Capitolo Tredicesimo
I problemi
degli Orchi
Erag rimane immobile, il più addossato possibile alla
parete, mentre Sinag fronteggia il Drago.
Lo vede dilatare la narici, reprimendo l’ira, vede i
suoi occhi ardere di sdegno mentre trattiene una replica che potrebbe costargli
la vita.
- Non è fattibile – dice infine il comandante; e la
sua voce ha il suono di uno sputo.
La bestia maledetta abbassa il collo sinuoso, portando
il muso all’altezza dell’orco. Nella penombra, i suoi denti emanano un bagliore
affilato, quando fa schioccare la mascella.
- Allora – pronuncia con calma ingannevole – rendilo tale. –
- I miei uomini verranno sterminati, prima che tu... –
Il Drago interrompe Sinag, sbuffando una nuvola di
fumo caldo: - i tuoi uomini sono carne da macello, per me. La loro morte non mi
riguarda. –
- Mi rifiuto di seguire un piano simile! – esplode
l’orco, mentre il suo pugno si abbatte contro la parete. La roccia antica si
sgretola, nero pietrisco scivola a terra – è follia! –
Erag si paralizza, osserva la scena con gli occhi
dilatati dallo spavento.
Il Drago si avvicina, accosta il muso al volto di
Sinag, finché non rimane che un respiro a separarli. L’osserva con i suoi occhi
di fuoco liquido, uno vivido e furente, l’altro annebbiato dalla trama della
vecchia cicatrice.
- Da cosa trai l’ardimento di rivolgerti a me in
questa maniera? – sibila, minacciosa.
Sinag appoggia la mano sull’impugnatura della frusta
uncinata, che gli pende al fianco.
- Siamo alleati, bestia
– replica, gelido – non dimenticarlo –
Il Drago accorcia ulteriormente le distanze, mentre il
cuore di Erag cessa per un attimo di battere e la sua mente si riempie di
immagini raccapriccianti di fuoco, sangue e devastazione. Non sa perché Sinag
si ostini a tirare tanto la corda, né dove trovi il coraggio di rimanere
impassibile, di fronte alla furia della loro padrona. Ma sa che preferirebbe
cento volte seguire il piano suicida del Drago – e morire trascinando con sé
quanti più schifosi elfi possibile – piuttosto che rimanere fra quelle rovine a
diventare poltiglia bruciacchiata.
- Alleati –
sbuffa il Drago, in quel momento – ti nascondi dietro una parola vuota, orco. –
- E allora giudica dai fatti, serpente – replica Sinag – dovrai uccidermi, prima di vedermi in
ginocchio. –
Il Drago tace per qualche istante, mentre i suoi occhi
brillano come fiamme.
Erag riesce quasi a sentire la lotta fra la volontà del serpente e quella di Sinag e la
tensione fra i due gli fa accapponare la pelle. Poi, quasi cogliendolo di
sorpresa, il Drago arretra e torna ad acciambellarsi nella penombra.
- Noi serviamo un unico padrone – dice, in tono cupo –
non intendo disattendere i suoi comandi per il mero piacere di metterti a
tacere, orco. –
Sinag annuisce e, senza inchini o cenni di congedo, si
volta, per uscire dalle rovine.
- Oh, un’ultima cosa – lo richiama il Drago.
L’orco si gira, la mano ancora posata sull’elsa della
frusta, poi una lingua di fuoco cremisi compare nelle tenebre, lambendogli il
volto.
Erag balza indietro, appiattendosi contro la parete, e
ciononostante il calore gli brucia la ruvida pelle delle guance. Ma la cosa più
agghiacciante è il sogghigno, l’espressione di pura, sprezzante soddisfazione,
sul muso affusolato del maledetto serpente.
Sinag cade a terra con un unico grido, premendosi le
mani sul volto devastato dalle ustioni.
- Un monito – pronuncia il Drago – la prossima volta
non aspettarti altrettanta misericordia. –
E alla fine aveva trovato un luogo.
Un luogo cupo, opaco, un luogo quieto dove giacere.
Nelle viscere della montagna,
incastonata e protetta nella roccia più dura, c’era una gemma, brillante di una
luce tanto candida e pura da incantare gli intelletti più acuti.
Ma non fu quel fulgore accecante, ad
attrarlo. I suoi riflessi adamantini lo ferivano, l’aura che irradiava era
quella di un potere superbo. Un giorno, armi sarebbero state estratte per
quella gemma, e come può un oggetto destinato a sì grandi contese essere un
luogo di riposo?
Poco lontano, però, dove una conca
rocciosa prendeva quasi la forma d’una culla, intravide un’altra gemma. Era
grezza, opaca e coperta di grigio pietrisco eppure, quando la sfiorò, seppe di
aver trovato il suo giaciglio, d’esser riuscito nella titanica impresa di
raggiungere l’esatto posto di Arda a cui era destinato.
Si raggomitolò all’interno della
gemma grezza e, finalmente, il sonno discese sul suo corpo, lenendo ogni
ferita, colmando ogni vuoto, ogni infinitesimale crepa nella sua essenza.
Riposò sonni soavi, finché l’assordante
frastuono dei picconi non raggiunse il cuore stesso della montagna.
Luinil sfiora la serratura della cella, con aria
assorta.
- Nessuno è mai fuggito da queste segrete – dice poi,
sollevando di scatto lo sguardo sul prigioniero – quindi è inutile agitarsi. O
grattare le pareti. O imprecare. –
- Non mi dici cosa fare, elfo femmina. – ringhia
l’orco, scagliandosi contro le sbarre e stringendole con le dita luride – i
miei compagni calpesteranno il tuo cadavere! –
Luinil stringe i pugni, reprimendo l’istinto di
indietreggiare, davanti alla foga del nemico.
Niphredil l’ha addestrata per secoli, l’ha corretta
quando impugnava la spada nel modo sbagliato, le ha insegnato a prendere la
mira anche quando la confusione la circonda. L’ha addestrata come un soldato e
l’ha cresciuta raccontandole storie di guerre e di battaglie. Eppure ora, ora
che il momento è giunto, ora che la spada del comando è stata posta nelle sue
mani, Luinil si chiede se è questa, la vita che desidera.
- Tu e i tuoi uomini – riprende, tornando a
concentrarsi sull’orco – vi siete intrufolati nella nostra foresta. Perché?
Cosa stavate cercando? –
L’orco ride, sguaiatamente: - perché pensi che te lo
dirò? –
- Perché – replica Luinil, reggendo il suo sguardo
sprezzante – altrimenti morirai qui. Non oggi, né domani, né fra un anno.
Rimarrai in questa cella finché il tuo stesso corpo non ti tradirà e ti
accascerai in un angolo. E l’ultima cosa che vedrai non sarà la polvere della
battaglia, ma le insegne del Reame Boscoso. Questo fato ti aggrada, orco? –
- Puttana – biascica il prigioniero – non dirò niente.
–
Luinil allarga le braccia e sospira – allora non
intendo sprecare il mio tempo. –
- Riderò guardandoti bruciare – grugnisce l’orco
- Bruciare? – indaga Luinil – i tuoi compagni
moriranno, prima anche solo di sfiorare
una foglia di questo bosco. Il fatto che tu sia qui, invece che fra loro,
dimostra che non potete coglierci impreparati. –
L’orco sputa a terra, poi scoppia a ridere. Una risata
aspra, sgradevole.
- Per la mia gente è finito il tempo delle sconfitte –
dice, trionfante – e presto le tenebre ed il fuoco lambiranno il tuo prezioso
bosco… e non ci saranno luoghi in cui voi elfi potrete nascondervi! –
Luinil estrae la spada e, attraverso le sbarre, la
punta al collo dell’orco. Una goccia di sangue scuro riga la pelle del
prigioniero, mentre la risata gli muore lentamente nella gola.
- Lei ricorda,
elfo femmina – gracchia l’orco, mentre la lama spinge di più contro la sua
carne – non è morta nella Brughiera Arida, come noi non siamo morti ad
Azanulbizar. Il tempo della vendetta è prossimo! –
Luinil si morde un labbro, poi sferra un colpo di
piatto con la spada. Il prigioniero indietreggia, vacillando, poi si appoggia
alla parete e scivola fino a terra, con una bestemmia fra i denti.
Luinil gli volta le spalle e se ne va, senza
aggiungere altro. Sale le scale, ed ogni gradino che si lascia alle spalle è un
piccolo peso che le viene tolto dal cuore. Si sente sollevata, eppure delusa,
delusa da sé stessa.
E’ sempre stata al
fianco del comandante, protetta dalla sua ombra rassicurante, guidata dalla
sua voce alta e sicura, ma oggi non ci sono ordini da seguire. Oggi il
comandante è lei.
- Che il prigioniero sia sorvegliato notte e giorno –
dice, incrociando una guardia – non vorrei che si desse la morte. Ha ancora
molto da dirci. –
L’elfo annuisce, sull’attenti e, per qualche istante,
Luinil lo fissa stranita, sorpresa da quel gesto di ossequio. Poi sospira e,
congedata la sentinella con un cenno del capo, esce dalle prigioni.
Rimane ferma, appoggiata al muro, respirando l’aria
fresca e fragrante, finché il cuore non smette di martellarle nel petto. Chiude
gli occhi e ripensa a suo padre, al suo sorriso entusiasta, al modo in cui la
prendeva fra le braccia e la faceva volteggiare in aria, prima di rotolarsi con
lei nell’erba verde.
Lo ricorda con i capelli raccolti sulla nuca e la
spada al fianco, ma sempre con un sorriso pieno di speranza.
Se ripensa a lui, ripensa all’ultima volta che l’ha
visto, all’ultima volta che lui l’ha stretta fra le braccia, arruffandole i
capelli e baciandole le guance. Ripensa a quanto era fiero di combattere al fianco di Sire Oropher, di ergersi come
ultimo baluardo contro la vera Oscurità.
Era stato per onorare la sua memoria, che aveva scelto
la via della spada, per lui e per il modo in cui Niphredil l’aveva cresciuta,
facendogliela inconsapevolmente apparire come l’unica scelta possibile.
Niphredil si sta lavando i capelli, quando Thorin la
raggiunge e, con un colpo di tosse, cerca di attirare la sua attenzione. L’elfa
solleva il capo, mentre l’acqua le gocciola dalle folte chiome.
- Buongiorno, Thorin – sorride, voltandosi verso di
lui ed iniziando ad intrecciarsi i capelli.
Il sole è sorto da poco, sulla Casa di Angus, ma già
dagli edifici si alza il vociare dei nani, che si riuniscono per la colazione.
- Stasera mio padre convocherà un’assemblea – le
comunica Thorin, asciutto – ed è disposto a fare un’eccezione, se desideri
partecipare. Decideremo dove dirigere i nostri passi, quando lasceremo le Sale
della Birra, e come proseguire il nostro viaggio. –
Niphredil si stringe nelle spalle: - Non desidero
turbare le vostre usanze – sorride – ma apprezzo sinceramente che foste
disposti a farmi assistere a questo concilio. –
- Un’idea di Balin, naturalmente – borbotta Thorin
Niphredil stringe un nastro, per chiudere la massiccia
treccia. Ha ancora i capelli bagnati e rivoli d’acqua le impregnano la camicia
di stoffa leggera.
- Oh, per la Pietra… - sbuffa Thorin, all’improvviso –
senti, devo parlarti. –
L’elfa annuisce, poi si siede su una roccia, sulle
rive del torrente.
- Ti ascolto – dice, con un sorriso interrogativo –
parla pure. –
- Io… - Thorin si torce la mani, poi scuote la testa e
sospira: - … ti sono grato, per quello che stai facendo. Posso fingere di non
saperlo, ma sono certo che la tua patria ti manca e che, in questi giorni di
guerra, preferiresti trovarti assieme alla tua gente, piuttosto che qui, a
guardare il mio popolo che cerca di rialzarsi. Ma sei rimasta… ed io non ti ho
mai davvero ringraziata, per questo. –
Niphredil si scioglie in una leggera risata, mentre
Thorin crolla seduto al suo fianco.
- Non c’è niente da ridere – la redarguisce,
trattenendo però un sorriso.
- Se m’avessero detto che, un giorno, Thorin figlio di
Thràin sarebbe stato grato della presenza d’un elfo, in mezzo ai suoi uomini,
non l’avrei ritenuto possibile. Mi rallegro che, dopo seimila anni, il mondo
sia ancora in grado di sorprendermi. –
Thorin sbuffa, poi dà all’elfa una leggera spallata
- Oh, sta’ zitta. –
Thranduil era rimasto in silenzio, ad osservare Niphredil allacciarsi
l’armatura. Aveva seguito con lo sguardo i suoi movimenti, l’estenuante lotta
delle sue dita contro i lacci troppo rigidi, il ritmico battere del fodero
della spada contro il gambale di metallo, i movimenti nervosi con cui lei
liberava i propri capelli, rimasti bloccati sotto la piastra pettorale.
- Non essere nervosa – le aveva detto, infine, oltrepassando la soglia e
raggiungendola, davanti alla specchiera. Le aveva posato le mani sui fianchi,
stringendola a sé.
- Sii sincero con me, ti prego – aveva sussurrato Niphredil, socchiudendo
gli occhi – perché mi hai scelta come comandante? –
Thranduil le aveva preso una mano e, lentamente, le dita dell’elfa avevano
smesso di tremare.
- Ti ho scelta perché sei stata addestrata per questo - le aveva mormorato
– perché hai la mia fiducia, la mia stima ed il mio affetto. Ti ho scelta
perché sei stata un eccellente capitano e mai un’ombra ha oscurato la tua
condotta. Ti ho scelta perché non vorrei nessun altro, al mio fianco. –
Niphredil si era voltata ed aveva posato il capo sul petto di Thranduil.
- Se non hai fiducia nelle tue qualità – aveva proseguito il re, facendole
scivolare una carezza sui lunghi capelli biondi – abbila nel mio discernimento.
Puoi farlo, meldë nîn (*)? –
Niphredil si era sciolta in una lieve risata: - sì – aveva annuito – posso
farlo. –
Thranduil l’aveva baciata sulla fronte, sorridendo contro la sua pelle e,
per la prima volta dalla battaglia di Dagorlad, aveva avuto la certezza che
sarebbero stati bene, nonostante l’ombra, l’inquietudine, e nonostante tutto
quello che avevano perduto.
- La Coda –
(*) amica mia
Penso di meritare almeno un po’ di biasimo per il
titolo di questo capitolo, ma che diamine, non avevo assolutamente idea di come
chiamarlo! Meglio così che “in attesa di titolo”, no? :P
Ok, svarionamento sul titolo concluso non credo ci sia
altro da aggiungere. Insomma, a parte che vi adoro per il vostro sostegno e per
il fatto che siate ancora qui, a leggere di Niph J
Un abbraccio!
- La Matta -