Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: pierre    12/02/2015    0 recensioni
Che discorsi inutili, sospirò tra se il comandante Antonino Carbo, la vita era semplicemente un gioco tra i tanti con cui gli dei decidevano di trastullarsi, divertendosi a far soffrire gli uomini, ingannandoli, distruggendoli attraverso il dolore o la vecchiaia.
Mentre il cavallo lo conduceva placido tra sassi e cadaveri, si accorse di desiderare ardentemente di non invecchiare mai “meglio morire subito, adesso…” e sconsideratamente chiuse gli occhi quasi sperando che qualcuno gli staccasse la testa dal corpo con una daga: finalmente la fine.
Non si andava nel regno di Ade dopo la morte, non c’era nessuna vita dopo la vita ma solo il buio e l’oblio.
Una risata gli fece tirare le redini scoordinando il cavallo che nitrì.
La daga la sfoderò lui, il corpo già pronto alla difesa.
“Chi ride, chi sei?”
Il sole si trovava già sulla linea dell’orizzonte, un sole freddo tipico della terra dei Bagaudi gli sciocchi ribelli appena sconfitti.
“Assurdo” pensò tra se, la metà era morta in battaglia e lui ci stava camminando sopra mentre le donne e i bambini erano già diventati schiavi.
“Chi sei?” La sua voce tuonò in mezzo alla campagna gelida, mossa da bave di vento.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Benacus 285 dC
 
La villa di Antonino Carbo spiccava bianca tra le vigne e il suo candore era ulteriormente esaltato dal contrasto con l’azzurro del lago.
La primavera era in boccio e la giornata particolarmente gradevole, tanto da invogliare gli ospiti a pranzare sotto la pergola a pochi passi dall’acqua serena e ferma della piccola insenatura dove il padrone di casa aveva fatto erigere un pontile.
I suoi ospiti potevano raggiungere la domus sia solcando con le loro eleganti imbarcazioni le dolci onde del lago che cavalcando tra gli abbondanti frutteti.
La terra era nera e grassa, poco distante il grano ondeggiava ancora immaturo e i meli avevano già perso i piccoli fiori lasciando lo spazio ai frutti acerbi.
La pars dominica era chiassosa, belle donne e giovani uomini chiacchieravano allegri mentre dalla pars massaricia arrivavano odori di cibo notevolmente invitante.
Lucina comandava con autorità le giovani figlie minacciando di venderle alla prima occasione.
“Non meritate la fortuna che avete avuto ad appartenere a questo padrone, siete delle pigre inutili serve! Schiave, dovevate rimanere tutte schiave… ah ma glielo dico io al padrone! Vi faccio vendere tutte! Veloce con quelle uova” aveva abbaiato a una ragazza esile ed elegante mentre le altre, altrettanto deliziose, si agitavano tra forni, catini ricolmi d’acqua e il tavolo di marmo che, imponente, troneggiava in mezzo alla cucina “e tu Zeffirino va a vedere se gli ospiti si sono accomodati… e il vino… mi raccomando! Tutto… devo pensare a tutto io!”
Il buon Zeffirino, arcarius e procurator di Antonino Carbo, si allontanò lieto da quello schiamazzo, detestava la moglie quando diventava isterica ma capiva che l’agitazione di Lucina era legata al desiderio di far fare bella figura al suo signore.
Appena tornato dalla guerra, il loro padrone si era presentato solo alla porta della propria villa. Era sceso da cavallo sporco, esausto, pieno di tagli e nuove cicatrici, così smagrito, che mentre Lucina lo faceva lavare da uno dei figli più giovani, Ottavio, la donna aveva pianto e si era permessa di sgridarlo affettuosamente, come una madre.
Antonino aveva lasciato fare ed era svenuto abbandonandosi in una sorta di oblio; aveva dormito, mangiato cibo leggero e dormito ancora: si era purificato più volte nelle sue terme private, fatte costruire sul lato più nascosto della casa.
Le sue ferite si rimarginavano con una rapidità strana, il fisico asciutto sembrava ringiovanito:  il ricordo del demone Belial non lo abbandonava mai.
Le parole pronunciate da quel mostro sembravano giocare a nascondino tra le chiacchiere e i ricordi che Carbo scambiava con i suoi appena promossi parentes.
Infatti, aveva affrancato tutti i suoi schiavi, non solo Zeffirino ma tutta la sua famiglia.
Ovviamente l’intera tribù non si era mossa di lì e quindi oltre ai due coniugi che lo seguivano da oltre vent’anni, fratelli e sorelle di entrambi, qualche vecchio servo e dieci figli erano diventati i suoi familiari. E Lucina li faceva trottare e minacciava tutti di venderli al mercato.
“Ottavio che ci fai tu qui” aveva esclamato vedendo il figlio adolescente entrare con una certa fretta dentro la cucina.
“Il padrone vuole mangiare: è tutto pronto?” Aveva risposto un po’ agitato il ragazzo.
“Sì, falli accomodare e versa loro il vino” aveva sentenziato Lucina battendo le mani.
Le sorelle e i fratelli di Ottavio si erano organizzati in due file per ordine di altezza e compostamente avevano cominciato a sfilare verso la pergola con vassoi carichi di abbondanti prelibatezze e un lieto sorriso stampato sui volti.
Lucina era stata categorica, in quella casa nessuno doveva avere il broncio.
Ottavio conduceva verso gli ospiti i fratelli e le sorelle e la loro visione strappò un applauso soddisfatto ai commensali.
Antonino Carbo aveva sorriso soddisfatto: come al solito la sua domus era stata all’altezza delle aspettative e non solo per merito dei vari tipi di carne ancora sfrigolante nei vassoi, i pani appena sfornati, il vino fresco o la frutta di stagione.
Era la bellezza dei suoi servi ad allietare i commensali.
Lucina e Zeffirino avevano messo al mondo delle autentiche bellezze, dieci ragazzi, sei femmine e quattro maschi incantevoli.
Giovani, il più grande, Clito aveva ventidue anni, chiari e con gli occhi limpidi che spaziavano dall’azzurro cielo al verde dorato. I loro corpi erano leggeri ma torniti e se i maschi avevano fisici atletici, le ragazze sembravano tante ninfe pronte per essere ghermite.
Due poi erano lo spettacolo nello spettacolo: Ottavio e la sorella Melita erano gemelli.
Antonino li ricordava piccoli, giocare sempre insieme, mano nella mano, nella corte della casa che il padre del comandante Carbo, Artemone, aveva a Roma, una modesta villetta ai piedi dell’Aventino: era lì che gli schiavi Lucina e Zeffirino si erano sposati con la benedizione del padrone.
A quei tempi Antonino non aveva ancora trent’anni e si accingeva a partecipare per la prima volta, come centurione, alla campagna militare contro Sarmanti e Germani.
Era il suo primo ruolo di potere, lui avrebbe riferito direttamente all’ufficiale di grado superiore, solo con lui avrebbe avuto a che fare sul campo di battaglia.
Il piccolo Ottavio, particolarmente affezionato ad Antonino, lo aveva accompagnato piangendo silenziosamente durante tutto il viale che, dalla dimora paterna, lo portava verso l’imponderabile.
Intenerito dai sentimenti del bambino, Carbo era sceso da cavallo e per calmarlo gli aveva regalato la striscia di stoffa con cui proteggeva il collo dal duro cuoio della divisa.
“Tornerai da me?” Gli aveva chiesto Ottavio singhiozzando.
“Te lo giuro” gli aveva risposto Antonino abbracciandolo.
E dopo dieci anni lo vedeva in testa alla fila dei fratelli e delle sorelle, un perfetto archimagirus che sapeva organizzare a dovere qualsiasi banchetto.
Distolse lo sguardo e riprese a parlare con il suo fraterno amico, il compagno di tante battaglie vittoriose, il soldato che più di una volta gli aveva salvato la vita: Rufus Albia era lì accanto a lui che beveva e mangiava ridendo in compagnia degli invitati.
“Allora fratello mio, quando annuncerai il tuo fidanzamento?” Gli aveva chiesto Antonino canzonandolo un po’.
“Piuttosto riparto per un’altra campagna militare: non ho nessuna intenzione di sposarmi, e certo non con una donna scelta da mia madre!” Rufus aveva alzato le spalle.
“La tua carriera politica… non sottovalutare un buon matrimonio con una donna ricca e ben inserita negli ambienti romani” aveva insistito Carbo.
“Roma non c’è più Antonino! Li sono rimasti i senatori e i burocrati, Diocleziano si è trasferito a Nicomedia e il nostro Cesare, Flavio Costanzo, vive con moglie e figlia a Mediolanum. Io non voglio vivere in mezzo a vecchi tromboni e amministratori corrotti” aveva tagliato corto il comandante Albia.
“Ma quanto siamo intransigenti, Rufus! Tutta questa tua esternazione non avrà a che fare con la religione cristiana, vero? Perché ho notato che chiunque si avvicini alla loro filosofia si rammollisce nel giro di pochi giorni” esclamò divertita un’elegantissima commensale.
Ottavio che era accanto alla donna nell’atto di versarle del vino nella coppa già vuota, strinse impercettibilmente le labbra e la smorfia non sfuggì ad Antonino.
“Attenta a come parli Lucrezia” sogghignò il pingue Luciano, un ricco commerciante del luogo “la moglie e la figlia di Diocleziano sono cristiane! A quanto pare saremo tutti costretti a mangiare la carne di un uomo morto sulla croce… che orrore! Si mormora in giro che i cristiani bevano anche il sangue e che facciano sacrifici umani!”
Questa volta il bellissimo volto di Ottavio non espresse alcun sentimento ma gli occhi indagatori del padrone lo seguivano da diversi minuti: doveva essere più attento, non era giusto metterlo in imbarazzo.
Lo guardò di sottecchi, no…  non era inqueto, anzi gli aveva sorriso poi si era nuovamente occupato dei suoi ospiti, in particolare discuteva allegro con il comandante Rufus Albia: una fitta di gelosia dilatò il cuore del ragazzo.
Lo amava.
Lo amava da quando era piccolo, lo seguiva ovunque e lo spiava.
Melita si stava occupando di loro e un’altra forma di gelosia esplose nel suo cuore: Rufus stava guardando la sorella con un’espressione… stupefatta.
Anche la ragazza si era accorta che l’illustre ospite la stava fissando ma non aveva osato ricambiare lo sguardo, sarebbe stato il suo un atteggiamento scandaloso!
“Come ti chiami?” Le aveva chiesto con voce gentile Rufus Albia continuando a guardarla incantata.
La ragazza era arrossita violentemente.
“Giù le zampe da questa ragazzina Rufus!” Si era messo a ridere Antonino guadagnandosi uno sguardo riconoscente da entrambi i gemelli.
“Non volevo essere indiscreto scusami!” Aveva subito replicato Rufus “sono i tuoi schiavi… non mi permetterei mai di…”
“Non sono più i miei schiavi, li ho affrancati qualche mese dopo il ritorno, lo dovevo a Zeffirino che è il padre di tutti questi ragazzi.”
“Ti devono amare molto, ti ronzano intorno continuamente sempre attenti alle tue esigenze!”
Antonino non aveva mai valutato la questione da questo punto di vista ma, effettivamente, non c’era ordine che non fosse eseguito con una solerzia a dir poco commovente.
Una tale affezione se l’era sempre aspettata da Lucina e Zeffirino che lo seguivano fin da ragazzo, ma non dai loro dieci figli: uno in particolare lo seguiva come il cane di casa… gli stava sempre dietro, lo spiava.
Di ragazzi, Antonino ne aveva concupiti parecchi e adesso, quando aveva voglia di svagarsi un po’, andava nel lupanare di Kyros, un’elegante villa dall’altra parte del lago.
I ragazzi del lenone erano famosi per la loro bellezza e le loro arti amatorie erano tra le più raffinate.
Ottavio no, lui era il figlio di Lucina e Zeffirino, doveva del rispetto a quella coppia che lo aveva sempre seguito e accudito come un figlio, era una questione d’onore, lo aveva visto crescere, c’erano loro quando suo padre era morto, loro avevano organizzato il rito funebre e la sepoltura! Con che coraggio ne avrebbe potuto fare il suo amante?
Sapeva per certo che tutto gl’era dovuto, nessuno avrebbe osato contrastare i suoi capricci.
No… il motivo per cui non si avvicinava a Ottavio era perché aveva paura del sentimento che giorno dopo giorno sentiva crescergli nel petto, un’attrazione che mai prima aveva provato per un altro essere umano.
Si sentiva bene solo quando il ragazzo gli era accanto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: pierre