Videogiochi > Assassin's Creed
Segui la storia  |       
Autore: Some kind of sociopath    12/02/2015    2 recensioni
Anno 1769: Haytham E. Kenway, dopo il suicidio dell'amico Jim Holden e la morte della sorella Jenny è tornato a Boston alla ricerca di Tiio. Lei è sopravvissuta all'incendio del villaggio, nonostante il figlio non lo sappia, e Haytham ha intenzione di ricucire la sua famiglia, quella che non è riuscito ad avere nella propria gioventù. Ma non ha messo in conto gli altri Templari, il suo vecchio Gran Maestro Reginald Birch e la piccola e fastidiosissima Confraternita degli Assassini...
_____________________________________________________________________________________________
Il testo dei primi due capitoli è stato rivisto e modificato. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate al riguardo e quale "versione" preferite, ;)
 
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Achille Davenport, Altro personaggio, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Note dell'autrice:
Due parole di numero, ve lo prometto.
So, ho pubblicato oggi perché, per qualche strano motivo, ieri EFP ha dato i numeri e non ci sono riuscita, sorry, D:
Vabbè, a dire il vero è perché ho tipo appena finito di scrivere il capitolo, ma sono dettagli, LOL.
Ah, e il titolo del capitolo non è frutto di una mia invenzione, ma ho citato/copiato il titolo di un capitolo di "Il richiamo delle spade", Joe Abercrombie. I diritti dell'opera appartengono a lui e bla, bla, bla, lo sapete tutti.

Va beeene, direi che chiudo qui e vi lascio al capitolo, scusate ancora, alla prossima! :3

Passarono tre giorni prima che Connor facesse finalmente la sua comparsa dalla Frontiera, tre giorni in cui Tom non aveva fatto alcuna domanda riguardo ciò che mi era accaduto, pensando solo a menarsi l’uccello per i fatti suoi e recuperare il sonno perduto durante la ricerca della strada per il Tempio. Si affacciò nel nostro rifugio tra i cespugli, ormai più simile a una cloaca sudicia, torreggiando come una montagna. giusto in tempo per vedere Thomas venire e farsi arrivare uno schizzo sulla punta degli stivali. Non riuscii a trattenere un sorrisino mentre facevo scattare la lama celata e la lucidavo per l’ennesima volta. Le armi erano state un mio pensiero fisso, in quanto indispensabili per uccidere. Tanto valeva preoccuparsi di quelle piuttosto che lasciarsi trascinare di nuovo all’inferno, così come valeva la pena di sdrammatizzare, quand’era possibile.  
Non su quello, uno dei tabù che la mia mente si era imposta insieme con il possibile tradimento di Charles e il mio ultimo incontro con Tiio. O la sua morte. O qualunque cosa la riguardasse. Il mio passato era un argomento da lasciare fuori da qualsiasi discussione. Non riuscivo a pensarci, figuriamo farci una battuta sopra. – Bentornato – brontolai con un sorriso tirato. – Allora, c’è ancora la guerra o il tuo eroico comandante generale è riuscito a sistemare tutto quanto?
Si strinse nelle spalle e scoccò un’occhiata bieca a Thomas. Lui e le sue pippe portavano un po’ sfortuna, a quanto pareva. – Lee è stato sospeso dal suo incarico e…
– Ci credo, è lì dentro. – Tom si alzò in piedi spolverandosi i calzoni e sputò a terra. Dopo tre giorni di attesa in cui la Frontiera era stata più silenziosa di un cimitero, quella era stata la sola spiegazione plausibile cui eravamo giunti. Ci stavano aspettando all’interno, perché senza di me e senza la Mela Reginald non sarebbe andato da nessuna parte. – Sei ancora convinto che Sua Santità Georgie meriti la tua comprensione? – Era una domanda che avrei voluto porgli anche io, ma non avevo nessuna voglia di ascoltare la risposta. C’era Hickey, no? Lui era ancora abbastanza sano di mente da sopportarlo, da potersi concentrare su qualcosa che non fosse impedire alle proprie cervella di schizzare via dal capo.
– Ha fatto ciò che serviva per la guerra – grugnì il ragazzo, – ma non ha più importanza. Il villaggio è salvo. – Abbassò lo sguardo, la voce ridotta a un sussurro. – Haytham.
Oh, Dio, e adesso che diavolo voleva? – Che c’è, io sono a un livello troppo basso per te e i tuoi modi aristocratici? – Thomas incrociò le braccia e ruttò, guardandomi con interesse e sfida. Come potesse ruttare ingollando soltanto carne secca e sorsi di gin era un mistero impossibile da risolvere. – Ecco, sentiamo un po’ cos’ha da dirti il bastardo.
Roteai gli occhi. – Volevo solo rispettare i patti – mugugnò a capo chino, scavando nella sacca che teneva sulla schiena. – L'ho portata.
Era una strana situazione, perché non mi sarei mai aspettato accadesse così in fretta, anzi, a essere onesto non pensavo neanche più potesse accadere, ma era lì. Davanti a me. Mio figlio era vivo, reale, tangibile, e stringeva tra le mani una palla di vetro simile a una perla, ma grossa come la testa di un bambino. – Al mio villaggio l’hanno chiamata Sfera di Cristallo, ma hanno garantito che è… – Deglutì a vuoto, forse ricordando che quel meraviglioso manufatto gli aveva fatto parlare per la prima volta con Giunone. Lo aveva fatto diventare un Assassino, indirizzandolo a piantare la bandiera dall’altra parte del fronte rispetto a me. Razza di stronza, pensai, ma al contrario di quanto mi aspettavo non ci fu alcuna reazione, niente scariche elettriche né fiotti di dolore dentro la testa.
La bocca mi si allargò in un’espressione stupefatta senza che potessi controllarla quando Connor tese lentamente la Mela verso di me. – Funzionerà esattamente come una Frutto dell’Eden. – Ovvero? Manderà in frantumi la mente di chiunque non sia abbastanza forte d’animo da controllarla?  
Dovetti trattenermi dallo squittire come un bambino eccitato e battere le mani mentre quella sfera di limpido cristallo, completamente diversa da come me l’ero immaginata, dall’interno perlaceo e corposo, come fosse piena di fumo, si avvicinava a me. Sentivo uno strano calore nel petto solo a guardarla, come se il sangue stesse ribollendo nelle mie vene. – La meriti davvero?
Mi resi conto di non respirare e, quando sollevai lo sguardo su di lui, per poco non gli risposi con un grugnito interrogativo. – Per Achille. – Fortunatamente ci era arrivato da solo. Non avrei sopportato di sentirlo mettere in dubbio le mie credenziali come Templare e come Gran Maestro. Non anche da lui, per favore.
Allungai cauto le dita verso la superficie di cristallo. – È per entrambi. Anche tu vuoi… – Non mi lasciò neanche finire, come se tutta quella storia fosse diventata troppo pesante anche per lui e volesse solo farla finita. Mi mise la Sfera in mano e fece un passo indietro, lo sguardo basso e triste mentre io non riuscivo a credere ai miei occhi.
Dio, quando vi strinsi le dita attorno sentii un brivido correre lungo tutta la mia schiena, gli occhi colmi di gioia. Era lì. Era tra le mie mani. Potevo governare il mondo. – Mi è costata molto, Haytham. – Dimentica i tuoi sogni di gloria. Sollevai un sopracciglio, osservando i suoi occhi fissi sugli stivali. Aveva le palpebre mezze abbassate su quello sguardo scuro e deciso. Mi aveva appena portato la Mela dell’Eden, sfotterlo sarebbe stato troppo persino per me. – Il villaggio mi ha bandito. Riporterò loro la Mela e non vi metterò mai più piede. Come se non fosse mai esistito. – Strinse i pugni fino a farsi diventare le nocche bianche mentre assaporavo dolcemente la sensazione del potere che mi scorreva sotto le dita. Era il Paradiso, se esisteva davvero.
Qualcosa che, sicuramente, la morte non mia avrebbe mai concesso. Che l’assaggiassi in vita, dunque. – Mi dispiace – sussurrai. Cos’altro avrei potuto dirgli? Non sarebbe cambiato niente. Aveva comunque ammazzato il suo migliore amico, così come mi aveva aiutato nonostante sapessero che ero un Templare, amicone di quell’altro che aveva cercato di comprare la loro terra, oltre che di Charles Lee in persona. Se quella era la punizione che il suo villaggio voleva infliggergli per aver scelto un’altra strada, quella degli Assassini e dei patrioti, io ero l’ultima persona in grado di cambiare le cose.
Connor si si strinse nelle spalle con un sospiro, tenendo gli occhi fissi su quel manufatto. Sembrava guardasse un vecchio ricordo di famiglia che gli stavo rovinando. – Quindi Lee ha abbandonato il campo di battaglia per tornare da Birch – brontolò mentre s’inginocchiava nella terra insieme a noi. Gli scoccai un'occhiata triste e affilata come la punta di una freccia. Si stava indurendo, quel povero sciocco. Cambiava discorso per pensare a ciò che andava fatto, piuttosto che rimpiangere gli errori cui non poteva più porre rimedio. Una mossa da vigliacchi, da Kenway. 
Da Templari. – Pare di sì – replicai lasciando cadere la Mela nella tasca della redingote. Sembrava irradiare uno strano calore, quasi magnetico, che si batteva furioso contro il vento freddo di quella strana estate e mi scaldava la coscia come una mano amica. Come la pistola qualche giorno prima, quando avevo rischiato di ammazzare Thomas. Rabbrividii, facendo del mio meglio per non darlo a vedere. Almeno, speravo fosse così. – È lì dentro. Con Reginald. – Arrotolai la lingua in bocca e sputai a terra, cercando di liberarmi dello schifoso sapore acido che sentivo intorno ai denti e all'interno delle guance. Non era facile come mi sarei aspettato: appostato lì come il peggiore dei cagasotto, sentivo un peso costante sulla vescica all'idea di abbandonare il mio rifugio sicuro tra le fronde per andare incontro alla morte, in caso le cose fossero andate male. Da entrambe le parti dovevamo essere pronti allo scontro, e avevo passato gli ultimi tre giorni ad arrotare ossessivamente le armi fino a rendere letale anche solo sfiorarle. Ecco quanto avevo dalla mia per combattere la paura, quel terrore di morire che mi cresceva freddo e irrazionale dentro il petto: una cote, armi ben affilate e tutto il fegato che sarei riuscito a mettere insieme.
Dite ciò che volete, io sono un uomo schietto. Reginald poteva avere chissà quale arma segreta dalla sua, e farmi uccidere da Charles avrebbe portato a termine il più eccitante scontro tra rottinculo – resi tali da lui, per di più – di tutto il secolo. E quello che fosse rimasto in vita avrebbe vinto una scopata. Oh, buon Dio. 
La colpa non era tutta mia, eh. Non guardatemi in quel modo. Forse era Tom. Doveva essere infettivo, con i suoi pensieri sessualmente maniacali verso qualsiasi cosa. 
Il fatto era che avevo paura. Più di quanto volessi ammettere a me stesso, molta di più. – Quindi? – Perdio, ragazzo, lascia che me la faccia addosso in santa pace ancora cinque minuti. Con la Mela in mano, con Connor finalmente insieme a noi, non avevo più scuse per ritardare la maledetta resa dei conti.
Il ragazzo portò la mano al tomahawk. – Ho un conto in sospeso con Charles Lee. – Feci schioccare la lingua, pensando che era vero, alla fine, ma non potevo permetterglielo. Non l’avrei permesso a Thomas e alle sue patetiche scommesse, di certo non avrei lasciato che un ragazzino assetato di vendetta sfogasse la propria rabbia sul figlio che mi era sempre mancato. Charles Lee era stato la costante della mia vita prima che spuntasse Connor e persino dopo, in un certo qual modo. Era l’unica persona rimasta che valesse la pena salvare. 
Lo volevo vivo, ecco. Non mi andava di credere che fosse davvero dalla parte di Reginald. Non poteva esserlo, non dopo tutto quello che gli aveva fatto. Sarebbe stato... Dio. Sarebbe stato immorale. Peggio, la morale non c’entrava più niente. Sarebbe stato un errore, semplicemente, perché non era nato per essere il suo schiavo. Charles era un ragazzo indipendente, curioso, fiero di sé. Avrebbe dovuto ribellarsi in nome di questo. In nome di se stesso, diavolo.  
E tu sei l'esperto, eh? Mi passai un dito sul sopracciglio, frustrato, e sputai a terra. Nessuno avrebbe mai dovuto appoggiare un uomo come Reginald. 
Ma, ehi, io ero quello cui sarebbe piaciuto vederlo lavorare con me e Tom, come un nostalgico che agisce in memoria dei vecchi tempi, e nonostante tutto avevo lasciato che Thomas giocasse con lui e gli infilasse una mano nel culo. Chi volevo prendere in giro? Non ero poi migliore di Reginald solo perché la mano non era mia o avevo scacciato Tom quando aveva iniziato a farlo. Ero... 
– Capo, gli anni passano quaggiù. – Ah, e come avrei potuto disfarmi di Tom? Mi teneva con i piedi per terra, mi ricordava che il mondo è soltanto una schifosa cloaca e gli uomini sono ratti da fogna, esseri immondi e meschini, senza alcun reale interessamento l'uno per l'altro. Ci nutriamo di carcasse e le dividiamo, ma siamo sempre pronti a pugnalarci alle spalle per un pezzo più grosso di cui qualcuno vuole privarci. 
Tom mi ricordava ciò per cui mi stavo battendo, e sapevo che, in cuor suo, anche lui teneva ai nostri fini. Me l'aveva giurato, per quanto potessero valere i suoi giuramenti. Era un Templare, no? Era... era uno di noi. Era lì per se stesso? Sicuramente, ma una parte di me era ancora convinta che credesse nell’Ordine.
Che credesse in me. Probabilmente mi avrebbe seguito in capo al mondo se dopo gli avessi offerto un giro a puttane o una birra. Mi piaceva pensare che uno scopo gli servisse davvero. Nessun uomo va avanti solo a bere e a scopare troppo a lungo, non senza crepare nella disperazione, la faccia affondata in una pozza di vomito in un sudicio vicolo di New York. – Avete ragione – sibilai strofinandomi le dita alla base del naso. – Dobbiamo farlo. – Prima che tutta quest'ansia mi faccia impazzire. Battei le mani e mi voltai verso di loro, indicando con il pollice la bocca del tempio circondata da qualche rada fronda – l'ultimo residuo di cui quell’estate vestita da autunno ci aveva beati, prima che arrivasse il gelo a fare solo una trappola mortale di rami appuntiti.
– Connor, tu sarai il primo. – Il ragazzo mi scoccò un'occhiata di sbieco. Non è che volessi sacrificarlo. Roteai gli occhi in un impeto di stizza. – Mi serve qualcuno che lo distragga.
Thomas fece schioccare forte la lingua contro il palato. – Capo, a costo di sembrarti indiscreto, ma... perché non usi la Mela e fai fuori Reginald?
Già, perché? Oh, chi lo sa, Tom, forse perché ho sentito storie di uomini impazziti per quella roba e il suo potere e, Dio m'è testimone, l'ultima cosa che voglio è crepare a questo punto della commedia solo perché sono troppo stupido per elaborare un piano più sicuro. – Semplice – bofonchiai con una scollata di spalle. Ero stanco. Spaventato. Ma la fine era lì. Dovevo solo raggiungerla. – Se per sbaglio quell’affare facesse esplodere qualcosa e ti andassero a fuoco i peli del culo mi spiacerebbe di dover stare a sentire le tue lamentele, almeno quanto a te spiacerebbe avere l’odore di peli bruciati proprio sotto il naso. Meglio organizzarsi per bene, non ti pare? 
Storse la bocca in una smorfia e poi fece spallucce. Fortunatamente qualcuno coglieva ancora il sarcasmo, in quella stupida foresta. – Come preferisci, capo. – Si tirò in piedi, i calzoni affibbiati alla bell’e meglio, e stese le braccia in un fragoroso sbadiglio, il tricorno che sbucava sopra i cespugli. Connor lo trascinò brutalmente giù per una manica mentre Tom metteva in mostra i denti come un vecchio mastino. – Ehi, che cazzo vuoi, bastardo? Stai alla larga. – Altrimenti abbaia. Scappa. 
– Mi dareste retta per cinque secondi, voi due? – Perché non potevo prendere un ramo, infilarmelo in un occhio e lasciarmi morire? Sarebbe stato più facile. – Connor, tu sarai la nostra avanguardia. – Gli si disegnò un'espressione perplessa sul viso, che si dispiegò appena il suo cervelletto ricordò di aver già inserito quella parola parola nella categoria "ambito militare". Perdio. Era stato sempre attaccato al didietro di Washington negli ultimi tempi, doveva pur aver imparato qualcosa. – Smetti di pensare alla vendetta su Charles. – I vecchi rancori possono essere dimenticati per qualcosa di più grande, non eri tu a dirlo? Eh? – Devi entrare nel Tempio e prenderlo senza ammazzarlo. 
Mi scoccò un'occhiata piatta e inespressiva, il che mi fece pensare che forse non aveva capito bene. – Connor? – C'è qualcuno lì dentro o siete tutti a pisciare? – Ti è chiaro quello che ho detto?
Tom sgattaiolò verso di lui, accovacciato a terra, e gli tirò uno schiaffo sulla chiappa con uno schiocco tale da farmi trasalire. Dio, ci mancava solo che facesse una cosa del genere anche a me. Forse gli avrei sparato per davvero, allora. – Piano geniale, capo. Ehi, mister sangue freddo! – Si sollevò a sufficienza da arrivare al suo orecchio. Connor aveva la stessa espressione di un uomo tormentato da un tafano, indispettito, ma non a un punto tale da reagire. Era solo un insetto e se ne sarebbe andato, giusto? – Hai sentito? – Oh, non aveva idea di quanto fastidiosi potessero essere gli insetti come Tom Hickey. – Ti tocca il pezzo grosso dell'Esercito Continentale e manco puoi ammazzarlo! – Thomas si leccò le labbra e si chinò ancora di più sul ragazzo. L’unica reazione che manifestava era una piega amara all’angolo della bocca, come se Tom gli stesse ricordando che, diavolo!, i patti non erano questi. Le cose non dovevano andare così. – Charles Lee! – gli soffiò in un orecchio. – Il fottutissimo generale Charles Lee!
Centro perfetto, Tom. 
Connor gli scoccò un’occhiataccia e lo allontanò da sé con una spinta che lo mandò a gambe all’aria nel fango. Hickey scoppiò a ridere come un bambino, le ginocchia piegate sul petto, e forse avrei riso anch’io se Connor non si fosse voltato a guardarmi con quell’aria incattivita, puntandomi un dito contro. – Se davvero vuoi che mi occupi di lui – sibilò con la voce tesa dalla rabbia, – devi giurarmi che una volta finita questa storia se ne andrà dal Continentale e lascerà in pace Washington. – Strinse gli occhi, la mascella contratta. – Me lo prometti?
Non fu difficile come potreste pensare. Mi strinsi nelle spalle e annuii. Se devo essere onesto, non avevo alcuna voglia di discutere con lui. Avrei pensato dopo a Washington, a come fermarlo evitando comunque una guerra tra Templari e Assassini. Il mio fine primario era la pace, certo, ma in quel momento avevo altro da fare. Altri piani per me e Thomas, mentre Connor si occupava di Charles. Sarebbe giunto il momento di occuparsi del comandante, e allora il mio giuramento non sarebbe stata altro che una sequela di parole vuote e inutili, come sempre sono le promesse. – Coraggio. – Trattenni il cappello sulla testa con un cenno teatrale. – Mettiamo fine a questo maledetto macello.
– E noi due, capo? – sibilò Thomas, la voce ancora scombussolata dalle risa. Avrei dovuto imparare qualcosa di più da lui, come quell’assurda capacità di ridere nei momenti peggiori.Riuscivo soltanto ad avere paura, invece. – Oh, non ti preoccupare – replicai con un sorrisetto, cercando di sembrare sicuro di me. – Ho un piano. 
 
Le mie ginocchia tremavano come quelle di un bambino spaventato. Me ne stavo appoggiato a una nicchia della parete di roccia interna mentre Connor, di fronte a me, aspettava solo un segnale. Riuscivo a scorgere due figure in fondo alla caverna, entrambe intente a studiare con aria interessata la parete coperta di antiche incisioni Mohawk, ma sentivo la lingua secca e mi sembrava sempre il momento sbagliato per dare il via a tutto ciò che sarebbe potuto succedere dopo. Immaginavo il sangue su quelle stesse pietre, a inzuppare la terra e a grondarmi negli occhi. 
Lì dentro non c'era un momento migliore dell'altro, perché sapevano che saremmo arrivati in qualsiasi caso, ma tanto valeva non lasciare nulla tra le mani della sorte e scegliere anche quello. Appena la vescica avesse accennato a smettere di stare per esplodere, s'intende. 
Presi un gran respiro e li guardai un'ultima volta, evitando di farmi il segno della croce o imbattermi in qualche altro rito scaramantico. Strinsi le mani l'una nell'altra ed espirai piano, con calma. Poi sgusciammo fuori dal nostro nascondiglio, io e Tom camminando come non avessimo niente da perdere – la vera ragione, almeno per me, era che se avessi iniziato a correre me la sarei fatta addosso, poco ma sicuro – mentre Connor scivolava leggero e silenzioso verso Charles. Erano lì, maledizione. La sola vista della schiena di Reginald, più ampia di quanto riuscissi a ricordare, con le mani giunte a gongolarsi per la sua fortuna, perché se non avessi detto a Charles dove trovare il Tempio avrebbe avuto molta più difficoltà di quanta ne avevo incontrata io, mi procurò un violento brivido lungo la schiena. E Charles. Da quel che riuscivo a vedere, la redingote marrone gli cascava addosso come un vecchio sasso.
Era strano vederli, vederli davvero. Una parte di me non li voleva lì, a grattare con le unghie il luogo in cui avevo pensato per la prima volta di amare Tiio. Di amare qualcuno. Reginald lo deturpando, inquinando, era come pisciarmi nel vino. E d’altronde, avevo paura che Charles si voltasse. Temevo ciò che avrei visto nei suoi occhi. Ira? Senza dubbio. La stessa che gli aveva fatto uccidere la mia Tiio. Pregavo che ci fosse anche del sollievo, perché ero lì, ed ero lì per lui. Per sottrarlo al destino bastardo che Birch avrebbe continuato a infliggergli.
La bocca mi si contrasse in uno spasmo d'ira, così Thomas lo prese come un segnale. Scagliò un sasso a terra con un baccano che avrebbe potuto risvegliare i morti e Reginald si voltò di scatto. Mi parve quasi di vedere un attimo di smarrimento sul suo volto, ma fu immediatamente sostituito da un sorrisetto… perverso, immagino non ci fosse termine migliore. in volto. Il tempo parve rallentare, denso come melassa. Charles non si era voltato, ma le sue spalle erano crollate, come se si aspettasse una pallottola tra le scapole da un momento all’altro. Reginald lo afferrò per la manica della giacca e lo costrinse a voltarsi verso Connor, che ora correva nella loro direzione alla maniera degli Assassini, le gambe piegate come se dovesse oltrepassarli entrambi con un balzo.
Scorsi un lampo di paura nello sguardo di Lee. Terrore, quello vero, intendo. Ebbi un sussulto soltanto a guardarlo, cercavo il braccio di Tom a tentoni da un lato e la parete del Tempio dall’altra, qualunque cosa potesse reggermi in piedi sarebbe andata più che bene. Lo vidi sguainare la spada e strizzare la palpebre sugli occhi mentre il mio vecchio Gran Maestro gli mollava una spinta che sottintendeva un ordine ben preciso.
Uccidi.
E Charles corse verso mio figlio, quello biologico, in nome di quell’ordine. Per uccidere.
I due impattarono in un groviglio di braccia e gambe. Connor lo colpì con una spallata, quel tanto che bastò a fargli perdere l’equilibrio e la presa sulla sciabola inglese. Non l’avevo mai visto così magro, così debole, il viso smunto e i baffi che ricadevano sulle guance incavate come rami di una pianta morente. Non avevo più paura per me. Temevo che Connor sarebbe venuto meno alla sua promessa, proprio come avevo intenzione di fare io, e che lo avrebbe ucciso comunque, la sua stessa lama ad aprirgli il ventre e vuotarlo di tutto il sangue. Tremavo di paura per lui, per il ragazzo che aveva provato a uccidermi un paio di volte negli ultimi anni.
Come potevo scegliere uno soltanto di loro due? Come? In un minuscolo istante di lucidità pensai che una tregua tra Assassini e Templari avrebbe risolto tutto quanto. Saremmo stati una specie di famiglia, no? E tutto sarebbe andato bene. Provavo a pensarla così.
Poi riportavo gli occhi su Connor e Charles, su quel che stava davvero succedendo nel Tempio, e ogni mia speranza evaporava come acqua nel deserlo. Connor l’afferrò prese per la camicia sgualcita e gli sbatté il pomolo della spada in faccia. Il suo naso si aprì in una fontana di sangue mentre il ragazzo, in preda all'ira, gettava a terra la spada e assicurava Charles a sé, un grosso braccio serrato intorno al suo collo e la gola strizzata nell’incavo del gomito.  
Nonostante ci fosse Reginald lì, davanti a me, a fissarci senza nemmeno sguainare la spada, un sorriso divertito impresso sul viso, mi era impossibile distogliere la sguardo dal mio vecchio pupillo. E quel vecchio non era solo un riferimento a tutti gli anni che avevamo passato l’uno lontano dall’altro. Sembrava davvero che il tempo su di lui avesse avuto uno strano effetto, come quello di una pialla sul legno. L’aveva letteralmente consumato, al punto da non farlo sembrare nemmeno più lui. Eppure a guardarlo non pareva così diverso. Era a malapena cambiato da quando lo avevamo visto a Fort Lee, con gli stessi capelli lunghi e unti aggrovigliati in una matassa disordinata e i baffi scuri che creavano un accostamento strano con i suoi occhi azzurri, gelidi e quasi spietati. Ecco, bastava fissarlo negli occhi e dimenticarsi del resto per rendersi conto di quanto tutta quella faccenda lo avesse cambiato. Erano offuscati da una patina di disperazione e dolore che faceva molta più impressione della camicia cascante sul suo petto scarno e di quei calzoni ormai larghi sulle cosce. In un altro istantaneo lampo di lucidità pensai che probabilmente a Reginald non fregava niente del suo aspetto se accettava comunque di succhiarglielo. 
Serrai i pugni, guardando Charles esibire in un ringhio quei denti giallastri che sembravano strappati dalla bocca di un altro. Quello era il mio ragazzo, eppure mi guardava in cagnesco, rabbioso e senza nessuna speranza. Non era così che avevo immaginato quel momento. Eppure avrei dovuto sapere che le cose non andavano quasi mai come avevo pianificato. Charles mi fissava con le dita strette sul bicipite di Connor e i piedi sollevati a terra, scalciando contro i suoi stinchi.  
Pregavo che tutta quell’ira fosse solo una maschera per celare una gran paura di morire soffocato nella presa del braccio di mio figlio. Paura di crepare. Strano come sia in grado di paralizzarci appena la scorgiamo in lontananza ma ce ne dimentichiamo fin quando non ci precipitiamo dentro fino alla cintola.  
Quello era il mio ragazzo, e io mi ancoravo a quel pensiero. Che nonostante tutto non si fosse dimenticato di me, non si fosse dimenticato del nostro rapporto, dell’Ordine e di ciò che aveva rappresentato per entrambi, e al diavolo Connor e le sue brusche maniere per tenerlo al sicuro. Aveva capito, no? Si dimenava come un bambino capriccioso perché era stretto tra le braccia dell’Assassino, il nostro nemico per eccellenza, ma nei miei occhi doveva aver scorto il sollievo nel vederlo vivo, un sollievo paterno, o così speravo che apparisse.
Sperare?, sibilò una crudele vocetta nella mia testa. Chi vuoi prendere in giro, eh? Pensai che se fossi stato realista avrei dato credito a quella stupida voce. Perché Charles era il mio ragazzo, ma aveva ammazzato sua madre. La donna che credevo di amare più della vita stessa, finché quella non me l’aveva strappata via dalle mani.  
– Gran Maestro! – Ancora una volta dovetti ringraziare Thomas, lui e la sua lingua. Era sempre stato più deciso di me nelle situazioni critiche, forse anche più stupido, più imprudente, ma in quel momento riuscii soltanto a maledire me stesso per non aver aperto bocca prima che lo facesse lui, con la stessa vivace nota d’ilarità che stava usando Tom, quella che avevo ormai imparato a riconoscere.
Mi pareva avesse sempre quel tono quando parlava con le labbra aperte in un ghigno. – È un onore infinito – esclamò, e non ebbi bisogno di guardarlo per capire che aveva sguainato la spada. Gli unici con le armi ancora al loro posto eravamo io, Reginald e Connor, ma il ragazzo non mi preoccupava. Sapevo che Birch non aveva alcun interesse nei suoi confronti. Era un Assassino, il nemico, certo, ma non in quel momento. Prima di pensare agli altri doveva risolvere le scaramucce interne all’Ordine, no?
Un brivido corse lungo la mia schiena mentre continuavo a fissare Charles, gli occhi nei suoi, così freddi e privi di lucidità, arrossati come se stessero per schizzare fuori dalle orbite. Se avessimo ammazzato gli Assassini, tutti gli Assassini, Achille Davenport compreso, io sarei morto in quel vicolo di Boston, e non saremmo mai giunti a quella situazione. Quindi, be’, se c’era qualcuno cui dare veramente la colpa, era proprio la Confraternita. Oppure lui, lui stesso, perché non aveva mai dato l’ordine di sterminarli. Non era mai stato nei suoi piani, per Reginald Birch gli Assassini non rappresentavano nemmeno una minaccia.
Sentii il gomito di Thomas scontrarsi con le mie costole e sussultai, costretto a spostare lo sguardo. Giusto. Reginald. Charles sarebbe stato al sicuro lì, nel ferreo abbraccio spaccaossa di Connor. Dovevo smettere di avere paura e fidarmi, per una volta. Quel ragazzo si era fatto bandire dal suo villaggio, da casa sua, pur di portarmi la Mela e mettere fine a quella storia. Non mi aveva mai dato ragioni per dubitare.
Abbassai gli occhi, le dita che avanzavano lente verso l’elsa della spada corta. Mai un’arma m’era sembrata meno adeguata. Il Tempio sembrava molto più grande di quel che ricordassi. Forse perché in quel momento eravamo io e lei, Tiio, noi due e basta, e la delusione che quella grotta mi aveva versato nel petto era tale da farmi dimenticare dove ci trovassimo. Avrei dovuto avere una sciabola inglese, come quella di Charles, oppure una picca. Sì. Caricare e sfondare lo sterno di Reginald con l’affilata punta d’acciaio.    
– Ci siamo – grugnì Thomas, – è il tuo momento, capo. – Scossi la testa per cacciare quei pensieri e provai a mettere a fuoco il volto di Birch. Il suo corpo, per quanto mi disgustasse. Mi aveva addestrato a cogliere i segni di uno scontro nei movimenti dell’avversario, la tensione nei suoi muscoli, nella punta delle dita, persino in come puntava i piedi, ma erano suoi insegnamenti, cose che ricordava, che poteva evitare come scogli in mezzo al mare. Non c’era nessuno che fosse più bravo di lui a raggirarmi.
L’unico su cui potevo contare era Tom, l’uomo che mi dava di gomito e mugugnava che era il mio momento, come se dovessi presentare una lamentela a Sua Maestà in persona e stessi buttando via la mia unica occasione. Il mio momento. Certo. Dovevo ucciderlo, e non poteva esserci scelta migliore per uno come me.
Caricai il peso sulla gamba sinistra, puntata dietro, con tutta l’intenzione di correre verso di lui, buttarlo a terra con la furia di una belva feroce e sgozzarlo con un solo, rapido colpo. Non avrebbe nemmeno avuto il tempo di prendere la pistola e trasformarmi in un cadavere sulla pietra. Ero più giovane di lui, più allenato, più arrabbiato. Che cos’avrebbe mai potuto fare contro l’inarrestabile forza della vendetta, eh?
– Guarda un po’ qui! – esclamò con le braccia aperte il suo miglior tono carico di finto stupore. – Le due pecorelle smarrite sono tornate all’ovile.
Parlare. Ecco cosa poteva fare.
Quell’espressione mi bloccò lì, immobile, il peso mal bilanciato sulle gambe e la mascella contratta, piena di rabbia. Per un attimo temetti che avrebbe estretto la pistola a pietra focaia per spararmi in mezzo agli occhi, ma non lo fece. Non so dire perché. So soltanto che ebbi il tempo di sollevare la gamba destra e riprendere una posizione stabile. Sollevai i palmi in uno sfottò e mi umettai le labbra alla ricerca di qualcosa da dire.
Non gli avrei permesso di battermi anche con le parole. Era un pensiero stupido e infantile, ma dovevo rispondergli. Per Charles. Per fargli vedere che non tutto era perduto. Non era costretto a obbedirgli, non lo sarebbe stato mai più. Aveva solo bisogno di una spintarella.
Schioccai la lingua contro il palato. – Immagino che, sulla base di questo, tu debba essere Gesù Cristo. – Roteai la spada in un giochetto noncurante, come se non avessi paura di lui, come se non ne avessi avuta fino a cinque minuti prima, quando me ne stavo schiacciato contro la parete del Tempio con il sudore ghiacciato ad appiccicarmi la camicia alla schiena. Così, Charles. Vedi? Volevo mostrargli una via d’uscita, perché c’era, ne ero sicuro, doveva esserci. Solo che non l’avevo ancora trovata.
Pregavo fosse lì. Forse lo sarebbe stata davvero, sepolta sotto il cadavere di Reginald Birch. – Strano – proseguii, un ghigno sulle labbra che mi faceva sentire molto più simile a Thomas di quanto avrei voluto. – Me l’ero sempre immaginato con un’espressione meno pervertita. Più benevola. – Il sorrisetto che gli attraversava il volto fu come un esplicito invito ad andare avanti. – Con tutto il rispetto – conclusi, il palmo sul petto con un fedele rispettoso.
Reginald continuò a sorridere, mostrando i suoi piccoli denti corti con una calma spaventosa negli occhi. Non aveva paura di me, e non sarebbe bastata qualche battutina a fargli cambiare idea, ma non m’importava. Birch non era invincibile, e noi non eravamo più bambini. Sapevamo uccidere. Avevamo strappato la vita di uomini nel fiore degli anni senza battere ciglio, padri di famiglia, novelli sposi, non uno scrupolo aveva fatto capolino nelle nostre sbrindellate coscienze, e poi bastava uno come Reginald a metterci letteralmente in ginocchio.
Volevo solo che la vita di Charles tornasse al legittimo proprietario. Che capisse di potersela riprendere. – Spiacente di aver deluso le tue aspettative – disse Birch trionfale. Parlava come chi sa di avere la vittoria in pugno, e mi andava bene. Poteva uccidermi e gettare il mio cadavere in pasto ai maiali, ma Charles doveva andarsene di lì. Vivo. Come, quando o con chi non era un affare di mia competenza. Vivo e libero. Non m’interessava nient’altro.
Deglutii, e mi sembrò di mandare giù un pugno. Tenevo gli occhi fissi su di lui, sulle sue mani, sulla postura delle spalle, ma non sembrava affatto intenzionato a colpirmi, o a fare un passo in più. Nel Grande Tempio, quella caverna dipinta senza niente di speciale, calò un silenzio da scuotermi tutte le ossa. Strinsi più forte la presa sull’elsa della spada. – Ti spiace? – sussurrai tra i denti stretti. – Non so che farmene del tuo dispiacere, Reginald.
Fece spallucce e tese una mano verso di me. Il perfetto ritratto del Buon Pastore, certo, gli mancava solo l’agnello in spalla. Digrignai i denti e tesi di nuovo il corpo, pronto a scattare su di lui come un avvoltoio che tiene d’occhio una carcassa. Inclinò il capo da una parte. C’era una strana luce nei suoi occhi. Lì per lì pensai fosse scherno.
Poi il suo pollice sfiorò il medio e schioccò contro il palmo in un suono secco e potente come la deflagrazione di una pistola. Il resto accadde troppo velocemente perché potessi più far caso a dettagli stupidi come gli occhi di Reginald Birch.
La prima cosa che sentii fu il dolore. Una fitta all’altezza delle reni, come se Lucio, quel dannato ragazzino italiano, mi avesse pugnalato di nuovo. Sentii il peso sbilanciarsi di nuovo sulle gambe instabili, i miei piedi spostarsi secondo l’istinto, senza una logica, senza una strategia.
Avere sempre un piano, questa è la prima regola, pensai in un istante di lucido terrore. Poi qualcosa si serrò attorno alla mia caviglia e non feci nemmeno in tempo a cacciare un urlo che ero già a terra, la mandibola sbattuta come un uovo sulla roccia fredda e i denti a tremare nelle gengive. Bestemmiai tra me e me, scoprendo due cose. La prima, ero ancora in grado di parlare. Fantastico. Secondo, durante la caduta avevo aperto le mani nel banalissimo tentativo di minimizzare i danni, e la mia spada era slittata sulla pietra, scivolando con un grattare sommesso verso gli eleganti stivali di Reginald.
– Figlio di… – La mia voce si spense con un gemito quando qualcuno di afferrò bruscamente per i capelli.
– Buono. – Un sibilo nelle orecchie. Dall’alto. Il dolore era tale da farmi lacrimare gli occhi, e come se non bastasse continuavo a sentire un peso sulle reni, come un sasso, e a ogni respiro sollevare il petto si faceva più difficile e doloroso. Non un sasso, mugugnò l’ultima parte rimasta lucida del mio cervello. Insomma, non avevo sentito nessun crollo. Me ne sarei dovuto accorgere, giusto? – Non sei più nella condizione di fare lo sbruffone, eh, capo?
Capo. Fu quell’ultima parola a farmi crollare il mondo addosso, e con esso tutte le mie certezze, tutto il coraggio che credevo di aver raccolto rispondendo un paio di volte al mio vecchio Gran Maestro. Oh, che bambino cattivo. Era evidente quanto la mia parlantina lo avesse spaventato. Certo. A morte, era evidente.
Come avevo potuto pensare che non avesse mai dubitato di Charles, che non avesse un piano di riserva? E, buon Dio, per quale assurda ragione ero arrivato a fidarmi di Thomas Hickey? I rimpianti cozzavano nella mia testa come proiettili, senza fermarsi mai, con la polvere a riempirmi la bocca e il corpo compresso dal peso di Tom. Non era possibile. Non era…
Scrollai il capo, per quanto mi riuscì, buttando fuori l’aria dalle guance gonfie. Era evidente quando fosse possibile, no? Altrimenti io non sarei stato lì e Reginald non avrebbe riso della mia ingenuità. L’unico sorriso che gli avrebbe ornato il volto sarebbe stato quello sulla sua gola, un ghigno nero di sangue, da orecchio a orecchio.
La parte peggiore era il senso di… sollievo, quasi, che mi colmava il petto all’idea di non avere più una scelta. Non si trattava più di ucciderlo, ma di morire. Velocemente, magari, ma non avrei comunque avuto alcuna voce in capitolo al riguardo.
Forse se gli succhi bene l’uccello.
Thomas mi torse il braccio sinistro dietro la schiena, facendomi gemere come una ragazzina mentre ogni sua parola mi risuonava dentro la testa, tutte le sue bugie e i giuramenti che non avevano mai avuto significato, le parole vuote, i singhiozzi. Non voleva uccidere più, mi aveva detto. Sembrava facesse sempre la mossa sbagliata, perché in quel momento ero vivo, sentivo il cuore sbattere contro le costole, ma mai come allora avrei voluto che sollevasse la spada e mi strappasse la vita dal corpo una volta per tutte.
Non si trattava più di vivere o morire, ma di vincere o perdere. Nella morte stessa. E sapevo che se gli avesse permesso di fare di me ciò che voleva avremmo perso. Io avrei perso. Non potevo tollerare di morire come un pupazzo nelle sue mani, com’era successo a mio padre. Era ovvio che mi volesse morto, lecito, quasi, ma alle sue condizioni. Era quella ragione a farmi salire la bile alla testa in grossi nuclei che pulsavano dietro i bulbi oculari. “Uccidimi”, avrei voluto sussurrargli all’orecchio, “se anche per un solo istante hai davvero creduto in me, uccidimi. Per favore. Nient’altro.” Ed era la verità. Non avrei mai chiesto nient’altro, solo una buona morte, una che valesse la pena di vivere. Per favore?, disse un’altra parte di me, soffiando come un vecchio gatto. Ti ha fottuto più di quanto abbia fatto Reginald e tu ancora vorresti pregarlo?
Oh, Cristo, anche quello era vero. Il mio piano, il mio piano studiato in ogni dettaglio e sussurrato tra i denti come un segreto all’uomo sbagliato. Come avevo potuto essere così stupido? Mi aveva dato un milione di ragioni per dubitare di lui, eppure avevo continuato a fidarmi. Non avevo nessuna scusante. Semplicemente, avevo sbagliato tutto fin dall’inizio. Avrei dovuto lasciarlo morire appeso alla forca, oppure tra le braccia di Achille, oppure avrei dovuto tagliargli la gola quando mi aveva detto di Tiio e di Charles, ma non pensavo a niente di tutto questo.
– In piedi, su – disse con la voce venata di divertimento. Immagino che tutta questa faccenda fosse un vero spasso per lui. Sì, insomma, trascinarmi per un braccio verso di sé come un vecchio infermo, mandando per aria tutti i miei discorsi sull’essere un Gran Maestro e distruggendo con ogni parola tutte le mie intenzioni, ogni punto della nostra pianificazione. Perché non ero ancora scoppiato a ridere, di grazia? Ah, non riesco proprio a spiegarmelo.
Mentre facevo leva sul ginocchio e mi rimettevo lentamente eretto, una mano di Hickey tra i capelli e l’altra a serrare la presa sulla polsiera della lama celata, pensai che in fin dei conti non era stato altro che un numero. Più di tutte le sue frottole sulla fedeltà, i patti di sangue e le chiacchierate fraterne, era stata l’idea di presentarmi da Reginald con un altro membro dell’Ordine a farmi gonfiare il petto d’orgoglio. Non eravamo solo io e l’Assassino, ma io, lui e Thomas Hickey, perché Reginald poteva avere i soldi, il carisma e un piano per il futuro del mondo, ma ero io quello cui aveva scelto di essere fedele l’unico di noi ancora vivo e libero di camminare su quella terra. O forse è una bugia che vuoi raccontarti per non essere stato in grado di accorgertene prima.
Roteai gli occhi, come se con quel solo movimento potessi intimare alla vocetta nella mia testa di stare zitta per un po’. – Pensavo fossi meglio di così, Tom – sibilai tra i denti, la voce che suonava meno iraconda di quanto avrei voluto e il viso mezzo rivolto nella sua direzione.
– Pensavi male. – Con un altro strattone mi fece girare la testa, così che fossi costretto a guardare Reginald, e infilò un piede tra i miei polpacci per farmi aprire le gambe, un’immagine che con il mio vecchio tutore, Gran Maestro e, mio malgrado, figura paterna, lì, a un passo da me, mi fece venire i brividi. – Eddai, non fare il difficile – sussurrò nel mio orecchio, il fiato caldo e alcolico dritto sul collo.
Quello, e poi il volto di Reginald. Tesi la schiena verso Thomas d’istinto, come un animale, con i talloni che grattavano sul pavimento per allontanarmi da lui e al tempo stesso tentavano di restare vicini, stretti l’uno contro l’altro.
Avrei fatto di tutto per tenerlo lontano. Ero disposto a morire, no? Ero disposto a lottare nonostante fossi immobilizzato, disarmato e in evidente inferiorità numerica. Sentivo il mio stesso respiro raschiare nei polmoni e scivolare via tra i denti serrati, il cuore che batteva nel petto come un tamburo di guerra mentre tentavo disperatamente di allontanarmi da Reginald e liberarmi di Tom. – È proprio vero che can che abbaia non morde – disse il Gran Maestro in quel suo stupido accento britannico, così marcato, ostentato, ecco, una mano nella tasca e l’altra ciondolante lungo il fianco, come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo. A pensarci, era così. L’unica persona di cui avrebbe dovuto avere paura – certo, nella mia immaginazione – ero io, e mi aveva già in pugno. Non c’era davvero niente che potesse…
Sussultai, sforzandomi di tenere le gambe rigide nonostante la sorpresa, e voltai il capo dall’altra parte, verso l’angoletto in cui Connor si era rifugiato l’ultima volta che lo avevo visto, un braccio serrato attorno alla gola di Charles e l’altra mano a tenere il gomito vicino a sé per limitare i suoi movimenti. Era ancora lì, il ragazzo, gli occhi sgranati e la bocca mollemente aperta in una smorfia più stupefatta della mia. Almeno io me l’ero tolta dalla faccia abbastanza in fretta, tutto sommato. – Che aspetti? – gli ringhiai contro, la voce strozzata dalla rabbia, dalla delusione. Da come tutto era andato a finire. – Spara! Prendi la pistola, maledizione, fa’… – Ci pensò Thomas Hickey a zittirmi con uno strattone che mi portò la testa quasi sulla sua spalla. Un altro po’ e avrebbe potuto spezzarmi il collo. Immagino sapesse anche come fare, ma non fosse nei suoi piani.
In fondo aveva giurato di non voler più uccidere nessuno, giusto?
Il dolore fu tale da farmi serrare gli occhi e mordere la lingua, la carne strizzata tra i denti come se qualcuno me la stesse staccando con una tenaglia. Le mie gambe cedettero, incapaci di fare qualcosa che non fosse dondolare mollemente dal bacino, fingendo di avere ancora un’utilità. – Di certo il fegato non l’ha preso da te, eh, capo? – sussurrò mellifluo nel mio orecchio mentre piazzava un ginocchio in mezzo alle mie gambe, sollevando appena un lembo della redingote, il sinistro, quello che fino a cinque minuti prima pulsava e mi scaldava tutta la gamba, come un falò in una notte invernale.
Non riuscii nemmeno a ribellarmi. Avrei voluto insultarlo, rispondere a tono o tirargli un calcio, ma non ne avevo la forza. Feci per voltare la testa di scatto e mordergli la faccia, ma con un altro strattone mi aveva riportato esattamente dove voleva, a fissare il viso invecchiato di Reginald, sempre più vicino al mio. – Ti piacerebbe se ti uccidessi, non è vero? – Tom azzardò un passo verso Birch, portandomi con sé come un infermo. I miei complimenti. Vuoi anche una ricompensa?
– Non lo faresti mai – sussurrai muovendo appena le labbra, l’interno della bocca impregnato di sangue e bile. – Sei un uomo fedele ai suoi giuramenti, tu.
Scoppiò a ridere come l’animale che era. Thomas. Più ci pensavo, più avrei voluto sbattere la testa contro le pareti del Tempio fino a spappolarla completamente, i lineamenti distorti e i denti che saltavano in tutte le direzioni. – Ben detto, capo. Ben detto.
– Non è il momento di giocare. – Sussultai più forte delle altre volte quando sentii una mano serrarsi intorno al mio viso, fredda e liscia come quella di chi non ha mai lavorato davvero in tutta la sua vita. Provai il feroce istinto di ritrarmi senza sapere dove andare e con un paio di gambe che non avevano nessuna intenzione di funzionare. Mentre scavava nella redingote con il volto corrucciato in un’espressione concentrata – perché doveva essere impresa ardua trovare una palla di cristallo grossa come un pugno in quel vastissimo ambiente che era la mia tasca – i suoi occhi erano puntati nei miei e guizzavano su e giù per il mio volto, ancora svegli e veloci come quelli di un ragazzino, senza l’ombra di una cataratta o qualche altra malattia da anziano. – L’età ti ha giovato parecchio, Haytham. Ti trovo bene.
Provai a sostenere il suo sguardo, freddo e impietoso, e pregai che la mia voce non suonasse troppo impaurita. Potevo essere in grado di parlare con il suo fantasma, certo, con la proiezione che la mia mente aveva di lui, ma sentire quelle mani di nuovo addosso, una in faccia e l’altra nella tasca, fin troppo vicina all’inguine, aveva risvegliato nelle mie vene l’istinto di scappare, darsela a gambe levate e vivere allo stato brado in mezzo alla foresta finché non fosse sopraggiunta la morte, e al diavolo Charles, al diavolo Connor, al diavolo il Tempio e al diavolo i Precursori. A volte bisogna cavarsela da sé. – Privilegi che non sono concessi a tutti – imbeccai. Dovevo almeno provare a difendermi in qualche modo, no?
Reginald mi fece un sorrisetto. Pensavo che il passo successivo sarebbe stato un ceffone dritto sulla mia guancia, invece si limitò a estrarre la sfera dalla mia tasca, passandomela davanti al viso con enfasi, come un bambino cui si sta sottraendo il giocattolo prediletto per punizione. Oh, no, quanto sei cattivo! Avevo desiderato quel manufatto per anni, è vero, ma in quel momento non me ne importava più niente. Non ero più combattuto tra l’idea di ucciderlo e quella di tornare a essere una sua pedina. Avevo due nuove alternative: fuggire alla massima velocità consentitami da quei due tronchi di carne che avevo per gambe o pregare che almeno ci riuscissero Connor e Charles.
Lo ammetto, morire tra le braccia di Birch non era certo una delle mie priorità, ma l’avrei accettato quasi pacificamente se avessi saputo che sarebbe servito a qualcosa. Qualsiasi cosa. Una piccola tregua, un piccolo passo avanti nella nostra lotta. Mi bastava anche solo che capissero quale fosse veramente la lotta.
Scossi piano la testa, abbassando il capo mentre Reginald indietreggiava con una smorfia vittoriosa sulle labbra. Volevo che quei due collaborassero, eppure eccoli lì, l’uno con le braccia serrate attorno al collo dell’altro. Per mio ordine. E non sapevo nemmeno quali fossero le vere intenzioni di Charles. Forse stava sul serio dalla parte di Birch.
Oppure no. Insomma, aveva cercato l’aiuto di Thomas e si era accordato con lui per pugnalarmi alle spalle quando meno me lo sarei aspettato. Perché non farlo fare direttamente da Lee, se fosse stato d’accordo?
Quel pensiero risvegliò per un attimo la speranza dentro il mio petto. Poteva non essere tutto perduto. I Templari avevano ancora una possibilità, io avevo ancora una possibilità, nonostante tutti gli errori che avevo fatto e che nessuno sembrava disposto a perdonarmi. Sì. Non m’importava nemmeno più di vedere Reginald morto. Non mi sarei messo nei guai per conseguire la mia patetica vendetta, no. Basta. Quella parte di Haytham Kenway era morta quando Tom mi aveva buttato a terra e torto un braccio dietro la schiena.
La giustizia privata non avrebbe riportato in vita mio padre, né Tiio, Jenny o mia madre. Era un istinto animale, qualcosa da reprimere prima che diventasse più grande di me. Farsi trascinare dalle passioni era un errore che non avrei più commesso. Avevo visto cosa succedeva facendo il passo più lungo della gamba: finivo quasi sempre per perdere qualcuno. Mentre Thomas mi sghignazzava nelle orecchie pensai che, diavolo!, non ne valeva la pena. Avevo già perso troppo, no? E la mia vita – la mia patetica esistenza basata sulla morte e sulla fiducia riposta negli uomini sbagliati – contava forse più di quella di Charles Lee e Connor? Loro avrebbero potuto rimediare, ricostruire tutto ciò che noialtri avevamo fatto crollare. Almeno, così speravo. Nessuno meglio di me sapeva quanto effimere fossero idiozie come gli ideali, la pace…
…i simboli.
Non avevo nemmeno sentito Thomas Hickey sguainare la spada, tanto ero perso nei miei pensieri, ma il clangore della lama celata che si schiantava sul pavimento risuonò per il Grande Tempio come la deflagrazione di uno sparo. Sentii un groppo grosso quanto un pugno bloccarsi nella mia gola mentre le cinghie della polsiera frustavano l’aria come serpenti con la testa mozzata.
Ah, Cristo. Disarmato. Inerme come un bambino.
Non riuscii a pensare niente di più intelligente. Continuavo a udire la risata di Tom risuonarmi nelle orecchie, e quando mi lasciò andare e caddi a terra carponi l’unica cosa che fui in grado di fare fu guardarlo. Osservare le sue dita tozze arraffare la più preziosa delle mie armi e mettersela in tasca come una reliquia da vendere al miglior offerente, un gran sorriso aperto in faccia. Ecco tutto quello che riuscii a fare. Che Dio mi fulminasse. – Bene – sibilò, il capo inclinato da una parte e le mani sui fianchi, i pollici infilati nelle fondine. – Tirati su, dai, non abbiamo tutto il giorno.
Gli scoccai un’occhiata di fuoco. Avrei potuto ucciderlo a mani nude. Ne ero perfettamente in grado, ed era stato proprio Reginald a insegnarmelo. C’è sempre almeno un modo per far fuori un uomo, anche quando quando sei disarmato o legato a una parete. Solo che è molto più facile cogliere queste opportunità quando quelli che devi uccidere sono estranei, bersagli, persone a cui non sei legato e di cui non t’importa niente. Ci voleva un sacco di fegato in più per ammazzare qualcuno che fino a mezz’ora prima avevi chiamato amico e trattato come un fratello, mentre ora puntava una pistola carica contro di te e l’altra dritta verso le uniche persone in cui ancora potevi riporre delle speranze.
Era tutto un altro paio di maniche. E quando c’era di mezzo Reginald Birch non potevo certo considerarmi l’uomo più coraggioso del mondo. – Hop – m’intimò Tom facendo schioccare la lingua sul palato, come se stesse parlando a un cavallo.
E, mio malgrado, mi alzai, puntando le mani a terra e succhiando aria tra i denti sbarrati. Le ginocchia di Thomas ondeggiavano, sembrava fosse ubriaco o avesse un impellente bisogno di urinare. Aveva sfilato la pistola dalla mia tasca e ora le teneva entrambe spiegate, una puntata su Connor, l’altra su Charles, con quel fare minaccioso e divertito al tempo stesso. Dio, quant’era simpatico. Mi stavo proprio spanciando.
Stupido bastardo. Spolverai la redingote con le mani aperte e riservai un’occhiata astiosa a Thomas prima di dargli le spalle per tenere d’occhio Reginald. Se ne stava lì, davanti alla parete di fondo del Tempio, quella con l’avvallamento per la Mela e le iscrizioni Mohawk. Sul momento pensai che avesse una lucerna in mano, ma nessuna fiamma al mondo poteva emettere quell’ipnotica luce dorata. Niente era in grado di scintillare come la Chiave del Grande Tempio, quella stupida medaglietta rubata a un uomo morto che camminava, e una Sfera dell’Eden poste a così stretto contatto.
Quella stupida grotta era satura di potere, e uno strano presentimento dentro il mio petto sussurrava che se in quel momento fosse entrato qualcun altro, chiunque altro, Sua Maestà in persona o l’ultimo dei mendicanti di New York, sarebbe morto all’istante, folgorato come se l’avesse attraversato un fulmine. Non avevo mai provato niente di simile prima. Che cosa ci fosse di diverso in noi? Non lo sapevo. Mi bastava continuare a respirare, sentire il petto che si alzava e si abbassava spinto dall’aria umida della Frontiera.
Connor, accanto a me, emise uno sbuffo scocciato. Mi voltai a guardarlo con la testa incassata tra le spalle. Non avevano nemmeno cercato di legarmi. Non ero più una minaccia per loro, e non avevano tutti i torti a pensarlo: le mie uniche armi erano i proiettili di piombo accumulati sul fondo delle tasche e un sacchetto di polvere da sparo. Vi conviene starmi lontani, o potrei anche lanciarveli addosso. Sorrisi tristemente alla vista di Charles che, nonostante tutto, continuava a divincolarsi nella presa di mio figlio. Gli occhi di Connor guizzavano rapidi da una parte all’altra, invasi di preoccupazione mentre cercavano di cogliere che cosa diavolo stesse facendo Thomas alle sue spalle. Azzardai un passo nella sua direzione e sollevai il palmo aperto, come a dirgli di non preoccuparsi, ché sarebbe andato tutto bene. Sicuro? Quando mi poggiò gli occhi addosso nemmeno Connor ne sembrava molto convinto, a essere onesto.
Eppure non poteva essere tutto lì. La Prima Civilizzazione non mi aveva tenuto in vita soltanto per arrivare fin lì, salutare Reginald e morire tra le sue braccia. Doveva esserci qualcos’altro, qualcosa di più, ma non era detto che comprendesse anche Connor e Charles.
Era così complicato, diavolo. – Che cosa fai? – sibilò il ragazzo tra i denti. Continuava a lanciare occhiate ansiose a Tom, come se potesse sparargli da un momento all’altro. Era una mia impressione o la sua voce era appesantita dalla collera? Oh, be’. Dettaglio insignificante quando hai una pistola puntata alla testa. – Vuoi farci ammazzare? – Giuro che se non fosse uscita dalla bocca di Connor l’avrei presa per una battuta.
Peccato che avessi cose più importanti di cui parlargli. Mi avvicinai ancora un po’, con la vista annebbiata neanche fossi nel pieno dei postumi di una sbornia. – Non provarci nemmeno – sussurrai al fianco di Connor, le labbra che appena si muovevano. – Mi stai ascoltando? – sentivo le gambe tremare come rami agitati dal vento, ma non era niente in confronto alla velocità con cui il cuore mi pulsava nel petto mentre gli occhi di Charles guizzavano su di me, inquieti e spaventati. O forse era rabbia? Dio, odiavo dover correre quel rischio, ma per nulla al mondo avrei permesso a Connor di metterlo in pericolo con qualche stupido atto eroico.
Non sapevo se mio figlio mi stesse davvero ascoltando – voglio dire, era un Assassino, oltre che un Kenway, e anche sua madre aveva avuto una gran bella testa dura – ma pregavo che lo facesse. Perdio, aveva una pistola puntata alla testa. Un solo passo falso e sarebbe diventato nient’altro che un corpo morto in una caverna sperduta in mezzo alla Frontiera. Non ne vale la pena, giusto? – Devi portarlo via di qui – mormorai tra i denti stretti. – Diavolo, hai la possibilità di uscirne vivo. Evita di buttarla via come un idiota.   
Lo sentii grugnire, strizzando la gola di Charles nell’incavo del suo gomito. – Pensi che ce lo permetteranno? – Non avevo mai sentito tanto astio nella sua voce, e non potevo nemmeno dargli torto. Era colpa mia. L’avevo convinto io ad aiutarmi in quella folle impresa, a fidarsi di Thomas, a darmi la Mela. Anch’io provavo quello spietato disprezzo verso me stesso, lo sentivo ristagnare sotto la lingua come una pessima medicina. – Se non facciamo qualcosa…
– Tu non farai un bel niente. – La verità è che non volevo rischiasse la vita per me. Non dopo tutto quello che aveva passato, tutto quel che gli avevo fatto. Una cosa di certo l’aveva presa da sua madre: erano entrambi straordinariamente bravi nel farmi sentire in colpa. Con quei loro occhi così scuri, accusatori, come fossero sul punto di scoppiare in lacrime ma non lo facessero, perché loro erano forti, perdio, molto più forti di te. E di solito bastava questo a farmi sentire peggio, in modo in cui sapevano guardarmi. Sembrava fossero lì, sul tuo cammino, solo per tentare di porre rimedio al male che avevi fatto. E se non ci riuscivano, be’, colpa tua per averlo causato. – Vattene che ancora respiri, d’accordo? Come favore personale.
Connor sospirò, scoccando uno sguardo infuocato all’ombra scura di Thomas, dietro di sé. – Hai qualche idea?
Non potei fare a meno di ridacchiare, un gemito isterico che mi cresceva nel petto Certo, perché le mie idee avevano sempre funzionato alla perfezione, giusto? – Diciamo di sì. – Resistere conta? Stava tutto lì, in fondo. Nell’attesa del momento giusto. Dovevo considerare ogni variabile, niente più errori e nessun’altra possibilità. C’erano soltanto incognite. Ad esempio, Birch era armato? Mi avrebbe ucciso lì, in quella fossa? Aveva idea di ciò cui stava andando incontro? I Precursori… Dio, il pensiero che stesse facendo tutto per loro, per dei fantasmi di chissà quanti millenni prima, mi metteva i brividi. Potevano non essere altro che leggende, voci folli messe in piedi dalla mia mente suggestionata. Insomma, a forza di sentirne parlare in continuazione era probabile. E Achille? Ah, era soltanto un vecchio pazzo. Allora come la metti con Connor?
Gli lanciai un’occhiata di sbieco. Non era strano pensare che volesse uccidere Charles. Sapevo che la vendetta ribolliva nel suo sangue almeno quanto avrebbe dovuto fare nel mio. Quanto tempo sarebbe passato prima che il vecchio astio si risvegliasse?
Non volevo pensarci. E sembra pazzesco, ma al tempo stesso non riuscivo a fare altro. Meglio preoccuparsi per i vivi che perdere tempo con le viscere in subbuglio al pensiero della propria morte. – Sicuro? – sibilò Connor, gli occhi colmi di fredda preoccupazione.
Eccola lì. La piccola e flebile luce che mi puntava il dito contro. Colpevole. – Haytham?
– Poche chiacchiere, femminucce – abbaiò Thomas, la canna della pistola premuta contro la nuca di Connor, a contatto con il cappuccio da Assassino.
Roteai gli occhi con uno sbuffo. – Se volessi ucciderli l’avresti già fatto. – Non che ci credessi particolarmente – conoscevo troppo Tom per cadere di nuovo in questo errore – ma per niente al mondo avrei permesso a quei bastardi di vedermi impaurito.
Sputò a terra, le palpebre strette sugli occhi con aria di sfida. – Sei davvero così sicuro che non ti accadrà niente, capo? – Gli uscì di bocca una risata che somigliava parecchio al latrato di un cane. – Chissà – disse a voce più bassa, e potevo sentire il suo fiato sbattermi sul collo con un brivido. – Potrei prendere in prestito il tuo Charlie e… divertirmi un po’, se capisci cosa intendo.
Dovetti stringere i denti con tutta la forza che avevo per impedirmi di saltargli addosso e rischiare di prendermi un proiettile nel petto, ma vederlo lì, accanto a Charles, con le dita sudicie strette sulla guancia in un buffetto tutt’altro che amichevole e quelle parole che gli sgorgavano come piscio fuori dalla bocca mi rendeva impossibile mantenere la calma. Mi sentivo sul punto di esplodere. – Sarai morto prima ancora di riuscire a pensare una cosa del genere – gli soffiai contro, – e con te il tuo dannatissimo Gran Maestro. 
Lo vidi sogghignare, una lampo di sfida negli occhi. – Sei disposto a scommettere? – Avvicinò la pistola alla tempia di Charles, il volto tremante e sudato contro l’acciaio. Aveva gli occhi così sgranati che sembrava gli sarebbero caduti sul petto da un momento all’altro. – Eh, capo? Vuoi scommettere con me?! – berciò, ma a malapena lo sentivo, gli occhi piantati in quelli pieni di paura di Charles, sulla canna che gli sbatteva contro la fronte e le sue mani strette sul braccio di Connor non più per liberarsi, ma in una muta e disperata richiesta di aiuto. Stava implorando per avere proprio quel che anch’io volevo da lui. Non ucciderlo. L’unica cosa che contava davvero. Non lasciare che lo uccida. – Andiamo, scommetti! Che c’è, sei troppo codardo per giocare?
– Hickey… – Ero stato io a parlare? Oppure Reginald, con il tono autoritario e sarcastico che continuavo ad associare alla mia infanzia?
Avevo paura. Non sapevo nient’altro. – Allora? – Prima che potessi solo spostare gli occhi su di lui, Thomas mi aveva afferrato per il bavero della giacca, la seconda pistola riposta chissà dove. Mi sentii sollevare da terra, con i piedi che dondolavano nel vuoto come quelli di un impiccato mentre gli occhi scruti del più noto truffatore dell’Esercito Britannico non mi erano mai parsi più crudeli. Mi fissavano come se fossi già mordo, e forse non era poi così lontano dalla verità. – Che dici, giochiamo? Ti va? – esclamò rabbioso, il volto schiumante attaccato al mio.
Giochiamo? La nostra simpatica stretta di mano per stabilire chi si sarebbe dovuto prendere la vita di Charles. Quanto ero stato stupido. Giochiamo? Non aveva fatti altro da quando lo avevo conosciuto, e saltava di continuo sul carro del vincitore con l’abilità di un giullare. Avevo provato a impedirgli di barare, davvero, lo giuro, avevamo stretto giuramenti e patti di sangue, eravamo diventati come fratelli, ma niente l’aveva mai potuto allontanare da quella sua perversa propensione al male.
Aveva sempre giocato sporco.
Giochiamo?, mi chiedeva. Tutto quello che vuoi, Tom.
Affondai un ginocchio tra le sue gambe con tutta la forza che avevo, e mi piace pensare di averlo davvero colto di sorpresa. Si piegò in due con un gemito, la pistola stretta in una mano e l’altra, quella che fino a un attimo prima era serrata sulla mia redingote, a tastare l’uccello con il volto contratto in una smorfia di dolore. Caddi a terra di schiena, la testa che rimbalzava sul pavimento di pietra, eppure non ero mai stato felice come in quel momento. – Dannato… bastardo! – sghignazzò Thomas. Dalle sua labbra grondava qualcosa a metà tra una risata isterica e un pianto. – Oh, Cristo, sei proprio un bastardello, eh? – Sollevò la sua arma, guardandola come fosse un’amica fedele, la sola in grado di capirlo. Me la puntò contro i gli mostrai i palmi aperti con un sogghigno a far capolino sul mio volto. Mi hai beccato, Tom. – Un piccolo bastardo del cazzo. – La canna della pistola mi squadrava, immobile nonostante l’ira dell’uomo che la impugnava. Aveva un certo fascino, se posso permettermi. Magnetico, quasi.  
– Calmo, Thomas. – Oh, no, dai, proprio adesso che ci stavamo divertendo? La sagoma di Reginald sbucò oltre Tom, una mano serrata sulla sua spalla. Vecchi ricordi. Mi sembrava di essere tornato ragazzino, Hickey come un riflesso della mia giovinezza. Anch’io ero stato in quelle condizioni. Avevo guardato Reginald Birch con gli occhi brillanti di stima e timore reverenziale, ero stato fiero dei sorrisi che gli spuntavano in volto quando mi vedeva puntare impietoso la pistola contro qualche povero vecchio disperato. Piuttosto squallido, no? E per quanto divertente fosse pensare che adesso ero io a quello a terra, con una risata nervosa o una supplica che minacciavano di uscirmi dalla bocca di lì a poco, non bastava a migliorare la situazione. A farmi dimenticare che stavo rischiando la vita. – Tieni sotto tiro quei due. Non vogliamo che gli vengano in mente strane ideem giusto? – Tom rispose con un grugnito, e un attimo dopo mi sentii sollevare per un braccio, i piedi puntati a terra nel maldestro tentativo di rimettermi eretto.
Ironico, eh? Lo stesso uomo che aveva tentato di uccidermi e aveva posto fine alla mia infanzia insegnandomi ad ammazzare adesso era lì a risollevarmi dopo un caduta in una rissa tra ragazzini, come avrebbe potuto fare un genitore amorevole. – Pensavo che fossi cresciuto, Haytham – sibilò nel mio orecchio, la voce fredda e piatta di chi non ha nessuna preoccupazione al mondo. Mi costrinsi a deglutire, la gola che bruciava insieme agli occhi, e tesi le gambe per rialzarmi, ma sembrava che quelle stupide appendici non avessero nessuna intenzione di funzionare. – Non serve che ti alzi – aggiunse, e suonava tutt’altro che rassicurante.
Strinsi le dita intorno al suo braccio, quello che mi avvolgeva il torso e mi stava trascinando lentamente verso la parete di fondo del Tempio. Tentai di scosarlo dalla mia pelle e liberarmi, ma sembrava che tutti quegli anni non avessero minimamente intaccato la forza e l’energia che aveva da giovane. Era completamente disarmato, proprio come me, ma era come se qualcosa nella sua stessa persona inibisse ogni mia reazione. La vendetta non era niente in confronto alla paura di morire e la sensazione di essere braccato come un animale. Non sembrava nemmeno avere più un senso. – Smetti di ribellarti – mi ammonì quasi con gentilezza. Aveva ragione, ovviamente, ma ero pur sempre figlio di mio padre. Il rifiuto degli ordini e dell’autorità era parte di me, vivo nel mio sangue almeno quanto la Prima Civilizzazione.
Reginald infilò una gamba tra le mie, sollevandomi fino ad avere le labbra premute contro il mio orecchio. – Rilassati. – Il tocco tiepido delle sue dita mi fece trasalire, e dalla bocca mi uscì un suono simile a quello di un pollo che viene stretto per la gola. Riuscivo a percepire il calore della Mela pulsarmi contro la schiena, direttamente dalla sua tasca. – Non ho certo intenzione di mangiarti. – Mi venne da ridere, come quasi sempre succede nelle situazioni inopportune. Non era esattamente quello a preoccuparmi. Temevo che m’infilasse la lingua nell’orecchio o… che cominciasse a baciarmi, ecco, oppure mi tastasse il basso ventre e facesse scivolare una mano sotto la cintura, dentro i calzoni. Essere mangiato era forse la cosa migliore che potesse succedermi. – Dammi retta, da bravo.
Un lampo dorato quasi m’accecò quando strinse il Frutto dell’Eden in mano e me lo piazzò davanti al volto, come a mostrarmi le meravigliose tentazioni che celava. Era la chiave a tutte le possibilità, a tutti gli scopi. Avrei dovuto desiderarla con tutto me stesso, giusto? Il suo potere stava proprio lì. In quella sfera era racchiuso tutto il potere dei Precursori, ancor più che nel Tempio stesso. – Prendila. L’hai portata fin qui, no? Te lo meriti.
– Non farlo – sbottò Connor, e un attimo dopo, quando mi voltai a guardarlo, Thomas gli aveva messo un braccio intorno al collo, formando una bizzarra catena umana, e teneva una delle pistole premuta contro la sua gola con un sorrisetto poco rassicurante. – Non lo fare, Haytham! Non…
Fu come se tutto il sangue nelle mie vene si congelasse nello stesso istante e collassasse nelle gambe. Era morto, oddio, era certamente morto, Thomas non avrebbe sprecato un altro secondo, gli avrebbe sparato e basta, e io l’avrei visto crollare a terra con Charles ancora sopra di sé, i capelli impastati dal sudore e dal sangue che gli sarebbe uscito da quel dannato ammasso di carne e ossa e cervella che avrebbe avuto al posto della testa.
Perché parlava? Perché diavolo non stava zitto e basta?
Per aprirlo servi tu, idiota.
L’unica voce ragionevole che sembrava essere rimasta dentro la mia mente mi riscosse al momento giusto, esattamente quando Reginald aveva approfittato della mia distrazione per afferrarmi la mano e avvicinarla alla Mela. E per farlo aveva dovuto slegare il braccio che mi teneva stretto il torace come quello di un’amante premurosa.
Mentirei se dicessi di averci pensato. L’istinto agì per me, e prima che potessi rendermene conto mi ritrovai a procedere carponi verso la bocca della caverna, le ginocchia che sbattevano forte sul pavimento di pietra nel tentativo di andare il più velocemente possibile. Non so se Reginald disse qualcosa. Tutto ciò che riuscivo a sentire era il battito del mio cuore, un tamburo di guerra implacabile dentro le orecchie, insieme una minaccia e un invito ad andarmene, a scappare di lì il più velocemente possibile. Mi rimisi in piedi con le gambe che tremavano e il fiato grosso, lanciando un’occhiata agli altri da sopra la spalla. Thomas si era voltato, le labbra aperte in una risata di scherno, e Birch scrollava la testa, come avrebbe fatto un precettore davanti a un allievo senza speranza. Eppure non aveva alcuna intenzione di abbandonarmi su quella che per lui era la cattiva strada. Anche da quella distanza riuscivo a leggerlo nei suoi occhi, nella sua persona. Non mi avrebbe mai lasciato andare.
Che diavolo fai?, tornò a chiedermi quella stupida vocetta. Me ne stavo lì, impalato come uno stoccafisso al mercato del pesce di New York, mentre Reginald s’avvicinava lentamente a me e l’uscita del Tempio era lì, alle mie spalle. Potevo scappare e non tornare mai più. Potevo mandare al diavolo i Precursori e il futuro dell’Ordine e vivere nella Frontiera. Fuggire verso ovest, nelle terre selvagge e ancora inesplorate, lontano da Washington, lontano da tutto, ma non era quel che volevo.
Non era quello che volevo per me, per i Templari, per Charles e Connor. Pensai che non lo meritavano. E non meritavano che fossi io a decidere delle loro vite. Se me ne fossi andato li avrebbero uccisi e io avrei avuto per sempre i loro cadaveri sulla coscenza, entrambi morti per colpa mia.
Potevo andarmene, certo, ma non volevo andasse così, e datemi pure dell’idiota per questo, ma lì per lì non seppi che altro fare. Rimasi immobile, gli occhi fissi davanti a me pur senza guardare in nessun punto preciso. Con la coda dell’occhio vidi Thomas lanciare una delle pistole contro Reginald e avanzare verso di me a grandi falcate. Non avevo paura di lui. Mentre aspettavo che venisse a prendermi per riportarmi di fronte a Birch – magari in ginocchio come un traditore – pensai che quello era forse il sentimento più vicino al vero affetto che avessi mai provato. Mettere gli altri prima di se stessi. Non me ne importava più niente di morire. Per niente al mondo avrei lasciato Charles e Connor nelle mani di quei bastardi. – Volevi fare il furbo, eh? – La voce di Tom sembrava così distante, come un’eco attraverso una vallata deserta. Era così vicino a me che potevo contare i pori sulla pelle delle sue guance, ma mi girò attorno senza darmi il tempo di provarci. Con uno strattone sollevò la redingote e mi sfilò la camicia dai calzoni, premendo la canna della pistola contro la pelle nuda, all’altezza dei reni. – Non stuzzicare il cane che dorme, Kenway, capito? Non…
Sentii solo il gomito impattare contro la sua mascella con uno scricchiolio sinistro e il braccio agitarsi come un serpente per il contraccolpo. Mi sembrava che ogni movimento fosse infinito, rallentato fino all’inverosimile. Afferrare Tom per il bavero della giacca e voltarmi di nuovo per spingerlo a terra fu una fatica inenarrabile, come trascinare un bue cocciuto verso il macello. I miei denti cozzavano gli uni contro gli altri in una stretta dolorosa, così ferrea da annebbiarmi la vista. Sul volto di Thomas danzavano strane macchie nere di cui non conoscevo la provenienza – pareva quasi che avesse il vaiolo –, e cadde a terra così lentamente… Come se lo stessi facendo annegare in un enorme barattolo di miele, ecco.
Poi batté il costato contro la roccia e tutto parve riprendere la propria reale velocità. Il fiato gli scappò dai polmoni con uno sbuffo sonoro, l’espressione disperata di un ubriacone davanti a un otre bucato impressa sul volto. A quel punto fu terribilmente facile allungarmi verso le sue dita deboli e sfilarne la pistola. – Fine dei giochi – sussurrai spianando l’arma contro di lui, la canna che tremava così forte da puntare un attimo sul suo occhio sinistro e quello successivo sul destro. Il cuore batteva nel mio petto come quello di un topo, veloce, velocissimo. Adesso esplode, pensai, adesso salta in aria e finisce tutto e mi sveglio accanto a Tiio, nella nostra tenda. Niente di tutto questo è reale.
Tutto è lecito, replicò di nuovo il piccolo angolo ragionevole della mia mente. Tentai di prendere fiato, ma tutto quello che mi uscì di bocca fu un sospiro sommesso. – Posso dire – mormorai tra i denti sbarrati, le parole intervallate da quei respiri troppo veloci, – che non mi mancherai affatto, Tom Hickey. – E abbassai il cane.
Il bastardo, dal canto suo, se la rideva tranquillamente sotto l’occhio freddo e implacabile della pistola. – Lo sai? – sibilò, il capo che ondeggiava nell’impeto della risata. Dannato psicopatico. Sentii il sangue ribollire più forte che mai dentro le vene, da qualche parte nel petto e nelle mani. Nei polsi, dove tutti quei vasi correvano gli uni accanto agli altri come file di alberi in una foresta. – Io ne ho vista di gente facile da fottere, capo, ma come te mai.
Sgranai gli occhi. Oddio. Tom allungò una mano verso il mio volto e mi prese una guancia tra le dita, strizzandola in un buffetto. – È la tua occasione! – ghignò, la voce acuita dall’eccitazione. – Tu hai una pistola. Lui ha una pistola. – Unì i palmi dietro la nuca con un sospiro mentre un sorriso rasserenato si apriva sul suo viso. – Cos’è che stai aspettando, di preciso?
Oddio. Non riuscivo a pensare nient’altro. La mano che non stringeva la pistola corse tra i capelli, tirandoli indietro in un istintivo moto di confusione.
Mi avevano fottuto entrambi. E io ero stato così stupido da cascarci. Dio mi fulmini, a volte penso davvero che Achille avesse ragione a darmi dello stupido. – Pensavi davvero che fossi dalla parte di quel tirchio di merda? – Thomas sporse il labbro inferiore in una smorfia da ragazzina offesa. – Mi ferisci, capo.
Mi sollevai dal suo corpo come fosse quello di un appestato, ma non prima di guardarlo negli occhi. Erano i soliti pozzi neri e senza fondo tipici del suo volto, stretti in quella smorfia sarcastica e scaltra che gli apparteneva come nessun’altra. Quello era Thomas Hickey, ma lo era anche il folle bastardo che aveva minacciato Charles e Connor, che aveva violentato Tiio e aveva fatto un sacco di cose orribili.
Eppure, proprio come era successo con Lee, non ebbi nessun dubbio. Mentre se ne stava lì, le mani unite dietro la testa e un ginocchio piegato, il petto che ancora sussultava in una risatina, capii che era sempre stato dalla mia parte. Poteva dubitare di Charles, certo, ma nemmeno lui era un grande ammiratore di Reginald Birch. Scostai le gambe dal suo corpo in un passo indeciso, puntando la pistola di fronte a me, verso il mio caro e vecchio Gran Maestro intento a tendere la medesima arma contro la schiena di mio figlio.
A differenza del sottoscritto, Tom aveva imparato a giocare. A barare. A vincere sempre. Ma non era altro che un aiutante, una spalla.
Toccava a me portarli tutti e tre verso la gloria dei vincitori. E in quel caso, vincere significava rimanere vivi. Ucciderlo. Fare ciò che sapevo fare meglio. Sentii la rabbia bruciare nel petto come le fiamme dell’Inferno, come il villaggio di Tiio dopo che Washington o chi per lui vi aveva appiccato quel dannatissimo incendio, come la mia casa in piazza della regina Anna quando il vigliacco che per anni avevo trattato come un padre aveva deciso di sterminare la mia famiglia, o il suo ramo difettoso, per così dire.
Era lì per me. Per morire. Per nulla al mondo gli avrei permesso di andarsene senza essere accontentato. – Hickey! – esclamò. Non riuscii a trattenere un sorriso. – Che cosa diavolo state facendo? Fermatelo!
L’unica risposta di Tom fu una lunga e lugubre risata, completamente degna di lui. – È finita. – Non so se riuscii a sentirmi. Il pallore cadaverico sul suo viso bastò a darmi un violento fremito lungo la spina dorsale. – Immagino che solo uno di noi uscirà vivo di qui.
Spostò di scatto la pistola, la canna puntata dritta verso il mio petto. – Ignobile bastardo! – gridò Reginald. – Traditore! Siete entrambi dei traditori! Siete…
– Metti giù quella pistola – replicai, i piedi che si muovevano l’uno dietro l’altro spontaneamente. – Risolviamola da uomini, Reginald.
– …cosa? Tu… – Serrò la mascella, la labbra strette tra loro fino a sparire. – Sei la copia sputata di tuo padre, Kenway.
Feci spallucce. Avevo sentito insulti peggiori, onestamente. – L’hai ammazzato senza nemmeno guardarlo in faccia – gli rammentai freddamente, la mani che cominciavano a pulsare di coraggio. Ci avevano pesso un po’, eh? Meglio tardi che mai. – Vuoi fare lo stesso con me?
– Tu non morirai! – berciò. – Tu mi servi, Haytham. Sei lo strumento della Loro volontà! Non ti permetterò di…
Il fiato gli si ghiacciò nel petto quando s’accorse di quel che avevo fatto. Ero lì, immobile, a non più di venti passi da lui, con la pistola carica puntata dritta sotto il mento. – Metti giù quella dannata pistola e prova a uccidermi – sibilai. La paura aveva reso i suoi occhi più opachi, e per la prima volta parve dimostrare davvero la sua età. – Provaci! O provvederò io stesso.
– Haytham…
Il mio indice si mosse impercettibilmente sul grilletto, quanto bastava a farlo sussultare come una vecchia madre apprensiva davanti alla bara aperta di suo figlio. – No! – sussurrò, le braccia tese verso di me. – No! Aspetta. Aspetta, io…
Pensai che avrei potuto ucciderlo allora. Puntargli la pistola contro, approfittando del suo terrore, e sparare un solo colpo dritto in mezzo ai suoi occhi. Ne sarei stato perfettamente in grado.
Peccato che io non fossi lui. Non volevo ridurre l’Ordine Templare al mattatoio che era diventato con Reginald Birch. Combattevo per la pace. Per la rinascita. E perché qualcosa rinasca c’è bisogno che muoia, prima di tutto.
Immagino che quel compito mi spettasse di diritto. – Mettila a terra – sibilai ferreo. – Fallo tu e lo faccio anche io.
Rimase un attimo lì, immobile, tentennando. – Che tu sia dannato – mormorò, la sua voce come un coltello mal affilato sfregato sulla pietra. Poi si chinò lentamente e poggiò la pistola sul pavimento di pietra nuda, dando una spintarella al calcio con la punta del piede.
Pregai che Connor non lasciasse andare Charles per prenderla. Grazie a Dio non mosse un solo passo. A dire la verità sembrava che non stesse nemmeno respirando. – E adesso, Kenway? Che cos’hai intenzione di fare? – Sorrise, i palmi affondati nelle tasche come un bambino dispettoso. – Morire da eroe?
Fu allora che ricordai un dettaglio che forse persino lui aveva dimenticato. Il Frutto dell’Eden era ritornato a occupare una delle tasche. Eccolo lì, un rigonfiamento luminescente all’altezza della coscia. – La Mela – scandii lentamente. – Mettila nella tasca del ragazzo. Il nativo.
Scosse il capo in una risatina. – Lo ucciderà – disse tra i denti. – Perché credi che non l’abbia ancora usata per farti inginocchiare ai miei piedi, eh?
Perché in questo momento non ti va di fartelo succhiare? Mi ritrovai a ridacchiare al solo pensiero, e le dita della mano destra strinsero il calcio della pistola con più forza. – Non ha nessuna intenzione di usarla – replicai, – ma non voglio che vada perduta. Fallo e basta. – Riportai l’arma sotto il capo a mo’ di avvertimento e gli feci cenno di avvicinarsi a Connor. Incredibilmente, obbedì senza farselo ripetere due volte.
– Ora tocca a te. – La sua voce era venata di un inquietante tono di sfida. – O hai paura di un povero vecchio disarmato?
Spinsi la pistola verso Charles, lasciando che il cane grattasse sulla roccia. Per pochi secondi nel Grande Tempio si udì solo quel rumore, unito al respiro di Reginald e all’eco delle risatine di Tom. Poi tornai a guardarlo e spalancai le braccia in un muto invito.
Accomodati.
 
Un attimo dopo vedevo soltanto bianco, come se mi avessero avvolto in un candido telo funebre, la mente ovattata dall’impatto che il carnoso pugno di Reginald aveva appena avuto con la mia faccia, dritto sul naso. Il sonoro crack che riecheggiò in mezzo ai miei occhi, dentro la testa, mi fece perdere tutte le speranze. Pensai che mi avesse sparato e che le caduta verso il pavimento di pietra sarebbe stata probabilmente l’ultima di cui avrei avuto memoria.  
Fammi indovinare, pensò la parte della mia testa che non era accecata dal dolore, ti aspettavi uno scontro leale? Perché se è così…
Emisi un grugnito scocciato, cercando di zittire quella stupida vocina supponente. Ah. Quindi riuscivo ancora a parlare. Non ero ancora morto, che gioia. Puntellai un gomito sulla roccia per tirare su il torso mentre le dita dell’altra mano tastavano il naso alla ricerca di sangue. Sentivo il cranio fischiare come una sedia che striscia sul pavimento e la risata di Birch riempirmi le orecchie, bassa e gutturale. – Cazzo – sussurrai tra i denti sbarrati. Davanti ai miei occhi il mondo cominciava a rimettersi a fuoco. Charles e Connor erano due ombre da qualche parte alla mia destra, mentre la figura eretta che si massaggiava le nocche doveva essere Reginald. Quella risata mi stava dando i brividi: era il verso del predatore soddisfatto, quello che non ha bisogno di orpelli come le armi per ucciderti. Ha più cervello, e se non te ne sei accorto sono soltanto affari tuoi. Specie quando decidi di sfidarne uno a duello, uno di quei duelli in cui se vinci vivi e se perdi muori. I più popolari tra gentiluomini britannici, eh?
– Rimettiti in piedi – ordinò mentre avanzava lentamente verso di me. Con quel cazzotto mi aveva fatto fare un volo di almeno quattro passi. – Non mi hai sentito?
– Dammi un minuto. – La voce mi uscì di bocca in un sibilo flebile, le labbra che appena si muovevano mentre lasciavo ricadere la testa sulla pietra fredda. A malapena ricordavo di essere stato io a volere quello scontro, ma cos'altro avrei potuto fare? Arrendermi al suo modo di guidare l'Ordine? Diventare un succube e poi tradirlo, come aveva fatto Tom? E a che scopo? Io non ero come Hickey, e sapevo benissimo che non lo era nemmeno Reginald. Lui e la sua assoluta attenzione alle formalità, a come una cosa veniva fatta. Così quando il solito commento del Chi te l’ha fatto fare? fece capolino nella mia mente pensai che quello era soltanto l'unico modo di risolvere la cosa, uno scontro ad armi pari, io contro di lui e le nostre mani e i cuori che rombavano nel petto, affaticati dall'età. Presi fiato tra i denti sbarrati, la mente che lavorava alla ricerca di un modo per ucciderlo, ucciderlo davvero. Mi conosceva meglio di chiunque altro? Forse sì, quindi doveva essere vero anche il contrario. Il periodo di tempo che Charles aveva trascorso con lui non era nulla in confronto a quello che avevo passato io. Reginald non aveva sterminato la sua famiglia, non gliel'aveva tenuto nascosto per vent'anni. Lo aveva fatto dubitare di me, trascinandolo dentro il suo modo di vivere l'Ordine. Quell'ossessione per i Precursori, la stessa per cui aveva fatto fuori mio padre, era in sé una follia. Erano spiriti, maledizione! Spiriti! Non poteva nemmeno essere sicuro che esistessero, ma voleva il Tempio. Voleva la loro conoscenza. Ero stupito dal fatto che non mi avesse ancora catturato, appeso al soffitto e tagliato la gola per bearsi del sangue della Prima Civilizzazione che scorreva nelle mie vene. Forse dopo aver aperto quell'affare. Oh, probabile, senza dubbio.
– Haytham. – Il tono musicale di Reginald mi riscosse dal filo dei miei pensieri, e agitai d'istinto i talloni a terra, come quando ci si risveglia da quei sogni in cui si cade in un baratro senza fine, cadi, cadi, continui a cadere e nessuno può sentirti o porgerti una mano. La voce di Birch mi fece lo stesso effetto. Proprio come prima, spinsi la nuda roccia con i talloni per allontanarmi da lui, ma il movimento era troppo debole, e Reginald troppo vicino. – Haytham? – Ripeté, torreggiante su di me come un dio punitore. Teneva una mano sotto la giacca, nel panciotto, da bravo imprenditore, l'altra affondata nella tasca dei calzoni. Poteva sembrare tutto, tranne un uomo venuto lì per uccidermi. Solo uno che lo conosceva avrebbe saputo interpretare la fredda calma tipicamente inglese con cui Reginald affrontava qualsiasi cosa, da un giretto al mercato alla programmazione dell'omicidio del suo migliore amico – o qualcosa del genere. Il mio vecchio si fidava di lui, avevano lavorato insieme per anni. Come puoi ammazzare a sangue freddo un uomo che era per te come un fratello? Avrebbe dovuto sposare sua figlia, era spesso a pranzo insieme a noi, accompagnava Jennifer a teatro e a volte mi portava un nuovo soldatino di piombo. Era uno di famiglia, ormai. Lo guardai negli occhi, così tranquilli e sereni e noncuranti, e mi chiesi se avesse chiamato dei mercenari, quella notte, non tanto per non essere scoperto o per vigliaccheria, ma perché non aveva la forza di uccidere un uomo con cui aveva stretto un simile legame di amicizia. Eppure non aveva pensato due volte a dare l'ordine. Quanto potevano contare i morti, la paura, la casa andata a pezzi e una famiglia distrutta, se di mezzo c'erano i Precursori?
Non sapevo più che cosa pensare. Reginald puntò uno stivale sul mio petto per tenermi giù, ma senza premere tanto da spezzarmi una costola. Era solo una mera dimostrazione d'autorità. – Guardami, ragazzo – disse gentilmente. Avevo una gran paura di fissare quei suoi intelligenti occhi chiari perché non sapevo cosa vi avrei scorto. La smania di uccidermi o quella di calarmi le braghe? I miei pugni si serrarono, l'ira che iniziava a gonfiarmi il petto, eppure sollevai lo sguardo e lo puntai nel suo. Avevo bisogno di un piano. – Non è uno scontro ad armi pari se ti arrendi. Pensi che tuo padre sarebbe stato fiero di vederti così? – Era incredibile con quanta facilità la sua voce passasse dalla compassione all'infinito sdegno, così come lo era il fatto che continuasse a tirare in ballo mio padre. Che cosa voleva ancora? Non gli era bastato ammazzarlo come un cane davanti a sua moglie e i suoi figli? – Sei debole, ragazzo, e lo sei sempre stato. Gli uomini non sono come tu credi che siano. E per quanto abbia provato a insegnarti tu hai continuato a pensare con la tua testa, proprio come quell'idiota di Edward. – Non c'era astio nella sua voce, ma rammarico. Sarei dovuto essere il suo giocattolo per sempre, senza ribellarmi mai, senza chiedermi perché andassi a uccidere altri esseri umani. Avrei dovuto pensare che finché me lo chiedeva Reginald Birch io dovevo farlo, fine del discorso. Non ero mai stato un Templare come voleva lui. – Per questo adesso sei lì, nel fango. Tu non puoi uccidermi, Haytham. Non ne hai il fegato.
Proprio come lui non l'aveva avuto quando si era trattato di uccidere mio padre.
Mio... Com'è che aveva detto mio padre?
Un'idea fulminò la mia mente come un colpo di pistola, facendomi crollare la mascella sul petto e sgranare gli occhi mentre dentro la testa correvano sempre più dettagli, come un fiume in piena, e il volto di Reginald continuava a muoversi, ma io non sentivo nulla. Mi sforzai almeno di serrare le labbra e annuire di tanto in tanto al suo discorso, ma non aveva più importanza, perché io avevo intravisto una via di fuga, una falla nella sua armatura dorata. E non avevo intenzione di lasciarmi sfuggire un’occasione come quella. – Dammi la mano. Coraggio. – Reginald mi allungò un palmo e finalmente tornai a sentire. La sua voce ferma e pacata, il respiro affannoso di Charles, ma soprattutto il rombo del mio cuore nel petto. Era lui a ricordarmi freddamente che quella era la mia ultima possibilità, perciò dovevo sfruttarla al meglio.
Annuii debolmente e tesi la mano verso la sua, stringendo le dita sui calli causati dall'addestramento alle armi. Ricordavo bene la sensazione familiare della sua pelle sopra la mia, graffiante lungo la schiena e il collo. Fremetti al solo pensarci, i denti stretti sotto le labbra che tremavano. Affidai tutto il mio peso a Reginald, così che mi tirasse in piedi, mentre io ero aggrappato al suo avambraccio come una ragazza di buona famiglia al suo ballo di debutto nell'alta società. – Così – sussurrò Birch, annuendo appena. Le mie ginocchia cedettero e gli caddi addosso, la guancia poggiata sulla stoffa lavorata del suo cappotto. Reginald abbassò gli occhi sulle mie rotule, guardandole agitarsi impotenti, e mi prese per le spalle, facendomi indietreggiare un po'. Cos'è, adesso non gli piaceva più l'idea di avermi vicino? – Haytham – disse piano. – Haytham, guardami –, ma io non lo feci, le palle degli occhi puntate da qualche parte tra il suo mento e la fine del collo. – Devi essere forte, adesso, d'accordo? Apriremo quel Tempio e l'Ordine tornerà al suo antico splendore. – Mi prese il viso tra le mani, e tanto bastò a gelarmi il sangue nelle vene. Il mio volto stretto tra le sue mani, le dita più lunghe affondate nei capelli e i pollici che mi scorrevano lenti sugli zigomi. – Fidati di me – sussurrò, proprio quando credevo che mi avrebbe baciato. Ecco, fu allora che accadde qualcosa di davvero strano, persino ripetto a tutto ciò che avevo vissuto fino a quel momento.   
I palmi di Reginald si strinsero sul mio viso con più forza, gli occhi negli occhi, ma i pensieri che vagavano altrove per entrambi. La sua mente non era lì. Mi guardava dritto in faccia perché cercava la lucidità. Cercava un piano, un atto di ribellione ben studiato e privo di intoppi. E lo trovò, certo che lo trovò, glielo leggevo negli occhi. Per questo aveva stretto così forte le dita sul mio collo, proprio a quell'altezza. Perché mi conosceva e dubitava della mia fedeltà, di quel placido atteggiamento di sottomissione.
Non aveva affatto torto. Il modo in cui teneva le mani lì, i tendini pronti a scattare sotto la pelle assottigliata dall’età, insieme a tutto quello stupido discorso da genitore affettuoso, era un segno. Aveva capito il mio gioco e stava rispondendo con la stessa moneta. Ma avrebbe dovuto fare in fretta, maledizione, approfittarne, essere il più scaltro e fare la mossa giusta al momento giusto.
Cogliere l'occasione e spezzarmi il collo con un solo, secco movimento, crack. E se non proprio rompermi il collo, almeno farmi svenire con un colpo ben assestato, così da potermi trascinare per il Tempio come un sacco di patate.
Sgranai gli occhi, consapevole e sorpreso al tempo stesso, e prima che potessi rendermene conto avevo tirato indietro il capo per caricare un colpo. Un attimo dopo sentii la fronte impattare forte contro il suo naso, il rumore della cartilagine deformata che mi rimbombava dentro la testa mentre il suo sangue caldo m'imbrattava la faccia e colava tra le labbra, aperte sui denti in un ringhio animale. Reginald strinse le dita sul mio collo, sulle vene che cercavano di spingere il sangue al cervello, alle mani, dovunque potesse essere utile. Dalla sua bocca venne fuori un grugnito frustrato, ma non me ne curai, le mani ora tese verso la sua faccia in cerca di pelle da squarciare, occhi da cavare, sangue. Tra le palpebre strizzate riuscivo solo a scorgere il volto di Birch, la bocca torta in una smorfia di dolore, rabbia e disappunto per la mia indisponenza. Quell’espressione enfatizzava ogni piccola ruga sul suo volto, l’accartocciava su se stessa e insieme alle altre come vecchie carte abbandonate in un angolo. Mentre mi sbatacchiava da una parte all’altra con i piedi sollevati da terra, quasi fossi ancora un bambino e non un uomo con quaranta e più anni di addestramento alle spalle, le mie mani erano ritorte come artigli, non le controllavo nemmeno più, mi bastava agitarle con gli occhi stretti e le unghie all’infuori come un vecchio gatto, sperando, prima o poi, di fargli del male. Mi ero persino dimenticato della sua presa intorno al collo. In un lampo di lucidità notai che mi pareva si fosse fatta meno ferrea: il suo scopo non era quello di ammazzarmi, strangolarmi come un pollo prima di metterlo sul ceppo e tagliargli via la testa, ma tenermi il più lontano possibile da sé, dal suo volto e dalla gelatina tremolante dei suoi occhi. Non si trattava più di uccidere, ma di sopravvivere. Qualcosa mi diceva che, per entrambi, non avrebbe contato più di tanto la morte dell’altro, quanto il pensiero di essere ancora vivi, poter continuare a respirare per un altro giorno, un altro anno, anche di più. In cuor mio pensavo che se non fosse riuscito ad ammazzarmi lui non sarei morto mai più.   
Che delusione dovevo essere per lui. Mi aveva cresciuto come un figlio per più di dieci anni e ora mi ribellavo alla sua autorità, alle decisioni che aveva in serbo per me e per il mondo, cercando addirittura di farlo secco. Achille aveva detto che il suo più grande rimpianto sarebbe stato quello di vedermi sopravvivere al fianco di Connor, influenzandolo con le idee bislacche che avevo in testa, e per Reginald doveva essere su per giù la stessa cosa. Mi trovavo in una zona grigia tra i Templari e gli Assassini, e i vertici di tutt’e due le fazioni mi volevano morto. Che cosa potevo fare, se non rispondere, difendermi? Era ciò che avrebbe fatto chiunque, no? Lottare per rimanere vivo. Non m’interessava più nient’altro. Vivere, sì, ma soprattutto ucciderlo. Nessuno avrebbe più dovuto sopportare ciò attraverso cui eravamo passati io e Charles, mai…
– Agh. – Reginald approfittò di quell’equilibrio precario per spingermi a terra e sbattere la mia testa contro la roccia, le dita di nuovo serrate sulla mia gola per impedire l’entrata dell’aria nei polmoni. Quando sollevai le palpebre, pesanti come macigni, tante piccole lucciole nere danzavano davanti ai miei occhi, impresse sul volto del Gran Maestro come chiazze date dalla vecchiaia. Chiazze… cosa? Che diavolo stavo pensando? Ti sembra il momento? La mia mente aveva ragione. Più passava il tempo e più sentivo la testa ovattata e i dettagli del suo viso si facevano più nitidi, come la saliva schiumosa che gli riempiva la bocca e minacciava di colarmi addosso da un momento all’altro, o i tendini che sporgevano come funi tese sul suo collo.
Provai a trarre un filo di fiato in mezzo ai denti sbarrati, la gola arsa e gli occhi sempre più difficili da tenere aperti. Era finita, lo sapevo. Non si trattava più di furbizia o di astuzia. Mi aveva preso per il collo ed era riuscito a buttarmi giù. Aveva vinto. Se ne stava lì, carponi sopra il mio corpo, con gli occhi che scintillavano d’odio e smania. Non aveva nessun desiderio, tolto vedermi morto. Era una questione di orgoglio che aveva avuto inizio con mio padre, troppi anni fa, e doveva essere portata a termine. Non c’erano vie di mezzo con i Kenway. Tutti morti, oppure nessuno. E tre quarti del lavoro erano già belli che fatti, no?
No, pensai mentre tentavo di scostarmi le sue mani dalla gola. No.
Reginald scoppiò a ridere e un rivoletto di saliva calda colò sulla mia redingote. – Cosa cerchi di fare, eh? – La sua voce suonava così lontana, come se stesse parlando dall’oltretomba. Dove avrei dovuto spedirlo, se solo ne avessi avuta la forza. All’inferno, nel posto che gli spettava di diritto. – Dovresti essermi grato, Haytham. Sai che cosa faresti, se potessi parlare? Imploreresti pietà e piangeresti, proprio come quel bastardo di tuo padre. Creperesti con l’ultimo ricordo della tua patetica voce mentre mi chiedevi di lasciarti andare e farti vivere ancora un po’. Il mio è un atto di compassione. Un atto di…
Non so se fui io a rivoltare gli occhi all’interno del corpo o se smisero di funzionare, senza più sangue ne ossigeno, ma in quel momento non vidi più nulla. No, mi ritovai di nuovo a pensare quando la voce di Birch s’affievolì ancora nelle mie orecchie, ormai più simile a un sussurro. Non è così che doveva andare. Reagisci. Puoi ancora fare qualcosa, no? Non lo sapevo, onestamente. Non ero nemmeno più in grado di battere le palpebre, figurati fargli del male. C’è sempre speranza. Erano gli Assassini a pensarla così. Non io. Non noi. E la zona grigia? Non sei morto, non sei ancora morto, non sei…
– Addio, Haytham.
Che?
Strinsi i pugni in una morsa e affondai le unghie nei palmi, sperando di sentire ancora dolore, qualcosa. Feci del mio meglio per aprire gli occhi di un poco, soltanto un poco. Eccolo lì, di fronte a me, sopra di me, con quell’espressione furiosa e folle, piena di entusiasmo, quella di una massaia soddisfatta davanti alla morte dell’ultimo parassita della sua cucina. Strinsi i denti così forte da sentirli cigolare gli uni sugli altri: sapevo di non avere la forza necessaria a tirargli un pugno – a meno che non avessi intenzione di fargli il solletico –, motivo per cui dovevo trovare un altro modo. Un qualsiasi altro modo.
La vista mi sparì di nuovo, rivoltandosi in quell’antro scuro e pieno di rimpianti che era il mio corpo, quindi agii d’istinto, con quei pochi brandelli d’ossigeno e lucidità che ancora sentivo pulsare nel mio sangue, e sollevai il ginocchio, lo stesso che era uscito sciancato, ma ancora funzionante, da uno scontro fin ravvicinato con Achille, schiantandolo con tutta la disperata forza che mi restava nel ventre di quel bastardo, no, non sui giochi, più in alto, così che tutta l’aria schizzasse fuori dal suo petto in uno sbuffo.
Il corpo di Reginald si afflosciò sul mio petto, la presa delle dita finalmente allentata, e a quel punto feci la sola cosa che mi venne naturale: lo spinsi via con una gomitata e strisciai appena più in là, la bocca spalancata in uno, due, tre respiri profondi. L’aria mi bruciava in gola come alcool e raggiungeva i polmoni con lo stesso incredibile senso di sollievo. Mi sentivo come se non avessi respirato per una vita intera e dovessi recuperare anni di lavoro arretrato. – Tu, lurido… – Birch serrò una mano sul mio braccio, e mi voltai a guardarlo sorpreso. Se ne stava lì, raggomitolato su un fianco come un bambino, con una mano sul petto e gli occhi che tremolavano sotto le palpebre.
Non ci pensai due volte: assestai un pugno sulla sua gola, come quelli che avevo visto sferrare solo nelle taverne, durante le simpatiche risse tra soldati sbronzi cui non partecipavo mai, o quasi. Avevo imparato che bastava un colpo come quello per stendere qualunque idiota volesse fare troppo il furbo, e immagino che Reginald non rientrasse esattamente in quella categoria, ma non me ne fregava niente. Si ripiegò su se stesso col fiato mozzo, una mano serrata sul collo rugoso e l’altra ancora stretta attorno al mio bicipite, e mi trascinò con sé sul pavimento del Tempio. Finimmo per rotolare uno sull’altro come amanti – ironico, non trovate? –, entrambi che lottavamo per sferrare il pugno più forte o il morso più veloce e profondo. Le mie mani correvano dovunque le portasse l’istinto, sentivo il grattare degli stivali sulla roccia come un lontano rumore di sottofondo, ma la vera musica stava nei nostri grugniti, nei suoni gutturali e soffocati che emetteva ogni volta che riuscivo a colpirlo. Lo stesso dovette essere per lui quando mi assestò un pugno sullo zigomo così forte da farmi tremare le cervella dentro la testa. Sentivo il cranio fischiare, la vista tornò di nuovo a colmarsi di macchie nere e il battito del mio cuore rallentò per un attimo, il tempo necessario a farlo sorridere come un ragazzino. Uh, mi aveva dato un pugno! Che carino.
Non mi presi nemmeno il tempo necessario a tornare lucido, affondai le unghie nella carne delle sue guance finché non fu obbligato a tendere il collo innaturalmente indietro, gli occhi colmi di panico e minuscoli, contorti vasi sanguigni. Diedi un colpo di reni e mi portai sopra di lui proprio mentre mi mollava un altro cazzotto, questa volta alla bocca dello stomaco, e dovetti puntare i piedi a terra per non collassargli addosso. Non gli avrei mai lasciato una simile soddisfazione, nemmeno se mi avesse pagato. Tesi il braccio all’indietro e il pugno lo prese sul naso, torcendolo ancora di più: un fiotto di sangue zampillò fuori da quella specie di patata di cartilagine, finendo per imbrattargli il collo candido della camicia e la giacca di raffinata fattura. Riuscivo solo a pensare a quanto lo odiassi, quanto odiassi lui e i suoi modi da ricca borghesia, il fatto che guardasse tutti dall’alto in basso, come se nessuno meritasse veramente la sua attenzione – tolti gli eminentissimi Precursori, sempre siano lodati, ovviamente –, odiavo il modo in cui aveva distrutto la mia famiglia e odiavo come, per tutta la vita, aveva cercato di distruggere me. Diceva che ero come mio padre, ed era proprio quello ciò che voleva estirpare. La mia personalità, la capacità di pensare con la mia testa. Quelli come me avrebbero mandato i Templari alla rovina.
Forse aveva ragione, ma almeno avevo cercato di tenere in vita un paio di membri, e non solo per usarli come giocattoli per scaldarmi il letto. Non mi ero nemmeno accorto di come il mio pugno aveva continuato a colpirlo in faccia, sotto l’occhio, sul mento, sul collo, ancora, ovunque capitasse, non aveva alcuna importanza. Le mie nocche si erano aperte come frutti maturi, e la carne livida e tesa del suo viso continuava a imbrattarsi del sangue che mi colava dalle mani mentre lui chiudeva gli occhi, si lasciava andare, la bocca mezza aperta e le mani abbandonate mollemente lungo i fianchi, oh, ma io avevo smesso di fidarmi di lui, dannazione, non avrei dovuto mai farlo. Strinsi il collo del suo lungo cappotto, umido per il sangue e il tempo trascorso nella Frontiera, e scrollai il suo capo come fosse una sacca, lasciando che sbattesse un paio di volte sulla roccia. – Credi di prendermi in giro? – abbaiai contro la sua faccia, il volto che pulsava per i pugni, per quel continuo intrecciarsi l’uno con l’altro e per la rabbia che mi bruciava dietro gli occhi. – Eh? So che sei lì, Reginald! – La mia voce suonava così folle, tesa e colma d’ira, non riuscivo nemmeno a controllare il ridicolo tono acuto che avevo assunto. Gli sollevai le palpebre con una mano, non tanto per osservare se le sue pupille mostrassero una qualche reazione quanto per dargli fastidio, prenderlo in giro e fargli capire chi era a comandare all’interno dell’Ordine.
Che cosa aveva fatto per i Templari, a parte metterci uno contro l’altro? La Mela l’avevo procurata io, così come io avevo trovato il Grande Tempio e avevo provato a risolvere la situazione con George Washington mentre lui se ne stava tranquillamente imboscato chissà dove a farsi maneggiare l’uccello da Charles. Come potevo non odiarlo? Com’era possibile anche solo pensare che quel posto gli spettasse di diritto? L’Ordine era la mia famglia. Non gli avrei permesso di distruggerla, non un’altra volta. – Vuoi sapere una cosa? – sussurrai, il volto ad appena una spanna dal suo, paonazzo e livido. Gli strinsi le mani intorno al collo, proprio come aveva fatto lui, e strinsi così forte che fu costretto a sollevare le palpebre, gli occhi strabuzzati e la bocca aperta nel tentativo di boccheggiare. Un brivido piacevole corse lungo la mia schiena, rizzandomi i peli sulla nuca.
I suoi occhi chiari incrociarono i miei in un moto di profonda rabbia, velati da una strana luce. Paura, molto probabilmente. La netta sensazione di essere arrivato alla fine. – Ho aspettato questo momento per… Dio, non so nemmeno esattamente quanto sia passato. – Scrollai il capo e serrai le cosce attorno al suo corpo, così che non potesse muoversi. Non avrei mai lasciato che una casuale, minuscola distrazione mandasse tutto quanto a monte. – Ora sei nelle mie mani, come lo sono stati Benjamin Church e William Johnson prima di te. Ho ucciso due membri dell’Ordine, del tuo Ordine, quella che doveva essere la tua sola ragione di vita. Avevi stretto un giuramento! – Sentii la voce spezzarsi nella mia gola e gli occhi bruciare nelle lacrime. Dio, no, non potevo crollare in modo così stupido. Tirai su con il naso, tentando di resistere. – Che cosa ne hai fatto, eh? Hai buttato al vento secoli di lavoro per dei fantasmi! Per... usarmi come Chiave! Perché, Reginald? Perché? Hai iniziato a demolire la mia famiglia fin da quando ero solo un bambino, e tutto per cosa, di grazia? Perché mi odi? – Sentivo la rabbia bruciare in piccole gocce rotonde agli angoli dei miei occhi, ma per nulla al mondo avrei permesso loro di scivolare lungo le guance. – Che cos’hai contro di me? Che cosa ti ho fatto? – gli gridai in faccia, i polmoni come avvolti in uno strato di fiamme. Probabilmente sembravo infantile, oltre che fuori di testa, ma era una cosa che mi premeva di sapere. Perché ce l’aveva così tanto con la mia famiglia? Solo a causa della sua smania per i Precursori? Era davvero così folle?
Allentai appena la presa sul suo collo, quel tanto che bastava a fargli passare un filo d’aria nei polmoni, e Reginald ridacchiò nella mia stretta. In quel momento, pensai che sarebbe stato meglio per tutti se la sua fosse stata follia. Meglio per me, sicuramente. L’idea che avesse un motivo serio e razionale per odiarci tutti e per odiarci così tanto mi metteva i brividi. Lo guardai sfogarsi in una risata lunga e lugubre come il lamento di un cane morente e deglutii un groppo grande come un pugno, insieme ad almeno un paio di singhiozzi.
Poteva aver ucciso mio padre, mia madre e Jenny – più o meno direttamente, s’intende –, ma non ero arrivato a quel punto solo per scoppiare a piangere di fronte a lui. Lo odiavo con ogni cellula del mio corpo, e proprio per quello non volevo avesse una morte dignitosa. Io non sono un Assassino. Di queste cazzate non me ne importa niente, e sapevo che, con o senza dignità, la morte è sempre la stessa cosa, ma dargli la soddisfazione di vedermi in lacrime, per quanto rabbiose e violente, dopo tutto ciò che mi aveva fatto pareva un po’ esagerato, non credete?
Inspirò, le narici dilatate nel tentativo di mandare più aria possibile nei polmoni. Gli lanciai un’occhiata sdegnosa, e qualcosa nel sorrisetto all’angolo della sua bocca mi disse che sapeva che non l’avrei strozzato. Non ancora, quantomeno. Volevo parlasse un po’. Volevo una risposta. – Niente – fece con quel mezzo ghigno stampato in faccia. Notai con un brivido che la sua espressione somigliava terribilmente al sorriso lascivo che faceva capolino sempre più spesso sul volto di Thomas. – Tutto ciò che ho fatto… – La risata gli morì sulle labbra e tossì, schizzando di saliva e sangue il mento e il collo della camicia. – Tutto ciò che ho fatto era per l’Ordine.
Chiusi d’istinto le mani sulla sua gola, guardandolo mentre strizzava gli occhi come un bambino spaventato. Sentivo il suo pomo d’Adamo agitarsi sotto le mie dita, e la scomparsa del sorriso dalla sua bocca mi fece già sentire un po’ più sicuro di me. – L’Ordine? – sibilai, il petto gonfio d’ira. Non c’era niente che mi disgustasse più della sua patetica ipocrisia. I Precursori non erano l’Ordine, lui non era l’Ordine. – Questa è bella, Reginald, è davvero bella – aggiunsi con un sorrisino, come avesse appena fatto una battuta particolarmente spassosa. – Forse all’inizio, quando hai organizzato la mia esecuzione, in quel momento potevi aver agito per l’Ordine. Non te ne sei nemmeno accorto, eppure  hai avuto sotto gli occhi il nostro punto di forza, la collaborazione. Erano tutti sotto il tuo controllo e sei riuscito a convincerli ad impiccarmi. Impiccare me, il loro Gran Maestro! Insomma, non certo il primo sconosciuto che passa per la strada, dico bene? – Inclinai il capo da una parte e lo fissai negli occhi, quasi in attesa di una risposta. Ottenni soltanto un minimo movimento dei suoi occhi nella mia direzione, le pupille dilatate dal panico, dunque continuai il mio discorso. – E poi li hai lasciati andare. Non sei mai stato un idiota, per quanto mi dispiaccia ammetterlo. – Certo che non era un idiota, cazzo, ma non era detto che sarebbe morto prima, se anche lo fosse stato. Ho visto idioti smidollati come Achille vivere per molti più decenni di quelli che avrebbero meritato, ma, si sa, la vita non è mai stata giusta. Avrei scommesso la mia anima che se anche Reginald fosse stato un povero stupido saremmo arrivati a questo punto, ma forse ucciderlo sarebbe stato più facile. Chissà, magari non avrebbe cercato di spezzarmi il collo. Vuoi continuare o preferisci che si addormenti? Scrollai il capo, cercando di riprendere il filo. Ah, sì, giusto. Il fatto che non fosse un idiota. –  Non so perché tu l’abbia fatto, onestamente. Forse pensavi che uomini così pragmatici, dediti alla vera causa dell’Ordine, uomini che io avevo addestrato e sapevano perfettamente che l’unico modo per raggiungere la pace era non spargere troppo sangue, mantenere tutti calmi e dalla nostra parte. Immagino che non ti importasse. – Feci spallucce, per quanto fosse possibile con le mani fisse sulla gola di un uomo. – Ognuno fa le sue scelte, giusto? E che importa se hai un Ordine da portare avanti, sono uomini adulti, grandi e grossi, possono cavarsela da soli. – Sbuffai. Non aveva mai capito che il senso dei Templari non era quello. – Hai guardato soltanto ai tuoi interessi.
Reginald scosse appena il capo, come se si trattasse di un dettaglio margnale. – I Precursori sono nostri alleati. Senza il loro aiuto non ci sarà più niente da salvare. Il mondo…
Sollevai la sua testa dal pavimento e la feci sbattere contro la pietra con stizza, solo per farlo stare zitto. – Sei pazzo se credi davvero a una fesseria del genere – sibilai, il volto così vicino al suo che avrebbe potuto baciarmi se solo non avesse avuto gli occhi mezzi chiusi e la testa rintronata nel dolore della botta. – Tu ti sei concentrato su quello tra noi che ti sembrava più promettente, proprio come avevi fatto con me. – Feci un sorriso triste, lanciando un’occhiata di striscio verso il punto in cui dovevano trovarsi Charles e Connor, chissà, magari ancora allacciati l’uno all’altro in attesa della morte di uno di noi. – Dovrei dire indifeso, forse. – Annuii tra me. Non c’era un termine più adatto a definire Charles, ed era evidente per chiunque lo conoscesse davvero. – Giovane, intelligente, desideroso di una guida. – Oltre a covare un sacco di rancore nei miei confronti, qualifica che lo rendeva magnificamente adatto ai propositi di Reginald. Mi sforzavo di pensare che non fosse soltanto colpa mia, dopotutto era stato lui a mandare Jenny a Damasco, ma era così difficile. Non potevo scrollare semplicemente le spalle davanti a Charles e dirgli: “Senti, davvero, mi dispiace tanto, ma ero riuscito ad avere notizie della sorella che non vedevo da anni e con cui avevo un rapporto terribile, mi capirai, giusto?”. Patetico. – Così – continuai dopo essermi schiarito la voce, – hai preferito... – No, m'implorò una voce nella mia testa, una supplica che non potevo ignorare, non puoi fargli una cosa del genere. Abbassai appena gli occhi, e pensai che quella vocetta doveva avere ragione. Stavo per mettere finalmente le carte in tavola, sbandierando che sapevo perfettamente cos'aveva fatto a Charles, proprio come avevo ormai scoperto cos’avesse fatto a me, ma cosa gliene poteva importare? Non si sarebbe certo vergognato di noi, e non credo tenesse minimamente in considerazione il giudizio di Connor: se avessi aperto bocca, gli unici a patirne saremmo stati noi, e francamente non credevo ne avessimo bisogno. – Hai preferito pensare a questa stupida grotta e a un mucchio di fantasmi di cui hai soltanto sentito parlare. Hai rovinato il nostro rapporto e sfaldato l'Ordine senza nessun motivo! – berciai, un braccio teso verso Charles e la gola che bruciava per tutte le lacrime che avevo ingoiato. – Tu non li conosci, Reginald! – sentivo la voce tendersi nel petto, sottile, sul punto di spezzarsi. Solo avendoli tutti e tre dentro la testa era possibile capire quanto assurde potessero essere le loro richieste, i loro desideri, e quanto diavolo fossero potenti. Avevano controllato Achille, mi avevano fatto ammazzare William Johnson, e lui persisteva nell'idea di dar loro altro potere. – Non sai quello che sono in grado di fare. Pensi davvero che possano ridare forma all'Ordine, renderlo migliore? A loro non importa niente di noi, e io... Io credo che tu lo sappia. Lo sai benissimo che non servirà a niente, Reginald. Volevi... Volevi divertirti, o forse distruggermi, ma ora non conta. Tu non aprirai quella porta – ringhiai tra i denti, il pollice puntato contro la parete di fondo del Tempio, – né vedrai Coloro che Vennero Prima all'opera, se mai succederà. Puoi credere quello che vuoi, non uscirai vivo da questo posto.
Abbassai gli occhi sul suo ventre che si alzava e si abbassava lentamente. Succhiava l'aria tra i denti sbarrati, ma non aveva il coraggio di replicare. Forse non l'aveva mai avuto. – Hai fatto il tuo tempo. Te la sei spassata con me, con Charles, hai avuto le tue occasioni, ma ora sei qui per loro, non è così? Per entrare davvero in questo maledetto Tempio e obbedire a una profezia ambigua e che magari non significa nulla! – Piegai le labbra in una risatina forzata e per un attimo il mio sguardo incrociò il suo, pieno d'ira e di sdegno. Come potevo parlare in quel modo dei suoi amati Precursori? Mio padre era morto per quei tre, perché io e Reginald ne sapessimo di più e potessimo fare che cosa, eh? Non c'era più un senso, era soltanto fanatismo, patetico, disgustoso fanatismo, quello che cercavamo a tutti i costi di scacciare dal mondo in nome dell'ordine. – Il Sangue dell’Aquila e il Pensiero della Croce, giusto? – Gli sorrisi, liberando appena la sua gola dalle mie dita contratte e ritorte come quelle di un vecchio. Era impossibile pensare che ci credesse davvero.
– E chi altri, se non tu? – sussurrò Reginald con un lieve colpo di tosse, i denti in mostra in un mezzo sorriso sporco di sangue.
Emisi uno sbuffo. Doveva essere proprio un genio per averlo capito. Mi balenò per un attimo in mente l'idea che lo sapesse già, anzi, che lo avesse sempre saputo, fin dal libro che aveva rubato a mio padre, e proprio per quello poteva aver deciso di portarmi con sé, ma non lo sapevo, e non avevo intenzione di chiedere alcuna conferma. Che importanza aveva? Avrebbe cambiato qualcosa? No. Non serviva a nulla. – Complimenti – commentai gelido. – Sei stato tu il primo a dirlo. Un Templare con il cervello di un Assassino. Ricordi? – Presi fiato tra i denti, pensando che nonostante avesse cercato di impiccarmi e avesse usato Tiio come esca per condannarmi come traditore, non provavo verso di lui nemmeno la metà dell'odio che provavo in quel momento. – Ci tengono in pugno. Lo fanno con tutti, è ciò che sanno fare meglio. Non vogliono aiutarci, siamo noi a dover aiutare loro con questo stupido posto. C'è un disegno dietro. Qualcosa che non è per nessuno di noi. – Affondai i denti nel labbro inferiore, tentando di calmare il battito del cuore sotto le costole. – L'Ordine non era nato per questo. Se c'è qualcuno che doveva essere condannato per tradimento eri tu, maledizione. Ne ho abbastanza di te. Hai completamente rovinato la mia vita, e Dio mi fulmini se esiste un modo per riaverla indietro. Lo so che ucciderti non servirà a niente, Reginald. – Le cosce dolevano per il continuo stringersi attorno al suo corpo, ma non potevo più permettermi di cascare in qualche stupido trucco. – Io lo so. In concreto probabilmente non cambierà niente. Qualunque cosa porti la tua morte, gioia, dolore, non posso saperlo, io lo accetterò. A volte gli uomini hanno soltanto bisogno di una ricompensa, e se fossi stato un Templare migliore lo sapresti. Conosceresti gli uomini per quello che sono. Il problema è che tu non sei nemmeno un uomo. Sei solo un pazzo con delle armi a disposizione. – Sentii i denti cozzare tra loro in un ringhio doloroso a causa di tutti i lividi che mi ero procurato in quella lotta disperata. Era la verità. Reginald era molto meno di un essere umano, era un mostro con la mente annebbiata dalla follia e dall'idea che spiriti millenari potessero cambiare il nostro mondo. Forse aveva anche ragione, ma, sul mio cadavere, avrei fatto tutto il possibile per non permetterglielo. Il pensiero che, alla fin fine, fosse tutta colpa sua sprofondava nel mio petto come il dolore di un lutto. D’altronde, che cos’aveva detto mio padre in quel maledetto e bellissimo sogno di una vita fa?
“Sai com’è che muoiono i cani?”
Un cane. Ecco cos’era stato Reginald per tutti quegli anni. Inizialmente fedele, gentile, vicino – troppo dannatamente vicino a me –, ma a un tratto era come se avesse contratto la rabbia. Ed era diventato pericoloso, assetato di sangue e di potere. No, no, le cose stavano diversamente: non era mai diventato pericoloso. Lo era sempre stato, ma mi ero fidato di lui perché non avevo altro. Come mio padre.
“Quando sono troppo violenti, quando abbaiano forte e spaventano il bestiame?” Era stato violento. Abbaiava sempre forte e chiaro, sapeva convincerti di quanto fosse corretto quel che ti aveva appena ordinato di fare. Non potevi rifiutarti: era perfettamente in grado di spaventare il suo bestiame, la sua carne da macello, ciò che ero stato durante tutta la vita. Mi aveva spaventato, usando metodi tutt'altro che delicati con me, ma, come una pecora, mi ero abituato a vedere il buono in chi mi aveva protetto e cresciuto per tutti quegli anni. Quant’ero stato cieco.
“…quando bisogna abbatterli?”
Sorrisi tristemente guardando Reginald sotto di me, le mie mani strette sulla sua gola da così tanto tempo che ormai lì sotto doveva esserci un segno violaceo grosso come quello di una catena. Non aveva nemmeno tentato di discolparsi, di farmi cambiare idea. Tese le labbra in un sogghigno, il mento che tremava mollemente sopra le mie mani. La sola vista del suo volto così pieno di meschino entusiasmo bastò a convincermi che non avevo più ragioni per rimandare. Volevo soltanto che sparisse. Emisi un gran sospiro e abbassai gli occhi sulle mie cosce, cercando di calmare il respiro. Il mio cranio pulsava di rabbia, come se stesse per esplodere da un momento all'altro.
Non avevo una pietra, ma sarebbe andato bene anche il contrario, no?
– Addio, Reginald.
Sollevai il suo torace lentamente, di poco, prima di fargli sbattere con violenza la testa sul pavimento di roccia del Grande Tempio. Inizialmente l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e irrigidì il collo per evitare di subire un impatto troppo forte, ma la velocità e la potenza con cui lo sollevavo per poi schiantarlo giù crebbero man mano che la rabbia scemava. Era soltanto un lavoro, ed era mio dovere portarlo a termine. Più in fretta, con più forza, la sua testa che ciondolava avanti e indietro mentre l’osso della scatola cranica scricchiolava, si rompeva in migliaia di piccoli frammenti letali. Il sangue stava inzaccherando il pavimento, le mie mani, i vestiti e la mia faccia. Proprio come avevo desiderato per così tanto tempo. Un rivolo rosso scuro gli colava dal naso e l’ematoma attorno a un occhio gli stava impedendo di guardarmi per bene mentre moriva. E io volevo vederlo spirare, quel cane. L’avrei abbattuto di persona.
Sollevai il suo sopracciglio con le dita, così che tenesse gli occhi aperti su di me. Non c’entrava nulla l’orgoglio. Volevo che capisse. Era stato lui a farmi diventare così, a insegnarmi tutto. Non conoscevo niente di più sconvolgente per un uomo di vedere la propria creatura rivoltarglisi contro. Mi bastava pensare a Thomas, quell’altro bastardo. – Non dormire, Reginald – dissi, ma non riuscii a tendere le labbra in un sogghigno. Quella che mi usciva di bocca non sembrava nemmeno la mia voce, tanto era piena di astio, ma non voglio essere un ipocrita. Lo odiavo, com'era lecito, e anche se la vendetta non mi stava portando da nessuna parte era comunque una piccola, gelida soddisfazione vederlo in quelle condizioni. – Non abbiamo ancora finito. – Gli tirai un altro cazzotto sul naso, giusto per sfogarmi e dargli una svegliata. Al diavolo la correttezza, una morte dolce e veloce anche per il nostro nemico, il porgere l'altra guancia e idiozie del genere. Non è così che vanno le cose, alla fine. Puoi voltare il viso e concedere al nemico un altro colpo per l'eternità, all'infinito, ma io non ero quel tipo d'uomo, e avrei sfidato chiunque a diventarlo dopo aver vissuto una vita come la mia.
Il dolore del pugno lo fece trasalire, e altro sangue riprese a scorrere lungo il suo volto. – Ugh – biascicò provando a poggiare la guancia contro la roccia. Forse ancora non aveva capito di essere nelle mie mani, a mia esclusiva e completa disposizione. – Sei un gran… bastardo – sussurrò mentre lo sollevavo ancora.
– E tu sei un cane, Reginald – risposi. Avrei venduto la mia anima per sentire un sorrisetto folle e insanguinato allargarsi sulla mia faccia, una qualsiasi traccia di soddisfazione a scaldarmi il petto, ma non c’era niente. Soltanto odio. – Un cane.
Un altro colpo, il sangue schizzò con più violenza e il Gran Maestro gemette. Un altro, Birch sgranò gli occhi iniettati di sangue, il viso ridotto ad una maschera vermiglia. Di nuovo,  lo sentii mordersi la lingua in un urlo soffocato, e un attimo dopo mi sputò un grumo caldo di saliva, catarro e sangue dritto in faccia.
Fosse bastato per fermarmi.
Mi passò per la testa l’idea di tagliargli le palle e fargliele ingoiare, ma pensai che con il suo membro volevo avere meno a che fare possibile. Era passato troppo tempo, dannazione, c’era stato troppo dolore. E io non ero come lui. Non sarei mai sceso al suo livello in quel modo.
Un colpo ancora, i suoi occhi si rivoltarono e mi sentii ridacchiare. Sollevai la sua testa, solo la testa. Il volto era un’inquietante maschera rossa e deturpata, la nuca soltanto una massa di materia grigia, grumi, ossa frammentate e sangue, tanto di quel sangue che avrei potuto berlo.
Un brivido mi solcò la schiena con violenza quando mi resi conto che ce n’era dappertutto, di sangue, ricopriva il pavimento di pietra del Tempio come un tappeto pregiato. Con un respiro, mi sforza di rivolgergli un mezzo sorriso maligno – sentivo tirare le labbra sporche della materia uscita dalla sua testa, dal naso, dalla bocca – e inflissi l’ultimo colpo.
Schiantai la sua testa sul pavimento con quanta più forza possibile, e quando la sollevai per il contraccolpo strinsi i palmi sulle sue tempie e girai di scatto.
Un caldo fiotto di sangue gli uscì dal naso per via delle ossa rotte e dei nervi troncati bruscamente, inzuppandomi la camicia e i calzoni. Zampillava come una fontana, denso e nero, sangue, grumi, pezzettini di cervello, ossa e cartilagine spappolata, sembrava che tutto il suo corpo dovesse svuotarsi addosso a me. Poggiai piano il suo capo a terra mentre il suo naso continuava a gocciolare copioso. Altro sangue veniva fuori dalla bocca, ruscellava tra le labbra spaccate e colava lentamente giù per il suo volto. Sembrava così innocuo, pensai mentre mi tiravo in piedi. Aveva ancora gli occhi sgranati, scuri e colmi di disapprovazione, vitrei come fondi di bottiglia sotto le palpebre immobili. Mi sarebbe piaciuto essere contento mentre lo guardavo morire accanto ai miei stivali, davvero, ma non ci riuscivo. C’era soltanto un gran vuoto, e la voce di mio padre che continuava a riempirmi la testa.
“Una bella pietra sulla testa finché non sono stecchiti.”
Constatai la morte di Reginald Birch aprendo lentamente le mani, gli arti che finalmente si rilassavano, molli lungo i fianchi. Alla fine avevo avuto quel che andavo cercando da tanto tempo, giusto? La mia vendetta.
Solo in quel momento i miei pensieri, tutti in una volta, andarono per davvero a mio padre, Holden, Jenny, mia madre. A Tiio. Tutti coloro che Reginald mi aveva portato via. Avevo fatto la cosa giusta. Non m’importava quanto male gli avessi fatto, lui ne aveva sempre fatto di più a me, e avrebbe continuato. Quello non era il tipo di dolore che si dimentica con una sbronza e una sana dormita.
Poteva anche non essere una gara, non ufficialmente, ma pensai che se si fossero invertiti i ruoli lui le palle me le avrebbe fatte ingoiare eccome. Non avrebbe avuto misericordia di me se avessi ucciso la sua famiglia e fatto stuprare sua moglie, anzi, credo che avrebbe voluto ammazzarmi nel modo più doloroso possibile, e io non ero lì per compiere atti di bontà. Non lo avevo strangolato, in fondo, soltanto perché non mi era passato per la testa. Forse sarebbe stata una morte più lenta e dolorosa, ma non avrebbe certo reso più piacevole la visione del Grande Tempio imbrattato in quel modo. Il luogo in cui avevo baciato Tiio per la prima volta, zuppo del sangue dell’uomo che aveva ordinato di ucciderla, uh, magari sarei dovuto essere più sensibile e ucciderlo da un'altra parte, ma non avrebbe cambiato nulla. Tiio sarebbe stata lo stesso sottoterra, proprio come lui.  
Morto. Non sapevo se mi sarei mai abituato a immaginarlo davvero in quel modo. D'istinto strinsi le labbra in una smorfia. – Cane bastardo – ringhiai, ancora torreggiante sul suo cadavere con le braccia molli lungo i fianchi, libere dalla stretta delle mie cosce cosce. Sentii un singhiozzo esplodermi finalmente nel petto, isterico e liquido, e poggiai le mani sopra la bocca mentre ne usciva un altro, un altro ancora, e le lacrime erano impossibili da fermare, colavano calde e senza fine sulle braccia. Avrei voluto sollevare un piede e allontanarmi dal suo corpo, ma non avrei interrotto quel meraviglioso pianto liberatorio solo per, che so?, assicurarmi che il cranio di Reginald stesse continuando a sanguinare. Certo che continuava a sanguinare, e la macchia di allargava sulla pietra come un arazzo lavorato a mano. Con le dita serrate sulle labbra e il petto che sussultava gettai una gamba tremante oltre il suo corpo, lentamente, le ginocchia che si agitavano – sul serio, questa volta – dentro i calzoni.
Tentai di asciugare le lacrime, passando i pollici sotto gli occhi, ma quando mi voltai non ero assolutamente pronto per ciò che vidi. Il fatto di averlo aspettato per mesi, per anni, non rendeva quella scena meno significativa. La mia bocca sporca di sangue si tese in un sorriso, uno vero, alla vista di Connor che lasciava cadere Charles a terra, carponi sul pavimento come un bambino. Di lì a poco il sangue l'avrebbe raggiunto, ma non se ne curava. Era soltanto impegnato a respirare, la bocca aperta per inalare quanta più aria possibile senza star male.
Connor, alle sue spalle, si piegò sulle ginocchia e fece scrocchiare le braccia intorpidite con una strana espressione in volto. Paura, sicuramente, ma anche sollievo e disgusto per tutte le schifezze vermiglie che scorrevano sul pavimento, tra sangue nero, grumi di cervello e pezzetti d'osso candidi come la neve. – È finita – dichiarò in un grugnito.
Sì, direi che aveva colto bene l’essenza di ciò che era successo. Un po' riduttivo, forse, ma efficace.
– Che il diavolo mi porti. – Sussultai nel sentire la presa di Tom Hickey stretta sul mio braccio. Era silenzioso come un gatto anche quando si trattava di sciaguattare nel sangue fresco di un uomo. – Che il diavolo mi porti, capo, ce l'hai fatta. L’hai ammazzato. – Mi voltai a guardarlo con gli occhi ancora umidi, e si grattò il mento, studiando la situazione del Tempio intorno a sé. – Un bel po' di sangue, eh? – decretò con la sua solita noncuranza. Fu quando i miei occhi caddero nei suoi, in quei maledetti pozzi scuri, che mi sentii di nuovo come se stessi per crollare. Strinsi la mano sul suo altro braccio, i denti serrati dolorosamente, e tentennai.
– Sei... – Non sapevo nemmeno bene che cosa dirgli, come dirglielo. Avrei voluto fargli un qualche commento significativo, ma non avevo nulla in mente. Sentivo solo il rimbombo del mio cuore nel petto, come un tamburo di guerra. Non ci pensai due volte: gli gettai le braccia intorno al petto in un abbraccio, gli occhi serrati per non far sgorgare altre lacrime. Avevo bisogno che fosse lui a sorreggermi, così che io potessi fare lo stesso con Charles.
– Dai, capo – brontolò Thomas dopo quelli che a me sembrarono pochi secondi. Avrei potuto stringerlo per ore e non me ne sarei nemmeno accorto. – Non vorrai mica che mi diventi duro, vero?
Scoppiai in una risatina isterica, il volto affondato nella sua spalla e i pugni stretti sulla giacca, come se volessi strapparla. Dovetti premere una mano contro il suo sterno per riuscire ad allontanarmi senza crollare in ginocchio, e nonostante tutto tenni gli occhi nei suoi, in cerca soltanto della certezza che potessi farcela. Tom emise un grugnito e fece spallucce, come a dire che se anche non ci fossi riuscito non sarebbero stati affari suoi.
Mi aveva tradito per salvarmi la vita. Aveva messo in piedi un piano tutto suo, senza tenere conto dei giuramenti che aveva stretto o di ciò che un’imprudenza come questa avrebbe potuto portarci. Lo aveva fatto e basta, e per questo gli ero grato molto più che per tutto il resto. – Dai – brontolò tra i denti serrati. – Non vedi quant’è disperato?
Gli voltai le spalle con un groppo in gola. Non c’era certo bisogno che lo dicesse lui, l’avrebbe capito anche uno stupido. Persino Connor, alle sue spalle, lo fissava come se non avesse mai visto niente di più patetico. Mi aspettavo quasi che s’inginocchiasse al suo fianco e gli chiedesse scusa con una fraterna pacca sulla spalla.
Sorrisi mentre mi avvicinavo lentamente a lui, i tacchi che rumoreggiavano sulla roccia insanguinata, e lo guardai respirare per un po’, il capo chino contro il petto e i palmi aperti premuti a terra, le vene che pulsavano a intermittenza sui dorsi pallidi.
Quando s’accorse della mia presenza – probabilmente perché vide i miei stivali a un paio di spanne dalle sue ginocchia – sollevò gli occhi su di me, come grandi piatti azzurri e pieni di paura puntati nei miei. La punta della sua lingua torturava un angolo delle labbra, come alla ricerca di una ferita aperte da stuzzicare, e fece leva sulle mani per rimettersi in piedi, in un atteggiamento un po’ più dignitoso.
Chissà cosa pensava. Forse credeva che l’avrei ucciso già soltanto per non aver cercato di scappare da Reginald, per essere stato d’accordo con lui e avermi spinto giù da quello sgabello, e si era alzato per guardare la morte in faccia. Oppure, al contrario, aveva sempre avuto ragione Thomas, e di lì a poco avrebbe sollevato la pistola per spararmi.
Al diavolo. Non era mai stato bravo a mentire come Tom. Lo conoscevo troppo perché mi nascondesse una cosa del genere. Con un sorriso gentile in volto chinai il capo da una parte, squadrandolo come un padre che vede per la prima volta il figlio di ritorno da una campagna militare. A guardarlo, sembrava fosse passato molto più di un singolo decennio: il suo petto scarno faceva sembrare la camicia ingiallita un sacco vuoto, e i calzoni gli cascavano molli intorno alle gambe sottili, mentre la giacca lo faceva somigliare alla versione grottesca di un barbone londinese. Aveva cominciato a stempiarsi, i capelli scuri come impastati nella pece e i baffi molto più lunghi e disordinati dell’ultima volta, per non parlare delle profonde borse sotto gli occhi azzurri, gli stessi che una volta erano stati curiosi e allegri, sempre pronti a obbedire a qualsiasi mio ordine.
Era tutto diverso, ora. Si portò la mano sinistra al petto e fece per inchinarsi, un’espressione di profondo dolore sul viso. Sono qui, se vuoi uccidermi, sembrava dire.
Ma non era quello che avevo intenzione di fare. – Gran… – Lo fermai con un cenno della mano prima che potesse mandare avanti quella patetica farsa dei convenevoli, dei saluti e del rispetto nei miei confronti. Annullai la distanza tra noi con un passo e, semplicemente, lo strinsi a me, il suo viso affondato nel petto e le dita serrate sui suoi capelli. Lì per lì sentii il corpo tendersi contro il mio, come se stessi cercando di soffocarlo, ma non lo lasciai andare. Non l’avrei fatto mai più, lo avevo giurato. Premetti le labbra sulla sua testa, le braccia strette intorno al suo petto, e un attimo dopo cominciò a singhiozzare, il volto che sussultava in quell’abbraccio, uno di quelli che a Connor – e me ne rendevo conto solo in quel momento – non avevo mai dato.
– Mi… – provò a sussurrare contro il collo insanguinato della mia camicia, – mi…
– Ssh. – Le mie dita scivolarono tra i suoi capelli in una carezza. – Non dire niente – mormorai. – Non dire niente. 
 
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Assassin's Creed / Vai alla pagina dell'autore: Some kind of sociopath