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Autore: HellWill    19/01/2015    0 recensioni
(Ho visto questa challenge (goo.gl/XBoRTK) e non potevo non farla.)
"La ragazza sospirò e si sedette di nuovo sul letto, fissando il pavimento: la spalla le pulsava, viva, anche se non sapeva ancora per quanto.
Era vero: aveva conosciuto Roland in un bar, sei anni prima, al suo arrivo a New York e lui l’aveva aiutata ad entrare in contatto con il vampiro che aveva ucciso Samuel, il suo migliore amico, quando Luce aveva appena dieci anni: dal giorno in cui Sam era morto, non era passato un solo giorno senza che la sua mancanza si fosse prepotentemente fatta sentire. Così, quando Luce aveva compiuto vent’anni era partita alla volta di New York per avere la sua vendetta… E, quando infine l’aveva raggiunta, la ragazza non si era sentita troppo soddisfatta: perché lei si potesse sentire in pace con se stessa, aveva pensato, avrebbe dovuto sterminare l’intera razza di non-morti; da qualche parte nel mondo, un altro vampiro stava sbranando un altro bambino, e il pensiero le era intollerabile…
Ragion per cui, si era attrezzata e la caccia era iniziata."
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '365 DAYS WRITING CHALLENGE'
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18 gennaio 2015
Irony

Luce ansimò e morse il cuscino, trattenendo le lacrime; il bruciore alla spalla ferita era insopportabile e chiudendo gli occhi ebbe la tentazione di perdere i sensi e smettere di resistere, ma un duro nocciolo di orgoglio le fece stringere i denti e a continuare ad artigliare le coperte; Roland che le disinfettava il morso non migliorava decisamente le cose, e la ragazza lanciò un breve urlo gorgogliato quando lui glielo cauterizzò. Lanciò un gemito, restando immobile con i muscoli tesi, e diede un debole pugno al materasso con l’altra mano, sfinita e con i cerchi agli occhi: si sentiva più vecchia di venti anni in una sola notte, ma una rabbia cocente le animava lo sguardo.
«Il veleno, seppure fosse entrato in circolo, dovrebbe essere stato sconfitto in tempo» le spiegò Roland, e Luce si tirò a sedere con una smorfia, mentre il ragazzo le fasciava la spalla: i capelli neri, che gli cadevano in morbidi boccoli sulla fronte nonostante li avesse tagliati da poco, ondeggiarono lievemente mentre studiava il grosso morso slabbrato, rosso ai bordi, che spariva lentamente sotto le bende.
«Questa è una buona notizia» osservò Luce, secca, tamburellando le dita sul materasso, e osservando con una fitta di paura nello stomaco la fasciatura che le stringeva la spalla.
«”Dovrebbe”» le fece notare Roland, e Luce affilò lo sguardo. «Fra il covo che abbiamo distrutto e la nostra base ci sono volute comunque due ore d’auto, per cui.. tieni conto che devono passare almeno ventiquattro ore dal morso per stabilire se un essere umano è fuori pericolo o meno. E tu non sei umana, hai un metabolismo accelerato».
«Dodici ore è una buona stima?».
«Ni. Possiamo dire che in dodici ore sapremo se sei viva o morta» sorrise appena, e Luce distolse lo sguardo mentre prendeva il borsone che si era portata dietro quella sera: dentro vi erano le lame sporche di sangue nero e blu, il sangue dei vampiri, e prese a pulirle con la delicatezza con cui avrebbe trattato delle amanti, mentre continuava a parlare con l’amico.
«Sono già passate tre ore da quando sono stata morsa, e un’ora da quando ho preso l’antidoto; da qui alla base ci abbiamo messo una mezz’ora per scaricare l’auto e per disinfettare e cauterizzare la ferita… devono passare altre nove ore perché io sia fuori pericolo?».
«Pressappoco. Luce, tieni conto che l’antidoto è sperimentale: potrebbe non funzionare, potresti morire per la reazione chimica con il veleno, potresti… oh, non mi guardare in quel modo» protestò, a disagio, distogliendo lo sguardo, mentre Luce aveva fissato i suoi occhi viola in quelli verdi del ragazzo. Continuò a pulire le armi, meditabonda, e ogni tanto apriva e chiudeva la mano della spalla destra.
«E in queste nove ore come mi accorgerò se l’antidoto ha funzionato oppure…?» chiese, profondamente disgustata dall’idea che stava prendendo forma nella sua mente. Lo sguardo le cadde sulla pistola, una Desert Eagle color argento che aveva acquistato cinque anni prima, al suo arrivo a New York; lentamente, posò sul letto i coltelli in acciaio con la punta rivestita in argento e, con gesti misurati, prese l’arma da fuoco e la caricò con i suoi proiettili speciali ricoperti d’argento colato.
«Beh, se la ferita inizia ad andare in necrosi e poi a guarire completamente, puoi star certa che qualcosa non va» Roland fece un sorriso forzato e Luce gli mise in mano la pistola, una freddezza lucida che rendeva i suoi occhi viola ancora più terribili di quanto non fossero in precedenza.
«Se diventassi un vampiro, sparami qui, in fronte» mormorò, toccandosi in mezzo alle sopracciglia, guardando negli occhi il suo più fidato collega. «Staccami la testa con uno dei miei coltelli e bruciala: disperdi la cenere in un fiume; poi brucia anche il resto del corpo, e disperdi in un altro fiume tutto quanto. Mi hai capito bene, Roland?».
«Non puoi chiedermi una cosa del genere» protestò il ragazzo, pur stringendo le mani sul calcio della pistola, con uno sguardo che sembrava più irritato che spaventato. «Noi due siamo una squadra! Abbiamo dato la caccia ai vampiri insieme per cinque anni! Cinque anni, Luce!».
La ragazza sospirò e si sedette di nuovo sul letto, fissando il pavimento: la spalla le pulsava, viva, anche se non sapeva ancora per quanto.
Era vero: aveva conosciuto Roland in un bar, sei anni prima, al suo arrivo a New York e lui l’aveva aiutata ad entrare in contatto con il vampiro che aveva ucciso Samuel, il suo migliore amico, quando Luce aveva appena dieci anni: dal giorno in cui Sam era morto, non era passato un solo giorno senza che la sua mancanza si fosse prepotentemente fatta sentire. Così, quando Luce aveva compiuto vent’anni era partita alla volta di New York per avere la sua vendetta… E, quando infine l’aveva raggiunta, la ragazza non si era sentita troppo soddisfatta: perché lei si potesse sentire in pace con se stessa, aveva pensato, avrebbe dovuto sterminare l’intera razza di non-morti; da qualche parte nel mondo, un altro vampiro stava sbranando un altro bambino, e il pensiero le era intollerabile… Ragion per cui, si era attrezzata e la caccia era iniziata.
Roland l’aveva aiutata, forse per antipatia verso i vampiri o per simpatia verso di lei, e contattando altri cacciatori di vampiri sparsi per New York erano riusciti a creare una rete di protezione più o meno estesa, con territori divisi equamente e da liberare dalla piaga dei non-morti che si fingevano esseri umani.
Ed ora, quasi per ripicca, il vampiro che Luce inseguiva da ormai due mesi la aveva morsa e, come bonus, era persino riuscito a scapparle nella confusione, nonostante lei gli avesse sparato ad una gamba con un proiettile d’argento. Le due ore in auto, mentre il veleno le provocava la tachicardia, erano state le più lunghe della sua vita; le venne spontaneo un sorriso amaro.
«Dalla prossima volta, ci portiamo dietro l’antidoto. Non importa quanto è ingombrante o pesante» disse, alzando gli occhi viola sul ragazzo, alludendo alle ragioni per cui lo avevano sempre lasciato alla base. «Al massimo lo lasciamo in auto, ma almeno ci sono meno rischi» scrollò le spalle, e Roland sorrise appena, annuendo.
«Ti va di giocare e mangiare qualcosa? Nove ore sono lunghe da passare aspettando qualcosa che potrebbe non accadere… se ci distraiamo passeranno più in fretta» suggerì, accendendo la consolle, e Luce prese il joystick senza sorridere. Giocarono per un paio d’ore, riuscendo persino a scambiarsi qualche esclamazione e un paio di sorrisi, e quando la tensione fu sciolta misero in pausa e mangiarono un po’ di carne prelevata dal congelatore e cotta sulla piastra, velocemente. Prima di riprendere a giocare, Roland controllò la ferita di Luce, svolgendo delicatamente le bende che la avvolgevano: la pelle intorno sembrava più rosea, quasi stesse guarendo, e il ragazzo la toccò, incerto se fosse una cosa buona o meno.
«Allora?» la ragazza lo guardò, impaziente e seccata, e Roland sorrise appena.
«Sta.. guarendo» confessò, in tono incerto, e lei affilò lo sguardo.
«Ed è buon segno?» chiese, impassibile.
«Ti ho sempre vista guarire molto in fretta da qualunque ferita, ma… non lo so, Luce. Con il fatto che non sei umana, io… non so se…» esitò, e Luce affilò lo sguardo mentre Roland taceva, imbarazzato.
Senza dire una parola, la ragazza si alzò dal tavolo e andò in bagno con il proprio bicchiere in mano: lo riempì d’acqua, portandolo con sé e poggiandolo sul comodino. Roland la osservò, senza capire, e lei immerse due dita in acqua.
«I vampiri bruciano al contatto con l’acqua e con i raggi del sole, e ogni ora o ogni due ore io immergerò le dita in acqua; appena ci rendiamo conto che al contatto mi ustiono, mi sparerai» disse, con un mezzo sorriso, asciugandosi le dita sulla canottiera. Roland la osservò senza proferire parola, poi scrollò le spalle.
«Per ora, nulla di preoccupante» commentò, porgendole il secondo joystick, e Luce afferrò il primo con un sorriso angelico.
«Casa mia, player uno mio» disse, e Roland fece una smorfia; con dei sorrisetti stampati sul viso ripresero a giocare, giurandosi distruzione a vicenda.

Passate tre ore a giocare, Roland era dovuto andare via: stava albeggiando, e lui doveva andare a lavorare; per fortuna di Luce, invece, lei poteva contare sul patrimonio dei genitori a coprirle qualsiasi tipo di spesa, per cui una volta che il ragazzo se n’era andato si era stesa sul letto ad ascoltare il battito del proprio cuore ed era caduta in un sonno leggero ed agitato, popolato di incubi pieni di vampiri deformi e ghignanti.
Quando aprì di nuovo gli occhi, restò a fissare il soffitto con un sorriso ad illuminarle il volto: lo sguardo guizzò sulla sveglia, che segnava chiaramente che erano passate più di dodici ore dal morso, e lei era viva, incredibilmente viva!
Si stiracchiò e si sedette sul letto, ridacchiando, e si diresse in bagno per sciacquarsi il viso; si chiese cosa ci fosse da mangiare di già pronto in frigo, mentre si scioglieva il bendaggio e si rimirava la spalla dalla pelle mulatta intatta, con solo una sottile e leggera slabbratura più chiara a simboleggiare che lì una volta c’era una ferita grondante di veleno. Pur vedendo la ferita completamente guarita, Luce si rese conto che le mancava qualcosa; la sensazione persisteva, nonostante non riuscisse a capire cosa fosse quella mancanza che avvertiva. Scosse il capo, cercando di scacciare quella sensazione, e si buttò l’acqua sul viso; boccheggiò: il freddo divenne caldo, ed urlò di dolore, mentre arretrava precipitosamente e cadeva a terra. Chiuse gli occhi, tentando di respirare, e il terrore si fece strada nel suo petto, lì dove percepiva con chiarezza che mancava qualcosa. La sua mente si svuotò, piena solo di orrore e della stessa sillaba ripetuta all’infinito.
“No, no, no, no, no, no, no, no, no, no, NO!”.
Si alzò lentamente dall’angolo del bagno in cui si era rannicchiata, mentre l’acqua continuava a scorrere nel lavabo, e si guardò le mani ustionate che, lente ma costanti, si ricostruivano e ritornavano come prima; sentì le lacrime pizzicarle gli occhi, mentre chiudeva il rubinetto e sollevava lo sguardo sullo specchio d’argento che aveva comprato in un negozio antiquario tempo prima: ciò che poté notare furono i suoi occhi viola, spenti, che sembravano biglie; la pelle era terrea e smorta, e i capelli avevano perso lucentezza… in breve, era un cadavere.
Luce arretrò: si sentiva un nodo in gola, e fu a fatica che si ricordò che nell’armadio, un semplice due ante Ikea, c’era uno specchio d’alluminio; si precipitò nel monolocale e spalancò l’anta del mobile con rabbia, portandosi le mani al viso e guardandosi: una Luce normale, forse un po’ più adulta rispetto alla ragazza che era partita per New York, ricambiò il suo sguardo: le sue iridi viola erano cerchiate di un rosso chiaro, confondendosi però con il suo colore di occhi naturale, quell’inumano viola ametista; i capelli bianchi sembravano aver acquisito lucentezza propria, quasi brillassero d’argento – il massimo dell’ironia –; e la sua pelle, prima semplicemente mulatta e scura, ora sembrava unta d’olio, brillando di una luce quasi dorata.
La ragazza restò a guardarsi, ammaliata e al tempo stesso disgustata: quella non era lei. Lei era il cadavere che aveva visto nello specchio d’argento, e presto avrebbe anche iniziato a puzzare, probabilmente, una puzza di morte che gli esseri umani avrebbero scambiato per un odore irresistibile: faceva parte del corredo da predatori dei vampiri.
Richiuse l’armadio, sentendo un sapore amaro in bocca, raggiunse il telefono cellulare che era ancora chiuso in una tasca del borsone: con rapidi gesti secchi compose il numero di Roland e, quando lui gli rispose, gli disse con voce fredda: «Chiedi un permesso da lavoro. Te lo pago io. Devi fare una cosa per me».
Senza dargli il tempo di rispondere, attaccò e si affrettò a scrivere un biglietto, lasciandolo sul tavolo: “L’ironia della vita: sono parte del problema”. Afferrò la Desert Eagle dal comodino e se la puntò alla tempia, chiudendo gli occhi e sentendo la struggente mancanza del battito del proprio cuore che, assente, le riempiva il corpo di un silenzio attonito ed incredulo.
E, proprio mentre stava per premere il grilletto, Roland aprì la porta; vedendola in quel modo, ci mise una frazione di secondo a balzarle addosso con gli occhi spiritati e a sbraitarle contro, strappandole la pistola dalle mani fredde.
«Ma sei pazza!? Che diavolo ti prende!?».
«Che sono morta, Roland! Sono fottutamente morta!» ringhiò la ragazza, liberandosi di lui con un gesto brusco e scostandolo di lato, allontanandosi da lui rabbiosa come un animale in gabbia: improvvisamente, Roland aveva un odore vivo, sinuoso, che le si insinuava nel naso e nel petto accendendo un fuoco rovente che le faceva venire l’acquolina in bocca, ma a lei l’orrore seccava la gola. Gli fece un cenno verso la pistola, con gli occhi viola che brillavano implorando pietà.
«Sparami. Sparami, Roland. Ti prego».
Il ragazzo scosse il capo e mise la sicura, limitandosi a tirare fuori il cellulare e a comporre un numero, ma Luce glielo prese dalle mani e mise il ricevitore sul seno, coprendolo.
«È proprio necessario?» sibilò, a denti stretti, e lui ricambiò con uno sguardo penetrante.
«Esiste un codice da seguire, in questi casi» rispose lui, deciso. «E dobbiamo rispettarlo».
«Pronto?» una voce profonda rispose dal telefono, e Luce prese un sospiro.
«Stan, sono Luce».
«C’è qualche problema?» chiese, con la formula di rito, e Luce chiuse gli occhi.
«Sono parte del problema» mormorò, e un lungo silenzio seguì quell’affermazione, dall’una e dall’altra parte.
«Hai due scelte» mormorò infine l’uomo. «Consegnarti, o continuare».
«Continuare?» sussurrò Luce, sbattendo le palpebre.
«Non possiamo andare avanti alla cieca, penetrando in localizzi da dieci individui o poco meno… già da qualche tempo cercavamo alleati fra i loro membri più deboli, senza successo. Ma tu, essendo nuova del loro giro, potresti infiltrarti senza problemi e, una volta effettuata una breve scalata nei loro ranghi… portarli in crociera».
Portarli in crociera: ucciderli tutti, in quel caso dall’interno; a Luce formicolarono le dita di eccitazione e sorrise tesa sotto lo sguardo attento di Roland, mentre sentiva una quieta sete di vendetta ribollirle nello stomaco.
«Non.. non sarebbe più sicuro se mi consegnassi?» mormorò, nervosa, e Stan sospirò dall’altro capo del telefono.
«Cambierebbe qualcosa, se tu ti consegnassi fra un anno o due?».
«Consumerei delle vite nel frattempo» sussurrò Luce, sentendosi un nodo in gola al solo pensiero.
«Possiamo procurarti vie alternative, e lo sai».
Luce esitò e Stan sospirò di nuovo.
«Sei una di noi, Luce, non una di loro. Ucciderti sarebbe difficile per chiunque di noi, sei come una figlia» le disse dolcemente, e Luce chiuse gli occhi, pur provando puro disgusto per la creatura che era diventata.
«Continuo» mormorò, e poté quasi sentire Stan sorridere dall’altro capo del telefono.
«Bene. Dopodomani ci sarà una riunione e delineeremo un piano, discutendo il tuo ruolo nello stesso. Ora passa il telefono a Roland, devo dargli delle istruzioni precise per quanto ti riguarda».
A malincuore, Luce passò il cellulare al ragazzo e si avvicinò al letto, prendendo con attenzione quasi spasmodica l’innocuo bicchiere d’acqua dal comodino e buttandolo nel lavandino con attenzione; la ragazza osservò l’acqua andare giù sulla ceramica, trovando affascinante che una cosa che prima era così innocua e necessaria alla sua sopravvivenza ora fosse così intoccabile e pericolosa.
«Luce» la chiamò Roland, e lei lo raggiunse tesa.
«Roland» mormorò, e il ragazzo sorrise appena.
«Ecco come stanno le cose:» iniziò l’amico, camminando avanti e indietro per la stanza. «ti affideremo dei documenti falsi che attestano che sei anemica, e che per questo motivo hai bisogno di continue trasfusioni; tuttavia la tua pelle soffre anche di mancanza di melanina, per cui verrà un infermiere qui a casa tua o dove meglio desideri, e potrai utilizzarlo come meglio ti.. ehm.. come meglio vorrai» disse, e sembrava avere la gola secca. Luce si sedette sul limite del materasso e tamburellò le dita sul copriletto, sentendo la testa scoppiarle di domande.
«Posso bere… altro?» chiese, esitante, e Roland sorrise.
«Qualunque cosa, tranne l’acqua».
«Almeno una buona notizia» mormorò, e Roland ghignò.
«Certo, beh, sarà un problema per lavarti» ridacchiò, e Luce affilò lo sguardo, poi realizzò che l’acqua le era preclusa e scattò in piedi, disperata.
«No! Come diavolo farò a fare le mie interminabili docce calde?» si sentiva sull’orlo delle lacrime, ma Roland sembrava parecchio divertito.
«Mai sentito di quelle contesse accusate di vampirismo che facevano il bagno.. nel sangue di ragazze vergini? O nel latte d’asina?» ghignò, e Luce gli lanciò contro un paio di cuscini, per niente divertita.
«Idiota! Io ho bisogno di lavarmi! È una cosa.. psicologica!» esclamò, infuriata, poi come un’onda di marea che si ritira si limitò a sedersi sul tappeto, corrucciata. «Non voglio essere morta. Non ero pronta. Amavo sentir battere il mio cuore» sussurrò, sentendo gli occhi pizzicare, e Roland le batté una mano sulla spalla, impacciato.
«Tecnicamente, potrai ancora sentirlo.. se ti nutri abbastanza e abbastanza spesso».
«Non ho alcuna intenzione di rubare trasfusioni a chi ne ha davvero bisogno» ribatté Luce, contrariata, e Roland sorrise dolcemente.
«Non tutte le sacche di sangue che vengono prelevate vanno bene per le trasfusioni: a volte si scopre che i donatori hanno mentito e che erano diabetici, o avevano delle malattie a cui ora tu, essendo una non-morta, sei completamente immune… stai facendo un grosso favore alla comunità, così il sangue non utilizzabile non deve venire smaltito in modi inquinanti».
Luce sorrise, rincuorata, e osservò il ragazzo, con espressione triste.
«Che ironia» mormorò. «Sono finita per diventare ciò che più voglio distruggere al mondo».
   
 
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