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Autore: Fannie Fiffi    08/02/2015    9 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sono imperdonabile. Semplicemente imperdonabile.
Siete liberi di tirarmi frutti e ortaggi di qualsiasi genere, o più semplicemente di cyber-insultarmi a volontà. 
Posso solo chiedervi scusa e dirvi grazie. Grazie del sostegno, grazie delle belle parole (giuro che presto mi metterò e risponderò ad ognuno di voi, giuro giuro).
Mi ritiro e vi lascio al capitolo, sperando che vi piaccia e che non deluda le vostre aspettative.

Buona lettura!

 


 
 

Is It Any Wonder?

 



Fuori da quella stanza, fuori da quello strano capannone abbandonato, Clarke cadde.

Inciampò contro il pavimento umido e sporco, si piegò sulle ginocchia mentre ogni parte del suo corpo le urlava di non smettere di muoversi, di continuare a correre finché non avesse raggiunto un posto in cui potersi salvare, ma i suoi piedi e le sue gambe deboli non sembravano esser della stessa opinione.

Cadde contro la ghiaia di quello spiazzo appena fuori dalla sua prigione, e sentì le ginocchia sbucciarsi contro la strada ruvida, il sangue colarle fino alle caviglie a causa dell’impatto, e scalciò con tutte le forze, tentò di rimettersi in piedi con i palmi delle mani premuti contro i ciottoli che le ferivano la pelle, e ogni suo pensiero era comunque volto alla fuga, a non guardarsi indietro, a mettersi in salvo.

Immaginò addirittura che potesse trattarsi di un perverso e malsano gioco dei suoi rapitori, quello di farle credere di poter avere una via di scampo, ma più correva lontano da quella struttura, da quell’incubo che aveva vissuto per non sapeva quanto tempo, più la sua mente le urlava di non pensarci, di continuare a muoversi.

Arrivò ad una strada principale – non sapeva dove fosse, non sapeva nemmeno quante ore fossero passate dal ballo, o se si trattasse addirittura di giorni – e, senza nemmeno curarsi di altro, avvistò il benzinaio che quella strana figura le aveva indicato.

Se avesse avuto ancora energie per farlo, Clarke sarebbe scoppiata in lacrime.

Tutto quello che riuscì a fare, però, fu spostarsi confusamente i capelli bagnati dal volto, e asciugarsi le mani contro il tessuto sporco e rovinato del suo vestito elegante.

Si gettò verso l’asfalto senza curarsi delle automobili che sarebbe potute passare, o del dolore sotto le piante dei piedi.

Non poteva preoccuparsi di null’altro, non quando la sua salvezza era così vicina da poterla già assaporare.

La giovane Griffin non seppe come, ma corse.

Corse con le gambe tremanti e stanche, il mal di testa che le pompava contro le tempie, la paura che sembrava mangiarla dall’interno e deteriorarla un pezzettino alla volta.

Arrivata davanti alla piccola tavola calda che aveva subito intravisto, si accorse della scarsa presenza di persone che potessero aiutarla. Era vuota.

Nonostante ciò, la bionda barcollò fino alla porta d’entrata e la aprì, appoggiandosi con tutto il peso, con le spalle pesanti e la schiena nuda.

Il rumore di un campanellino appeso all’ingresso la fece sobbalzare, e dal bancone della casa si sporse una donna anziana, probabilmente sulla sessantina.

« Oh, Dio! » Fu la sua esclamazione, non appena la vide.

Clarke tremò e fece un passo avanti, nonostante oramai non riuscisse più a tenere gli occhi aperti.

La signora aggirò il bancone e corse verso di lei, e la bionda non pensò alle conseguenze, si gettò fra le braccia di quella figura premurosa e sprofondò il volto nella sua spalla.

Quello di cui non si accorse, però, era di essersi gettata contro di lei con tutto il peso, e l’altra donna non riuscì a sorreggerla.

Clarke cadde in ginocchio – le ferite che già sanguinavano non fecero altro che bruciarle ancora di più, ma non le importava – e abbracciò le gambe dell’anziana, senza esser ancora in grado di dire una parola.

« Oh, piccola, cosa ti è successo? Devo… Devo chiamare la polizia! » La voce squillante dell’altra persona le rimbombò nelle orecchie, lontana e confusa, e la più giovane riconobbe i sintomi dello svenimento. Aveva esaurito qualsiasi tipo di energia.

« La prego… » Sussurrò, gli occhi già socchiusi, e il suo mormorio si confuse contro le proprie braccia ancora strette attorno alle gambe dell’anziana, « devo chiamare… Una persona… »

« Ok, ok, tesoro, ascolta. Io vado a chiamare la polizia nel retro, tu prendi questo e chiama chi devi. Torno subito, ok? Aspettami qui. Aspettami qui. »

Le passò un telefono cellulare e Clarke ci si aggrappò come se fosse la propria àncora, poi le accarezzò lievemente i capelli e camminò via.

La giovane Griffin si trascinò con i gomiti verso una delle panchine di pelle rossa dei tavoli da pranzo, e vi si appoggiò con la schiena.

Il pavimento sotto di lei era freddo e duro, ma non le importava.

Prendendo qualche respiro profondo, le gambe stese davanti a lei, lanciò uno sguardo all’orario sul display. Le sei e trentacinque di domenica mattina.

Senza nemmeno esitare un altro istante, digitò il numero che non aveva mai realizzato di sapere a memoria fino a quel momento, e reclinò il capo contro il tessuto morbido dello schienale.

Mentre il telefono squillava, si permise di chiudere gli occhi e deglutire, ma la sua gola era secca e bruciava, desiderosa solo di un po’ d’acqua.

« Pronto? »

Neppure si accorse che l’altra persona aveva risposto, finché non la sentì ripetere ancora una volta quella parola.

« Pronto? » C’era qualcosa di strano nella sua voce, una tensione, un nervosismo che la faceva sembrare ancora più profonda.

Era così felice di poter sentirla nuovamente, ma non fu in grado di rispondere. Era troppo stanca.

« Clarke? » Stavolta un sussurro. Un sussurro disperato e allo stesso tempo speranzoso.

Fu quello che la convinse.

« Bellamy… »

« Clarke! Dio, dove sei? » La bionda deglutì di nuovo, gli occhi ancora chiusi, e si rilassò impercettibilmente contro lo schienale.

« Ehi, piccola, dimmi dove sei. Ti prego. Ti vengo a prendere. »

Fu in quel momento che Clarke rabbrividì. Aprì gli occhi di scatto e il respiro le si bloccò in gola con un rumore strozzato, abbastanza forte perché anche Bellamy lo sentisse.

« Che succede? » La sua voce allarmata le giunse cristallina attraverso la cornetta, e questo non fece altro che farla stare peggio.

La giovane Griffin annaspò in cerca di aria, si portò una mano alla gola, gli occhi ancora sbarrati che correvano in mille direzioni, e scalciò inutilmente contro il pavimento sporco del suo stesso sangue della tavola calda.

Perché la paura in quell’attimo fu peggiore e più travolgente di qualsiasi altro sentimento avesse mai provato in tutta la sua vita, tanto da farle desiderare di voler scappare, anche se razionalmente sapeva ormai di essere al sicuro.

Perché aveva finalmente comprese, e in un attimo fu tutto dolorosamente chiaro.

" Ehi, scusa, tu sei la vicina di Bell, vero?”

Era quasi ironico, a dire il vero, che riconoscesse quella voce solo ora che sentiva quella di Bellamy.

Perché sì, Clarke aveva capito chi era stato a liberarla. Aveva risentito la sua voce nella propria testa, aveva rievocato le prime parole che si erano scambiati, e ora non poteva semplicemente crederci.

“Clarke, che piacere! Resti per cena?”

Atom. Atom, il migliore amico. Atom, il ragazzo simpatico e un po’ riservato che l’aveva accetta fin dal primo momento. Atom, che in realtà si era presentato con un passamontagna e, chissà per quale motivo, l’aveva lasciata andare.

Una parte di sé sapeva che avrebbe dovuto dirlo subito, ora, rispondergli che sapeva chi era stata a rapirla – Dax ed Atom, per quello che era riuscita a vedere – e che era pronta a denunciarli, a farli sbattere in prigione.


Un'altra parte, però, sapeva che, se Dax fosse stato arrestato, lei non avrebbe mai saputo la verità su suo padre, e che, se avessero preso Atom, questo avrebbe distrutto Bellamy.

La sua risposta, quindi, fu un semplice: « No. »

« No? » Il più grande dei Blake parve giustamente confuso, mentre un rumore in sottofondo accompagnava la sillaba. Probabilmente era già salito in macchina.

« Non voglio che tu mi venga a prendere. » Mormorò lei, chiuse gli occhi e tirò su con il naso, perché lacrime traditrici rischiavano di sfidare la gravità e correrle giù per le guance per l’ennesima volta.

E no, non avrebbe spezzato il cuore all’unica persona che le avesse fatto capire di possederne uno lei stessa. Non quando era fermamente convinta di poter risolvere la questione da sola. Doveva pur esserci un motivo, se Atom l'aveva lasciata andare, e lei lo avrebbe scoperto.

Lo decise in quel momento, sdraiata sul pavimento di una tavola calda fra NonSoBene e ChissàDove, affamata e stanca e sull’orlo dello svenimento, e quello fu il gesto più generoso che avesse mai compiuto per qualcun altro.

« Chiama Wells », sussurrò poi, ben consapevole del perché il maggiore dei Blake fosse caduto nel più grave dei silenzi, « voglio Wells. »

Annuì a se stessa e sorrise, perché per la prima volta si sentiva finalmente l’eroina che non aveva mai avuto il coraggio di essere.

Solo per questa volta, una sola, sarebbe stata lei a sacrificarsi.

Anche se questo voleva dire perderlo per sempre.

« Dimmi dove. » La sua voce le giunse metallica e fredda, così come lei se l’era aspettata, e la bionda gettò un’occhiata stanca all’insegna sopra la sua testa.

« Static Waves Cafè. » Aveva appena terminato di pronunciare l’ultima lettera, ché l’altro aveva già chiuso la chiamata.

Solo in quell’istante Clarke riuscì a tranquillizzarsi, a prendere davvero un respiro di sollievo.

Qualcuno l’aveva rapita, picchiata e tenuta prigioniera per un tempo che le era parso infinito e immobile, quel qualcuno aveva a che fare con il migliore amico del primo ragazzo che l’aveva avvicinata a sé più di quanto avesse mai fatto qualsiasi altra persona, e che ora aveva appena deciso di voler salvare, evitandogli così una dolorosa verità.

La giovane Griffin, esausta e consapevole che di lì a poco sarebbe finalmente potuta tornare a casa, si abbandonò ancora una volta contro lo schienale di pelle di quella panchina bassa, mentre le gambe fragili e insanguinate erano stese inermi di fronte a lei.

Tutto quello che voleva fare era chiudere gli occhi.

Era troppo stanca per pensare a tutte le folli cose che erano successe, per preoccuparsi degli effetti che avrebbero provocato nella sua vita, e a quel punto desiderava solo riposarsi. Smettere di provare.

Nonostante la scomodità della posizione, non fu difficile farlo. La bionda reclinò la testa contro la spalla sinistra, poggiandovi la guancia, e l’ultima cosa che vide fu l’anziana signora che ancora una volta si avviava verso di lei.
 





Clarke si risvegliò al tocco di una carezza che risaliva la linea del suo collo fino a sfiorarle uno zigomo.

Non aprì subito gli occhi, ma si beò di quel contatto per qualche istante, ritrovando in sé un bisogno soppresso per troppo tempo: il bisogno di calore.

Quando però percepì dei mormorii alle sue spalle, una voce fin troppo familiare risuonarle dolcemente nelle orecchie, tutto quello che fu in grado di fare fu schiudere le palpebre.

La prima cosa che vide furono gli occhi di suo fratello, il suo sguardo profondamente preoccupato ma affettuoso, amorevole.

Gli sorrise. Gli sorrise come faceva quando erano piccoli, e lui si prendeva la colpa al posto suo davanti ai loro genitori. Come quando c’era ancora suo padre.

« Clarke… » Sussurrò lui, le iridi appannate da lacrime di gioia.

« Sei al sicuro, ora. »

« È sveglia? Chi è l’idiota che l’ha lasciata lì per terra? Si può sapere chi è il proprietario di questo dannato
posto? »

Oh, eccolo. Immaginava davvero che le avrebbe dato ascolto? Che non sarebbe venuto?

Distratta per qualche istante da quella voce, la giovane Griffin non fece niente. Si limitò a fissare il volto di Wells, che le sorrideva teneramente e le stringeva ancora il volto.

Quando il silenzio – interrotto solo dalle imprecazioni di Bellamy – divenne insopportabile, la bionda si schiarì la gola e si appoggiò sui gomiti, notando di essere ancora sdraiata su quel pavimento.

 « Che ore sono? » Mugugnò fra i denti, ancora impreparata ad incrociare lo sguardo del maggiore dei Blake.

Percepiva la sua presenza alle proprie spalle, aveva sentito la sua voce, e le sembrava di sentire i suoi occhi bruciarle la schiena con una sola occhiata.

« Le sette e pochi minuti. » Rispose Wells, chinandosi verso di lei e lasciando scorrere la sua mano fino alla spalla. Ora che lei era cosciente, il ragazzo poteva finalmente coprirla.

Per questo, si tolse la felpa verde scuro che indossava e l’avvolse attorno alle spalle di Clarke, che rabbrividì al contato con il tessuto.

« So che è ancora presto, so che hai paura e che non posso immaginare quello che hai vissuto, ma ne dovremo parlare. In realtà… »

Lanciò uno sguardo alle sue spalle, verso la cucina, dove Bellamy se ne stava appoggiato al bancone con le braccia incrociate e non distoglieva lo sguardo da loro, « C’è anche qualcun altro che vorrebbe parlarti. »

Sapeva che non avrebbe potuto sfuggirgli. Non ora. Non dopo aver creduto di non poterlo vedere mai più, non dopo aver capito quanto a fondo scorresse il suo affetto per lui, tanto da voler tacere sull’identità di uno dei complici al suo rapimento e aspettare di aver chiarezza su quanto accaduto.

Ecco quanto Bellamy Blake le scorreva nelle vene.

Suo fratello le prese entrambe le mani e l’aiutò a mettersi in piedi, stringendole poi le dita per assicurarsi che avesse equilibrio.

Non appena lei annuì, in un muto assenso, Wells le posò un lieve bacio sulla fronte e si avviò verso l’uscita.

Clarke prese un respiro profondo, cercando di prepararsi ad affrontare una minaccia ancor peggiore di quella del rapimento.

Non fece in tempo a cercarlo, però, ché notò appena un movimento davanti a sé e improvvisamente, come se fossero sempre state lì, le mani forti di Bellamy arrivarono a cingerle e raccoglierle il viso in una presa delicata ma, allo stesso tempo, ben ferma.

La bionda capì che aveva iniziato a camminare nella sua direzione prima che lei si voltasse, e, quando lei lo aveva fatto, i loro corpi si erano semplicemente incontrati e scontrati così com’era stato dal primo momento in cui si erano conosciuti.

Sussultò lievemente e, non appena il maggiore dei Blake poggiò la fronte contro la sua, chiuse gli occhi.

Dentro di sé, in profondità, Clarke sapeva bene che quello era ciò a cui stava rinunciando: quel sentimento di protezione, di elettricità, di parole che non hanno bisogno di essere dette e di piccoli gesti in grado di raccontare i loro segreti.

Non dicendogli di quello che aveva scoperto, prendendosi la responsabilità di scoprirlo da sola, in quel modo gli stava dicendo addio. E quello era il loro addio.

Ciò che a lui sarebbe potuto sembrare un nuovo inizio, lei sapeva che non sarebbe mai stato tale. Che dal momento in cui aveva deciso di mentirgli, l’aveva perso.

Quello che non aveva previsto, però, era che avrebbe fatto così dannatamente male.

« Oh, Dio… » Sospirò alla fine lui, compiendo un passo avanti ed entrando in contatto con il corpo freddo di lei.

Le stava ancora stringendo il volto fra le mani, la fronte appoggiata alla sua e gli occhi di entrambi chiusi, eppure il tempo parve scorrere troppo velocemente, troppo presto.

« Sei al sicuro. » Annuì contro di lei, probabilmente più a se stesso, e continuò: « Ti ho trovata. Ti ho trovata e stai bene, sei al sicuro. Ti porto a casa. Giuro, Principessa, non so cosa… »

« Va tutto bene. » Lo interruppe lei, stringendo forte gli occhi che si erano già inumiditi di stille salate e raccogliendo un briciolo di forza necessario a staccarsi da lui.

Entrambi sollevarono le palpebre e incontrarono il volto l’uno dell’altra, due visi esausti e sfiniti. Clarke incespicò all’indietro, ma non accettò le mani di Bellamy che giunsero a sorreggerla.

Al contrario, si appoggiò al tavolo alla loro destra. Il movimento non sfuggì al moro, che sollevò un sopracciglio.

« Tutto bene? » La giovane annuì, ma non lo guardò negli occhi.

Non voleva mentirgli, non voleva allontanarsi e lasciare che qualunque cosa ci fosse fra di loro svanisse, ma ancora di più desiderava tenerlo fuori da quella storia, dalla pazzia che era divenuta la sua vita, e sapeva che quello era l’unico modo.

« Qui fuori c’è un’ambulanza, ti visiteranno. »

Serrò la mascella e a Clarke non passò inosservato, e le diede le spalle subito dopo. La bionda fece lo stesso, o perlomeno tentò di farlo, poiché in quel momento le gambe cedettero, tremarono e semplicemente crollarono.

Una piccola parte di lei si rese conto che di lì a poco si sarebbe nuovamente schiantata su quel pavimento, ma non fu sufficiente, perciò chiuse gli occhi, in attesa. In attesa dell’impatto, del dolore.

Ma nessuno dei due arrivò mai, sostituiti dalla più piacevole culla umana che erano le braccia di Bellamy Blake.

Lei non poté trattenere un brivido – la consapevolezza che non importava quanto lei lo allontanasse, lui era sempre lì, pronto a prenderla – mentre si accasciava contro il suo petto e sentiva le sue mani serrarsi sotto alle propria ginocchia e circondarle la schiena, stringendola a sé e impedendole di cadere.

« Mettimi giù. » Biascicò debolmente contro il tessuto della sua maglietta, mentre la sua vista continuava ad oscurarsi.

« No. »

 « Bell- »

« Non puoi camminare in queste condizioni, Principessa. Fine della storia. »

La giovane Griffin sbuffò pesantemente, ma ancorò il proprio braccio sinistro attorno al suo collo. Qualche secondo dopo, non appena lui iniziò a camminare verso l’ambulanza, fu finalmente in grado di abbandonarsi alla stanchezza, e chiuse gli occhi.


 

 
*




Una volta essersi assicurato che Clarke fosse stata portata via dall’ambulanza e accompagnata da suo fratello, Bellamy tornò dai suoi colleghi, che avevano delimitato la scena del crimine e si erano appostati proprio davanti al capannone.

« Voglio sapere tutto. » La sua voce forte e profonda interruppe i discorsi degli altri agenti, e il maggiore dei Blake scrutò dettagliatamente ognuno dei loro volti. Voleva al suo fianco solo i migliori.

« L’ultimo proprietario di questo capannone, l’ultimo affitto pagato, chi si è occupato di ristrutturarlo l’ultima volta. »

Elencò sulla punta delle dita tutte le informazioni, continuando a parlare nel tono che usava solamente quand’era a lavoro.

« Dal posto sembra il tipico luogo di raduno per spacciatori. Chiederò informazioni alla mia sezione, ma per ora la pista non è questa. Clarke Griffin è una giovane donna che non ha niente a che fare con i giri della bassa Los Angeles, perciò concentriamoci su altri moventi. »

Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto mettere a banco le preziose informazioni che aveva ottenuto durante quei mesi fuori servizio, ma per ora voleva sondare il terreno.

« Il Capitano Sidney mi ha affidato il caso, da ora in poi risponderete a me. »

Si congedò con un cenno della testa e, arrotolandosi le maniche della camicia fino ai gomiti, passo attraversò la scientifica e la forense, che ancora stavano analizzando la scena del crimine.

Fuori da quel dannato deposito abbandonato, circondato da pattuglie e SUV, Bellamy Blake chiuse gli occhi e prese un respiro profondo.




 
*

 
 
« Clarke, mi senti? Piccola? »

La giovane Griffin riprese conoscenza al suono di una voce ben familiare ed affettuosa, pronta ad accoglierla dolcemente.

Non sentiva quel tono da troppo tempo, e solo in quel momento si accorse di quanto le fosse mancato.

« Mamma? » Chiamò lei, aprendo gli occhi e incontrando immediatamente il viso preoccupato di Abigail.

La donna le stava accarezzando i capelli con delicatezza, e alle loro spalle Thelonious e Wells le osservavano con un profondo calore negli occhi.

« Stai bene, Clarke. Stai bene. » La rassicurò sua madre, avvolgendole le spalle con un’altra coperta e stringendola a sé, così com’era solita fare quando era solo una bambina.

La bionda si aggrappò ai suoi gomiti con tutta la forza che aveva, tanto da farsi sbiancare le nocche, e sprofondò il volto in quel petto accogliente e premuroso.

Nemmeno se ne accorse, quando le lacrime cominciarono a scorrerle giù per le guance e ad atterrare contro le proprie mani.

« Credevo che sarei morta. Credevo che… »

« Va tutto bene, sei al sicuro. Sei qui. Non ti lascerò mai più, tesoro, non ti succederà mai più niente. »

Abby continuò a cullarla a sé finché la giovane Griffin non sentì un nuovo moto di stanchezza assalirla, causato dal pianto liberatorio a cui era finalmente riuscita ad abbandonarsi.

Quella notte, dopo anni e anni, non ebbe incubi.
 
 



 
*




Bellamy passò a prendere Octavia non appena terminò di compilare moduli e fornire indicazioni alla scientifica, ed entrambi si diressero al Mount Weather Hospital  in fretta e furia, senza dire una parola.

La minore dei Blake si limitò a stringere la mano di suo fratello finché non arrivarono al piano di Traumatologia, dove un’infermiera li aveva indirizzati.

Non appena svoltarono l’angolo del corridoio in cui si trovava la stanza di Clarke, i due fratelli incontrarono Wells, che dormiva su una delle sedie d’attesa.

La brunetta gli si avvicinò piano e gli posò una mano sulla spalla, riuscendo a svegliarlo immediatamente.

« Octavia… » La salutò lui, assonnato, rivolgendo poi lo sguardo verso Bellamy.

Il giovane Jaha si alzò dal suo posto e gli strinse la mano, annuendo lievemente.

« Posso vederla? » Fu la prima cosa che gli chiese lui.

« In effetti… » Rispose l’altro, bloccandosi per un attimo. « Clarke sta riposando. Sapete, con tutta questa follia… »

« Come sta? » Lo interruppe la giovane, prendendo sottobraccio il maggiore dei Blake.

« Si è rotta l’indice, c’è il rischio di una costola incrinata e ha diversi lividi. Sta bene, però. È stata cosciente fino a poco tempo fa. »

Bellamy annuì solennemente, le sopracciglia aggrottate e un’espressione grave sul volto, ma l’unico modo in cui si sarebbe sentito meglio era vederla.

Vederla e parlarle, sentirsi dire dalla sua voce che andava tutto bene, che non c’era niente di cui preoccuparsi, che non avrebbe mai corso il rischio di perderla.

Per un attimo si chiese come fosse arrivato a quel punto, come fosse passato dal considerarla una semplice ragazzina viziata a non essere in grado di respirare correttamente senza di lei.

Questa necessità, questo bisogno che lo riempiva e lo svuotava di tutte le energie, si era insinuato in lui giorno dopo giorno, come un’abitudine che non lo lasciava mai, come qualcosa senza cui semplicemente non era capace di stare.

Bellamy Blake era completamente assuefatto dalla ragazza che ora dormiva dall’altra parte di un muro ancora troppo spesso.

I suoi pensieri, però, vennero interrotti nel momento in cui vide Abigail Griffin svoltare l’angolo e incontrare il suo sguardo.

Con tutta la preoccupazione per Clarke e la dedizione con cui aveva organizzato la squadra pertinente al caso, si era quasi dimenticato dell’importante interrogativo che aveva attirato la sua attenzione il giorno in cui aveva visto con i propri occhi i filmati di sorveglianza dell’hotel.

Ora, ovviamente, ricordava bene le parole che la donna più anziana gli aveva detto: un uomo, uno solo, aveva rapito e portato via sua figlia.

Peccato che le riprese provassero tutt’altra versione, e lui non era pronto a lasciar andare la situazione molto facilmente. Avrebbe scoperto la verità e non avrebbe atteso un minuto di più per farlo.

« Signora Jaha! » La richiamò ancora prima che lei potesse voltarsi, e si incamminò verso di lei.
 
 


 
*



 
Clarke osservò Wells richiudersi la porta alle spalle e controllare che non ci fosse nessuno, prima di andarsi a sedere al suo fianco.

« Come ti senti? »

La giovane Griffin si passò una mano fra i capelli umidi e si mise a sedere sul letto d’ospedale che non aveva ancora lasciato.

« Sto bene, Wells. Va tutto bene. » Lo rassicurò, sebbene dentro di sé sapesse che quello fosse lungi dall’essere vero. Niente andava più bene, niente aveva più senso.

« Allora potresti spiegarmi perché ho dovuto mentire a Bellamy. » Suggerì l’altro, appoggiando i gomiti alle ginocchia e osservandola con attenzione.

Sua sorella sapeva che prima o poi l’avrebbe chiesto, sapeva che tutta la sua curiosità fosse giustificata, profondamente legittima, data la grande quantità di tempo che avevano trascorso insieme durante gli ultimi due mesi e mezzo, ma non era ancora pronta a dirgli la verità.

« Sono solo stanca, ok? Sono… »

« Hai ragione, hai ragione. Lo capisco. Non importa, chiaro? Farò tutto quello che ti serve. »

Dopo tutto quello che le era accaduto, dopo quelle ore infernali in cui aveva creduto che sarebbe morta e non avrebbe avuto modo di dire addio alle persone che amava, non la sorprese il fatto che le lacrime si stessero di nuovo facendo strada verso gli occhi.

Si era sentita così debole, così impotente, e non voleva più mandare giù i propri sentimenti. Non voleva più essere l’involucro vuoto che aveva finto di essere per tutti quegli anni.

E avrebbe ricominciato, sarebbe tornata quella di un tempo. A partire dalla propria famiglia.

« Ti voglio bene, Wells. » Confessò in un sussurro, voltando lievemente la testa verso suo fratello.

Il capo di quest’ultimo scattò in su, sorpreso e totalmente colto alla sprovvista da una tale dichiarazione d’affetto – tre parole che non sentiva da quando avevano più o meno quindici anni – e il sorriso che fece capolino sul suo volto sembrò il compimento di qualsiasi suo desiderio.

« Ti voglio bene anch’io, Clarky. »

Non appena sentì quel soprannome, anche lei sorrise, mentre una passerella di ricordi le sfilava davanti agli occhi.
 
 


 
*





« Bellamy. » Abby lo salutò con un tono rigido, probabilmente ben consapevole del motivo per cui fosse andato dritto da lei.

« Credo che dobbiamo parlare. » Le rispose immediatamente lui, aggrottando le sopracciglia e incrociando le braccia davanti al petto.

La donna si tolse dalle spalle il camice ospedaliero e annuì gravemente, indicando con un gesto del braccio una delle piccole sale d’attesa del reparto.

I due raggiunsero la stanza in silenzio e, prima che lei potesse nuovamente voltarsi verso di lui, Bellamy parlò: « Mi ha mentito. »

La Signora Jaha si allungò verso la porta e la chiuse, assicurandosi che nessuno fosse nei paraggi.

« Pensava forse che non l’avrei scoperto? » Più il tempo passava, più l’agente Blake sentiva la propria pazienza fluire lentamente via, sostituita da una sicurezza e da una determinazione che non lasciavano spazio a null’altro.

« Mi dispiace, Bellamy. »

« Le dispiace? Beh, credo che potrebbe fare un po’ di più che essere dispiaciuta. Non lo sa che l’intralcio alle indagini è un crimine penalmente perseguibile? Non ho tempo di occuparmi anche di lei, Signora Griffin, non quando sto cercando di trovare quel figlio di puttana. »

« Io non- »

« No, ora mi stia a sentire. Ho visto i filmati di sorveglianza. Lei mi ha detto che c’era solamente una persona sulla scena del crimine, la stessa che ha attaccato sua figlia con il cloroformio, ma ha mentito. C’era un altro uomo, quello alla guida del SUV. Cos’è che non mi sta dicendo?  »

« Non ho alcun ruolo nel rapimento di mia figlia, se è questo che stai insinuando. » Affermò con fermezza lei, poggiandosi le mani sui fianchi e affrontandolo a pieno petto.

« E allora mi dica la verità. » Quasi ruggì Bellamy, compiendo un passo avanti.

Vide con estrema chiarezza l’incertezza nella sua espressione, come se stesse per dire qualcosa che  non aveva la minima intenzione di confessare, ma che per lei era un peso troppo grande da portare sulle spalle.

« Conosco quel SUV. » Confessò alla fine, lasciando cadere le braccia inerti lungo i fianchi.

« Cosa? »

« Era di mio marito. » Suggerì fra i denti, e lasciò vagare lo sguardo lungo la parete tappezzata di volantini medici alla propria destra.

« Temo che dovrà essere più precisa. » Disse con sarcasmo lui.

Abigail alzò gli occhi al cielo e replicò: « Era di Jake. Quell’automobile era di Jake. »


 

 
*



 
Jasper scartò l’idea di prendere l’ascensore e si gettò verso le scale, che percorse a due a due finché non raggiunse il piano che lo attendeva.

Monty, alle sue spalle, non aveva detto una parola dal momento in cui l’avevano saputo, e si erano subito diretti al Mount Weather.

« Non credo che sia orario di visite… » Propose il moro, mordendosi il labbro inferiore con incertezza.

« Me ne fotto dell’orario di visite, Mon. Devo vederla. »

Erano stati avvisati da Wells solamente da un paio di decine di minuti, e, nonostante sapessero che Clarke non correva alcun pericolo di vita, non avevano potuto fare altro che precipitarsi all’ospedale e correre il più velocemente possibile.

Al giovane Jordan non interessava che l’ultima volta che l’aveva vista le avesse confessato i propri sentimenti, né che da quel giorno non si fossero più rivolti la parola, perché tutto quello era ben più grave.

Il solo pensiero di aver rischiato di perderla per sempre gli aveva tolto qualsiasi energia, lo aveva congelato in una dimensione in cui tutto avrebbe perso colore.

Perché sì, Clarke Griffin era tutto ciò che impediva al suo mondo di scadere in un insulso grigio.

Non appena arrivarono – senza fiato ed esausti – alla camera che gli aveva indicato Wells, i due si guardarono per un breve istante e si precipitarono dentro, prima che qualche infermiera potesse vederli ed effettivamente rimandarli indietro.

« Clarke! » Gridarono entrambi nello stesso istante, avvertendo appena la presenza del fratellastro che era seduto sulla poltrona a fianco al letto, e si gettarono verso di lei in un istante.

La bionda, colta di sorpresa da quell’intrusione, lasciò andare il libro che stava leggendo e si perse nell’abbraccio dei suoi due migliori amici, accorgendosi solo in quell’attimo di quanto i loro profumi gli fossero mancati.

Solo dopo aver corso il pericolo di non rivederli mai più – di non poter più essere membro onorario dell’esclusivo Club del Libro di Monty, o di non poter più dire a Jasper che andava bene così, che non lo avrebbe mai più abbandonato, che avrebbero trovato una soluzione al completo garbuglio che erano diventate le loro vite – prese coscienza di quanto fosse stata fortunata ad averli avuti al proprio fianco, pronti a soffrire e ridere con lei, pronti a passare sopra ogni suo più lunatico atteggiamento, ogni doloroso allontanamento e ogni suo difetto, perché lei era pur sempre la bambina che già a cinque anni aveva dimostrato che anche per loro c’era gente buona e premurosa.

Perciò Clarke sprofondò con il volto fra le loro spalle, e per l’ennesima volta pianse, perché l’aver quasi toccato la morte le aveva fatto capire che non era quello il modo in cui sarebbe dovuta andare la sua vita.

Non era lasciando fuori tutti quelli che l’amavano che sarebbe guarita da quel dolore che le si era radicato nel corpo come un’erbaccia velenosa.

« Mi dispiace. » Riuscì a sussurrare dopo qualche momento, allungandosi e arrivando ad intrecciare le proprie dita con quelle di Jasper.

« Stai bene, stai bene. Va tutto bene. Non preoccuparti. » La rassicurò lui, muovendo la bocca contro la sua chioma dorata, e Monty si limitò ad annuire e a rafforzare la stretta attorno alla sua esile schiena, quella schiena di giovane donna che aveva dovuto sopportare fin troppo, ma che, ancora una volta, era una sopravvissuta.

La ragazza singhiozzò, baciando la guancia del giovane Green, e annuì.








 
 
  
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