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Autore: Michan_Valentine    21/01/2015    3 recensioni
A due anni dalla battaglia per la salvaguardia del Pianeta, Vincent Valentine si ritira nel villaggio di Kalm senza dire niente ai suoi amici. Ma Yuffie Kisaragi e le questioni irrisolte non tarderanno a fargli visita.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sephiroth, Un po' tutti, Vincent Valentine, Yuffie Kisaragi
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Advent Children, Contesto generale/vago
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Si strinse nelle spalle, si allacciò le braccia al corpo e continuò a salire lentamente lungo il crinale, sfidando la tormenta a testa bassa. Il vento ululava e gli riversava addosso turbinanti fiocchi bianchi, infrangendosi su di lui come un’onda impetuosa, talora rallentandolo, talora spingendolo indietro lungo il cammino. Una sferzata più violenta delle altre sollevò da terra cospicue spolverate di neve che gli s’infilarono fra le pieghe dei vestiti, fra le labbra secche e negli occhi, disorientandolo ulteriormente e costringendolo a fermarsi.

I capelli ondeggiarono e gli coprirono il volto, la visuale, per attimi che parvero infiniti. Il mantello sbatté da una parte all’altra, trascinato dalle correnti impietose, e andò ad avvolgergli le gambe, i polpacci in un’infida morsa; mentre l’aria gelida gli trafiggeva le membra e gli tagliava le gote alla stregua di un coltello. In un simile contesto perdere i punti di riferimento e finire sul fondo di un crepaccio era quanto di più facile, considerò.

Riprese la marcia e tornò ad arrancare, a sprofondare i piedi nella neve a ogni passo, curvo sotto il peso delle intemperie. La coltre gli raggiungeva le ginocchia, ormai, e il ghiaccio gl’incrostava la fascia attorno alla testa, i pantaloni e la parte superiore del soprabito, rendendo la stoffa rigida e poco confortevole. Perfino respirare era doloroso ed estenuante. La gola e i polmoni bruciavano dal freddo a ogni respiro; mentre il fiato andava via via accorciandosi, vuoi per la fatica, vuoi per la rarefazione dell’ossigeno. Per chi era meno resistente di lui doveva essere addirittura insopportabile; e il pensiero volò alla sua guida.

Si scansò i capelli dalla faccia, una, due volte; poi si schermò il viso con il braccio e mandò lo sguardo al pendio, gli occhi ridotti a due fessure. Innanzi a sé, a stento distinguibile attraverso la cortina di nevischio, Red XIII si muoveva faticosamente, solcando la bianca e gelida distesa come una barca avrebbe fatto con l’acqua. Tuttavia non sembrava in difficoltà, ben piantato sulle quattro zampe. Si tranquillizzò appena e spostò l’attenzione altrove. Più sopra, sullo sfondo e fra le cime aguzze delle montagne, s’innalzavano i bordi irregolari del cratere che era stato teatro dello scontro che aveva deciso le sorti di tutto il Pianeta. E dell’umanità. Una sagoma scura che svettava minacciosa sul candore del paesaggio. E il dubbio s’insinuò rapido nella mente, gravando il corpo più della bufera: possibile che Sephiroth stesse tornando proprio lì? Nel buco da cui era uscito tre anni prima…

Si umettò le labbra riarse dal gelo e non trovò risposte, solo altre domande; e, ammesso che fosse diretto proprio lì, si chiese il perché di una simile follia. Forse l’interrogativo più importante e insidioso di tutti. Un brivido gli risalì la schiena, ma non seppe se attribuirlo al freddo lancinante o alla pura inquietudine. Scacciò le congetture e si concentrò sul cammino di per sé impervio. Non poteva restare indietro. Doveva mettere un piede innanzi all’altro, farsi largo fra la neve e seguire la macchia rossa nella foschia. Doveva trovare Sephiroth. Di conseguenza tutto avrebbe acquistato di senso. Perciò strinse i denti, rafforzò la stretta delle braccia e continuò a salire lentamente, accompagnato dal sordo fischio del vento.

Più avanti deviarono dal percorso e sorpassarono un cumulo di grosse rocce, appena riconoscibili dalle creste che tagliavano il ghiaccio soprastante. Se lo lasciarono alle spalle; e per un tratto costeggiarono un pericoloso dislivello di cui nemmeno si scorgeva il fondo finché sbucarono nuovamente lungo il pendio da cui si intravedeva la cima, senza che potesse quantificare il tempo passato. E il rischio corso. Spaziò con lo sguardo, alla ricerca di lui, ma incappò sempre e soltanto nella bianca, quasi accecante foschia che rendeva tutto indistinto. E frustrante. Ciononostante notò che la sagoma rossa innanzi a sé era diventata improvvisamente più grossa e definita. Red XIII si era fermato, realizzò. Di rimando si schermò col braccio, assottigliò le palpebre e cercò di ricavare quante più informazioni possibili. Vide il felino chinare il capo e analizzare attentamente la coltre; poi sollevare il muso e scandagliare l’aria circostante, forse alla ricerca di odori trascinati dal vento. Probabile che avesse fiutato qualcosa. Riacquistò determinazione e accelerò il passo, combattendo strenuamente la corrente che lo spingeva indietro. Tuttavia non fece in tempo a coprire la distanza che li separava, perché l’altro voltò il capo e lo puntò di lontano.

“Da questa parte!” urlò; e si gettò all’inseguimento senza dargli il tempo di dirsi d’accordo.

Vide Red XIII balzare in avanti e gettarsi all’inseguimento, creando dei profondi buchi nella neve a ogni, poderoso salto. Poco dopo il nevischio l’inghiottì, celandolo alla vista. Soltanto la coda di fuoco del felino s’intravedeva ancora oltre la cortina, descrivendo ampi archi e lasciando dietro di sé lunghe scie luminose. Balzò a sua volta in quella direzione e sfruttò le tracce lasciate dal compagno per muoversi più velocemente. Di rimando le raffiche l’investirono con maggiore violenza e il ghiaccio gli s’infranse addosso senza clemenza, scivolandogli sulla pelle come vetro.

Quando raggiunse il felino, il fiato gli mancava e il petto gli bruciava terribilmente. Persino la ferita risentiva dell’aria gelida e pulsava dolorosamente al di sotto dei vestiti. Suo malgrado accusò un giramento di testa. Ondeggiò, complici le correnti, ma perseverò in piedi. Lì di fianco, invece, Red XIII stava scavando fra la neve con le zampe anteriori.

“Qui.” comunicò; e il vento si portò via le parole.

Piegò le ginocchia e sedette sui talloni, protendendosi da quella parte con il busto. Sotto la neve caduta di fresco s’intravedeva il corpo di uno dei soldati che aveva attaccato casa di Abigail. Era riverso a terra accanto al proprio fucile, la faccia sprofondata nella coltre. Sotto al cadavere s’allargava una pozza scura, che spiccava terribilmente sul restante candore. Sangue. Una zaffata dolciastra gli raggiunse le narici, ma non palesò disgusto. Strinse le labbra, invece, protese le braccia da quella parte e aiutò Red XIII a portare il cadavere allo scoperto, spalando la neve con ambo le mani. Appena possibile afferrò l’uomo per le spalle e lo voltò, ponendolo supino. La testa del cadavere s’inclinò appena, rigida come legno. Il casco era munito di visore e gli copriva il viso per metà, dacché si era spaccato all’altezza di labbra e mento. Un cospicuo rivolo di sangue scuro gli imbrattava la bocca e gli scendeva fin sotto il collo, rappreso. La pelle del soldato era invece bluastra e lasciava intendere che il sangue gli si fosse già congelato nelle vene. Date le condizioni atmosferiche, comunque, era difficile stabilire da quanto fosse deceduto.

Si focalizzò sui restanti dettagli. Uno squarcio insanguinato s’apriva sul costato dell’uomo. Netto, regolare. Un colpo unico che gli aveva spezzato lo sterno e attraversato tanto il cuore quanto i polmoni. La divisa del soldato invece era blu e grigia, con particolari rifiniture blu elettrico che percorrevano la stoffa di maniche e pantaloni in tutta la lunghezza. Tuttavia non c’era nessun segno distintivo o logo riconducibile alla Shinra; tanto più che non aveva mai visto simili uniformi, di certo non fra i Turk. Dunque durante lo scontro ci aveva visto giusto. E ora che i dubbi erano divenuti certezze la presenza di Reno e Rude sulle montagne acquisiva delle nuove, misteriose sfumature che prescindevano dall’obbiettivo dei nemici sconosciuti; e l’ennesima domanda gli si delineò nella mente senza risposta: che cosa c’entrava Rufus Shinra in tutta la faccenda? Dopotutto aveva visto con i suoi occhi la squadra di ricerca della Shinra estrarre la Masamune da sotto la neve…

Si alzò e il vento s’infranse su di lui in un turbinio di neve, strattonandolo per il mantello.

“Proseguiamo e ricongiungiamoci a Cloud.” incalzò, coprendosi gli occhi con la mano.

Tuttavia la sua guida disattese le aspettative e perseverò immobile, a dispetto del coraggio e del vigore dimostrati fino a quel momento. Poi scosse il capo, rilasciò un piccolo sbuffo di vapore e lo fissò dal basso con espressione greve, le orecchie basse. Il ghiaccio gl’incrostava il manto e il vento gli faceva ondeggiare violentemente coda e criniera, ma, fermo sulle robuste zampe e col capo eretto, Red XIII appariva ugualmente fiero.

“Mi dispiace, Vincent.” interloquì “Ma Cloud e Barret non sono passati di qui.”

Considerò l’eventualità che i due fossero dispersi fra le creste ghiacciate, ma non capì il senso di quelle implicite scuse; almeno finché l’altro soggiunse: “Ce li siamo lasciati alle spalle tempo fa. Quando abbiamo costeggiato il crepaccio.”
Schiuse le labbra. E se l’avesse… no, non era una possibilità. Era una certezza; e in quel punto Red XIII aveva deviato di proposito dal percorso per evitarli.

“Perché?” domandò.

Speranza.” replicò il felino “Siamo così abituati a combattere per la sopravvivenza da essercene dimenticati.” disse; e lo guardò dritto negli occhi “Non preoccuparti per Cloud e Barret. Li condurrò qui, vedrai. Nel frattempo tu vai avanti. Trova Sephiroth.” sottolineò “Non c’è vittoria nella guerra, Vincent. Né individuo che non lotti fino all’ultimo per sopravvivere. Dovremmo imboccare la strada del conflitto unicamente se necessario, come ultima risorsa. Non si tratta di giustizia. Né d’indulgenza. È una questione di preservazione della specie. E il Pianeta ha appena cominciato a rimarginare le vecchie ferite…” esitò “…se Sephiroth dovesse incontrare Cloud, non credo ci sarebbe altra via. Rischieremmo una seconda meteora, o peggio. E stavolta non ci sarà Aeris a proteggere il futuro dell’umanità.”

Scosse la testa, abbassò lo sguardo, mentre il significato di quelle parole gli gravava sulle membra più del ghiaccio. E la prospettiva acquisiva di concretezza a ogni istante sempre più. Quando avevano messo piede nella stanza di Sephiroth, egli aveva ricordato vecchi dettagli riguardanti la Cetra e la Città degli Antichi. Molto probabilmente, se si fosse trovato faccia a faccia con Cloud…

Scrollò le spalle e si concesse un profondo, mesto sospiro che sfumò nel vento.

“La speranza non mi si addice granché.” commentò; e puntò gli occhi all’orizzonte, sui contorni scuri e minacciosi del cratere “Sephiroth si sta dirigendo al Northern Crater. Non so che intenzioni abbia, né se esiste una possibilità che io possa…”

“Se esiste…” s’intromise Red XIII “…sei l’unico che possa coglierla. Vale la pena fare un tentativo. Dopotutto… potresti essere suo padre.” soggiunse; e gli sembrò di scorgere il sorriso sul muso dell’altro.

Accusò una fitta al petto; ma quel concetto andò a rimarcare unicamente quanto l’aveva spinto a schierarsi, a sfidare la tormenta e ad arrivare fin lassù. Speranza. Scosse nuovamente il capo e quasi rise dell’ironia implicita. Ciononostante non avrebbe esitato, non più; e gli errori del passato, i suoi peccati, in quel momento gli bruciavano sulla coscienza come inaspettata fonte di determinazione.

Serrò la mandibola, indurì lo sguardo e annuì; dopodiché riprese la marcia in direzione della voragine, lasciandosi l’amico alle spalle senza commiato. Non era mai stato bravo con le parole, ma sentiva che non ce n’erano di sufficienti per esprimere la gratitudine nei confronti di chi gli era stato vicino.

Si scansò i capelli dalla faccia e scandagliò i dintorni alla ricerca di punti di riferimento che esulassero dalla mera, oscura presenza che si disegnava più in alto, sovrastando l’intero paesaggio; senza esito. Le raffiche di neve rendevano i dintorni tutti uguali e s’insinuavano fra i vestiti, negli occhi a ogni folata più forte, costringendolo spesso a curvarsi e a distogliere l’attenzione dal cammino. Ciononostante continuò a spingersi oltre, a salire alla cieca, talvolta assecondando la corrente, talvolta rallentando l’andatura e tagliandola di netto come uno spartiacque. Affondò con i piedi nella neve sempre più alta, passo dopo passo, finché le estremità persero di sensibilità e i minuti divennero ore. Non seppe dire quanto tempo fosse passato o quanta distanza avesse percorso, ma improvvisamente nuovi cumuli si delinearono all’orizzonte e attirarono la sua attenzione. Si schermò gli occhi con il braccio, aguzzò la vista e identificò altri corpi sepolti sotto la neve. Erano morti da meno dei precedenti, se si considerava che la coltre non era riuscita a coprirli per intero. E stivali, armi e caschi spuntavano qua e là sulla bianca distesa, affatto riconoscibili. Affrettò il passo: Sephiroth non doveva essere lontano.

Non si stupì quando intercettò delle macchie scure che si stendevano a perdita d’occhio, susseguendosi l’una all’altra oltre la foschia che avvolgeva le lande. Che fosse… sangue? Probabile. Così come ne era uscito, ferito, probabilmente disperato, Sephiroth stava tornando al cratere… lasciando dietro di sé una sanguinosa scia. Serrò le labbra in una linea dura e andò da quella parte, senza sapere cosa aspettarsi; e la successiva domanda gli balzò alla mente, angosciante. Chi era la persona che stava inseguendo? Il Generale dei SOLDIER, l’uomo che Abigail amava e che preparava il tè, oppure…

Allontanò quel pensiero, avanzò e cercò di distinguere maggiori dettagli, gli occhi ridotti a due fessure. Tagliò il vento, si scansò i capelli dalla faccia e combatté contro il suo stesso mantello, che gli sbatteva addosso senza tregua. Infine intercettò il solco fra la neve. Passi. Più in là, oltre il nevischio, una sagoma si muoveva lentamente in direzione del cratere.

“Sephiroth!” chiamò; senza esito.

Il vento trascinò via con sé le parole, ululando in risposta. Strinse i denti e accelerò l’andatura a dispetto della neve alta. Voleva, doveva raggiungerlo al più presto e trovare delle risposte. Scavò e si aprì la strada nella candida distesa finché raggiunse il solco che Sephiroth aveva lasciato dietro di sé; dopodiché spiccò la corsa, il fiato che s’accorciava e l’aria gelida che gli graffiava la gola, i polmoni a ogni sforzo sempre più. Tuttavia a pochi passi dalla meta Sephiroth si voltò inaspettatamente verso di lui, tese il braccio e con estrema freddezza frappose l’accetta nel mezzo. Un’arma di fortuna che poco s’addiceva a colui che in passato aveva brandito la Masamune. Assecondò l’avvertimento e s’arrestò lungo il pendio, a corto di fiato, mentre nuvole di vapore gli si formavano innanzi al viso e venivano spazzate via dalla corrente. Andò con lo sguardo dall’arma insanguinata al viso di Sephiroth e sollevò ambo le mani in segno di pace. Non sapeva dire perché lo tenesse a distanza, ma l’altro non l’aveva attaccato e ciò era buon segno… Ne cercò le iridi, inutilmente; perché l’altro teneva il capo basso e non lo guardava.

“Vincent…” proferì soltanto; e gli sembrò lontano mille miglia “Che cosa ci fai qui…?” domandò.

“Puoi immaginarlo.” rispose “La battaglia è finita, Sephiroth...” continuò, cercando invero di sondare le sue intenzioni “…e sai benissimo che c’è qualcuno che ti aspetta.” sottolineò quindi.

I lineamenti impassibili dell’altro accusarono un tremito alla sola menzione. Poi Sephiroth sospirò e incurvò le spalle, come gravato da quella consapevolezza.

Loro…” cominciò; e non ebbe bisogno di chiedere a chi stesse riferendosi “…stavano cercando me.” scosse il capo “Sono entrati in casa con la forza. Le hanno messo le mani addosso! Le hanno puntato il fucile in faccia!” sputò infine; e digrignò i denti, serrò maggiormente le dita sull’impugnatura dell’accetta. Persino le sue iridi si accesero, dismettendo l’innaturale opacità in favore di una più vibrante, cocente rabbia. “Dovevano morire.” sentenziò; e stavolta andò a fissarlo dritto negli occhi.

E per lunghi istanti non seppe dire se volesse sfidarlo o semplicemente giustificarsi. Deglutì e prese tempo. Escludeva che avesse ricordato gli avvenimenti di tre anni prima, non del tutto almeno; ma si vedeva lontano un miglio che era sconvolto, sebbene non sapesse di preciso in che misura o da cosa in particolare. Doveva dimostrarsi cauto. E attento. Ne analizzò velocemente le condizioni e notò che la sua maglia era lacera e lasciava intravedere la spalla. Era ferito. Un foro di proiettile, netto, da cui si dipanava una scia di sangue ormai secco. E a ben vedere la ferita aveva già cominciato a rimarginarsi.

“Dovevi difenderti.” ribatté in tono calmo e fermo “Ma non c’è più motivo di allontanarsi. Di arrivare fin lassù.” soggiunse.

Sephiroth non si mosse. Né replicò. Si limitò a fissarlo dall’alto del pendio con l’espressione assorta e un po’ distante di chi stava analizzando, valutando; e traendo conclusioni di cui lui poteva solo temere l’entità. Poi l’altro infranse la stasi, arricciò le labbra in un sogghigno sghembo e scosse la testa, quasi dolente. Ma era la beffa a fare da padrona sui tratti altrimenti alteri del suo viso. Di rimando si accigliò, serrò la mandibola e distese lentamente le braccia senza mai perderlo di vista. Strinse anche i pugni e indugiò nei pressi della Cerberus; mentre le spalle di Sephiroth sobbalzavano, dapprima piano e poi sempre più forte. Poco dopo la risata dell’altro sovrastò perfino l’imperversare del vento; e quel suono così lugubre lo raggelò, rimandandolo a un passato di combattimenti nient’affatto distante.

Difendermi?” domandò infine l’altro, retorico “Li ho uccisi perché erano vermi che si dibattevano ai miei piedi.” spiegò quindi “Li ho uccisi perché potevo farlo. Volevo farlo.” continuò; e allargò le braccia, ergendosi fra la tormenta e ai piedi della montagna come un Dio pronto al giudizio “L’ho capito nel momento in cui ho affondato la lama nella carne del primo di essi e ho sentito il rumore d’ossa rotte invadermi le orecchie. Ho capito perché sono diverso dagli altri. Migliore degli altri. E ho insegnato loro che nessuno può sfuggire al mio castigo…”

Deglutì e batté le palpebre, a corto di fiato, mentre quel dire impietoso lo colpiva con la violenza di un maglio. Tuttavia l’amarezza scalzò in breve lo stordimento, profonda, dilagante.

“C’è molto di più. E di più importante.” ribatté, mesto e un po’ cupo, gli occhi dritti in quelli color giada dell’altro “Speravo che l’avessi compreso, Sephiroth.”

Il diretto interessato non cambiò espressione. Si limitò a riposizionare l’arma nel mezzo, invece, e a ribadire le rispettive distanze e collocazioni, mentre i lunghi capelli argentati gli si avvolgevano addosso alla stregua di serpi.

“Parli come se mi conoscessi da una vita.” osservò poi, senza mai abbassare la guardia “E forse è proprio così.” sottolineò “Non sembri sorpreso. E dire che finché non ho afferrato l’ascia nemmeno io credevo di essere capace di tanto. Di possedere simili pulsioni, simili pensieri. Credevo si trattasse di… incubi.” disse; e indugiò coi denti sul labbro inferiore “Lo pensava anche lei, perché quando ha visto il sangue allargarsi sul pavimento è rimasta immobile. E il modo in cui mi ha guardato…”

Sephiroth s’interruppe. Poi serrò la mandibola e distolse anche lo sguardo, palesando inaspettato turbamento. Un attimo soltanto; che tuttavia gli permise di scorgere una breccia nelle sue difese. E un barlume di speranza. Non sapeva come si fossero svolti i fatti al momento dell’attacco. Né cosa avesse scatenato una simile reazione da parte sua, ma forse arroganza, aggressività e bisogno d’allontanarsi non erano che il modo per schermirsi di un uomo confuso. E sconvolto da se stesso in primis, per quelle pulsioni, quegli incubi di cui parlava con così tanta noncuranza; ma che nel silenzio e nella solitudine della notte andavano a tormentarlo con chissà quali, terribili immagini. Vivide. Proprio come aveva detto Abigail attorno al tavolo di casa sua il giorno in cui l’avevano ritrovato, fra lo sgomento di tutti.

Deglutì, mentre le ragioni che tanto aveva cercato iniziavano a delinearsi nella sua mente. Ma non gli avrebbe permesso di voltare le spalle al mondo. Non stavolta. Lentamente sciolse la morsa dei pugni e allontanò la destra dal calcio della Cerberus.

“Andare via non è la soluzione.” osservò quindi, con rinnovata determinazione; e si stupì che a dirlo fosse proprio lui “Che cosa speri di trovare sul fondo di quel cratere? Che cosa ne sarà di Abigail?” domandò ancora, incalzandolo con le argomentazioni.

Gli occhi dell’altro si accesero d’ira al solo riferimento, dandogli conferma a quanto presupposto.

“Togliti dai piedi, Vincent.” sentenziò “O mi sbarazzerò di te con la forza!” lo minacciò poi, rafforzando la stretta sull’arma improvvisata “Dopotutto sai benissimo di cosa sono capace. L’hai visto.” soggiunse; e si aprì in un altro sogghigno.

Indurì l’espressione e inarcò il sopracciglio, senza tuttavia muovere un solo, singolo muscolo. Non sapeva dove volesse andare a parare, ma se sperava di confonderlo, destabilizzarlo e di indurlo alla resa si sbagliava di grosso. L’altro l’intuì perché si affrettò ad aggiungere altre argomentazioni, altri dettagli, adoperando le parole come coltelli.

“C’eri anche tu quando quella donna è morta, non è così?” gli disse “Quando le ho trafitto il petto con la lama della mia spada.” sottolineò.

La precisazione giunse inaspettata. S’irrigidì suo malgrado, serrò la mandibola e chinò il capo, mentre la morte della Cetra andava a gravargli sulla coscienza per entrambi.

“Si chiamava Aeris.” puntualizzò.

“Aeris…” ripeté l’altro, accarezzandone il nome con la lingua “Sì, adesso mi ricordo di lei. Mi stava aspettando. Sapeva che sarei arrivato, che non le avrei dimostrato pietà, che non sarebbe stato piacevole.” elencò “Eppure mi ha sfidato lo stesso. Per disperazione o speranza, quale delle due?” lo sguardo di Sephiroth si fece nuovamente distante, il sogghigno si spense sulle sue labbra e perfino le sue membra sembrarono perdere di vigore, tant’è che l’accetta s’abbassò di qualche centimetro “Ricordo che cosa ho provato nel vedere il suo corpo privo di vita ai miei piedi.” disse; e i suoi occhi brillarono di malizia “Soddisfazione.” scandì “E invulnerabilità. Perché quale che fosse la risposta a quella domanda non aveva più importanza.”

Deglutì, cercando di trovare un senso a quella specie di confessione. Aeris aveva regalato una speranza al Pianeta e all’umanità tutta. Ma si era eretta sola contro la minaccia incombente; e forse entrambi i responsi avanzati da Sephiroth corrispondevano al vero. Eppure restava un interrogativo spinoso, insolubile, che aveva minato alla sicurezza della più temibile calamità sul Pianeta. E a ben vedere anche Sephiroth si era eretto solo contro l’umanità, in un oscuro rovescio della medaglia; forse animato dai medesimi, inscindibili propositi. Una consapevolezza che faceva spavento e lacerava l’animo. Ciononostante erano altre le risposte che gl’interessavano in quel momento, al di là delle provocazioni attuate da Sephiroth. O dal suo schermirsi dietro le azioni compiute in passato.

“Non hai ancora risposto alle mie domande.” gli fece notare, impassibile; continuando a metterlo di fronte a quanto cercava di evitare.

Di rimando la maschera di superiorità si ruppe e il sogghigno morì sulle labbra dell’altro per cedere il posto a una smorfia nient’affatto rassicurante; e nei suoi occhi lesse rabbia, frustrazione e… qualcos’altro che non riuscì a identificare.

“Che cosa vuoi che ti risponda!?” gli urlò contro l’istante seguente “Perché ci tieni così tanto!?” continuò, senza che potesse corrispondere al suo desiderio di sapere; non in quel momento, almeno “Non c’è niente da dire! Niente da fare! Ho già provato a ignorarli, a fingere che fossero soltanto sogni, scherzi della mente! E poi… quei soldati hanno fatto irruzione in casa nostra e io… io…” esitò; e si portò la mano libera alla testa, intrecciando le dita fra i capelli “…chi mai proverebbe un così terribile desiderio di morte?” domandò; forse più rivolto a se stesso che ad altri “Non c’è soluzione! Devo… devo andare. Devo allontanarmi da lei. Perché nei miei incubi più vividi le immagini si confondono, si prendono gioco di me! E il viso di Aeris è il viso di Abigail.” confessò “No. Non posso restare… devo raggiungere la montagna… devo… capire…” farfugliò, come schiacciato dagli agghiaccianti scenari che la sua mente gli figurava nell’inconscio.

Avrebbe voluto risparmiargli l’agonia, ma non poteva esitare, non finché non avesse tirato fuori quanto gli macerava l’animo. E al suo tumulto interiore contrappose la propria, ferrea calma.

“Che cosa?” scandì quindi, pur conoscendo la risposta. La più ovvia.

“Che razza di mostro sono!” gli sputò contro Sephiroth, ammettendolo finalmente ad alta voce; e nello sguardo colmo d’odio che gli rivolse distinse infine le chiare sfumature dell’amarezza.

Ammorbidì l’espressione, rilasciò il fiato e quasi gli sembrò di trovarsi innanzi a uno specchio, che rifletteva chiari i suoi più reconditi timori. Eppure non c’era nessun mostro. Nessuna calamità pronta a devastare il Pianeta. E quello che aveva innanzi era solo un uomo confuso, stordito da ricordi fin troppo intensi e dolorosi cui non poteva, complice l’amnesia, attribuire un senso vero e proprio e un’adeguata collocazione. All’interno di un quadro ben più grande e gravoso di cui fortunatamente non aveva memoria.

Scosse la testa. Era così simile a sua madre. E in quel momento vedeva solo quello che voleva vedere. Senza tener conto delle alternative. Dopotutto anche lui ci aveva messo un po’ per capire; ma da quando Yuffie era piombata in casa sua, a Kalm, era stato letteralmente travolto dagli avvenimenti. E da emozioni di cui aveva perfino dimenticato l’esistenza.

“Tu hai solo paura.” disse; e fece un passo in avanti, incurante dell’accetta che l’altro stringeva fra le dita.

Gli occhi di Sephiroth tornarono ad accendersi, pungolato da quell’insinuazione forse inaspettata.

“Ti sbagli!” ringhiò di rimando; e fece un passo indietro.

“Nient’affatto.” ribadì, fermo nel tono e nelle intenzioni “Possibile che tu non te ne sia accorto?” chiese, continuando ad avanzare “Il timore, il rimorso, i dubbi, la confusione… perfino la rabbia. Sono tutte emozioni che ci rendono fragili. Vulnerabili. A dispetto della resistenza innaturale che possediamo.” disse, e guardò la spalla dell’altro, dove il foro del proiettile si era quasi del tutto richiuso “E umani, Sephiroth. Semplicemente, drasticamente umani.”

L’altro s’irrigidì maggiormente, fece un altro passo indietro e tornò a frapporre l’arma nel mezzo, lo sguardo smarrito. Non vi badò.

“Puoi raggiungere il fondo di quel cratere e trovare quello che cerchi. Capire che razza di mostro tu sia.” riprese “Ma sei sicuro che è questo che vuoi?” chiese; e si accorse in quel momento che il vento, la neve si erano inspiegabilmente calmati. Non aspettò risposta, comunque. Non questa volta. “Sei stato tu a dirmelo. Non è così? Tutto quello che vuoi è continuare a vedere i capelli di lei che s’illuminano al sorgere del sole.” fece; e compì gli ultimi passi che lo sparavano da Sephiroth. Allungò il braccio e gli tese la mano.  “Perciò puoi continuare per la tua strada, da solo. Oppure afferrare la mia mano, tornare da lei e scoprire piuttosto che tipo di uomo puoi essere.” concluse.

Il silenzio calò improvviso per attimi che parvero infiniti, mentre la corrente li lambiva con improvvisa indulgenza, facendo loro ondeggiare i capelli, le vesti e dando tregua alle membra intirizzite. Vide il petto di Sephiroth gonfiarsi, le sue labbra stringersi, gli occhi abbassarsi e rivolgersi altrove, forse in cerca di risposte. Stava esitando, forse combattendo contro quella parte di sé che ancora gli suggeriva di scappare. Di intraprendere forse la strada più facile. Poi, d’improvviso, l’accetta cadde al suolo con un rumore secco, sprofondando diversi centimetri sotto la neve. E le dita di Sephiroth andarono a serrarsi con vigore sulla mano che gli tendeva con fermezza.

Rilasciò un sospiro e strinse a sua volta, quasi temesse di perderlo da un momento all’altro. Poi, senza preavviso alcuno, una pioggerellina sottile e leggera prese il posto del nevischio e andò a lambirgli il viso, i capelli e le spalle, ticchettando allegramente. Istintivamente sollevò il capo e appuntò lo sguardo sulla coltre grigia e bianca che si stendeva a perdita d’occhio su di loro. Quasi non si stupì quando uno squarcio s’aprì fra le nubi e un raggio di luce andò a investirli. Arricciò leggermente gli angoli della bocca e assaporò quel leggero tepore sulle gote.
Tornò a puntare Sephiroth. Col naso per aria, l’altro stava sotto la pioggia e fissava il cielo. Non seppe dire se fosse colpa dell’acqua, ma percepì qualcosa scivolargli giù dagli occhi. E forse anche giù dal cuore.
 
***

Arrestò il passo e analizzò i dintorni. Il cielo era ancora coperto e la neve cadeva lenta. Tuttavia il vento aveva smesso di imperversare sulle lande e i contorni della montagne apparivano netti al di là dei fiocchi bianchi. Le impronte lasciate durante la scalata erano sparite, ma non gli fu difficile individuare la strada da percorrere per raggiungere l’abitazione di Abigail.

Riprese la marcia affondando nella neve e il suo pensiero andò a Yuffie. Chissà come stava…

Un vociare indistinto gli raggiunse le orecchie e lo spinse a guardare in quella direzione. Tre sagome si delineavano all’orizzonte. Due uomini e un quadrupede. Red XIII, accompagnato da Cloud e Barret. Deviò appena dal percorso e andò loro incontro. Barret lo notò in fretta, dacché sentì urlare il suo nome e vide la sagoma più grossa sbracciarsi in lontananza. Rilasciò un piccolo sbuffo. Probabilmente non sarebbe stato altrettanto entusiasta di vederlo, se solo avesse saputo come si erano svolti i fatti.

“Vincent!” chiamò Red XIII quando furono abbastanza vicini da poter parlare “L’hai trovato?” domandò subito dopo; e gli sembrò di percepire dell’apprensione nel suo tono solitamente pacato.

Annuì. Barret si fece avanti e rincarò: “Dov’è adesso?”

Lasciò andare lo sguardo su ognuno di essi, finché intercettò gli occhi di Cloud.

“Lontano.” disse.

L’omaccione aggrottò le sopracciglia, raddrizzò la schiena e sfoderò una smorfia. Poi inspirò a fondo e fece per aprire la bocca, molto probabilmente per esprimere il proprio disappunto come già successo a Edge. Ciononostante Cloud ne troncò l’impeto, frapponendo un braccio nel mezzo.

“Quindi hai davvero deciso di lasciarlo andare.” commentò.

“Non è più una minaccia.” disse “Né una tua responsabilità.”

Cloud serrò le labbra, i pugni, ma non replicò. Barret invece eruppe in un tripudio di urla come al solito.

“Ma che cazzo vuol dire?!” sbraitò, allargando le braccia “Che dovrei tornarmene a Edge come niente fosse e far finta che non ci sia un pazzo genocida a piede libero?! E solo perché a dirlo sei tu?! Preferivo quando per tirarti fuori le parole servivano le cazzo di tenaglie!”

Barret si passò ambo le mani nei capelli e strabuzzò pure gli occhi, le narici divaricate. Per tutta risposta sprofondò nel collo del suo mantello, aggirò il gruppo e proseguì la discesa.

“Non smetterò mai di combatterlo, Vincent.” dichiarò Cloud; e immaginò perfettamente la determinazione nei suoi occhi color Mako.

Sorrise. “Lo so.” Ammise. “E ti ringrazio, per questo.” 
 
Ok... ora lo dico alla Fantocci syle: è una cagata pazzesca! E no, non mi riferisco alla Corazzata Potemkin. ùù'' Cioè, sul serio. <<'' Stavolta fa cagare davvero. Anzi, mi scuso con voi perché in alcuni tratti è pure raffazzonato. ^^''' E meno male che doveva essere il capitolo decisivo! La summa di quanto scritto fin'ora! Il capitolo della pseudo-redenzione di Sephiroth! °A° *si da a capate*
Ok, la smetto. ^^' Però sul serio: sono accettati consigli per migliorarlo. ^^'''''' Intanto, dato il tempo trascorso, specifico che alcuni degli argomenti trattati si ricollegano ai capitoli quattro e cinque della storia. Così magari non sembra così campato per aria com'è! °A°
Bene. A questo punto vorrei dirvi che vado a darmi all'ippica. Lol. Ma purtroppo per voi manca ancora un capitolo, ovvero il prossimo. Il bello è che si tratta dell'ultimo di Meet the End, ma non della storia, che nella mia testa è suddivisa in tre parti. Perciò... boh. Intanto vi saluto. E alla prossima!
CompaH
   
 
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