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Autore: Genevieve De Cendres    16/02/2015    1 recensioni
Dal testo:
[...]E quella stanza era ancora sua, come molte altre, e nella luce fioca di quell'imbrunire blu petrolio, la sua assenza era palpabile e il silenzio fin troppo rumoroso. Un fischio fastidioso, uno strillare continuo tra voci ovattate che rimbombano nella sua mente, nei suoi ricordi. Ed è una morsa che ti stringe la gola, che ti fa male, che ti fa rabbia perché inumidisce gli occhi. Perché riga le guance e non dovrebbe. [...]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stanze
 


 
[1]E sono stanze vuote in cui ho paura di entrare,
spazi troppo vasti per un cuore piccolo come il mio,
spettro che esita e sospira, cerca la forza di riappropriarsi dei suoi luoghi più cari,
adesso malinconici incubi.
 
Riabituarsi a non aver paura di quelle stanze immense,
adesso che non ci sei, in questa assenza voluta ma opprimente,
esito e tremo.
Temo
di vedere la tua ombra ancora lì, tra e mie cose,
ancora lì, nelle mie stanze.

 
 
Non aveva mai avuto paura dei fantasmi.
Neanche quando da bambina, tentavano di spaventarla con storielle di ogni genere. Era sempre stata troppo arrogante, per aver paura.
Ma adesso, camminando lungo il corridoio adorno solo dalle grandi finestre che traforavano la grande villa di epoca vittoriana, rabbrividiva.
Le sembrava quasi di udire i suoi passi, lenti ma decisi poco più avanti, credeva di trovarla davanti a sé da un momento all'altro, proprio nel punto in cui il corridoio si incastra con un altro più buio. La vedeva in piedi lì davanti a lei, grandi occhi neri riflessi nei suoi. Come sempre.

Se lo chiese anche in quel momento, chissà se gli altri, guardandola negli occhi potevano ancora vedere il suo riflesso. Lei lo scorgeva ogni volta che si guardava nello specchio, lo sapeva anche troppo bene che i suoi occhi avevano il suo nome. Lo sapeva mentre studiava la forma piccola ed allungata di quegli occhi nocciola che non riconosceva più come suoi, stringendo le labbra sottili in una linea, impallidendo sotto quella pioggia di lentiggini. Poi chiudeva gli occhi e sospirava, poggiando le mani sulle sue guance piene, ricordando le carezze di lei, il suo respiro a pochi millimetri dalle labbra, e quando apriva gli occhi la trovava davanti a sé. Lei e il suo spettro in quella stanza vuota, nella penombra di un tramonto tetro, opaco, volto ad illuminare solo la danza dei pulviscoli che riempivano l'aria, che le riempivano i polmoni. Sola, ascoltando solo i battiti di quel cuore appesantito, amareggiato. Sussurrare poi quel nome, con labbra tremanti, nella certezza di non ricevere risposta alcuna. Dolce e logorante agonia.
 
Il bianco abito leggero, le accarezzava i polpacci ad ogni passo, strofinando contro le braccia nude e pallide lasciate penzolare lungo i fianchi mollemente, inermi, come quelle di un cadavere. Abito che ondeggia come i lunghi capelli ramati, sciolti sulle spalle strette.
Ossa fredde e cenere, non si sentiva altro, non era altro. Spettro di se stessa, rinchiusa in quella casa troppo grande, troppo fredda per una come lei, o forse fin troppo adatta.

Più sono spesse le pareti che ci circondano, più la temperatura sarà bassa, questo lo sapeva bene.. e aveva freddo dentro. Tremava, tremava sempre, anche se fuori era primavera,poiché dentro era ancora inverno.

Sfiorò le pareti lisce tinte di un pallido azzurro, sulla soglia di quella stanza. Vuota, anche quella. Da quanto tempo non entrava lì dentro? Tanto. Troppo. E quella stanza era ancora sua, come molte altre, e nella luce fioca di quell'imbrunire blu petrolio, la sua assenza era palpabile e il silenzio fin troppo rumoroso. Un fischio fastidioso, uno strillare continuo tra voci ovattate che rimbombano nella sua mente, nei suoi ricordi. Ed è una morsa che ti stringe la gola, che ti fa male, che ti fa rabbia perché inumidisce gli occhi. Perché riga le guance e non dovrebbe.
E quante ce n'erano di quelle stanze? Non osava pensarci, ma sapeva che avrebbe dovuto affrontare altri silenzi, altri ricordi polverosi.
Sapeva che avrebbe dovuto
 riabituarsi ai suoi spazi troppo vasti, ai suoi silenzi troppo lunghi e testardi. Perché erano suoi e di nessun altro... nessun'altra.

E camminando lungo il corridoio silenzioso, adesso abbracciato da una densa penombra, senza la voglia di accendere la luce, senza voler illuminare quello scheletro freddo, in cui ogni passo aveva il suo eco, chiudeva gli occhi sorridendo mesta, riprendendo familiarità con quelle stanze che erano sempre state sue e lo sarebbero sempre state.
Danzando con gli spettri.





Note:
Ecco ... se qualcuno avesse mai avuto voglia di conoscere Geneviève, direi che con questo testo possa farsi un'idea del tipo di persona che ha davanti. Mi sono messa a nudo, una volta tanto. Non capitava da un po'. Ognuno dentro ha le sue "atmosfere", questa è la mia, di un pallido azzurro, giusto un po' malinconico! [sarcasmo] 
Spero di essere riuscita a riportare qualcosa di mio, di aver trasmesso qualcosa... spero non sia solo la mia impressione, se così fosse ditemelo, vi prego. Senza una vostra opinione come posso migliorare? 
Non posso u_u sono un tipino testardo e ottuso, le cose bisogna dirmele chiaramente o non le capisco, eh!
Detto questo vi ringrazio per il tempo dedicatomi, anche questa volta.

Gen.


[1]Per la cronaca, questa è una delle mie poesie che dopo tempo vede la luce...non credevo sarebbe mai successo, ma ho deciso di provare, non si sa mai, magari sono solo deprimente ma non così pessima XD

 
  
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