfumature. Mettila come ti pare, ma è la stessa identica cosa» ribatté Sherrinford, prontamente.
«Non lo è affatto e c’è una sostanziale differenza tra le due cose. Del tuo discorso ho sentito solo una quantità infinita di parole senza senso e inesatte considerando che Mycroft non mi dà mai retta su niente o, fidati, la mia vita sarebbe ben diversa. Vuoi sapere come mai ho questo violino? O perché il fatto che io dica tutte le volte che lo incontro che deve dimagrire, lo mantenga così? Chiedilo a lui! La vera domanda è perché tu sei qui? Da me.»

Fu allora che capì. Che comprese che non era la stoccata finale quella che stava per sferrare, niente Uppercut.* La sua, alla fine, non era nulla di più che una timida difesa, un modo patetico e vile di tentare di portare la situazione a proprio vantaggio. Aveva molti pregi, Sherrinford Holmes, era intelligente, ironico, per qualcuno era addirittura bello e poi era straordinariamente portato per le chiacchiere. Era in grado di convincere qualunque persona a fare qualsiasi cosa, sua nonna gli diceva spesso che avrebbe venduto il ghiaccio agli esquimesi se solo ci avesse provato. Lui rideva e sosteneva che non era vero, ma non perché pensasse sul serio di non essere in grado, rideva perché amava i complimenti. Faceva di tutto purché gliene facessero altri, perché gli dicessero di nuovo che era bravo e intelligente, che era geniale tanto quanto Mycroft (se non di più). Nessuno aveva mai saputo fino a quale punto arrivasse la sua sociopatia, fin dove era disposto a manipolare gli altri per ottenere un minimo di soddisfacimento personale. Mentire era naturale come respirare. Sorridere fintamente, parlare per abbindolare erano tutte abilità che Sherrinford aveva imparato fin da quando andava alla scuola primaria. Di Mycroft ne aveva sempre invidiato il suo riuscire a stare da solo e il non farsi problemi, riusciva a farsi scivolare addosso le offese in un modo che a lui non era mai riuscito. Non dava mai ascolto a nessuno e faceva sempre di testa propria. A undici anni aveva già deciso la carriera che avrebbe fatto, a dodici aveva stabilito un piano scolastico e lavorativo. Aveva la mente svelta e avanti, i pensieri si susseguivano con la stessa rapidità con la quale divorava le noccioline mentre leggeva un trattato di politica estera. A tredici anni parlava sei lingue fluentemente, a sedici erano diventate già una decina. Era un genio. Uno che non aveva amici perché aveva scelto di non averne, uno di quelli il cui ego era talmente smisurato da essere convinti di contare al pari di Dio. Questo era il Mycroft che aveva sempre conosciuto e sì, venerato. Per questo il giorno in cui i suoi genitori gli dissero che Mickey era a dieta e che, per cena, aveva mangiato soltanto un piatto di verdure bollite e che aveva gettato nell’immondizia tutti i suoi dolciumi (soltanto perché il piccolo Sherly gli aveva ordinato di dimagrire), Sherrinford non capì. Sul momento non se ne rese conto, ma il suo tormento iniziò da quel momento per poi crescere a dismisura fino a divenire una vera e propria ossessione. In questo, il carcere non lo aveva aiutato. Anzi, aveva alimentato la sua psicosi fino a farla diventare insostenibile. Anche pensandoci in futuro, Sherrinford non seppe dire se suo fratello si fosse accorto della sua pazzia. Dello stato di follia nella quale versava e che celava perfettamente dietro i sorrisi aperti e le battute sarcastiche. Ma sul momento, trovandosi di fronte a quegli occhi carichi di provocazione e divertimento, tentò disperatamente di non perdersi. Non doveva cedere per nessuna ragione. Doveva mantenere la freddezza e il distacco che lo avevano sempre contraddistinto. Il problema, era che Sherrinford non era mai stato davvero controllato. Era finito in galera perché aveva perso la ragione ed ucciso una persona e sapeva bene di essere pronto a rifarlo, se solo gli si fosse prospettata l’occasione. Anche quel giorno, quindi, Sherrinford perse il senno. Cadde in quel pozzo nero e profondo che era la sua follia, là in quel luogo dove non sarebbe mai più riuscito ad uscire. Ma di questo ancora non se ne rendeva conto, per ora tutto ciò di cui aveva bisogno era di sentire i gemiti strozzati di Sherlock mentre lo soffocava. Non esisteva una ragione: lo voleva uccidere. Doveva farlo. Se solo fosse riuscito a raggiungerlo… Tolto di mezzo lui, avrebbe sedato una volta per tutte la sua ossessione. (E sarebbe stato libero, finalmente). Un’ossessione che andava avanti da tutta la vita e che lo tormentava fin da quel giorno lontano, quando gli avevano detto che al piccolo e vivace Sherly, Mycroft aveva dato retta. Ad un occhio esterno le motivazioni che lo spingevano a saltargli al collo e a volerlo elimin… No, a volerlo uccidere, si corresse, non avevano ragione di esistere. Non aveva nessun senso assassinare un fratello per il solo ed unico motivo di sedare la propria gelosia. A lui però non importava e carico della sua cieca follia, si alzò di scatto per poi gettarsi contro di lui come una furia. L’idea di non essere ben voluto da Mycroft, di non valere tanto quanto Sherlock gli faceva montare una rabbia violenta, indomabile. Doveva uccidere. Era una rabbia oscura, una cattiveria infinita e per la quale avrebbe gridato con tutto il fiato che aveva in corpo. Non si rese conto di niente, né di essere balzato in piedi e di aver quasi completamente azzerato la distanza che la divideva, né di Mycroft che era entrato a passo rapido e che adesso gli premeva contro la carotide la punta dell’ombrello. Capì che era stato fermato soltanto quando posò lo sguardo sul suo fratellone, da poco entrato. Nella follia di quel momento, Sherrinford riuscì a scorgere una vena di paura dipingere quel volto altrimenti severo, era in affanno e gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Aveva corso per potere arrivare in tempo. Per poter salvare il suo adorato Sherly. Di nuovo, quindi, aveva messo lui al primo posto e lui era stato scansato da parte.
«Vuoi sapere la differenza tra te e lui, fratello adorato?» sibilò Mycroft, con fare cattivo. «Sei avido e manipolatore, sei un pazzo nel vero senso della parola. Sei un assassino. La tua è una furia folle, profonda e tetra, un pozzo senza fine di malvagità. Hai ucciso una persona perché ti piaceva farlo, perché hai perso il controllo e non sei stato capace di fermarti. Anche Sherlock è un assassino, ma per quanto la sua azione fosse stata deprecabile, lui ha ucciso per proteggere le persone che amava. Tu invece lo hai fatto per te stesso e per avallare la tua cieca furia omicida. Ti avevo avvertito di stare lontano da lui, eppure sei qui. Guardalo perché non lo vedrai mai più o te lo giuro, la prossima volta che ti vedo attorno a lui, io ti uccido e sconterò tutta la galera che mi verrà data e non mi pentirò un solo istante d’averti fatto fuori. E ora precedimi, Sherrinford, la strada per l’inferno è lì che ti aspetta.»

Dopo quelle parole, non sentì altro che le manette ai polsi e la stretta forte di un agente in abito scuro che lo trascinava a forza, e con poca grazia, via dal 221b di Baker Street. Via da Sherlock Holmes. Non vide quindi, Mycroft e Sherlock guardarsi negli occhi per pochissimi istanti e farlo nella maniera più sincera e onesta. Non vide Sherlock stendere un sorriso e pronunciare un timido: grazie e non vide nemmeno il rossore di Mycroft divampargli sulle adorabilmente sulle guance. No, Sherrinford non notò niente di tutto questo. Perché lui sorrideva. Di follia, ma sorrideva. Tutto sommato poteva considerarsi estremamente soddisfatto, aveva capito quale radice aveva l’attaccamento di Mycroft e ciò gli bastava. Semplicemente era successo che un giorno di tanto, tanto tempo prima, Mycroft avesse preferito uno tra i suoi fratelli. E nel suo infinito egocentrismo aveva deciso che avrebbe amato soltanto uno dei due. Forse era stato lo sguardo del piccolo Sherly a fianco di Redbeard, a stregarlo. Magari era stata l’intelligenza e il coraggio che il bambino mostrava, o poteva essere tutto quanto assieme. Ora come ora non importava perché Mycroft aveva compiuto la sua scelta e, nella sua mente, per nessun altro ci sarebbe stato spazio che per Sherlock Holmes.



Fine
 

*Uppercut: In italiano è chiamato montante. È un colpo del pugilato, un pugno che viene dato dal basso verso l’alto e che viene sferrato per colpire la parte bassa del mento. Di solito è un pugno che destabilizza l'equilibrio del pugile, dopo questo con un gancio lo si butta a terra. Può essere un colpo decisivo, a seconda degli incontri e delle occasioni ovviamente.
   
 
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