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Autore: Alex e Finger    27/01/2015    1 recensioni
— Non mi sono mai sentito così poco Mentore come vicino a lui. —
— Diceva che sei così disposto ad imparare. Diceva che gli ricordavi Ishak, in qualcosa, anche se siete profondamente diversi. —
Lo sguardo di Ezio scivolò verso il tumulo e si velò per un attimo, mentre percepiva gli occhi di lei fissi sul suo viso.
— Perché mi cercavi? —
Ràhel si prese un attimo prima di rispondere, come se stesse raccogliendo le forze.
— Perché lo amavo. E perché sento che in questo breve tempo, anche tu lo hai amato. Vorrei parlarti di lui. —
Genere: Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ezio Auditore, Nuovo personaggio, Sofia Sartor, Yusuf Tazim
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Istanbul,

Muharram 918

(Fine di Marzo 1512)

 

 











l colombo viaggiatore sorvolò l’alternarsi di rocce frastagliate e spiagge della costa di quella che era un tempo la Provincia Romana di Cappadocia. Incontrò tempo buono e ben pochi venti contrari, sfuggì alla picchiata di un falco pellegrino e in poco meno di una giornata attraversò il Corno d’Oro, raggiungendo il Distretto di Galata e la colombaia sul tetto del Covo degli Assassini Ottomani. Si lasciò docilmente afferrare da un Novizio di nome Milos, che slegò dalla sua zampetta un piccolo cilindro di legno, e finalmente poté tuffare il becco nel miglio e riposarsi dal lungo volo.

Milos si calò per la scala e attraversò il cortile degli allenamenti, lanciando un’occhiata veloce ai compagni che si esercitavano con le armi, senza risparmiare una critica silenziosa agli errori che notò. L’aria primaverile era fresca e il cielo, che mostrava solo poche nuvole stracciate dal vento, gli strappò un sorriso.

Percorse i corridoi con passo spedito fino alla porta dello studiolo, dove bussò e attese.

— Avanti. —

Milos si rassettò le vesti e raddrizzò il cinturone, aprì la porta e fece un passo all’interno, piegando immediatamente un ginocchio a terra.

— Salute e pace, Maestro. Un messaggio per l’Ordine. —

— Salute e pace a te, Milos. Alzati e dammi qua. —

Il Novizio si rimise prontamente in piedi e depose il cilindro nella mano tesa del Maestro che, senza rivolgergli ulteriori sguardi, lo aprì e srotolò il piccolo foglio di pergamena che vi era contenuto.

Non doveva trattarsi di buone notizie, perché Milos vide le sopracciglia del Maestro aggrottarsi e il suo volto indurirsi. Il Novizio rimase immobile e privo di espressione, come si richiedeva a chi non era ancora stato congedato, ma ebbe la netta sensazione che l’aria nello studiolo avrebbe potuto essere spaccata e usata per raffreddare l’inferno stesso.

Il Maestro si lasciò cadere su una sedia, incurante della pila di carte che scivolò a terra e solo in quel momento parve ricordarsi di lui.

— Grazie, Milos. Puoi andare. — disse senza alzare gli occhi dal piano del tavolo, dove le sue mani nervose lisciavano con insistenza il pezzetto di pergamena che continuava ad arrotolarsi.

— Hai altri ordini per me? —

Il palmo del Maestro si abbatté sul tavolo e altri fogli si sparsero sul pavimento.

— Ho detto che puoi andare! — Nel suo sguardo e nella sua voce c’era il pieno inverno.

Milos chinò il capo e girò sui tacchi, chiudendo la porta dietro di sé. Se non fosse stato troppo orgoglioso per farlo, avrebbe corso fino al cortile: la cosa che desiderava di più in quel momento, era il calore di un po’ di sole.

 

Il rumore della porta che si chiudeva alle spalle del Novizio risuonò nello studiolo con lo stesso cupo fragore della pietra che cala su una tomba.

Yusuf strinse il pugno sul tavolo accartocciando la pergamena e le due righe d’inchiostro vergate con la grafia pulita del Mentore Auditore.

 

Shahkulu è morto.

Requiescat in pace.

 

Quel maledetto bastardo aveva ucciso Amir. Aveva trascinato per anni una scia di sangue nel cuore della Confraternita.

Ora era davvero finita.

Yusuf si costrinse ad aprire il pugno. Non era sua la mano che aveva posto fine a quello scempio, era stata la lama dell’Auditore a cauterizzare la ferita aperta che sanguinava da un tempo infinito e ora lui sentiva l’impulso di urlare, come se il cauterio gli stesse bruciando la pelle, e oltre, fino in fondo all’anima.

Nella sua vita aveva custodito un solo segreto: Dönek. Lo aveva custodito con caparbietà ed estrema efficienza, lasciando che lentamente gli corrodesse il cuore, gli provocasse rabbia, vergogna e dolore, rammarico e rimpianto. Aveva accettato un patto scellerato con l’ombra di un ragazzo che rappresentava il tempo dell’incosciente innocenza, quando tutto appare semplice e chiaro e ogni cosa è ben definita nei netti contrasti della giovane età. Tutta la sua vita di adulto era stata oscurata da quell’ombra che lo aveva sconfitto, poco più di un anno prima, lasciandolo a terra, vivo, ma con le ossa e il cuore in frantumi.

Maledetto. Lui e me. Maledetti entrambi.

Ora che la sua controparte fisica aveva finito di esistere nel mondo, l’ombra veniva strappata lentamente dalla sua anima, ma resisteva, tenacemente, aggrappandosi con artigli affilati, scavando solchi e ferite, portandosi via brandelli di carne.

Appoggiò la fronte al piano del tavolo con un gemito. Resistere a quel dolore era un’impresa impossibile e l’unica via rimasta era quella di accoglierlo; nella disordinata solitudine di quello che era stato lo studiolo di Ishak, Yusuf pianse.

 

Aveva  cercato Milos e lo aveva trovato ad allenarsi in cortile. Si era soffermato per un po’ ad osservare quel ragazzo diligente e ambizioso che ancora non si radeva tutti i giorni, valutandone il talento già parecchio evidente, e poi aveva attirato la sua attenzione con un cenno. Il Novizio aveva rinfoderato la spada e si era precipitato da lui, asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica e chinando il capo in segno di rispetto.

— Maestro. —

— Stai facendo un buon lavoro, Milos. —

Sul volto del ragazzo si aprì un sorriso.

— Grazie, Maestro. Di certo ho ancora molta strada da fare. —

Ma sei già a buon punto.

— Ora ho un ordine per te. —

Yusuf si era pentito dello scatto d’ira che gli aveva rivolto, ma di sicuro non poteva scusarsi apertamente.

— Sì, Maestro. —

— Comunica alla Confraternita che lo Shahkulu è morto. Il Mentore ha posto fine alla sua vita in Cappadocia. —

Milos spalancò gli occhi per lo stupore.

— Maestro, è una notizia molto importante. Non vorresti essere tu a…—

— Stai discutendo i miei ordini? —

Il ragazzo sobbalzò.

— No, Maestro. È un onore. —

— Bene. Allora esegui. Hemèn! —

Yusuf si allontanò senza aggiungere altro.

Lasciò il Cortile e poi il Covo, avviandosi per le vie affollate nella luce ambrata del tardo pomeriggio fino al cimitero di Galata.

Amir, amico mio. Ti chiedo perdono per non averti messo a parte di questo segreto.

Camminò tra la gente, senza vedere nessuno, senza sentire una voce, con il sole che gli accarezzava la testa e l’inverno nel cuore. Si fermò solo quando arrivò al porto e la banchina sotto i suoi piedi finì. Davanti a lui solo il mare, le barche alla fonda e le urla dei gabbiani.

La mano destra scivolò nella tasca dei pantaloni, riconoscendo la forma familiare dei dadi consumati e scheggiati. Non aveva trascorso un giorno senza portarli con sé, e mille volte aveva pensato di disfarsene, senza mai trovare il coraggio per farlo. Li aveva conservati come un amuleto, o forse come un monito, qualcosa che gli ricordasse sempre da dove veniva e ciò che aveva deciso di nascondere. Tirò fuori la mano e l’aprì, restando a lungo a fissare quei due cubi il cui colore rosso era ormai sbiadito. Quelli sembravano ricambiare il suo sguardo, beffardi, come a rammentargli che non poteva cambiare ciò che era stato e che non c’era ritorno dalle sue scelte. Yusuf li fece rimbalzare un paio di volte sul palmo e poi li strinse così forte che le nocche impallidirono. Caricò il braccio come per lanciare un pugnale e dovette fare forza su se stesso per costringersi ad aprire le dita alla fine del movimento. I dadi disegnarono un arco rossastro, roteando nell’aria i loro pesi squilibrati e finirono in mare sollevando un piccolo spruzzo.

Solo le alghe e i pesci sarebbero stati testimoni di quell’ultimo lancio.

 

Rientrò a notte fonda, inseguito dal  vento freddo di quella primavera ancora incerta e si diresse verso la stanza di Ràhel, con il macigno sul cuore che sembrava rallentargli ogni passo.

Entrò senza neanche bussare.

Lei se ne stava seduta sul letto, con le gambe ripiegate sotto di sé e un libro aperto sulle ginocchia. Aveva sollevato la testa di scatto e ora gli rivolgeva un sorriso. La luce dell’unica candela disegnava ombre morbide sul suo viso e si rifletteva nei suoi occhi. Era bella da far male.

— Dov’eri finito? — chiese Ràhel soffocando uno sbadiglio. — Milos probabilmente si sta pavoneggiando anche nel sonno per la notizia che gli hai chiesto di comunicare. —

Yusuf strinse le labbra e chiuse gli occhi per un attimo. Quella battuta innocente gli si era piantata nel petto come un gancio da macellaio.

— Ero al cimitero, a… parlare con Amir. —

Ràhel lo fissò inclinando il viso di lato. L’espressione allegra era scivolata via.

— E ora ho bisogno di parlare anche con te. —

Lei gli tese la mano, invitandolo ad avvicinarsi e Yusuf la raggiunse, sedendosi accanto a lei.

— Mi ricordo bene la sera che sei arrivata. Pioveva a dirotto e io ho scherzato sui tuoi quadrelli. Mi sono chiesto per un sacco di tempo dove avessi trovato il coraggio di presentarti qui e raccontarci di tuo fratello, come fossi riuscita a farlo senza avere idea di chi ti trovassi davanti, di come avrebbe potuto reagire. Eri una ragazzina…—

Lei lo ascoltava in silenzio.

— …eri una ragazzina che aveva mille volte più coraggio di me. —

— Che vuoi dire? —

Yusuf la guardò negli occhi con un sorriso amaro e le sfiorò la guancia con le dita.

— Che in tutti questi anni non ho mai trovato il coraggio di dire la verità. A nessuno, nemmeno a Ishak, ad Amir, a Zhure e nemmeno a te. A nessuno. —

— Quale verità? —

Fu come un’inondazione. Tutto il dolore traboccò, travolse la rabbia, la vergogna e il rammarico e come l’acqua riprende il suo corso naturale rompendo gli argini che l’hanno costretta, l’anima di Yusuf parve finalmente raddrizzarsi e respirare di nuovo.

Mentre parlava, Ràhel gli aveva afferrato le braccia, come per resistere alla forza di quella piena e lui non aveva mai staccato lo sguardo dal suo, cercando di immaginare i suoi pensieri, tentando di intuire il suo giudizio.

La luce della candela tremolò e si spense. Yusuf aveva esaurito le parole e anche la voce. Attraverso il lucernario, la luna ricopriva tutto di una patina argentata. Le mani di Ràhel si posarono sulle sue spalle e poi si intrecciarono dietro il suo collo, il viso così vicino da sentire il profumo di spezie nel suo respiro.

— Siamo vivi, Yusuf. — disse. — Dönek è morto, Vali è morto. E Ishak, e Amir, e Zuhre…—

Le lacrime appese alle sue ciglia brillavano nella luce lunare.

— Ma noi siamo vivi. —

Gli posò un bacio sulle labbra e lui la strinse in un abbraccio che sapeva di dolore e di sollievo. Quanta vita c’era in quel suo corpo sottile e forte…

 

 

La luna si era spostata nel cielo e solo una sua piccola parte era ormai visibile dal lucernario.

Sdraiato su un fianco, un braccio ripiegato dietro la testa, Yusuf ascoltava il respiro di Ràhel addormentata lì accanto e ne accarezzava con gli occhi le forme vestite solo del chiarore lunare. Assaporava quel suo abbandono come aveva goduto del suo slancio appassionato. L’onda straripante di vita con cui l’aveva travolto lo aveva lasciato sconcertato e del tutto inerme. Non aveva potuto far altro che cedere a quel suo tentativo quasi disperato di dimostrargli che non giaceva sotto un paio di braccia di gelida terra e che c’era ancora sangue nelle sue vene.

Ora la stanchezza gli intorpidiva ogni muscolo, ma il sonno stentava ad arrivare. Il dolore ancora occupava un angolo della sua mente e da quel luogo buio sussurrava incessante. Yusuf sapeva che solo col tempo sarebbe riuscito a farlo tacere, ma non poteva negare di sentirsi più libero ora che aveva trovato finalmente la forza di strappare quel segreto dal suo cuore. Provava vergogna per aver negato così a lungo la verità alla donna che, senza riserve e senza alcuna pretesa, gli era rimasta accanto in quegli anni, condividendo le prove difficili, le sconfitte e i successi, l’oscurità della perdita e la dolcezza pericolosa dei momenti di pace. Sentiva di averle fatto un torto, ma di averlo fatto soprattutto a sé stesso. Quando ogni giorno può essere l’ultimo, quando a ogni respiro potrebbe non seguirne un altro, la pace dentro la mente è la sola priorità. Per lui, che aveva passato la vita a ridere in faccia alla morte, custodendone gelosamente un frammento tagliente dentro di sé, quella ragazza fiera era stata una dura lezione oltre che un dolce rifugio.

Ràhel si girò nel sonno, mormorando qualcosa in quella sua strana lingua così musicale e appoggiò la testa e una mano al suo torace. La cicatrice che aveva sulla spalla sembrava brillare alla debole luce della luna già scomparsa dal riquadro del lucernario. Yusuf la sfiorò con un dito, mentre i ricordi facevano crescere di tono il ronzio doloroso in fondo alla sua mente.

Aşkim…— sussurrò, quasi sorpreso del sapore agrodolce di quella parola sulla lingua.

Lei si accostò di più, insinuando, senza svegliarsi, una gamba fra le sue.

Te iubesc…— sospirò, la voce impastata di chi sta sognando.

La dolcezza quasi lacerante che lo sommerse lasciò Yusuf senza respiro. Non le aveva mai sentito pronunciare quelle parole, ma ne conosceva bene il significato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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