Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Rota    14/02/2015    2 recensioni
Da quando la Guerra è finita, lui si è potuto permettere molti privilegi, e con ingordigia se li è goduti anche nella più minima parte, senza tralasciare nulla: è il suo concetto di vita piena, d'altronde, coerente con lo stesso principio che lo ha portato a sacrificare il proprio braccio e pezzi della propria anima. Non ha rimpianti, solo qualche incubo rimasto alla fine del sonno.
[TERZA CLASSIFICATA Al "Abnormalize - crack pairing multifandom contest" indetto da Ames Ophelia sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eren, Jaeger
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Nick (sul forum e su EFP): Rota23/Rota
Fandom: Shingeki no Kyojin
Titolo: Nothing but my anching soul
Coppia: RivaillexEren
Generi: Introspettivo, Sentimentale, Romantico
Rating: Giallo
Pacchetto: Re Lear/ “Come le persone appartenenti allo stesso gruppo sanguigno sono le uniche che possano donare il loro sangue a chi è vittima di un incidente, così anche un'anima può soccorrerne un'altra solo se non è diversa da questa, se la sua concezione del mondo è la stessa, se tra loro esiste una parentela spirituale.”
– S. Màrai, Le braci
Eventuali Avvertimenti: Shonen ai, What if...?
Settimana/Prompt COWT: Quarta settimana/Anello
Note autore: Alla fine non è venuto niente di quello che avevo programmato, ma tant'è. Non saprei neanche come definirlo, se non come FutureFic pura e semplice. Non c'è molto da spiegare, alla fin fine.
Spero sia una buona lettura (L)

 

 

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TERZA CLASSIFICATA al "Abnormalize - crack pairing multifandom contest" indetto da Amens Ophelia sul forum di EFP

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nothing

but my anching soul

 

 

 

 

Un sasso appena più grande del dovuto si intromette sotto la ruota di legno della carrozza e ne fa sobbalzare tutto l'abitacolo all'improvviso, scuotendo i corpi e le persone di chi si lascia cogliere impreparato. Il cocchiere non commenta il fatto, neanche con un grugnito pieno di saliva, e seguita a fissare i propri stanchi cavalli lungo quella pendente via fangosa; il versante della collina è dolce ma tremendamente esteso in lunghezza, e a ogni passo appiccicosa terra bagnata si aggiunge e si aggrappa testarda allo zoccolo nero del quadrupede, appesantendo ogni metro sorpassato. L'uomo scuote le spalle sotto il mantello e sputa a terra, senza aver altro da fare, in compagnia semplicemente di se stesso.
Da dietro il vetro della piccola portiera, Erwin Smith vede la nebbia bianca che si stende su ogni parte della superficie erbosa, facendo sembrare il cielo un poco più vicino e un poco più basso, proteso verso le loro esistenze. È un fenomeno che già ha potuto ammirare diverse volte, che gli è conosciuto come ogni stagione che riesce a diversificare lo spazio e il tempo e che, quindi, ne impreziosisce ogni singolo istante; eppure si compiace lo stesso di quei pochi secondi in cui rimane ad ammirarne semplicemente l'esistenza intrinseca, nella pace che soltanto l'età e più di mille tramonti rosati hanno potuto donargli.
Da quando la Guerra è finita, lui si è potuto permettere molti privilegi, e con ingordigia se li è goduti anche nella più minima parte, senza tralasciare nulla: è il suo concetto di vita piena, d'altronde, coerente con lo stesso principio che lo ha portato a sacrificare il proprio braccio e pezzi della propria anima. Non ha rimpianti, solo qualche incubo rimasto alla fine del sonno.
Sente uno sbuffo piuttosto chiaro provenire da dentro l'abitacolo della carrozza, poco distante dal suo sedile morbido. Con la coda dell'occhio, scorge la figura di Rivaille rannicchiata in un angolo, con la testa mollemente appoggiata alla parete verticale, soffice di pelo lavorato, e le braccia incrociate al petto cadute quasi sulle gambe.
Le rughe che coprono tutte le guance dell'uomo assumono la forma di un lieve sorriso.
Senza più nemici da abbattere, l'ex soldato sembra aver acquisito la capacità di addormentarsi in ogni luogo e in ogni condizione – o forse sono soltanto i troppi anni accumulati sulle spalle e la troppa ansia da scaricare prima della morte che rendono anche la più semplice delle realtà pesante sulla coscienza. La relatività della pace, come la sua intima fragilità, si rende palese dalle forme che ha assunto in due persone come loro, abituate a mansioni simili e allo stesso tipo di guerra frenetica.
Rivaille sbuffa ancora, senza aver alzato le palpebre, e con un gesto delle spalle cerca di sistemarsi la giacca nera che lo sta coprendo – è vecchia di anni ed è importante quanto un ricordo, per lui. L'indumento, però, finisce per scivolargli lungo il braccio, lasciandolo quindi scoperto e indifeso al freddo dal gomito in su.
Non passano molti secondi che l'uomo schiude le palpebre, inalando più aria con un sospiro e gonfiando la propria sottile cassa toracica; Erwin sta guardando nuovamente fuori dal finestrino e pare non prestargli troppa attenzione. Accanto a sé, c'è Connie Springer, completamente addormentato nel proprio angolo: è stato lui a avvertirli dell'arrivo della comitiva, due giorni prima, avendo in dotazione il cavallo più veloce del gruppo, e in quel momento si gode semplice tranquillità.
Quando sbircia a propria volta il paesaggio oltre il vetro, Rivaille riesce a percepire il freddo dell'autunno sopra la sua stessa pelle.
Andare fuori città, immergersi così in profondità nel nulla, gli procura sempre un effetto che non riesce a descrivere con parole precise, ma che gli rimane comunque nell'animo, come un'impronta o un fantasma poco discreto. È il suo mondo, e allo stesso tempo non lo è; se le sue cinquanta primavere non lo aiutano ad accettare troppo di buon grado il cambiamento, di sicuro non lo fa neppure il suo carattere.
-Non dovrebbe mancare molto all'arrivo.
Si volta verso Erwin, ma l'uomo non lo sta neanche guardando. La manica della giacca pende al suo fianco vuota di essenza e di carne, non rubando la minima integrità alla sua figura. Rimane sempre impettito, come pronto all'azione in ogni istante.
Anche di fronte alla fine riuscirà a eseguire un perfetto saluto militare, rigido nelle proprie abitudini morali.
Rivaille brontola, con le sopracciglia aggrottate in una ruga ben scavata in mezzo alla fronte.
-Siamo in viaggio da questa mattina.
Dietro di loro non si vedono neanche le mura, mangiate dall'orizzonte.
Finalmente anche Erwin lo guarda e gli allunga il cestino del pranzo – come se la sua irritazione non fosse davvero importante o fosse, in qualche modo, minimamente rilevante.
-Hai fame?

 

 

 

I've seen the world, done it all
Had my cake now
Diamonds, brilliant, in Bel-Air now
Hot summer nights, mid July
When you and I were forever wild
The crazy days, city lights
The way you'd play with me like a child

 

 

 

Odore di bagnato e di erba – fango e umidità tutt'attorno, a riempire prima di tutto il paesaggio e poi anche l'animo, poco a poco, come un morbo conturbante.
Una sottile sensazione di disagio si arrampica lenta, in spire sottili, lungo gli arti dei presenti e li avviluppa stringendoli fino a impregnarne le essenze distratte, sfuggevoli, in quasi frenesia. La pelle poco nascosta dai vestiti non avvolgenti il giusto presenta un colore più ambrato del normale, accarezzato più a lungo dal sole di altri luoghi e di altre intensità, dove l'erba è più giallognola e i sassi si fanno tanto fini da scivolare facilmente dentro gli stivali, persino tra le dita sensibili dei piedi.
Spazzata via, assieme al ricordo del profumo di salsedine e di pesce, la sensazione dell'acqua marina sulla pelle, la piccola comitiva di soldati ha potuto tornare nei luoghi natii senza troppo bagaglio emotivo addosso e senza la malinconia delle persone piene di rimpianto.
Mikasa prende l'ennesima cassa: ne afferra in un primo momento gli spigoli con le dita callose e la trascina verso di sé, fino a farle raggiungere il bordo del carro messo in obliquo; una volta raggiunta una distanza sfruttabile, ne abbraccia il perimetro e la solleva senza molto sforzo, voltandosi con un sol passo e dirigendosi quindi verso l'ingresso dell'avamposto di pietra grigia.
Dentro l'edificio, il resto del suo gruppo prepara già tutto quello che occorre per passare due notti e tre giorni. In una vita come la loro, al seguito di un Generale con il compito di esplorare ogni parte del mondo conosciuto e non per verificare la veridicità di antichissime mappe geografiche, non c'è riposo e non c'è vera sosta, perché non c'è fine alla sete di sapere di chi può avere finalmente tutto.
Anche lei è stata toccata dalla bellezza di paesaggi che non ha mai visto – quando ha potuto vedere le sue prime montagne ha sgranato così tanto gli occhi che suo fratello si è preso gioco di lei, senza troppa malizia – e il suo animo ha conosciuto il sapore preciso della libertà tanto agognata dall'umanità che conteneva tutto, ma si è ritrovata stanca prima di quanto avesse previsto. La varietà del profumo di tutti quei fiori diversi l'ha stordita, a lungo andare, e il suo petto si è appesantito di sempre più sospiri.
Armin no: Armin è irrefrenabile. Armin ha avuto bisogno dell'utilizzo di un paio di spessi occhiali per continuare a guardare, e le è sembrato davvero chiaro che quel sacrificio non gli abbia pesato neanche un poco.
Oltrepassa il ciglio dell'ingresso per immergersi in una porzione di ombra densa. Percorre pochi metri con lo stesso passo sicuro di sempre, indirizzata in maniera precisa da due pareti fredde più alte di lei, anche quelle di pietra come tutto il resto; la prima sala che si apre alla luce del fuoco è ampia e alta, dà l'impressione di essere all'interno di una torre. Poi però iniziano le scale, verso i pieni superiori, e un corridoio demolito dall'incuria del tempo chiude su quella che una volta era una seconda stanza, più piccola e più umida, ritagliando per quel luogo isolato la definizione spicciola di avamposto per brevi soste. Come la loro, d'altra parte.
Eren le viene incontro con le braccia tese e gli occhi grandi, verdi come nessuno dei prati che lei abbia mai visto.
-Lascia a me, Mikasa.
Le prende il carico prima ancora che lei abbia fatto cenno di intendere di volerglielo consegnare: per quanto abbia imparato a moderare il tono alla pacatezza, nei modi c'è sempre quella baldanza adolescenziale e quell'impazienza di vivere tutto che lo hanno sempre caratterizzato. Non si impone, ma conserva la forza e l'energia stessa dell'esistenza.
Con la barba e i capelli lunghi, sembra davvero un uomo di più di trent'anni la cui esistenza non si è fermata alla formazione primizia della morte, evolvendosi poi in qualcosa di più grandioso piantato con i piedi prepotenti su quella terra e su molte altre. La tragedia che quelle spalle larghe hanno sostenuto non è che un ricordo gravoso.
Accanto alla finestra che si apre sulla spirale delle scale, Sasha guarda il cielo.
-Questa notte pioverà.
Eren è il più vicino e salta quei pochi gradini che lo dividono da lei.
Pochi di loro hanno imparato le nozioni base di meteorologia, alquanto inutili di fronte al tempestivo prevedere dell'intuito di Braus. Stupirsi fa parte di un sottile gioco.
-Quanto?
-Parecchio. Sta arrivando una tempesta molto forte.
Anche Eren guarda lontano. Vede una carrozza lenta, e sorride piuttosto felice.

 

 

I've seen the world, lit it up
As my stage now
Changeling angels in a new age now
Hot summer days, rock n roll
The way you play for me at your show
And all the ways, I got to know
Your pretty face and electric soul

 

 

L'unica cosa che Erwin è consapevole di poter fare è di tenergli aperta l'anta dello sportello mentre lui esce piano, pezzo dopo pezzo. Prima il bastone scuro, tre nodi prima del manico orizzontale e qualche scritta costellata di tempo passato, poi la gamba ancora funzionante e quindi la seconda, il bacino e infine tutto il resto, compresa l'espressione arcigna che tutto scruta e tutto vede.
Rivaille si guarda attorno, riconoscendo a stento la struttura di pietra piantata così male in mezzo al nulla: sono passati quasi due anni dall'ultima volta che vi ha fatto ritorno, e può notare fin troppo bene anche i più piccoli segni di decadimenti che hanno preso tutta la figura, dal lato della torre di vedetta all'ennesimo ingresso sbarrato da piante eccessive.
Perché quei ragazzi si rifiutino di mettere di nuovo piede in città non è un gran mistero, ma di certo questo regala fin troppa umidità alle sue ossa, e ciò non lo aiuta per niente a essere ben disposto nei confronti del creato.
Fa qualche passo nel fango – nota con la coda dell'occhio il proprio cocchiere che scende dal posto di guida e comincia a occuparsi del proprio cavallo, in assoluto silenzio, mentre Erwin preleva i loro pochi bagagli dal tetto dell'abitacolo, o quantomeno ci tenta. 
Davanti a lui, c'è un non esattamente giovane Armin Arlet che si irrigidisce in un saluto militare vecchio ormai decenni. È pieno di rispetto nei suoi confronti e, per quanto possa risultare noioso all'insoddisfazione, l'animo del vecchio comandante in pensione non è così meschino da non riconoscere un soffuso affetto per quello che è stato e per quello che loro tutti sono stati, tra di loro.
Gli uomini coraggiosi riconoscono colpe senza rinnegare il proprio peccato, e lui è sempre stato circondato da individui simili tanto da riuscire a riconoscerli in maniera piuttosto semplice.
Sasha Braus e Mikasa Ackerman lo salutano solo di sfuggita, correndo invece ad aiutare Erwin con i suoi bagagli; sfuggono alcune parole di primo incontro, sui giorni passati lontani e sulla salute mai cagionevole. Smith è bravo in queste cose, perché ha ricevuto un'educazione che lui non sa neanche definire, e quindi la gentilezza non gli pesa mai.
Non ha domande particolari per nessuno di loro, in realtà. Il suo interesse per quello che lui si ostina ancora a chiamare mondo esterno è piuttosto limitato, come se persino il suo intimo animo si fosse adagiato all'abitudine di non guardare oltre determinate mura artificiali della mente, senza progredire oltre. Il suo isolamento più o meno forzato non è frutto di una mancanza di volontà, ma soltanto l'agiatezza di non essere costretto a vivere in modo isterico. Il mondo che ha salvato non può essere suo, secondo la visione dell'uomo, dacché lui non sarebbe mai in grado di gestirne la vastità e l'intrinseca magnificenza. Anche chi di loro questo non è riuscito totalmente a capirlo gli porta rispetto e lo lascia nella giustezza soggettiva della decisione presa, senza dirgli nulla.
Armin si lascia avvicinare senza mostrare segni di nervosismo, e una volta che Rivaille lo ha superato di mezzo metro lo affianca veloce e lo segue verso l'ingresso principale dell'edificio. Solo dopo qualche passo l'uomo più anziano si ferma di nuovo, giudicando un dettaglio importante.
Allora alza il capo per vedere se la sua ipotesi è fondata, se uno degli elementi mancanti al gruppo in realtà non sia presente in altro modo.
Con le spalle appoggiate alla cornice della piccola finestra e le braccia incrociate al petto, Eren rimane fermo a farsi guardare dal proprio compagno che ha appena finito di guardare tra tutta quell'erba bagnata e tutte quelle persone sciamanti. Ha un sorriso lieve nella poca barba incolta che, è sicuro, l'altro non vede, e una dose eccessiva di tranquillità nel proprio corpo.
Quasi due anni che non lo vede, ed è come se non fosse passato neanche un istante.
Rivaille, là in basso, riprende a camminare accanto a Armin, e per qualche minuto sparisce dalla sua vista. C'è il rimbombo dei loro passi e in particolar modo del suo bastone, poi, che dall'ingresso si incanala come il vento fino ad arrivare a espandersi tra le mura della prima sala, divenendo via via sempre più preciso. Scandisce il tempo, e il cuore del giovane uomo lo segue fin troppo istintivamente – scende i gradini delle scale al medesimo ritmo, ritrovandosi quindi a terra prima di rendersene conto.
Ora Rivaille può vedere benissimo la sua espressione, così poco distante.

 



Dear lord, when I get to heaven
Please let me bring my man
When he comes tell me that you'll let him
Father tell me if you can
All that grace, all that body
All that face, makes me wanna party
He's my sun, he makes me shine like diamonds


 

 

Ognuno di loro dovrebbe sapere quanto il tempo sia relativo, specialmente quando non segue la sequenza del lento cadere di gocce di sangue sul terreno già pregno delle vite altrui; eppure, c'è chi riesce persino a sorprendersi dell'arrivo della sera – e della quindi conseguente necessità di provvedere con una diversa fonte di luce che non sia il giorno – obbligandoli anche a stringersi attorno a quella fonte di calore capace di togliere almeno un poco l'umidità dalle profondità della carne.
Il barile di sidro portato in dono da Erwin è quasi vuoto, ormai, dopo una serie di assaggi e diversi brindisi fatti al cielo senza una precisa ragione. Dai frutti che Connie Spinger ama raccogliere in tutti i luoghi calpestati dalla suola della propria scarpa, l'uomo ha imparato a trarne una piacevole attività distraente e un altro ottimo motivo per godere della compagnia di quelli che considera non altro che pezzi ancora semoventi della propria anima e del proprio passato. Una scusa come un'altra, perché non c'è un legame unilaterale, ma un continuo rimando che produce fertili e fruttuosi risultati. Sasha si ricorda il luogo di provenienza di quelle ottime mele e di quell'uva tanto succosa: a Est, molto a Est, dopo un lago che non finiva mai e una di quelle montagne solitarie con una bocca aperta e di cenere che fanno immensamente paura.
Brilla com'è, è ancora più divertente mentre cerca di raccontare in modo da risultare comprensibile tutto quello che è possibile ricordare in pochi minuti e con una manciata di emozioni. In suo personale aiuto viene il marito, che con altrettanta allegria e oltremodo pressapochismo integra il racconto di lei con dettagli inutili e un'abbondanza eccessiva di risate.
Si viene a sapere del figlio di Mikasa e Armin in arrivo, dell'obelisco sbilenco che Jean Kirshtein ha voluto assolutamente erigere nel mezzo del nulla, su uno scoglio in prossimità del mare – in memoria dei caduti e del loro animo che non potrà mai vedere tutto ciò – e del cavallo impazzito di Eren che hanno dovuto abbattere anzitempo. La quantità di dettagli forniti è più che sufficiente a figurare ogni singola cosa con estrema precisione, tanto che persino l'animo ne è toccato nel profondo e si compiace di così tanto ardore condiviso, rivissuto in compagnia come se fosse nient'altro che una novella divertente.
Eppure, sono tutti lì, l'uno accanto all'altro, reduci come quel vecchio avamposto di un passato che i più tendono a voler dimenticare. Ma non c'è passione più alta che per quella della tragedia, così simile all'amore per la vita e all'amore stesso nella implicita componente da esservi associata in maniera del tutto naturale, non dalla mente, dall'intelletto fino.
Erwin non stanca le orecchie all'ascolto e fagocita ogni cosa che gli viene offerta con tutta la calma per l'opulenza necessaria. Brinda e si riscalda al fuoco, ogni tanto gira la brace da cui pendono gli ultimi pezzi di carne arrosto che tutti loro mangeranno entro poco; Mikasa, questa volta, non ha voluto fare paragoni con le lepri delle terre del Sud, grandi quanto un piccolo agnello e tanto aggressive da averli inizialmente spaventati. Il cibo non ha gonfiato soltanto i loro stomaci e i loro muscoli, li ha pure dotati di un appetito più fino verso il mondo, o almeno li ha tamponati con la varietà dell'essere più di quanto ogni altra cosa abbia fatto.
Rivaille è distante da tutto questo, e si gode da lontano il calore delle lingue rosse. Il boccale che ha in mano è stato riempito soltanto una volta, nel corso della serata, e ciò gli è bastato per bagnare la lingua dell'ennesimo sapore nuovo e dell'ennesima avventura vissuta da altri. Sentirsi circondato da quel tipo di chiasso gli fa bene: il respiro che gli gonfia il petto è quanto di più piacevole possa desiderare per sé.
Altrettanto seduto a terra, nella polvere fredda, a non più di tre metri da lui, c'è il giovane Jeager, che con quei suoi soliti occhi giganteschi guarda ridendo esplicitamente i propri compagni danzanti, allegro per il troppo vino e il troppo cibo.
Si ritrova a considerare quanto gli sia mancato, in realtà – e anche la ragione che lo spinge a sopportare tutta quella maledetta umidità e il cibo di Erwin cotto male.
Sembra avere un lampo nello sguardo quando guarda proprio lui, la stessa scintilla indistruttibile della prima volta che si sono incontrati. Non abbassa lo sguardo, neanche dopo diversi secondi.
I primi tuoni cominciano a suonare sopra le teste di tutti loro, scuotendo le pareti della torre di pietra.

 

 


Will you still love me
When I'm no longer young and beautiful?
Will you still love me
When I've got nothing but my aching soul?
I know you will, I know you will
I know that you will
Will you still love me when I'm no longer beautiful?


 

 

Come le persone appartenenti allo stesso gruppo sanguigno sono le uniche che possano donare il loro sangue a chi è vittima di un incidente, così anche un'anima può soccorrerne un'altra solo se non è diversa da questa, se la sua concezione del mondo è la stessa, se tra loro esiste una parentela spirituale.
Nell'efficacia implicita del riconoscersi più che intimo, nel sapersi apprezzare e accettare vicendevolmente senza inganni e senza malizia alcuna hanno entrambi trovato la stilla di pace capace di non farli cadere nel baratro nero e totale, come se il giusto e l'ingiusto fossero dotati di contorni definiti unicamente per una tale ragione.
E per quanto la sanità mentale mantenuta sia discostante da un sentire comune incapace di rimanere toccato dai forti sentimenti della vita estrema che tutti loro, a proprio tempo, hanno toccato, per loro è abbastanza importante da essere necessariamente protetta, con tutte le forze.
Eren, quella sera, non riesce a dormire. Giratosi e rigiratosi all'interno delle coperte sottili che coprono il suo giaciglio e la sua persona, e mossi in ogni possibile modo la nuca e tutto il capo sopra il guanciale che ha scelto per sé, non ha trovato la quiete neanche cercandola strenuamente, con la propria intera volontà.
Non c'è da chiarirne il motivo: lo sa, in maniera implicita.
Il fuoco che gli scalda ancora la pelle del viso è acceso per metà, e ha sparso le sue ceneri tutte attorno, allungandosi verso ognuno di loro. L'odore di fuliggine è qualcosa a cui è abituato, come la sensazione di sabbia sottile sulla pelle che gli denota una sorta di grigiore opaco; ogni tanto, quando vede la propria immagine riflessa nei primi secondi di veglia, ricorda la secchezza della carne essiccata e si tasta con una certa apprensione le guance e la fronte. Riconosce poi la stupidità di un gesto del genere e ritrova il pensiero lucido, pronto alla commiserazione.
Quando si guarda attorno, trova solo un giaciglio vuoto, accanto a quello di un Erwin dormiente e tranquillo. Neppure il cocchiere vecchio dell'ex comandante è stato disturbato, e ronfa sereno a qualche metro di distanza da tutti loro, come a lasciare un'implicita intimità all'interno del gruppo – Eren non sa neanche il suo nome e non sente il bisogno di sopperire a questa mancanza.
Si alza piano, recuperando i propri scarponi morbidi, e si allontana passo dopo passo dal fuoco. Non c'è neanche rimbombo o impronta, dietro di lui: una scia di pensieri leggeri, che saltellano e zampettano con assoluta discrezione di qui e di là, alla ricerca di qualche indizio da seguire.
Percorre l'intera lunghezza di un corridoio, con la mano appoggiata a una parete liscia e fredda, di pietra, e un sacco di sassi tra i piedi. Si porta nella stanza laterale, vuota, e sente il distinto rumore di zampe di roditore che scappano lontano, per sparire nel nulla della notte. Un fulmine cade troppo vicino e crea un subitaneo fascio luminoso che illumina ogni singola rocca lì presente, nella propria umidità e nella propria definizione.
Il giovane uomo si accorge, prima con gli occhi e poi con la ragione, di un sentiero ostacolato solo in parte da un crollo laterale, che si allunga verso una stanza ancora inesplorata. Decide di percorrerla, per quanto obbligato a procedere con la schiena piegata in avanti e una dosa maggiore di attenzione; il ginocchio incontra due volte qualcosa di davvero duro, e se non impreca maledicendo il mondo è soltanto per non svegliare tutto il resto del gruppo facendolo accorrere velocemente. Alla fine del piccolo corridoio una cascata di rampicanti gli si para a muro, e con la bocca stupidamente aperta ne mangia, quasi, almeno due.
Almeno, però, riesce a trovare Levi, che resta indifferente all'impetuoso manifestarsi della natura e che quindi non si smuove dalla finestra, continuando a guardarvi fuori completamente rivolto all'esterno. La poca luce lunare che le nuvole nere lasciano trasparire è appena sufficiente perché Eren riesca a scorgerne l'espressione tranquilla, dopo essersi messo vicino a lui seduto su un piccolo davanzale bianco che si allunga all'interno.
Istintivamente è attratto da lui, e neanche per questo si chiede ragione.
-Non riesco a vedere il cielo.
-È naturale, con questa pioggia.
Gli si rivolge, voltando appena la testa: lo sguardo nei suoi occhi è diverso da quello che ha avuto durante tutta la sera, per quanto fondamentalmente sempre uguale a se stesso. Ha quella nota di serenità che riserva soltanto a lui, e che Eren è in grado di riconoscere sempre. È per questo motivo che non è mai stato geloso di nessuno dei compagni di lui, neppure di Erwin Smith: è consapevole che gli appartiene nella maniera più assoluta.
-Tieni spesso la barba lunga?
-Ogni tanto capita, ma in realtà mi rado qualche volta.
-Stai bene anche così.
Eren si ritrova a sorridere senza rendersene conto e ad accarezzare la sua stessa barba con la punta delle dita, raschiando un po' sotto le unghie sottili. Gli piace la sensazione.
-La prossima volta però tagliati i capelli.
-Va bene.
Ridacchia, smuovendo le spalle e la sensazione di freddo che le attanaglia. La pioggia ha una folata più forte, e non poche gocce entrano dalla finestra per colpire sia l'uno che l'altro, proprio in viso. Rivaille si tira un poco indietro, coprendosi il viso con la mano per togliersi l'acqua di dosso.
-Hai messo la vecchia giacca nera.
-Finché posso metterla, la metto.
-È solo quello il motivo per cui la tieni ancora?
-No, probabilmente no.
Gli piace sentirlo parlare, è meglio di qualsiasi altra cosa. Il termine di paragone per una persona non educata come lui non è alto né particolarmente ricercato, ne è realmente consapevole, ma si arroga il diritto di una valutazione soggettiva che non pretende di essere veritiera. Non ha bisogno di conoscere poesie, nella propria ignoranza, o possedere un repertorio ben nutrito di canzoni per apprezzare il timbro e il tono della voce di lui: sono suoi, e questo non può essere valutato in alcun modo.
Si sporge all'indietro, appoggiandosi con i gomiti di entrambe le braccia alla finestra aperta. Guarda in alto un oggetto non specifico.
-Io non conservo nulla del passato.
-Hai con te i ricordi, no? Sono cose altrettanto importanti.
-Questo è vero.
Dopo guarda lui, con mezzo sorriso in volto e le gambe che penzolano nel vuoto, come quelle di un moccioso molto piccolo.
-Il tempo non ti ha privato della tua schiettezza, sono rassicurato.
-Speravi diventassi più buono e docile?
-No, davvero no. Ma è bello vedere come certi lati del carattere di tutti noi non si modifichino, con il passare dei giorni.
Si zittiscono – la mano di Rivaille compie un gesto strano: si sporge verso il corpo di lui, andando a posarsi sulla sua coscia tesa, sentendo sotto il proprio palmo i muscoli che si rilassano e si irrigidiscono a ritmo; poi Eren si ferma, e così anche tutto il sentire dell'uomo. Gli accarezza il ginocchio, con lo sguardo concentrato nel suo.
-Tu, intanto, hai imparato a parlare bene.
-Dici? Forse è perché passo quasi tutte le mie giornate vicino a Armin, e lui parla molto bene.
-Ti sta influenzando.
-Direi di sì.
Un tuono, fuori. Viene illuminata una cicatrice sul collo di Eren, che parte dall'orecchio e scende fino a nascondersi oltre i bordo della maglia bianca che indossa, larga e leggera. Rivaille non si ricorda di averla mai vista prima, e anche per tutta la sera non gli è stato possibile notarla, sotto la giacca dal bavero alto con la quale l'altro si è protetto dal freddo.
Non lo vede rabbrividire, e questo è strano.
-Non hai freddo?
-Ho passato gli ultimi due mesi a Nord, dove non c'è altro che neve e ghiaccio. Qui sto bene, non ho bisogno di coprirmi troppo.
-Basta che tu abbia la decenza di non andare in giro nudo.
-Non mi permetterei mai, abbiamo delle donne nella nostra comitiva.
Per un'associazione di idee piuttosto veloce e confusa, Eren spegne di un poco la luminosità del proprio sorriso, e quasi sussurra mentre gli fa una domanda, come se si vergognasse di essersi ricordato soltanto in quel momento un dettaglio importante.
-La signorina Hanji come sta?
-Ha smesso di delirare.
Rivaille si rifiuta di aggiungere altro, perché non sente la necessita di farlo e le sue parole sono già pesanti, rotolano a fatica al di fuori della sua bocca. Non vuole aumentare il doloroso grave sulle spalle di Eren, perché condividere un dolore recente è proprio l'ultima delle cose che vuole ottenere.
-È successo cinque settimane fa.
-Forse sarebbe il caso che vada a visitarla, allora.
-Forse sì. Ti ci porto io domani.
Anche Rivaille si ricorda qualcosa – o meglio, qualcuno.
-Jean Kirstchein?
Ha voluto fermarsi in un posto lontano, questa volta. Dice che niente ormai lo lega a questi luoghi, ora che gli è morta la madre.
-Non credo abbia poi così torto.
Vede l'espressione di Eren cambiare, diventare più cruda nei tratti ancora morbidi del viso: una cosa che Rivaille ha molto gradito è quell'essere generosamente piacente di lui, a livello fisico, in quel modo naturale e innato che non gli richiede alcuno sforzo.
-Io mi sono arrabbiato con lui. Qui non ci sono soltanto i morti.
-Anche questa è una cosa che non cambia mai. Ma sono contento che tu abbia ancora voglia di tornare.
-Necessito di vedere il tuo viso, ogni tanto.
-Solo ogni tanto?
-In realtà no.
Si china verso di lui, con il viso e tutto il busto.
Baciarlo è come respirare dopo troppo: l'aria ha un odore diverso, la terra ha una consistenza differente, l'acqua ha un altro sapore e persino i tuoni e i lampi sembrano non essere più gli stessi. Si crea qualcosa attorno a loro che altera tutto il creato e lo rende particolare.
Rivaille un po' detesta questo suo essere così esageratamente romantico, quella propria debolezza di trovare coinvolgente in maniera così profonda qualcuno e lasciargli, quindi, la possibilità di essergli intimo come solo il proprio spirito è. Ha avuto paura di lui, un tempo, prima di abituarsi all'idea che forse, solo forse, non ne sarebbe morto. Anzi.
-Tu continui a piacermi come sempre, Levi.
-Lo so.
-Ti amo come la prima volta che te l'ho detto.
-Lo so.
-Non è cambiato poi molto, no?
-Soltanto il numero di rughe che hai in faccia.
-Tu ne hai molte più di me.
-Il rispetto te lo sei scordato, con l'età?
-Scusami, mi sento nostalgico.
Altro bacio, questa volta è Rivaille a esprimerne il bisogno, e sembra che Eren gradisca dal sorriso che gli preme contro. Per lui, ne è sicuro, è esattamente lo stesso, e questa reciprocità di intenti e di desideri è la vera loro salvezza. Senza, sarebbe soltanto una delle innumerevoli forme della dannazione congenita a quel mondo maledetto.
-Non mi sono offeso.
-Meglio così.
La pioggia si affievolisce un poco, e così possono entrambi sentire il rumore dei loro stessi baci; vengono sedotti da questo suono, ammorbiditi nello spirito tanto da ritrovarsi quasi intontiti.
-Ti va di fare l'amore, stanotte?
-Sì, lo voglio.
Una considerazione lo prende e lo fa spostare da lui, quel tanto perché non riesca più a raggiungere le sue labbra e la sequenza di baci venga interrotta.
-Di sotto ci sono gli altri.
-Basta non scendere le scale, no?
-Mi è difficile farlo in piedi, lo sai.
-Quanto sei esigente.
Borbotta, tornando a dondolare le gambe nel vuoto. Non vuole essere irritato con lui, perché il tempo che sono stati divisi è davvero tanto per permettersi qualsiasi tipo di interruzione o di allontanamento; i loro corpi, ora che hanno ritrovato il contatto fisico giusto, si rifiutano di farli separare quel troppo, e li spingono a unirsi quanto prima. Si chiama frenesia, ed entrambi lo sanno bene. Eppure, anche lasciarsi andare al puro istinto non solo farebbe male, ma creerebbe qualche disagio a livello emotivo.
Il bisogno si scontra con la realtà ruvida e ne esce smorzato: non sono mai stati adolescenti l'uno per l'altro, non hanno scuse. Quindi, Eren trova facilmente il sorriso nel pretesto più stupido di sempre: l'attesa alla meraviglia.
-Prima ti devo dare una cosa.
-Che cosa?
-Non entusiasmarti troppo, sembri un moccioso.
-Rimango sempre più giovane di te.
-Io alla tua età non ero come sei tu.
-No, infatti. Eri più brutto.
Ride al suo sguardo fintamente risentito, e lo punzecchia ancora.
-Allora, cosa mi devi dare?
Quello che non prevede è il suo affaticarsi a mettersi in ginocchio, davanti a lui. È basso di suo, così risulta quasi più goffo e impacciato – l'utilizzo del bastone da passeggio come base d'appoggio, poi, non lo aiuta per niente.
Eren, reagendo a quella visione, non è per niente conciliante.
-Questo cosa è?
-Ho avuto modo di pensare a lungo, da quando è morta Hanji.
Si zittiscono entrambi per qualche secondo, e per quanto l'emozione cominci a colorare il viso del più giovane, nessuno dei due osa parlare ancora se non dopo qualche tempo e l'ennesima volata forte di vento, che fischia da lontano e li accompagna per diversi minuti.
-In realtà, da quando è finita la guerra e tu hai cominciato a girare il mondo da solo.
Sospira e non ha per nulla fretta di aggiungere quanto deve seguire; i suoi occhi brillano nel buio quando li alza su di lui, pregni di una emozione che non ha mai provato.
-Non recrimino, perché ognuno di noi ha scelto la strada più conforme a se stesso, e questo ci ha aiutato a sopportarci a vicenda senza il peso dell'indulgenza e della pena.
Con un paio di gesti – la tasca della giacca è davvero stretta e il suo contenuto troppo ingombrante – riesce a far emergere dal nulla una scatoletta rettangolare, opportunamente aperta con un piccolo “click”.
-Vorrei ringraziarti di avermi salvato, Eren. Non sarei l'uomo che sono senza di te.
Brilla, anche se non come gli occhi di lui, qualcosa di lucido e di metallico dentro la scatolina di feltro. Eren impiega qualche tentativo per riuscire a avvicinare abbastanza la mano per prendere l'anello tra le dita e girarlo e rigirarlo nelle proprie mani, come il più inestimabile tra i tesori.
Non ha gemme, soltanto un piccolo nome inciso al proprio interno: Rivaille Ackerman.
-Queste sono parole molto pesanti.
-Lo so.
Sospira, trattenendo le lacrime. Troppe emozioni per un uomo adulto come lui, non ricorda quando ha sentito il proprio cuore così impazzito, così fuori di sé. C'è la natura che persevera nella propria ferocia e sbatte, cattiva, grosse gocce di pioggia contro la sua schiena già bagnata.
La felicità, come la salvezza, è un'ancora, che una volta lanciata cade fin nelle profondità, nell'intimo dell'essere.
E per preservare un po' di orgoglio, il giovane Jaeger sente la necessità di fargli qualche domanda stupida – e Rivaille la necessità di rispondergli in modo altrettanto stupido.
-Quindi, questo cos'è?
-Non ci si dichiara così?
-Ti stai dichiarando?
-Non era evidente?
-Perché lo stai facendo?
-Te l'ho già detto.
-Mi sembra che come ringraziamento sia eccessivo.
L'uomo più grande gli prende la mano, all'improvviso; Eren si irrigidisce, di primo acchito, perché davvero troppo grande è ormai ogni sorpresa e potrebbe impazzire da un momento all'altro, specialmente quando l'uomo gli bacia il polso e il palmo.
Sente troppo caldo addosso.
-Ti ho già detto di amarti, come ti ho già detto che so di appartenerti. Permettimi di darti qualcosa di concreto che ti accompagni sempre.
-I ricordi non erano abbastanza importanti, forse?
-Forse questo è persino migliore di un ricordo.
-Quanto sei stupido.
Non riesce a sopportare la visione del suo viso, quindi decide di guardare l'anello. Ritira la mano che ha ancora tra quelle di lui, e inserisce l'oggetto nell'anulare della mano sinistra.
Rivaille, intanto, lentamente si alza e recupera la posizione eretta.
-Ti piace?
-Molto.
Eren ride ancora e si copre metà viso con la mano destra, tenendo l'anello istintivamente lontano da sé.
Deve ancora accettare totalmente quel motivo di felicità così inaspettato.
-Ah, sono felice.
-Lo sono anche io.
-Quindi ora sei mio marito?
Hanno gli occhi che brillano, entrambi. E l'irriverenza, come il fastidio, diventa appena più acre.
-Non abbiamo ufficializzato niente.
-Beh, per un matrimonio servono un'autorità legale e almeno due testimoni. Nel piano dabbasso ci sono entrambe le cose.
-Ma non hanno recitato nessuna formula.
-Il fatto che siano qui per noi credo sia sufficiente.
-Allora sei mio marito da parecchio tempo.
-Mancava l'anello!
Eren è felice, tanto felice da contagiare l'altro. Sembrano essere tornati indietro di quasi dieci anni, dove ogni cosa era una scoperta e dove loro stessi si erano ritrovati e formati nelle mani l'uno dell'altro e viceversa, uomini capaci non solo di soffrire, ma anche di amare, di desiderare, di godere.
-Ora il nostro matrimonio è perfetto!
-Sì, lo è davvero.
Non poteva funzionare con qualcuno di diverso se non con Eren, se non con Rivaille.
Perché occhi simili vedono occhi simili come mani simili toccano in un modo simile – e le mani di Eren, per Rivaille, sono la fine del mondo e il suo completamento ultimo, e la sua bocca è la sola capace di sviscerare ogni ragione e renderla tale.
Si ritrovano a baciarsi stretti, in un abbraccio che toglie il fiato e la coscienza.
Neanche la pioggia esiste più, ormai.
-Ti amo con tutto il mio cuore, Eren Jeager.

 

   
 
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