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Autore: _ayachan_    27/11/2008    19 recensioni
A cinque anni dalle vicende de "Il Peggior Ninja del Villaggio della Foglia", che ne è stato delle promesse, dei desideri e delle recriminazioni dei giovani protagonisti?
Non si sono spenti con l'aumentare dell'età. Sono rimasti sotto la cenere, al caldo, a riposare fino al giorno più opportuno. E quando la minaccia è che la guida scompaia, quando tutt'a un tratto le scelte sono solo loro, quando le indicazioni spariscono e resta soltanto il bivio, è allora che viene fuori il carattere di ognuno.
Qualunque esso sia.
Versione riveduta e corretta. Gennaio 2016
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'eroe della profezia'
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Penne 19
Capitolo diciannovesimo

Il cavallo rosso




Una foschia leggera restava sospesa a un metro da terra, avvolgendo i pochi suoni e rendendo incerti i contorni del sottobosco, entro i cui confini non penetravano i raggi del sole pomeridiano. Tra una grande felce e una roccia avvolta dalle radici di un albero enorme c’era un piccolo tratto di foglie schiacciate dalla forma particolare.
Un topo si avvicinò con cautela, annusando stranito il sottobosco. Sotto i baffi tremanti sentiva odori sconosciuti. Percorse con attenzione il contorno della traccia appena scoperta, quindi si azzardò a tendere una zampa verso la zona calpestata, un milione di volte più grande del suo intero corpo, e la ritrasse vibrando freneticamente il naso rosa. Come se ci avesse ripensato, trottò rapido per un lungo tratto fino a raggiungere di nuovo il sottobosco familiare, infine se la squagliò sotto un cespuglio.
I rospi giganti non erano tra i suoi incontri preferiti.

Duecento metri più avanti gli alberi tremavano all’impatto delle zampe robuste sul terreno. Il grande rospo procedeva spedito, spiccando balzi che oltrepassavano abbondantemente gli alberi e ripiombando a terra con massiccia brutalità. Sul suo dorso, aggrappato disperatamente alla pelle rugosa della nuca, uno shinobi scombussolato cercava di mantenere l’equilibrio serrando convulsamente le ginocchia.
«Tutto bene, ragazzo?» chiamò Scheggia, in un curioso miscuglio di tenerezza e divertimento.
«Sì!» mentì Akeru, smozzicando poi tutti gli insulti che conosceva.
Un giorno di viaggio interrotto solo per i bisogni fisiologici, il chakra che ormai rispondeva a sbalzi e lo stomaco che protestava con violenza gli facevano rimpiangere le carinissime missioni di livello S che gli affidavano come Anbu.
«Ottimo» approvò il rospo, piombando su una macchia di aceri e mandando nel panico un nido di tordi. «Sapevo che eri in gamba! Il biondino a quest’ora avrebbe avuto lo stomaco sottosopra!»
Akeru ingoiò un conato di vomito e si guardò bene dal rispondere, cercando di ignorare i sussulti del paesaggio circostante. Poco più avanti rispetto a loro il minuscolo uccellino rosso di Chiharu volava senza un’incertezza, come se la fatica non esistesse. Li guidava dall’inizio e probabilmente aveva già percorso quella strada in senso opposto, eppure non rallentava e non si riposava mai. Ma all’improvviso Akeru lo vide virare bruscamente e tornare sui suoi passi in un ampio cerchio.
Scheggia si fermò di scatto, tanto che per un attimo il ragazzo temette di scivolare oltre la sua testa e finire a terra.
«Che succede?»
L’uccellino svolazzò davanti al muso del grosso rospo. Quello rimase immobile, come in ascolto. Annuì un paio di volte, poi gracidò piano.
«Scendi, ragazzo.»
«Perché?» indagò lui, domandandosi se i muscoli doloranti delle cosce avrebbero risposto.
«Perché da qui devi andare a piedi. Io sono troppo ingombrante per passare inosservato.»
Akeru obbedì e scese dal dorso di Scheggia, muovendosi con cautela sulle gambe piene di acido lattico. Cercò con lo sguardo l’uccellino che li aveva guidati, ma non appena lo vide quello ripartì nella direzione che stavano già percorrendo.
«Tornerete più tardi, con l’altro girino che devo portare indietro» lo rassicurò bruscamente Scheggia. «Io vi aspetto qui.»
Akeru rimase dietro alla sua guida iperattiva costringendosi a non pensare alla stanchezza. Ben presto, tuttavia, si accorse che il vero problema non erano le mancate ore di riposo, quanto piuttosto l’immobilità a cui era stato costretto sul dorso del rospo. All’improvviso scoprì che correre un po’ sui suoi piedi gli faceva bene.
Procedettero per quasi un quarto d’ora. L’uccellino non gli semplificò affatto la vita, insinuandosi in passaggi minuscoli e rischiando più volte di perdersi. Akeru masticò insulti tra i denti, convinto che fosse stata Chiharu a istruirlo così, e, impegnato com’era a tenere il passo, non si accorse di aver oltrepassato la linea invisibile che il gruppo sette aveva disegnato attorno al luogo in cui era accampato, e che aveva il compito di avvisarli di ogni intrusione.
A un tratto l’uccellino si fermò; Akeru lo imitò, riprendendo fiato, e tese i sensi alla ricerca di un segnale. Si trovava al centro del nulla, circondato dagli alberi e immerso nel silenzio. La sua guida si era posata su un ramo ed era intenta a lisciarsi le piume con cura.
Baka si chinò per studiare il terreno, strusciando le dita sui resti quasi invisibili di un accampamento recente. L’erba schiacciata e rade tracce di cenere lasciavano intendere che il luogo fosse stato liberato in fretta e furia, probabilmente dieci minuti prima. Si rialzò, guardandosi attorno furtivo.
«Sono io» sussurrò alle foglie, sentendosi vagamente stupido.
L’unica risposta che ottenne fu il basso richiamo dell’uccellino, che lo fissava severamente. Si schiarì la voce.
«Siete ancora vivi?»
L’uccellino arruffò le penne e prese il volo, librandosi sopra la sua testa. Akeru non sapeva perché, ma era sicuro di stargli antipatico. Fu per quella ragione che gli sembrò di cogliere nel richiamo successivo una nota di esasperato sarcasmo, quasi un rimprovero: devo fare tutto io, sciocco implume.
Finalmente, da un albero, Chiharu balzò a terra.
Alla buonora!’ avrebbe voluto esclamare Akeru indignato. E invece non appena la vide gli tornò in mente la loro ultima, illuminante conversazione, e con essa tutto il disprezzo di cui lei l’aveva sommerso. Così si limitò a fare un passo indietro e guardarla male, arrossendo leggermente.
«Ce ne hai messo di tempo» si sentì dire mentre anche Kotaro atterrava davanti a lui.
«Si fa quel che si può» sibilò nervosamente. «Allora, dov’è l’Uchiha?» aggiunse quasi subito, prima di infuriarsi.
«Qui» rispose Kotaro; e nel momento in cui lo diceva Hitoshi sbucò dai cespugli, con l’espressione funerea di un condannato a morte.
Akeru cercò il suo sguardo con una punta di malignità. Adesso chi è il perdente? si trovò a pensare.
«Che vuoi?» ringhiò Hitoshi sulla difensiva.
«Niente» rispose Akeru, sollevando leggermente il mento. Poi si voltò a guardare Chiharu, come se fosse diventata lei il leader del gruppo. «Un rospo ci aspetta a venti minuti da qui. Lo accompagno e torno.»
Chiharu si limitò ad annuire, ma a lui non sfuggì il modo in cui evitava lo sguardo di Hitoshi. Anche se non avrebbe voluto, dentro di sé sentì una vocina esultare.
«Ce la fai?» chiese, con un tocco di sufficienza nel tono.
L’Uchiha lo fulminò con lo sguardo. «Se non chiudi quella bocca ti do un pugno» minacciò, ma l’emicrania gli impedì di essere sferzante come avrebbe voluto.
Akeru decise per buona pace di mantenersi sul neutrale. «Andiamo. Non c’è neanche gusto...»
Accompagnò Hitoshi da Scheggia sforzandosi di essere uno shinobi impeccabile. Non fece frecciatine, non insinuò nulla, non cercò di mettere alla prova la sua velocità né di carpirgli punti deboli. Quando arrivarono a destinazione si limitò a guardare con un certo distacco la smorfia che comparve sul viso di Hitoshi, un misto di sorpresa, stizza e dolore, e gli chiese nel tono più incolore se riusciva a stare in groppa al rospo.
Hitoshi bofonchiò qualcosa che sapeva di insulto, al che Akeru fu a un passo dall’assestargli un calcio. Poi optò per una tattica diversa.
«Scheggia, vacci piano con lui. E’ allievo di Naruto.»


«Cioè dobbiamo eliminare sei guardie, recuperare l’ostaggio e darcela a gambe senza feriti?» sbalordito, Akeru passò lo sguardo da Chiharu a Kotaro e di nuovo a Chiharu. «Noi tre?» aggiunse per chiarire il concetto.
All’improvviso la battuta con cui aveva annunciato che non aveva bisogno di riposo prima di iniziare la missione gli sembrò un po’ troppo spavalda. Sentiva l’acido lattico che ancora gli indolenziva le cosce.
«Paura?» insinuò Chiharu. Ma, senza il solito sorriso sarcastico, il suo commento sembrò un insulto velenoso.
Akeru si rattrappì impercettibilmente, comprendendo che tirarsi indietro ora gli avrebbe portato dosi di umiliazione non tollerabili. Si convinse che da quel momento l’avrebbe odiata: solo perché aveva fatto l’idiozia di dichiararsi non voleva dire che ora lei potesse permettersi qualunque cosa. Ovviamente non sapeva che il malumore di Chiharu era dovuto a ben altre questioni – e persone – per cui decise di renderle pan per focaccia.
«Paura per voi» rettificò acido. «Io sono un Anbu: ho completato missioni ben peggiori. Mi chiedo solo se voi uscirete vivi da questa... E, detto in tutta franchezza, non mi fido della via di fuga escogitata da te all’ultimo minuto. Quindi: o ci dici cos’è prima di partire, o non ci muoviamo.»
Chiharu gli rivolse una faccia di marmo. Si impose di contare fino a tre, arrivò almeno a sette, quindi inspirò a fondo.
«Piccola e boriosa testa di cazzo» esordì gelida. «La mia non è una via di fuga escogitata all’ultimo minuto, è la via di fuga suggerita dal Sesto Hokage. E se lui non ha detto cos’è, allora sono autorizzata a non spiegarti niente. Se hai problemi prepara un esposto scritto e presentalo al suo segretario.»
Akeru sentì il sangue che saliva alle guance. «Sì, beh, autorizzata un bel niente» mugugnò sotto lo sguardo esasperato di Kotaro, che ormai aveva gettato la spugna. «Ti ricordo che io sono un Anbu, l’élite di Konoha, e tecnicamente nella gerarchia...»
«Tu sei un ninja medico» troncò Chiharu. «Noi combattiamo. Se sei qui oggi è perché sei l’unico che riesca più o meno a collaborare, volente o nolente, quindi rispolvera le tue tecniche di lotta e non rompere. Devi solo seguirci. Ce la fai, vero?»
Kotaro fece una smorfia: umiliare Baka Akeru prima di iniziare non gli sembrava la mossa più intelligente.
«Chiharu...» mormorò infatti, sottovoce.
Lei gli scoccò un’occhiataccia. Non si sarebbe scusata. No. E comunque Stupido lavorava meglio quando lo insultavano, era appurato.
Akeru serrò i pugni e la fissò con rabbia. Oh, quanto sarebbe stato facile risponderle, lì su due piedi, e distruggerla con poche parole... Lui era un Anbu: aveva visto del mondo molto più di quello che Chiharu poteva anche solo immaginare, e soprattutto aveva visto di Konoha tutto quello che lei non aveva nemmeno la più vaga idea che esistesse. Sarebbe bastato un istante per farle capire quanto inferiore era rispetto a lui. Ma rimandò giù le parole, conservandole per un momento migliore - anche se gli costò uno sforzo notevole. Sapeva che quel momento sarebbe venuto, prima o poi, perché lo attendeva da cinque lunghi anni.
Kotaro sbuffò e tirò un calcio a un ciottolo, sentendo evaporare il sollievo provato all’idea che venisse Stupido e non Yoshi. Ma anche se tutti erano preda di un vortice di ribellione tardo-adolescenziale, qualcuno doveva riportare le cose alla normalità, no?
«Comunque per oggi non ci muoviamo» disse dunque in tono risoluto. «Domattina al cambio della guardia agiremo. Baka, cerca di riposare più che puoi nelle prossime ore.»
«Vado a dormire anche io» disse Chiharu cogliendo la palla al balzo.
«Va bene» grugnì Akeru rassegnato, lasciandole la sua piccola vittoria. Dopotutto era appurato che Chiharu lavorava meglio quando il suo ego era alle stelle.


*


L’aveva inseguita giorno e notte, braccata come una preda, circondata, messa in trappola, accerchiata; e ancora gli sfuggiva. Come un animale riusciva ad evitarlo, a fare finta di nulla, a nascondersi ai suoi occhi indagatori. L’aveva cercata a casa, al lavoro, le aveva fatto agguati lungo la strada, ma invano. Se c’era una sola persona al mondo che poteva schivare le tattiche di Naruto Uzumaki, quella persona era Sakura Uchiha, al secolo Haruno.
Eppure alla fine anche lei aveva commesso un passo falso. D’altronde era stata malvagiamente ingannata dal peggior cavallo di Troia che mente umana potesse cogitare. Come avrebbe potuto immaginarlo? Il piccolo Itachi che la avvicinò in cucina, chiedendo un biscotto con sorriso angelico, sembrava esattamente l’Itachi che era uscito dal suo ventre cinque anni prima. E quando all’improvviso esplose in una nuvoletta di fumo e si tramutò in un idiota biondo, ormai era troppo tardi.
«Naruto!» esclamò Sakura, al momento troppo sorpresa per arrabbiarsi.
«Presa!» esultò lui trionfante. «Adesso non puoi dire che hai altro da fare, o che ti chiamano, o che non mi hai visto! Sei in trappola!»
Sakura sentì il sangue salire alle guance, e nemmeno per un istante pensò che fosse colpa o imbarazzo: sapeva di per certo che era ribollente, vendicativa e assolutamente giustificata collera.
«Io ti ammazzo!» ringhiò serrando la mano a pugno.
«No! Sei in casa tua!» strillò Naruto, gettandosi al volo oltre il tavolo. «Sakura! Sakura, è roba tua! Non vuoi davvero spaccarla!»
«Come ti sei permesso? Hai preso le sembianze di mio figlio - mio figlio! E ti sei introdotto in casa mia!»
Sakura scattò attorno al tavolo e Naruto sgusciò rapido dall’altro lato.
«Ho dovuto farlo! Sakura! Sakura-chan, ti prego!»
«Vorrei dire che sei inqualificabile, ma sei anche peggio!»
Naruto si aggrappò al tavolo pensando freneticamente a quali kunai segnati avesse in giro per casa e se fosse possibile dislocarsi là prima di morire.
«Sakura! Dai! Lo sai che dobbiamo parlare!» la supplicò, sperando di farle sufficientemente pena.
Sakura si bloccò, strinse i denti ed espirò pesantemente, costringendosi a scaricare la tensione. Prima o poi sarebbe dovuto succedere, riconobbe. Con rabbia, allora, afferrò una sedia e ci si sedette bruscamente.
«Dimmi quello che devi e poi vattene» disse irosa.
Naruto sbatté le palpebre all’altro capo del tavolo. «Davvero?» balbettò incerto. «Non è un trucco? Non mi schiaccerai sotto il tavolo appena mi sarò seduto?»
Sakura lo fulminò con lo sguardo e lui si affrettò a gettarsi sulla prima sedia a tiro. Appoggiò le mani sul tavolo. Tossicchiò.
«Sì, ehm, dunque.»
Trovarsi seduti a parlarne era abbastanza disagevole. Nelle sue fantasie lui e Sakura discutevano come vecchi amici, magari davanti a una tazza di tè o al ramen Ichiraku. Qualunque problema avesse, lui le metteva una mano sulla spalla e lei si confidava. Probabilmente in quelle fantasie c’era una grossa parte del Naruto tredicenne innamorato di Sakura, ma era irrilevante. Calcolò ad occhio la lunghezza del tavolo e, prima di introdurre l’argomento, si chiese se stendendosi sul piano sarebbe riuscito a battere pacche confortanti sulla sua mano.
«Cosa sta succedendo tra te e Sasuke?» chiese facendosi coraggio.
Sakura strinse le mani l’una all’altra. «Niente...» mormorò, incapace di convincere persino sé stessa.
«Sakura-chan, io sarò un idiota, ma se anche quest’idiota ha capito che qualcosa non va allora è qualcosa di grosso» protestò lui quasi offeso. «Perché me ne vuoi tenere fuori? So che Sasuke è asociale quanto un calcio nei denti, ma pensavo che almeno tu... Insomma, noi siamo ancora il gruppo sette!»
Sakura si azzardò ad alzare gli occhi, ma vedendo l’espressione sicura di Naruto si sentì schiacciata e li riabbassò.
«Questa volta non è nulla che tu possa sistemare» sospirò, raddrizzando lentamente la schiena. «Sono problemi di coppia. Seri problemi di coppia. Non c’entrano niente con il gruppo sette.»
Naruto si accigliò. Problemi di coppia? La stessa coppia che era nata demolendo brutalmente la sua felicità? Quella coppia che, in un certo senso, aveva il dovere di essere ancor più felice?
«Cosa vuol dire ‘problemi di coppia’?»
Sakura evitò il suo sguardo. «Fraintendimenti. Nello specifico, io che sono un’idiota» spiegò sbrigativa. «Quindi, vedi, non è nulla per cui tu possa fare qualcosa.»
Naruto si grattò la nuca. Problemi di coppia, certo. Faccende private. Eppure loro erano ancora il gruppo sette: lui avrebbe dovuto essere l’ago che faceva tornare l’equilibrio se gli altri litigavano. Perché né Sakura né Sasuke si erano rivolti a lui? E perché sembravano tanto convinti che non avrebbe potuto fare nulla? Quasi come se del gruppo non fosse rimasto niente...
«Non so come stiano le cose, ma...» sussurrò, quasi a disagio. «Beh, sono sicuro che ci sia qualcosa che potete fare, giusto? Non può essere una faccenda seria. Dai, Sakura, tu e Sasuke... Lui è... E tu... Insomma, voi siete sempre...»
Tacque, sentendosi infinitamente idiota. Di solito riusciva a trovare le parole giuste, quelle che cambiavano le cose e le miglioravano; perché oggi non ci riusciva? Il fatto che il problema riguardasse Sasuke e Sakura aveva ancora il potere di paralizzarlo?
Non sentì Sakura ribattere, quindi giocherellò nervosamente con le proprie dita. Seduti nel silenzio entrambi rimasero fermi. La casa era deserta, loro erano deserti, e non potevano fare altro che ascoltare il tempo che scorreva, calpestando ogni cosa.
Naruto inspirò ed espirò lentamente, prima di parlare di nuovo.
«Devo dirti una cosa. Il momento è il più schifoso, me ne rendo conto, ma... Hitoshi sta tornando a casa.»


*


Dal punto in cui erano appostati, i tre shinobi vedevano chiaramente lo sperone di roccia dove Loria era tenuta prigioniera. La baracca ai piedi della montagna era silenziosa, ma da un’apertura nel tetto saliva una sottile spira di fumo. Venti metri più su, alla fine di un sentiero invisibile e aspro, la grotta in cui Loria era tenuta prigioniera si perdeva nell’oscurità del granito.
Dovevano essere vicini al cambio della guardia, avevano calcolato, e per questo decisero di attendere finché non avessero visto gli uomini scendere lungo la cengia. Avevano osservato le guardie per tutto il tempo in cui avevano aspettato Akeru, e avevano notato che prendevano il loro lavoro molto alla leggera: i turni si susseguivano con lieve irregolarità, senza troppe precauzioni; dall’ostaggio restava sempre un uomo, ma i sostituti non sputavano certo sangue prima di raggiungerlo. Probabilmente sei anni di routine avevano diffuso la convinzione che non sarebbe mai successo nulla.
Gli shinobi della Foglia non dovettero attendere molto: quando il sole andò a illuminare la base della grotta videro una delle guardie uscire sbadigliando. Chiharu fece un cenno veloce, e tutti e tre scattarono all’unisono. Scesero la scarpata che li aveva riparati fino a quel momento, sentendo il terriccio franare sotto i piedi e le foglie che frusciavano contro le braccia. Non si preoccuparono eccessivamente di essere silenziosi, quanto piuttosto di fare alla svelta: era di fondamentale importanza che agissero quando da Loria c’era solo un uomo.
Raggiunsero il tratto di terreno pianeggiante che separava i due costoni rocciosi e oltrepassarono il letto di un ruscello scavalcando il rigagnolo che lo attraversava. Muovendosi come un sol uomo si tuffarono nella vegetazione riarsa per proseguire carponi verso la capanna poco distante. Spiarono l’uomo di ritorno dalla grotta mentre rientrava chiedendo a gran voce del cibo, e quando fu fuori dalla vista loro emersero dal nascondiglio e si separarono con un cenno del capo.
Kotaro raggiunse l’ingresso della capanna scivolando sotto le aperture che servivano da finestre. Si acquattò accanto alla porta, tese l’orecchio; dentro gli uomini si scambiavano commenti, e si sentiva rumore di stoviglie. Il ragazzo prese un respiro profondo, guardando per l’ultima volta la grotta in cui tenevano Loria, infine sfilò due kunai dalla cintura e in un balzo attraversò la porta aperta.
Gli shinobi all’interno furono colti completamente di sorpresa, mentre erano immersi in un pasto freddo consumato attorno a un tavolo. In quel momento tre erano seduti e un altro era in piedi, pronto a sostituire nella grotta il compagno che era appena rientrato. Prima che potessero rendersi conto di essere stati attaccati un kunai si conficcò nella spalla di quello in piedi e Kotaro si lanciò in avanti per rovesciare il tavolo.
Nella capanna si scatenò il putiferio: le grida dell’uomo ferito si mescolarono al rumore dei piatti rovesciati e del legno che si spaccava. I tre shinobi che stavano mangiando reagirono armandosi dei coltelli caduti tutt’intorno, ma contemporaneamente Chiharu e Akeru entrarono dalle finestre per assalirli alle spalle. Nella concitazione Kotaro non riuscì mai a capire chi tirò fuori la carta-bomba, ma a un certo punto un’esplosione lo scaraventò contro una parete e gli fece sfondare il legno ormai vecchio, piombando di schiena nella polvere. Tossì, rotolando sul fianco, e vide che anche i nemici erano rimasti coinvolti: uno giaceva privo di sensi sui resti del tavolo rovesciato, gli altri si stavano rialzando. Di Chiharu e Akeru, però, non c’era alcuna traccia. Soltanto piccoli sbuffi di fumo dove le loro copie erano scomparse.
«Già a questo punto?» mormorò Kotaro distendendo le labbra in un sorriso. «Tre contro uno, eh!»

Alla fine del sentiero che si inerpicava su per il costone di roccia c’era un piccolo spiazzo di poco più ampio. Quando l’eco dell’esplosione raggiunse lo shinobi dentro la grotta quello cacciò fuori la testa per vedere cosa fosse successo, e per poco non scivolò giù dal dirupo per la sorpresa. D’istinto si voltò a guardare il prigioniero nascosto tra le ombre, poi di nuovo la capanna, finché un ciottolo non gli rimbalzò sulla spalla facendogli alzare lo sguardo.
Sopra il margine superiore dell’apertura, dove le assi di sostegno si incrociavano, incontrò lo sguardo sorpreso e un po’ stizzito di quella che aveva tutta l’apparenza di una kunoichi della foglia appena scivolata.
«Akeru!» chiamò Chiharu, balzando giù non appena vide le mani della guardia correre alla cintura.
Lui reagì in fretta, accanto a lei, e la coprì da una pioggia di shuriken intercettandoli con i propri. Lo shinobi della Roccia lanciò un’imprecazione di rabbia e intrecciò le dita in un serie di sigilli, ma Chiharu lo intrappolò nel controllo dell'ombra prima che la terminasse.
Akeru saltò giù e si chinò di scatto per evitare la fiammata della trappola che aveva innescato. Con la coda dell'occhio si accorse che tutt'attorno erano state sistemate pergamene-trappola più o meno mimetizzate. Si girò per avvisare Chiharu, ma in quel momento lei mosse un piede, lottando con i tentativi del nemico di liberarsi, e ne innescò un'altra.
Ci fu un'esplosione, e Chiharu fu sbalzata oltre il bordo del sentiero.
«No!» gridò Akeru, scagliandosi avanti per prenderla.
La afferrò per un braccio appena prima che si allontanasse dal suo raggio d'azione, e quando ricadde contro la parete sentì le ossa della spalla scricchiolare e i muscoli stirarsi dolorosamente. Chiharu sbatté contro la roccia con un gemito soffocato, svuotando i polmoni in un colpo solo. Akeru vide con la coda dell’occhio che il nemico si rialzava, lo vide estrarre il kunai e avventarsi su di lui.
«Tieniti!» gridò a Chiharu, mollandola di scatto, e si voltò per parare il colpo.
Chiharu perse per un attimo la concentrazione e sentì il chakra che non aderiva alla roccia. Scivolò forse per un paio di metri, lottando per riprendere fiato e dimenticare il dolore alle costole, quindi guardò su verso le sagome che spuntavano oltre il bordo, impegnate nel corpo a corpo. Ignorò i flash che andavano attenuandosi davanti agli occhi e si issò di nuovo fino al sentiero, ansante. Lasciò Akeru che ribaltava le posizioni con il ninja della Roccia, spingendolo schiena per bloccargli entrambe le braccia, e piegata per il dolore raggiunse la grotta.
La luce del mattino illuminava solo un brevissimo tratto dell’insenatura di pietra. La maggior parte dell’angusto spazio era immerso nell’oscurità e impregnato dell’odore del muschio. In un angolo, a terra, c’erano delle coperte dall’aria macilenta e una sagoma più scura.
«Loria?» ansimò Chiharu, entrando con cautela.
La sagoma nell’ombra si mosse impercettibilmente, ma non parlò.
«Siamo ninja di Konoha. Veniamo per conto di Suna» spiegò lei, avvicinandosi.
«...Vi manda Gaara?» chiese finalmente una voce, arrochita e sottile.
«Sì. Siamo qui per liberarti.»
Chiharu si inginocchiò sulle coperte stese a terra e sentì le rocce aguzze sotto le rotule, mentre le sue costole lanciavano lamenti di dolore. Cercò a tentoni le corde che tenevano Loria imprigionata e le trovò ai polsi e alle caviglie, non troppo strette ma nemmeno lente. Mentre le sue mani si muovevano su quel corpo buio ne sentì il gelo, la magrezza, l’atrofia dei muscoli troppo a lungo fermi. Sciolse i nodi che la assicuravano e le chiese se riusciva a reggersi in piedi. Loria provò ad alzarsi, ma con magri risultati. Chiharu la aiutò a farlo e iniziò a condurla verso l’uscita.
Non avevano ancora messo piede nel cono di luce dell’ingresso che le raggiunse la voce di Akeru, un grido allarmato che riecheggiò sulle pareti umide: «Fuori!»
Un istante dopo i bordi sfrangiati dell’apertura tremarono sotto la violenza di due esplosioni, e davanti agli occhi sgranati di Chiharu una frana andò a coprire la loro unica via di fuga, gettandole in un buio impenetrabile.

Akeru si affrettò a raggiungere l'ingresso crollato della grotta, scavando a mani nude tra i detriti che l'avevano chiusa. Aveva appena ridotto all'impotenza lo shinobi con cui stava lottando, che quello gli aveva sorriso e aveva sussurrato: «Bum.» Allora aveva capito che portare via Loria avrebbe innescato un'altra trappola, ma il suo avvertimento era arrivato tardi.
L’acciottolio dei sassi che cadevano si mescolò al suo respiro rapido e ai pensieri che gli si accavallavano in testa. La frana era solo esterna? O era crollato anche l’interno? Quanto era spesso lo strato di roccia? Kotaro? Quanto ancora avrebbe tenuto duro? E Chiharu... Chiharu, che in teoria lui odiava, che non avrebbe curato, Chiharu che lo guardava con disprezzo e che lo aveva rifiutato senza il minimo rimorso... Chiharu che forse non c’era più, e lui sperava soltanto di poterla curare, ora, perché non era vero che la odiava, perché non gli importava se l’aveva rifiutato e lo disprezzava, perché tanto era uno stupido, e non imparava mai.
«Fatti indietro...»
Akeru si bloccò all’improvviso. La polvere gli grattò la gola, acre. Forse non aveva davvero sentito quel che gli sembrava di aver sentito.
«Haru?» chiamò incredulo.
«Fatti indietro!» ripeté la voce attutita oltre le pietre, ora più forte.
Akeru si spostò lungo il sentiero, sentendosi improvvisamente stupido. Chiharu che c’era ancora, dopotutto, con la solita soluzione pronta e l’irritante senso di inferiorità che era in grado di instillare in chiunque. Chiharu che, in fin dei conti, odiava, e che probabilmente non avrebbe curato. Nonostante fosse incredibilmente sollevato di saperla viva.
La frana rimase immobile e muta per un lunghissimo istante. Poi i ciottoli più piccoli, sulla sua superficie, vibrarono. I frammenti più grandi si unirono ai loro sussulti, scivolarono verso il basso, e furono seguiti dai massi più pesanti che rotolarono oltre la scarpata. Lo shinobi della Roccia fu travolto dalla caduta di uno degli ultimi: scomparve oltre il bordo senza avere il tempo di fare un lamento.
La polvere si sollevò nell’aria, diradandosi quasi subito. Akeru aguzzò la vista per distinguere qualcosa tra le particelle grigie e vide una mano fare presa su un grosso masso.
«Chiharu!» esclamò raggiungendola. «Tutto bene?»
«Uno schifo» tossicchiò lei, issandosi fuori con gli occhi arrossati e le mani graffiate. «Ci è quasi caduto addosso, non ti dico la polvere... Si soffocava.»
Akeru si sporse nel tratto aperto tra l’esterno e la grotta e afferrò le braccia pallide che si protendevano in cerca di aiuto. Tirare fuori Loria richiese molta meno forza del previsto, dal momento che sembrava fatta d’aria, ma quando il sole la accecò e si accasciò addosso a lui fu evidente che avrebbero dovuto portarla in spalla per tutto il tempo. Akeru le gettò solo una veloce occhiata: aveva tra le braccia un fantasma dai capelli sbiaditi.
«Ci sei?» chiese Chiharu starnutendo.
«Sì, è fuori.»
Con una specie di sospiro Chiharu allontanò la mano che fino a quel momento aveva tenuto premuta sulla roccia. Come lo ebbe fatto i sassi che si mantenevano immobili al di sopra del passaggio precipitarono, e la fenditura fu ricoperta. Non usava molto spesso il chakra elementale, ma all’improvviso fu contenta che Naruto l’avesse tormentata perché imparasse qualche tecnica.
«Kotaro ci aspetta» ricordò, cercando di liberare la gola dalla polvere.
«Stai bene?» le chiese Akeru, incapace di nascondere la preoccupazione.
«Oh, per favore!» ribatté lei infastidita.
«Per favore cosa?»
«Per favore tutto!»
Stizzita, Chiharu scavalcò Akeru e toccò terra nonostante qualche difficoltà.
Stava bene? Probabilmente no. Come dire, aveva la leggera impressione di non essere molto abituata alle missioni in cui doveva faticare, e il suo cuore stava iniziando a farglielo notare... Ma qualunque accenno alla faccenda davanti a un ninja medico sarebbe stato un suicidio professionale: aveva avuto a che fare con quella specie di creature abbastanza a lungo per capire che non ragionavano come gli altri, che facevano di ogni erba un fascio. Quindi, prima che Akeru potesse ribattere, lo richiamò e fissò la scarpata che scendeva a valle.
«E’ fattibile?» chiese, accennando a Loria che guardava giù con gli occhi sgranati.
«No» troncò lui, teso. «Non con lei, si spezza al primo urto.»
Chiharu sfregò le dita sulla fronte e imprecò.
«Kakashi, maledizione...» mugugnò.
«Che?» replicò Akeru.
Chiharu sbuffò e sfilò dal marsupio un piccolo involto di carta di riso.
«Ricordi il mio famoso antidolorifico di cinque anni fa?» spiegò, estraendone una pillola verdastra del diametro di un centimetro. «Quello che poi era una droga?»
«Lophenaria? Quello che ti ha quasi fatto ammazzare?»
«Che ci ha salvato» puntualizzò lei. «Mio nonno e i suoi hanno studiato quella roba, questo è il risultato. E’ simile alle pillole degli Akimichi, o a quelle degli Inuzuka per i loro cani. Uno schifo, insomma. Ma ci porterà tutti a casa.»
Akeru la fissò confuso.
«Aspetta. Stai per prendere una pasticca di... droga?» esclamò poi, quasi strozzandosi.
«Appositamente trattata» minimizzò lei, cacciandosela in bocca. «E comunque non potrei fare altrimenti: è il nostro famoso cavallo segreto» aggiunse dopo un istante. E dentro di lei un pizzico di orgoglio si mescolò al dubbio: perché Kakashi le aveva sempre proibito di evocare quelle bestie, eppure ora lo aveva suggerito esplicitamente...
«Ma porca di quella...» imprecò Akeru, tentato di spingerla giù dalla scarpata. «Tra te e tuo nonno non so chi sia più deficiente!»
«Ehi» lo rimproverò Chiharu, guardandolo male. «E' di mio nonno che stai parlando, maleducato.»
Con una smorfia si morse il pollice.

Kotaro sentiva le fibre dei muscoli che tremavano per la fatica mentre atterrava un ninja della Roccia crollandogli addosso. Si strinse al nemico per impedirgli di coprirlo di pugni, gli prese la testa tra le mani e la sbatté a terra violentemente. Sentì un kunai contro la schiena appena in tempo per deviarlo rotolando, e con un calcio tentò di far cadere lo shinobi che lo aveva attaccato.
«Come puoi avere ancora fiato?» gridò quello finendo in ginocchio.
Kotaro si rialzò e si asciugò la bocca con il dorso della mano. «Non lo spreco a lamentarmi» borbottò, stordendolo con un calcio.
Si guardò intorno ansimando. Un uomo giaceva poco distante, gli ultimi due a pochi passi; lo shinobi riverso sul tavolo non si era mai ripreso. Kotaro pensò che suo padre sarebbe stato fiero di lui, e al pensiero un sorriso gli distese i muscoli del volto. Ma insieme a quelli cedettero anche i muscoli delle gambe, e senza volerlo si trovò a terra con gli arti tremanti e un brutto senso di nausea. Sperando che la vista del cielo lo avrebbe aiutato a non svenire annaspò per girarsi sulla schiena, ma vide soltanto le nuvole vorticare sopra la sua testa. Oh, sapeva che era colpa sua; sapeva che tre contro uno e due porte del chakra potevano essere un’idea stupida... Ma era figlio di Rock Lee e discepolo di Naruto, non poteva fare nulla di diverso.
E fu così, mentre la vista gli si annebbiava, che il suo campo visivo fu invaso da una fiammata intensa e accecante, rossa come il fuoco. Due punti neri densi di intelligenza si pararono su di lui prima che iniziasse a cadere nell’oblio.
In quel modo, tra gli artigli di un uccello scarlatto e arancio, alla fine perse conoscenza.

Tra le ali del volatile Chiharu si aggrappava con forza alle penne della schiena. Si sporse verso i resti della baracca che si allontanavano mano a mano che risalivano.
«Ce l’abbiamo?» chiese sovrastando il fischio del vento, e prima che Akeru potesse sporgersi e rispondere fu preceduto dal richiamo acuto del loro cavallo, un enorme uccello rosso screziato d’arancio e porpora. Irrigiditosi, l’Anbu lo fissò con disappunto, quasi offeso.
«Lei sta bene?» chiese ancora Chiharu, voltandosi a malapena per gettare un’occhiata a Loria; la vide che si stringeva con tutte le poche forze alle penne scarlatte che frusciavano tutt’attorno, e vide Akeru che teneva una mano a coprirla nel caso in cui il vento l’avesse sbalzata via. Era un idiota, ma come medico dimostrava un po’ di buonsenso. E d’altronde, lei per prima aveva qualche serio problema con la cavalcatura.
«Tu come stai?» replicò Akeru scrutandola con aria di rimprovero; sembrava che non le avrebbe mai perdonato quella pasticca.
Lei finse di non sentire e si voltò. Si sforzò con tutta se stessa di sembrare calma e perfettamente in salute, anche se no, non stava bene, e non sarebbe stata meglio a breve. Nonostante la Lophenaria di Shikaku sentiva lo stomaco contratto e la testa pesante, ma soprattutto sentiva un peso in mezzo al petto. Un peso che conosceva, e che avrebbe dovuto ignorare fino all’atterraggio.
Quasi ad ammonirla, l’uccello sotto di lei tese i muscoli della schiena in maniera innaturale, e Chiharu, in risposta, si piegò sul suo collo così da non intralciarne la forma.
Il viaggio di ritorno sarebbe durato quindici lunghe ore.



  
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