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Autore: Krixi19    22/01/2015    3 recensioni
Quando due sorti si mescolano, qualcosa cambia, in ognuna di esse. Può cambiare tanto o può cambiare poco, ma il mutamento avviene, e spesso non ha importanza quanto a lungo le due sorti siano state in contatto. A volte ti distrai un attimo, e prima che tu te ne renda conto, una persona ti ha cambiato la vita: tutto assume una nuova prospettiva, tu non sei più lo stesso. E questo spaventa così tanto, che ci si ritrova a lottare per rimanere dentro una visione che, ormai, non ti appartiene più, un po’ come fuggire da sé stessi.
I cambiamenti fanno paura, sì, ma non è forse dannatamente triste quando una persona ti cambia la vita, ma tu hai la sensazione di non aver nemmeno scalfito la sua? Quando la cosa non è reciproca? Perché tu hai la sensazione di essere stato solo una piccola parentesi di vita, mentre la tua, di vita, sembra aver cambiato sapore.
Olga aveva paura di non essere importante, Johnson aveva paura dell’importanza che lei aveva. E nessuno metteva l’altro di fronte alla realtà dei fatti, nessuno metteva se stesso davvero di fronte alla realtà dei fatti.
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Untitled Document Playlist: Lumineers - Slow it down
https://www.youtube.com/watch?v=9fY5WpHrONU



Slow it down, and then come back to bed         




Johnson non sapeva quando si era innamorato di Olga. Anzi, a ripensarci, non sapeva nemmeno esattamente come lei fosse entrata nella sua vita: l’aveva fatto in modo lento e impercettibile, giorno dopo giorno, e lui aveva finito per esserne completamente dipendente prima di rendersene conto.
Neanche a dirlo, la cosa lo spaventava enormemente, e per questo aveva finito per allontanarsi. Non che fosse consapevole di questa paura, ovvio. Se c’era una cosa in cui Johnson non era bravo, era conoscere se stesso, ma questo, per lui, non costituiva un problema; aveva così tante cose per la testa, così tante emozioni, che preferiva rivolgere lo sguardo altrove, fingendo che non esistessero. Era diventato così bravo in questo che alla fine avevano finito davvero per non esistere. Una volta l’aveva detto anche ad Olga.
«Penso di essere emotivamente sterile» aveva detto all’improvviso, mentre le accarezzava i capelli. Lei aveva riso appena contro il suo collo.
«Non vorremmo esserlo tutti?»
Era questo che l’aveva colpito di Olga fin dall’inizio, non rispondeva mai in modo scontato, non diceva mai quello che ci si poteva aspettare. Aveva questa capacità di sorprenderlo, sempre, e forse era stato questo a scalfire quella parete che lui aveva messo tra sé e il mondo.
Ma Johnson non lo era veramente, emotivamente sterile: dentro, nel profondo, ancora le cose si smuovevano, solo che non se ne accorgeva se non in modo appena percettibile. Era come un uomo che sta in piedi sul bordo di una scogliera, dando le spalle al mare in burrasca sotto di lui: gli arrivano schizzi, il vento gli solleva il cappotto appiccicandoglielo a tratti al corpo, il frastuono delle onde che si infrangono gli riempie le orecchie, ma l’origine di tutto questo gli rimane sconosciuta, finché non finisce per fare qualche passo in avanti, quasi stizzito, lontano da quella mareggiata che riesce solo un po’ a percepire, senza mai esserne tuttavia fuori portata, senza mai vederla davvero; gli schizzi, il vento, il rumore costanti diventano semplicemente un sottofondo a cui finisce per abituarsi così tanto da non chiedersi da dove vengano.
Quando l’aveva vista piangere a causa sua, l’aveva finalmente vista, la mareggiata. Così se ne era andato, nascondendosi dietro una finta premura per lei, quando invece ciò che voleva davvero era tutelare se stesso.


Se avesse saputo come sarebbe andata a finire, forse, per la prima volta nella sua vita, Olga non avrebbe fatto le cose esattamente allo stesso modo. Ciò non significava che avesse dei rimpianti, perché era profondamente convinta di aver preso le decisioni giuste, sul momento: solo perché in seguito si erano rivelate sbagliate, non significava che nell’istante in cui andavano fatte non fossero le scelte migliori.
«Ti ricordi quando ci siamo conosciuti?»
Lei aveva aspettato qualche istante che lui continuasse. Johnson le faceva sempre domande di questo tipo, all’improvviso, mentre giacevano assieme stretti l’una all’altra nel lettone, il luogo dove avvenivano quasi tutte le loro conversazioni più vere. Erano quel tipo di domande che sai che vengono fatte come conseguenza di una catena di pensieri, di cui forse verrai reso partecipe, forse no – a Johnson piaceva parlare però, soprattutto con lei, quindi difficilmente lei non risaliva per tutta quella catena, anello dopo anello.
«In realtà no» aveva poi risposto Olga. «Volevo aspettare un momento più opportuno per dirtelo… Ma immagino che alla fin fine ogni momento sia buono. Soffro di una rara forma di Alzheimer precoce…»
«Ah, Olly, mi dispiace» aveva replicato lui con un tono caricaturalmente dispiaciuto. «È grave?»
«No, fortunatamente no. È anche chiamato Alzheimer selettivo, posso scegliere cosa dimenticare. Ho pensato che quello fosse un buon momento».
«Era il nostro primo incontro!»
«Effetti collaterali».
Johnson era scoppiato a ridere, tirandosela ancora più vicina, le braccia che la avvolgevano, la mano che stringeva quelle di lei.
«Cosa, del nostro primo incontro?» aveva poi chiesto lei.
«La tua insolenza».
«Non ero insolente!» si era difesa subito, facendolo ridere ancora.
«Hai passato mezz’ora a prendere in giro il mio nome!»
«Ma andiamo, chi è che si chiama Johnson?! In Italia. Di nome».
«È un soprannome, Ol».
«No, non lo è. È un cognome. Inglese».
«Sì, ma è anche il mio soprannome».
«Ma non dovrebbe esserlo…» aveva mugugnato Olga. «Insomma, perché?»
«Lo sai benissimo perché» aveva risposto lui, sorridendo contro la sua spalla, che prese a mordicchiare delicatamente.
«No. Alzheimer selettivo, ricordi? Molto insensibile da parte tua dimenticarlo. Fai sul serio?» aveva aggiunto, risentendosi in modo giocoso. «Cioè! Oltre il danno la beffa!»
Johnson aveva ridacchiato ancora. «È perché mio padre si chiama Giovanni ovvero John, io sono il figlio quindi Johnson. Come sai bene, è un soprannome che mi hanno affibbiato i miei amici alle elementari, una volta scoperto il significato di “Johnson” durante una delle prime lezioni di inglese» aveva detto di filato, senza intonazione, come se stesse leggendo velocemente un elenco della spesa.
«I bambini dovrebbero avere più fantasia» aveva sentenziato lei, «ma è carino che tu abbia mantenuto lo stesso soprannome per tutto questo tempo».
«Sì. Mi dispiace solo che non sia lo stesso per quanto riguarda coloro che me l’hanno dato».
Olga era stata in silenzio qualche attimo, aspettando che il dolore che aveva percepito nelle parole di lui si dissipasse un poco, poi aveva detto: «Beh, è così che va. Le vite si incontrano, si incrociano, si mescolano, ma non sai mai per quanto tempo. E poi» aveva aggiunto riflettendo, «in realtà, come fai a dire se due vite si sono mescolate per poco tempo o per tanto? Ci sono persone che ti toccano così tanto, anche se le vostre vite si sono mescolate per così poco, e ci sono vite che non smetteranno mai di essere mescolate, anche se non dovessero incontrarsi mai più. Però non è detto che valga per entrambe le persone, no? Magari qualcuno ti ha cambiato la vita, ma tu per lui sei stato impercettibile… Capito in che senso?»
«Giò?» l’aveva chiamato poi, non sentendo risposta.
Avendo smesso di parlare, aveva potuto sentire il respiro di lui farsi più regolare, segno che si era addormentato. Olga aveva quindi sorriso, accoccolandosi meglio tra le braccia di lui, e nel giro di poco si era addormentata anche lei, per dormire quelle poche ore che rimanevano della notte.
Tempo dopo, Olga si convinse che loro, lei era quell’ultimo caso. La vita di Johnson era entrata in contatto con la sua, e loro si erano mescolati così tanto che lei si sarebbe portata dietro sempre un pezzo di lui, ma era profondamente convinta che la cosa non fosse reciproca: se lo fosse stato, le cose non sarebbero dovute andare forse diversamente?
Lui era sparito, così, semplicemente. Dopo un litigio insulso per un motivo altrettanto insulso. Ma lui era sparito ugualmente. Evidentemente non meritava una seconda chance, se di chance si voleva parlare; lei non era un gioco sufficientemente bello perché Johnson utilizzasse più che l’inizio della sua candela.


«Forse dovremmo rallentare».
«Perché?»
«Non ti sembra stia andando oltre… oltre quello che pensavamo?»
«No. Cioè, boh, non lo so». Una scrollata di spalle. «Io prendo le cose così come vengono».
«Ma sei pronto ad avere a che fare con le conseguenze?»

Non lo era. Non si era mai nemmeno dato la possibilità di esserlo. L’aveva attratta sempre più vicina, aumentando la sua gravità e riducendo l’orbita di lei. Le aveva riversato addosso parole, ricordi, speranze, rimpianti, dolori, le aveva affidato tutto sé stesso prima ancora di rendersene conto.
Gliel’aveva detto anche lei, dopo che lui si era scusato per essere così logorroico: «Sai, però parli molto di te, per essere una persona “emotivamente sterile”. Ma penso sia perché tu ne abbia bisogno» aveva concluso semplicemente. «Da quant’è che non lo facevi?»
«Non credo di averlo mai fatto. Non so perché, con te è diverso. Sei sincera».
«I tuoi amici non sono sinceri?» le aveva chiesto lei, e questa era un’altra delle cose che lo aveva colpito fin dall’inizio: era una domanda vera, non c’era traccia di retorica; molti altri, al suo posto, avrebbero semplicemente dedotto fosse così e magari si sarebbero lanciati in una qualche invettiva. Ma non lei, anzi Johnson era sicuro che se in quel momento avesse risposto sì, lei avrebbe chiesto un innocente “perché?”. Olga attuava sempre questa sospensione del giudizio, una cosa quasi ingenua, che Johnson forse non faceva più da lungo tempo – partiva sempre prevenuto con le persone, lui.
«No, lo sono anche loro. Ma tu… sei quasi disarmante».
«Ma forse non è nemmeno questo» aveva aggiunto subito dopo, mentre sovrappensiero disegnava col pollice ghirigori sul fianco di lei. «Adoro il modo in cui mi parli. È che sei…  delicata» aveva detto cercando le parole, «quando mi parli… è come se le tue parole mi sfiorassero appena. Hai capito?»
«Sinceramente no» aveva detto lei, confusa. «In che senso? Non ti interessano?»
«Ma no! Dicevo letteralmente. Cioè… Alcune persone… Quando parlano, sembra che ti vomitino addosso la loro opinione, presente? Tu te ne stai lì, e loro parlano, parlano, parlano, e le loro parole ti investono, e loro nemmeno si accorgono dell’effetto che ti stanno facendo, e continuano a parlare, e se anche se ne accorgono, vanno avanti comunque perché, ehi, c’è la libertà di parola, quindi si sentono in diritto di sparare le loro opinioni, anche quando non sono richieste». Olga lo aveva continuato a guardare ancora un po’ confusa, mentre lui proseguiva. «Ma tu no. Tu… È come quando sei in spiaggia, sulla banchisa, e l’acqua che va e viene ti accarezza i piedi. È delicata, capisci? Tu sei così. Le tue parole sono così. Ti accarezzano, ti cullano e spesso è come se ti lenissero».
Olga era rimasta in silenzio qualche istante, limitandosi a guardarlo negli occhi, e lui si era sentito esposto come mai prima di allora. Per la prima volta da molto tempo, si accorse del vento che gli sollevava il cappotto e gli scompigliava i capelli. Riflettendoci, forse fu in quel momento che cominciò a ritirarsi.
«Grazie» aveva poi detto, con quella sua sincerità di cui lui parlava prima. «Ma tu sei così logorroico, che in realtà ascolto e basta. Forse è per quello» aveva aggiunto buttandola sul ridere, punzecchiandolo.
«Ma smettila» aveva riso lui, mentre la sensazione del vento sulla schiena si acquietava.


«Dai, torna a letto».
«No».
«Ol…»
«“Ol” un cazzo, Giò! Sei un egoista. Sei…»
«Okay, scusami» l’aveva interrotta lui.
«No, ascoltami tu! Fammi finire!» aveva ripreso lei, con enfasi. «Lo so che non sei uno stronzo, okay? Lo so. Ma sei… egoista. E la cosa peggiore, forse, è che lo sei senza nemmeno sapere di esserlo. Sei così chiuso dentro di te…», la voce le tremava dall’emozione, la rabbia, il dolore, tutto mescolato, «sei così preso da te e dal tuo punto di vista, che non riesci a vedere nient’altro, e non solo non ci riesci, non ci provi nemmeno! Non esiste nient’altro al di fuori di quello che pensi tu, provi tu, vivi tu. Mettiti nei miei panni!»
«Ho capito, Ol, mi dispiace di non aver avvisato e mi dispiace di aver fatto ciò che ho fatto, non ci avevo pensato!»
«È questo il punto» aveva detto lei, scuotendo la testa. Poi aveva sospirato, abbassando lo sguardo.
«Dai, vieni qui, torna a letto».
Lei non si era mossa. Continuava a rimanersene lì, in piedi, di fianco al letto. A due passi e due chilometri da lui.
«Olly» l’aveva chiamata ancora lui.
«Non posso spiegartelo tutte le volte, Giò» aveva risposto lei, sollevando il viso e guardandolo. Johnson allora aveva notato le lacrime che le solcavano le guance, e si era sentito male come mai prima. Non era il tipo di dolore a cui era abituato, era una cosa diversa: era il dolore che nasce quando ci si rende conto di aver deluso qualcuno e, conseguentemente, si delude sé stessi. Aveva dovuto distogliere lo sguardo, perché insostenibile. «Non posso» aveva continuato lei. «Lo so che ti dispiace, lo so che non l’hai fatto apposta, e il punto è questo: non mi consideri. E non intendo come… fidanzata, morosa, amica, o cosa sono per te, intendo come persona, non mi tieni in considerazione come persona».
«No» aveva risposto lui, risoluto, tornando a posare lo sguardo su di lei. «No, non è quello. Hai ragione, non ci ho pensato, ma non è perché non ti consideri. Io ti considero, io non voglio farti del male. Senti, migliorerò, okay? Migliorerò» aveva ribadito. «Io non… non ci avevo mai pensato, in questa prospettiva. Ma, davvero, da ora in poi sarà diverso».
Lei non aveva risposto subito, l’aveva osservato qualche istante; poi aveva sospirato e annuito.
«Torni a letto ora?»
Olga aveva poi colmato quei due passi tornati alle loro dimensioni effettive e si era infilata tra le braccia di lui.
«Promesso?»
«Promesso» aveva risposto lui, e poi l’aveva baciata. Era uno di quei baci che sembrano sistemare ogni cosa, o almeno sembrano dire che ogni cosa è stata sistemata, perché fatti solo di sentimenti, sentimenti veri e reciproci. Ma spesso il problema non sono i sentimenti. «Ma tu porta pazienza. Per favore, parti dal presupposto che io ti considero».
Lei aveva annuito.
Ma Olga non portò pazienza, Johnson non mantenne la promessa.
«Forse dovremmo rallentare» aveva detto lei dopo un po’, riflettendo a voce alta.


Se non avevano rallentato, era stato anche a causa dell’impazienza di Olga. Johnson aveva fatto la sua parte, il suo non sapere cosa volere da questa storia non aveva aiutato, ma le batoste che lei aveva preso in passato dalle varie persone che l’avevano trattata come se non avesse valore, l’avevano portata ad essere più pretenziosa nei confronti dei comportamenti di chi le stava attorno, un atteggiamento in generale positivo – il volere il rispetto dagli altri – che, poiché non accompagnato da una sufficiente fiducia in sé stessa e nel suo valore, l’aveva portata ad essere troppo risoluta. Le ci era voluto un po’ per capire che il suo essere così insicura aveva fatto sì che desse più peso a cose che, se fosse stata più equilibrata, non sarebbero state così importanti – messaggi senza risposta, appuntamenti mancati, dimenticanze continue, passare apparentemente in secondo piano, e il resto, tutte cose che obiettivamente nascono da una mancanza di rispetto di fondo, ma che a certi livelli non vogliono dire nient’altro al di là di quello che sono. A volte ci si dimentica perché ci si dimentica, non perché non sia importante: era una cosa che le era costato molto imparare.
Ma ciò che era fatto era fatto. Riconoscere tutto questo sicuramente le sarebbe stato utile per una eventuale storia futura – di cui al momento non aveva alcuna voglia – ma non lo era per loro, per lei e Johnson. Le sembrava che le cose fossero troppo danneggiate per poter essere riparate: erano andati di corsa, lasciandosi guidare da sentimenti che crescevano in fretta ma che entrambi non volevano guardare da vicino, erano stati indelicati, avevano incrinato senza accorgersene e, quando il tutto si era rotto, i pezzi che ne erano usciti erano troppi e troppo piccoli per poter essere ricomposti.
O forse nessuno dei due era pronto per farlo. Alle volte lei ne era tentata e componeva il suo numero, pronta a premere il pulsante di chiamata, ma si fermava sempre prima di farlo davvero. Vuoi perché una mezza volta ci avevano riprovato ed era finita prima ancora di ricominciare, vuoi perché lei non credeva veramente che Johnson avesse la forza e la voglia di guardarsi dentro, capire l’importanza della loro “storia” e rimetterne a posto i pezzi. Dubitava che lui pensasse che lei ne valesse la pena. Era così strano: da un lato sapeva di essere stata importante, lui gli aveva detto così tante volte e in così tanti modi diversi quanto con lei fosse diverso, ma dall’altro si sentiva insignificante, non valeva nemmeno un’altra chance, non valeva nemmeno uno sforzo.


Olga aveva paura di non essere importante, Johnson aveva paura dell’importanza che lei aveva. E nessuno metteva l’altro di fronte alla realtà dei fatti, nessuno metteva se stesso davvero di fronte alla realtà dei fatti. E nessuno riusciva ad ammettere del tutto l’importanza che la storia stessa aveva avuto. Entrambi si aggrappavano a scuse come “è durata poco”, “non stavamo insieme ufficialmente”, “non eravamo fidanzati”, “uscivamo solo”, ma non sono queste le cose che danno importanza ad una storia. La verità era che c’erano stati dei momenti, in quel letto, in cui entrambi si erano sentiti loro stessi, in cui entrambi si erano sentiti in pace, senza nessun pezzo mancante.
Ed entrambi non desideravano altro che rallentare un attimo e tornare in quel letto.
 






Note: Il titolo una strofa adattata della canzone “Slow it down” dei Lumineers (nella canzone è, esattamente “slow it down, Angie, come back to bed”) e, senza neanche farlo apposta, anche il titolo della storia ci sta in metrica.
Poi basta, non aggiungo altro. Ho una mia opinione su quasi tutto ciò che concerne la storia di Olga e Giò, ma vorrei sapere cosa ne pensate voi, senza farvi influenzare da cose che non ho messo nella storia – per varie motivazioni.
Ah, ci tengo anche a precisare che, nonostante mi sia rifatta ad alcune cose realmente accadute, la storia è molto lontana dall’essere autobiografica: si attinge dal proprio bagaglio, ma lo si trasforma. Quindi ogni riferimento a fatti, cose o persone realmente blablablabla puramente casuale blabla.

Aggiungo che spero vivamente che questa shot segni la fine del mio lunghissimo blocco dello scrittore - maledetto.


Un grazie enorme va alla mia (cì, è mia, pappapero) Capitan Charmerica, che mi ha molto gentilmente betato la storia. Grazie, Cap :3
   
 
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