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Autore: Some kind of sociopath    18/02/2015    3 recensioni
Anno 1769: Haytham E. Kenway, dopo il suicidio dell'amico Jim Holden e la morte della sorella Jenny è tornato a Boston alla ricerca di Tiio. Lei è sopravvissuta all'incendio del villaggio, nonostante il figlio non lo sappia, e Haytham ha intenzione di ricucire la sua famiglia, quella che non è riuscito ad avere nella propria gioventù. Ma non ha messo in conto gli altri Templari, il suo vecchio Gran Maestro Reginald Birch e la piccola e fastidiosissima Confraternita degli Assassini...
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Il testo dei primi due capitoli è stato rivisto e modificato. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate al riguardo e quale "versione" preferite, ;)
 
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Achille Davenport, Altro personaggio, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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Lasciai andare lentamente Charles, le dita che faticarono a sfilarsi dai suoi capelli. Non riuscivo a credere di averlo ritrovato, lì, in carne e ossa davanti a me, con gli occhi spaventati un vitello e le labbra contratte in una smorfia ancora intrisa di malcelata disperazione. Gli sorrisi appena, stringendo le mani sulle sue spalle come fosse una recluta che indossa per la prima volta l'uniforme nuova. Non avevo parole per lui, semplicemente perché non ne avevamo bisogno. Io sapevo quel che Reginald gli aveva fatto, lo sapevo fin troppo bene, e non mi andava più di parlarne. Quell'uomo era un capitolo chiuso, nient'altro che un cadavere insanguinato alle mie spalle. Gli lanciai un'occhiata carica di sdegno, ma dentro il mio petto non c'era che il vuoto. Proprio come pensavo. Non avevo tratto alcun sollievo dalla sua morte, ma poteva anche non essere un male. L'omicidio non era certo una delle virtù cardinali, ma il profondo affetto che mi legava a Charles forse sì. Sono solo le cattive persone a trarre piacere dall'uccidere. Potevo cambiare, giusto? Potevo essere una brava persona.
Certo, grugnì una vocetta cinica nella mia testa, quando l'Inferno gelerà. Che incoraggiamento. Ne avevo davvero fatte così tante da non poter tornare più indietro? Affondai le mani nelle tasche della redingote macchiata di sangue e incassai la testa tra le spalle; guardavo Charles come se fosse un animale mai visto prima, meravigliato, mi era impossibile staccargli gli occhi di dosso. Non avrei mai potuto rimuovere la paura dai suoi grandi occhi azzurri, ma avrei fatto del mio meglio affinché se la lasciasse alle spalle come quel dannatissimo corpo morto. Forse era tutto lì. Non si trattava di tornare indietro, ma andare avanti nel cammino, decidere delle proprie svolte da un momento all'altro e seguirle. Volenti o nolenti, quel che Birch ci aveva fatto era parte di noi. Si trattava di accettare e dimenticare, come avremmo dimenticato il suo volto negli anni a venire, le rughe sotto i suoi occhi e la pelle raggrinzita sui dorsi delle mani. Niente di tutto quello, tra un ventennio, sarebbe stato così chiaro dentro la mia testa, o almeno mi sforzavo di pensarlo, ma pregavo che per Charles fosse davvero così. Non avrei sopportato di vedere ancora quell'espressione sofferente sul suo volto. Mai più.
Scrollai il capo e mi passai una mano sugli occhi, i polpastrelli ancora appiccicosi di sangue. Andare avanti, ripetei a me stesso. – Charles – provai a dire, ma la voce mi s'incrinò mentre parlavo e assunse un patetico tono un po' più acuto del solito. Pazienza. Non potevo vivere per sempre nel timore di invadere i suoi spazi e il suo passato. A volte bisognava anche adattarsi, giusto? – Sai dove tenga la Chiave? – domandai indicando il corpo ancora caldo di Reginald con un cenno della testa.
– Nelle mutande – grugnì Thomas mentre si grattava una guancia. Aveva ignorato completamente la situazione, senza intervenire né porgermi la mano in un muto cenno di aiuto, e ora faceva capolino con commenti del genere. Charles sollevò gli occhi su di lui con un certo sdegno e sbuffò, facendo sbatacchiare le falde della giacca contro il suo petto smunto.
Hickey lo raggiunse con due passi e si piazzò accanto a me, guardandolo con il capo chinato da una parte, come se non avesse mai visto nulla di più curioso. – Mi sei mancato, Charlie. – Allungò le dita verso il suo viso, ma immediatamente Lee azzardò un piccolo passo indietro, quel poco che bastava per evitare la presa della sua mano.
Sogghignai. Non diceva così quando pensava che mi avrebbe tradito, quando avevamo scommesso per la sua vita, ma non mi andava di seminare altra zizzania con dei litigi immotivati. Quei due erano il mio Ordine. Non avrei fatto nulla che potesse rendere la loro convivenza più complicata. – Poche storie – grugnii poggiando una mano sul petto di Thomas per tenerlo lontano da Charles. – È una domanda semplice, suppongo. La Chiave? – chiesi con un sopracciglio sollevato e il fiato incastrato nel petto. Non poteva essersene disfatto, vero? Quell'affare serviva. Era l'unica altra cosa che avesse importanza, oltre alla Mela e Charles e i nostri cuori ancora a battere al sicuro dentro il petto, irrorati di sangue.
Il ragazzo che avevo sempre considerato mio figlio s'infilò le mani nelle tasche e prese fiato. Sentirlo parlare di cose più o meno normali, nessuno di noi che avesse intenzione di uccidere l'altro, niente chiacchiere su Reginald o sulla fine che ognuno di noi avrebbe dovuto fare per rispondere ai propri peccati... Pensavo sarebbe stato strano, dopo tutto quel tempo. Mi ricordava il nostro periodo migliore, quello al Green Dragon, quando l'unica preoccupazione di tutti loro era seguire i miei ordini. Quante cose erano cambiate. – Ce l'ha al collo – sussurrò col capo chino. Quasi come se Reginald, oltre a parlargliene come un prete col suo crocifisso, l'avesse anche usata per qualche simpatico gioco tra le lenzuola che non gli avrebbe mai fatto dimenticare quella dannata medaglietta verde.
Annuii e gli voltai le spalle per tornare al cadavere circondato da un'aureola di sangue. Non volevo forzare la mano con Charles, a essere sincero. Parlare troppo, chiedergli che cosa avesse passato di preciso quando la ferita era ancora così fresca non mi sembrava affatto la cosa migliore. Ci sarebbe stato tempo. Ci sarebbe stato tempo per tutto.
– Lo vuoi aprire lo stesso, quindi?
La voce di Connor mi fece quasi trasalire. Rimasto in un angolo alle spalle di Charles per tutto il tempo, balzò verso di me con due giganteschi passi, i pugni stretti lungo il corpo e la mascella contratta nel guardarmi con quei pozzi neri pieni di astio incastonati in faccia. È perché non ho abbracciato anche te? Oh, piccolo, vieni qui. Un sottile sorriso s'aprì sul mio volto. – Sarebbe uno spreco della tua fatica, non credi? – ironizzai.
– Perché? – I suoi toni erano tesi come le corde di un violino. – Hai ucciso Birch. Hai avuto quello che volevi. Perché continuare? Nemmeno sai quello che c'è là dentro.
Mi strinsi nelle spalle, cercando con lo sguardo la lama celata che Thomas aveva brutalmente tranciato e reso inutilizzabile. Un buon sarto e sarebbe stata più efficiente di prima. Un calzolaio sarebbe andato comunque bene, sì. La vidi a pochi passi dal piccolo pendio di roccia e terra che portava fuori dal Tempio, una delle cinghie già inzuppata di sangue. – Non credi che ce lo meritiamo, Connor?
– Credo che non abbia più importanza – sibilò, la voce venata d'ira, mentre mi precipitavo a raccogliere la pistola e la spada, ugualmente disseminate in gjro per la caverna.
– Non ha più importanza, dici? – brontolai affondando la spada nel fodero che portavo alla cintura, sotto la redingote. – Io credo che ne abbia eccome. Là fuori c'è ancora la guerra e gli uomini continuano ad ammazzarsi, e ho ragione di credere che lì dentro possa esserci qualcosa di utile.
– E se così non fosse? – Aveva i pugni stretti così forte che le sua nocche erano esangui, macchie chiare sulla sua pelle. – Non puoi fidarti di loro, Haytham. I Precursori non...
Scrollai il capo e gli diedi le spalle per avvicinarmi di nuovo – sul serio, questa volta – al cadavere di Reginald. Pensava davvero che non sapessi quel che potevano fare? Maledizione, quei tre soggiornavano a tempo pieno dentro la mia testa. Mi avevano fatto rivelazioni sconcertanti e avevano accecato la mia mente per farmi uccidere un uomo che una volta era come un fratello. Io sapevo meglio di chiunque altro cosa potessero o non potessero fare. – Non lo senti? – mormorai con un sorrisetto triste. – Tutto il potere che c'è qui dentro. Sono loro, Connor. – Sul suo viso non apparve nemmeno la minima traccia di una reazione, così mi chinai sul corpo di Birch e sguainai la spada, scavando sotto la pelle flaccida del suo vecchio collo spezzato alla ricerca del cordino cui la Chiave era attaccata in origine. Pregai che Thomas stesse scherzando e non ce l'avesse davvero nella biancheria, perché per nulla al mondo avrei abbassato i calzoni a quel bastardo. Non più. Un brivido galoppò lungo la mia schiena.
Sentii la corda consumata sotto le dita, grazie al cielo, e diedi uno strattone per tirarla via, proprio come avevo fatto dal corpo di quell'Assassino troppo tempo fa. La medaglietta, grossa come una moneta, non aveva niente di particolare. Brillava della sua solita iridescenza verdognola, e se la si osservava alla luce si poteva scorgere una piccola incisione: un uroboro, un serpente che si morde la coda. – Abbiamo fatto un patto – ringhiai mentre studiavo quell'affarino tra pollice e indice. – Lo apriamo, vediamo che c'è dentro e tu riporti la Mela al villaggio! Così dannatamente semplice!
– Perché lo vuoi? Eh? – Connor fece un passo verso di me, piantandosi nel sangue appiccicoso che inondava il pavimento con un risucchio disgustoso. – Hai tutto quello che desideravi. L'hai ucciso! Perché...
– Perché lo volete anche voi! Speravate di trovarlo prima, no?
– Io nemmeno sapevo che esistesse finché non sei arrivato tu! Non complicare le cose! Seppelliamo il corpo e torniamo a casa. – Si era piegato un po' sulle ginocchia, come se volesse inchinarsi. – Per piacere, Haytham. Che cos'hai da perdere?
– Più di quanto credi! – sbottai, ma senza sapere esattamente che cosa dirgli. Parlavo senza pensare, soltanto perché la rabbia mi stava lentamente colmando le vene e diluendo il sangue come alcool. Mi chiedeva perché volessi aprire il Tempio, eppure mi sentivo come se fossi io a dovergli chiedere perché non volesse farlo. Era lui quello senza niente da perdere a parte noi. E se anche fossimo morti, be’, meglio per lui! Eravamo Templari. Ucciderci era il suo lavoro, e se una stupida grotta ci pensava al suo posto era solo una scocciatura in meno per tutti quanti.
Oh, Dio. Forse non voleva che io morissi. I miei occhi sfarfallarono e la mascella mi cedette, improvvisamente incapace di formulare qualsiasi parola. Rimase lì, bloccata in una o stupefatta mentre il mio sguardo restava fisso su Connor, sul suo volto contratto nell’ira e in qualcosa di molto simile al dolore.
Merda. No. Non era possibile, no. Per anni aveva creduto che io fossi stato il mandante dell’omicidio di sua madre e ora era lì, percepiva nell’aria il potere di Coloro che Vennero Prima e cercava di tenermici lontano, come se, insieme a quella straordinaria energia, sentisse anche il pericolo. Il rischio che qualcosa lì dentro non andasse bene. – Connor – sussurrai quasi senza rendermene conto, il pollice sinistro infilato nel cinturone e il palmo dell’altra mano sollevato verso di lui in un cenno pacifico, – loro non vogliono uccidermi.
Una lugubre risata riecheggiò nella mia testa. Davvero? Ne ero poi così convinto? Avevano detto che io ero il solo in grado di aprire quello stupido affare, ma aprirlo non implicava anche il chiuderlo. No. No, non mi avrebbero ucciso. Dopo tutto quello che avevo fatto per loro mi sembrava un po’ improbabile, giusto?
D’altra parte, però, non c’era nessun vincolo che m’imponesse di aprire il Grande Tempio. Soltanto una profezia che mi dipingeva come l’unico al mondo in grado di farlo.
Una mossa perfetta per stuzzicare la curiosità di un uomo. Voglio dire, essere i protagonisti di una profezia non era una cosa da poco. Pensavo che idiozie di quel genere esistessero soltanto nelle favole, proprio come i fantasmi di millenni passati e le voci dentro la testa – nelle favole e nei manicomi. Eppure altre cose che scavalcavano la mia ragione con balzi a piedi uniti, come la Mela dell’Eden o Sfera di Cristallo che fosse, esistevano eccome. Era impossibile negarlo. Quindi perché non i Precursori, perché non le profezie?
– Non mi sento al sicuro – piagnucolò Connor con una mano sulla nuca, il bicipite gonfio nella manica della giubba da Assassino. – Non sai nemmeno che cosa ci sia là dietro – ripeté, e giuro che sembrava davvero sull’orlo del pianto.
Presi lentamente fiato, le labbra premute tra loro fin quasi a far male. Non riuscivo a credere che tenesse davvero a me. Pensavo non fosse più possibile dopo così tanto tempo. Oh, be’, c’è sempre un momento buono per iniziare a fare a qualcosa. – Connor – sussurrai a mia volta, teso verso di lui nel tentativo di avere un’aria rassicurante. Merda, era una mia impressione o gli luccicavano davvero gli occhi? – Qui non si tratta di me o di te. È una profezia. S’avvererà, che noi lo vogliamo oppure no. Funzionano così. – Abbassò di colpo il capo, come se non volesse farsi vedere ridotto in quello stato. – Ora dammi la Mela.
– No.
Sgranai gli occhi. Per carità del cielo, quanti anni aveva, dieci? Maledissi me stesso per aver ordinato a Reginald di mettere quella stupida cosa proprio nella sua tasca. O lui o Charles, non era una scelta difficile, e io avevo optato per l’alternativa sbagliata. Quella che presentava più probabilità di ribellarsi a me. – Non fare il bambino – gemetti con un sogghigno, ma dentro di me il cuore mi scuoteva le costole come un terremoto. – Avanti, dammela.
– No. – La sua mano affondò nella tasca della giubba, stringendosi intorno alla Mela, e i miei denti si serrarono tra loro così forte da fremere come grilli rinchiusi in un barattolo.
Negli occhi di mio figlio brillava una strana espressione, un terrificante intruglio di paura, ira e decisione. – Non ti permetterò di rovinare tutto. – Sguainò la Sfera come fosse un’arma, lentamente, gli occhi fissi nei miei.
– Connor – sussurrai tra i denti. Ora tenevo tutte e due le mani tese verso di lui nel tentativo di fermare i suoi folli propositi. Lui non aveva ricevuto decine di lezioni sui Precursori, non sapeva niente di Altaïr Ibn-La’Ahad e di quanto fosse pericoloso usare la Mela, e se anche l’avesse saputo non ne aveva mai reso atto. Non aveva idea di che cosa fosse in grado di fare quella stupida palla di vetro. – Connor, adesso ascoltami, ti prego...
– No! – replicò in un urlo, la voce incrinata dal terrore. Stretta nel suo enorme pugno carnoso, la Mela lanciò un gigantesco lampo di luce dorata, così potente da far tremare le pareti del Tempio.
Charles gridò, e nonostante la vista offuscata dalla luce troppo forte lo vidi chiaramente crollare a terra, le mani premute sulle orecchie e il volto distorto in un’espressione di devastante dolore. Mi sentii come se qualcuno mi avesse sparato al petto, tutte le costole rotte e affondate nella carne in un singolo istante.
Al diavolo tutto. Forse lui non voleva che morissi, ma non per questo gli avrei permesso di far del male a qualcun altro. Superai Connor con una spallata, correndo nonostante la resistenza del sangue che m’incollava i piedi alla pietra, e mi parai davanti a Charles con il cuore che batteva come quello di un topo. Non riuscivo a sopportare di vederlo così, i palmi alle tempie e le palpebre serrate. – Ehi! – Gli afferrai il volto, le mani serrate sulle sue. Le lacrime scendevano dagli occhi chiusi, passavano tra le ciglia e scavavano due solchi chiari sulle sue guance sudice. – Non è niente – gridai nonostante non ci fosse nessun rumore. Non significava nulla. Mi bastava guardarlo per capire che qualcosa nella sua testa stava implorando pietà, distrutta da una forza che non sfiorava né me né Connor. – Hai capito? Non è niente! – Mi chinai finché i nostri visi non furono alla stessa altezza, così vicini che avrei potuto baciarlo, se solo non avesse avuto le labbra contratte nella più scioccante smorfia di dolore che avessi mai avuto occasione di vedere. – Andrà tutto bene – sussurrai, più a me stesso che non a lui. – Andrà tutto bene, d’accordo?
Un singhiozzo ruppe la mia voce poco prima che finissi la frase. Non potevo tollerare di perderlo un'altra volta. Non potevo. Staccai le mani dal suo viso trascinandole in una specie di carezza impaurita e mi volsi verso Connor. Thomas si trovava più o meno nelle stesse condizioni di Charles, ma era abbandonato su un fianco, rannicchiato in posizione fetale, e dalla bocca gli usciva quella sua solita risata isterica, intervallata da inquietanti singhiozzi provenienti dal fondo della gola. Non vedevo il suo volto. Non era la stessa cosa. – Smettila! – lo supplicai, la voce acuita dalla paura. – Smettila! Li stai ammazzando, cazzo! – Avrei fatto qualunque cosa perché lasciasse andare la Sfera. – Non ucciderli – gridai, e prima che potessi rendermene conto ero crollato a terra anch’io, sulle ginocchia come uno schiavo, gli occhi fissi sulle sottili volute di fumo che s’innalzavano dal pugno di Connor. – Se li ammazzi rovinerai tutto! Se li ammazzi…
Chi volevo prendere in giro? Quell’affare non avrebbe ucciso soltanto loro. Non si trattava soltanto di Thomas e Charles e delle loro menti deboli. La Mela stessa lo stava demolendo, ogni cellula del suo cervello distrutta, ridotta in cenere come ciocchi di legno in un caminetto. E io che cosa potevo fare? Sparargli? Con il rischio di ucciderlo a mia volta?
Era un suicidio. Uno stramaledetto suicidio. Mi alzai lentamente in piedi, le gambe che sembravano a malapena reggere il mio peso, e strisciai verso Connor alla massima velocità che quei pezzi di carne malandata mi consentivano, un braccio serrato attorno al busto, come per trattenere il dolore. Arrivai tanto vicino a lui da sentire la Mela pulsare nella sua mano, come il cuore di un bue. – Connor – sussurrai un’ultima volta, ma i suoi grossi occhi neri non mi stavano nemmeno fissando. Aveva lo sguardo cieco di una belva furiosa. Non si trattava più di una scelta tra la sua vita e quella di Charles e Tom. Non potevo permettermi di scegliere. Ero quasi morto Dio solo sapeva quante volte per riunirli tutti e tre, tutti vivi. Non avrei lasciato che una stupidaggine del genere mandasse a monte i miei piani.
Stupidaggine. Si trattava della Mela dell’Eden, maledizione. La dannatissima Mela dell’Eden.
E allora?
Strinsi entrambe le mani sull’enorme pugno di Connor e lottai con tutte le mie forze, i denti stretti così forte da scricchiolarmi nelle mascelle e le dita che s’insinuavano sotto le sue per far leva affinché mollasse quella palla di vetro. Riuscii a staccare il suo pollice dalla superficie liscia della Sfera e presi a tirarla da sotto, cercando di ogni modo di allontanarla dal palmo fumante di mio figlio. Il ragazzo spalancò la bocca in una smorfia di dolore mentre tiravo la sua mano verso l’alto con un paio di strattoni al mignolo, l’unico altro dito che fossi riuscito a liberare. – Aaah… – gridò, la voce debole di un vecchio che non ha più nemmeno la forza di lamentarsi. L’odore dolciastro della carne bruciata s’insinuò nelle mie narici e lo stomaco mi si rivoltò come un calzino. Gli aveva fuso la carne. Quella dannata cosa gli aveva bruciato la pelle fino a squagliarla e appiccicare la carne viva direttamente alla superficie cristallina della Mela.
Non avevo più tempo da perdere. Strinsi i denti e diedi un ultimo strattone alla Sfera, tirando con violenza verso il basso. Forse fu solo la mia immaginazione, ma mi parve di sentire la pelle di Connor opporre resistenza e lacerarsi in lunghi filamenti di pelle morta e carbonizzata mentre il manufatto si staccava finalmente dalla sua mano e io caracollavo indietro, schiantandomi di schiena sulla pietra gelida, e tutto, all’improvviso, smetteva di far male.
Solo i nostri respiri circondati dal più assoluto silenzio, la Mela dell’Eden premuta contro il mio petto come un bambino piccolo. Sollevai lentamente il capo per scoccarvi un’occhiata. Era fredda e intonsa, l’interno pieno di fumo, come la prima volta che l’avevo vista, e la superficie priva di lembi di pelle bruciata. Eppure io lo sentivo, Cristo santo, l’odore della carne cotta. Così maledettamente invitante dopo i giorni passati nella Frontiera a nutrirsi di poco o niente, e il solo pensiero mi diede il voltastomaco. Lasciai cadere la testa contro la roccia e Sfera scivolò giù dal mio petto, incassandosi nel vuoto tra il busto e il braccio. Dovevo respirare. Sì, prendere fiato e calmarmi, riempire i polmoni di aria pulita, o che almeno non mi facesse brontolare lo stomaco in preda ai morsi della fame. Non vomitare, intimai a me stesso con uno sbuffo. Per favore.
Deglutii un paio di volte, giusto per assicurarmi che tutto funzionasse ancora bene dentro il mio corpo. Non riuscivo a immaginare che cosa sarebbe successo se, una volta in piedi, li avessi trovati tutti e tre morti, stramazzati a terra con gli occhi vitrei e il cuore fermo dentro il petto. No. Non poteva essere andata così. Mi sarei sparato in testa piuttosto che assistere a uno spettacolo del genere.
Non erano morti. Non erano morti.
Allora che cosa diavolo era tutto quel silenzio, eh?
Puntellai i gomiti e sollevai il busto, il fiato grosso per la smania di scoprire se fossero ancora vivi o meno. Connor lo era, senza ombra di dubbio, perché stava proprio lì, di fronte a me, gli occhi sgranati in una smorfia di terrore mentre si guardava le mani. Il suo labbro inferiore tremava come quello di un poppante che si è appena reso conto di aver ammazzato un canarino. Ma io volevo solo tenerlo in mano, papà! Esatto, proprio quella.
– Che ho fatto? – gridò all’improvviso, le parole strascicate in un pianto disperato, a malapena riconoscibili. – Che cosa ho fatto? – I suoi occhi cercarono i miei un attimo prima che le sue gambe cedessero, facendolo schiantare con le ginocchia a terra in preda ai singhiozzi. Era esattamente questo il motivo per cui Reginald non aveva usato la Mela per uccidermi. La sua maledetta imprevedibilità. Il pericolo costante di essere ammazzati se la si usava senza il sangue giusto dentro le vene.
E lui lo sapeva. Oh, se lo sapeva. – Connor… – Provai a stabilire un contatto, la voce a malapena percettibile sopra i suoi singhiozzi lamentosi. Teneva gli occhi sui propri palmi tremanti, uno solcato dai calli dell’addestramento alle armi, l’altro come sventrato, fili di pelle arricciata su se stessa e appiccicati alla carne rossa e viva. – Connor, è finita, era solo…
– Mi dispiace – proseguì per la sua strada, ignorandomi completamente. – Mi dispiace, mi dispiace, io… Non volevo! Non sapevo che cosa…
– Dio mi fulmini, bastardo, chiudi quella cazzo di bocca!
Risentire la voce di Thomas mi fece uno strano effetto, come se il mio cuore si fosse fermato ma al tempo stesso non potessi essere più vivo di così. Girai la testa verso il suo corpo rannicchiato con una smorfia speranzosa sulle labbra. Era ancora lì, a terra, proprio come qualche istante prima, ma invece di ridere stava scavando in una tasca interna della giacca. – Porca puttana, fallo stare zitto – m’intimò con una smorfia scocciata, e un attimo dopo mi lanciò la fiaschetta di gin che gli aveva tenuto compagnia durante il nostro simpatico soggiorno nella Frontiera. Mi misi a sedere con un colpo di reni e la presi al volo, una parte di me che non poteva evitare di chiedersi come mai quel dannato liquore non fosse ancora finito. Chissà, forse c’era una fonte di gin tra gli alberi, e una volta usciti di lì Tom l’avrebbe acquistata per diventare il più ricco imbottigliatore di tutte le Colonie.
Ti rendi conto delle cazzate che stai dicendo?, brontolò di rimando la zona del mio cervello rimasta lucida. Certo che me ne rendevo conto. Si trattava di uno di quei momenti in cui non puoi fare a meno di pensare certe idiozie, una dopo l’altra, come dardi sparati da una cerbottana. Ti fanno sentire un po’ più lontano dalla morte, ecco. – Versagliene un po’ su quella cazzo di mano e fallo star zitto. Per favore. – Tom si lasciò ricadere sulla roccia, le dita tozze a massaggiarsi le tempie. – Ah, Cristo santo, che male. – Schioccò la lingua come a voler richiamare la mia attenzione, peccato che non riuscissi a staccargli gli occhi di dosso, la mente intasata da un milione di pensieri diversi, soprattutto legati a Charles. Se Hickey era vivo… Allora c’era una possibilità anche per lui. Doveva esserci, giusto? E quando se ne sarebbe andato quel maledetto profumo di carne alla griglia? Quando mi sarei messo a mangiare mio figlio? Cazzo, concentrati. – Posso sapere cos’è successo alla mia fottutissima testa, di grazia?             
Buttai l’aria fuori dal petto in un lento sospiro e mi rialzai in piedi, non esattamente entusiasta all’idea di versare mezzo bicchiere o poco più di gin sulla mano ustionata di Connor. Avrebbe urlato, Gesù, se avrebbe urlato. Urlano tutti, di solito. Per di più era ancora scioccato da ciò che avrebbe potuto fare se non gli avessi tolto la Mela dalle mani. Per una volta, davvero, dovetti ringraziare Reginald e le sue lezioni. Nonostante fosse abbandonata alle mie spalle, sulla pietra, in attesa di essere raggiunta dalla macchia di sangue che si stava lentamente seccando intorno a Birch, riuscivo a percepire il potere che quella maledetta sfera di vetro irradiava su di me, dentro di me. La tentazione, il peccato originale in tutta la sua mostruosa bellezza.
E io dovevo starne il più lontano possibile. Avevo già commesso troppi sbagli. – Connor? – gli intimai, ma i miei occhi cercavano Charles. Era esattamente dove si trovava prima, in ginocchio, ma si era come afflosciato su se stesso, le mani premute sul volto per soffocare il pianto. Vedevo le sue spalle sussultare con violenza, come una vedova al funerale del marito. – Dammi la mano – mi costrinsi a sussurrare, voltandomi con urgenza verso di lui. Il ragazzo scrollò il capo, i denti affondati nel labbro inferiore così forte da farlo sbiancare. Temevo che da un momento all’altro un rivoletto vermiglio gli sarebbe colato giù per il mento, proprio come a Reginald. – Non è il momento di fare il bambino, Connor. – Stappai la fiaschetta con i denti, come probabilmente avrebbe fatto mio padre troppi anni prima, e gli tirai bruscamente il polso verso di me, il palmo della mano rivolto verso l’alto. – Merda.
– Oh, certo! – sbottò Thomas, ma la sua voce era solo una lontana cantilena nella mia testa. – Pensiamo all’imbecille con la mano alla brace! T’ho fatto una domanda, capo, e voglio sapere perché cazzo fa così male!
Mi sarebbe davvero piaciuto rispondergli e spiegargli che era tutta colpa dei Precursori, che era quello il potere da cui dovevamo stare lontani, noi come chiunque altro, e che probabilmente l’effetto era stato peggiore su lui e Charles perché non erano discendenti di Coloro che Vennero Prima, ma non riuscivo a staccare gli occhi dalla mano di Connor. La fiaschetta mi tremava tra le dita e stringevo il tappo tra i denti con così tanta forza che avrei potuto spezzarlo, eppure a malapena me ne rendevo conto.
Certo che sei un padre rassicurante, eh? – Che cosa ho fatto? – lagnò di nuovo Connor, tirando forte su con il naso. – Che cosa ho fatto?
La pelle ancora sana era annerita come quella di un uomo rimasto per troppo tempo al freddo, un gigantesco livido scuro che gli arrivava fino alla punta delle dita, tranne per il mignolo e il pollice, anneriti fino a metà solo grazie al mio intervento. Sembrava che tenere in mano quell’affare avesse consumato la sua carne, raggiungendo temperature così elevate da sciogliere i muscoli sotto la pelle, ma era il centro del palmo quello messo peggio, esattamente come immaginavo.
Fasci di muscoli in vista, irrorati di sangue rosso vivo, muscoli e carne ancora fumante, circondata da lembi di pelle a metà tra i due stadi: se ne stava lì, sporca di polvere, arricciata su se stessa ai bordi delle ferite aperte, di uno strano colore giallastro e infetto. Mi mordicchiai il labbro per scacciare l’istinto di stringere uno di quei filamenti tra le dita e tirarlo verso di me, per vederlo districarsi e tornare alla sua forma originaria come una molla, e sollevai gli occhi su di lui. Lo sguardo di Connor sembrava quello di un bambino che aspetta soltanto di ricevere uno sculaccione. – Mi dispiace – disse, la voce così sottile che a malapena la udii. – Mi dispiace, Haytham.
Chinai il capo da una parte e lo sguardo mi cadde sulla fiaschetta che stringevo in mano. Passai lentamente la lingua sulle labbra, cercando di calmare entrambi nello stesso momento. – Non volevo – mugugnò. – Non pensavo che… Che fosse…
Al diavolo. Con uno scatto del polso rovesciai l’intero contenuto della fiaschetta sul suo palmo, poi la lasciai cadere a terra, tintinnante accanto ai miei stivali, e afferrai la punta delle sue dita gonfie per impedirgli di serrare il pugno. Gridava come un maiale sgozzato, l’altra mano tesa nella mia direzione nel tentativo di spingermi il più lontano possibile da lui, ma strinsi i denti e resistetti. Le sue urla sembravano squarciare l’aria, erano i lamenti di un uomo torturato dalla vita stessa, e io non potevo fare assolutamente nulla per alleviare il suo dolore. Non che mi facesse piacere vederlo in quello stato, ma Connor aveva le sue responsabilità in quell’idiozia. – Ragazzo. – Strizzai le sue dita fino a sentire le nocche scricchiolare sotto la mia presa, e gli presi il volto con l’altra mano. – Dammi retta solo per un secondo, d’accordo? Devi resistere. Lo so che adesso fa male, ma se ti calmi e prendi uno stramaledetto respiro tutto questo finirà. Ci sei? Respira! Respira, dannazione! – Eppure continuava, le urla tramutate in lunghi e lamentosi gemiti colmi di dolore. – Connor! – Non volevo essere costretto a mollargli un ceffone, ma sant'Iddio!, era completamente pazzo se pensava di continuare in quel modo. – Connor, piantala, perdio!
Crack. Le articolazioni delle dita scricchiolarono più forte nella mia stretta, come se le ossa stessero per spezzarsi. Sgranò gli occhi, la bocca mezza aperta in qualcosa a metà tra lo stupore e una supplica. Almeno aveva smesso di urlare. Solo quando cercai di parlare mi resi conto di avere il fiatone. – Ti sei ripreso? – sussurrai, respirando forte tra una parola e l’altra.
– Lasciami – sibilò, ma nei suoi occhi non c’era nessuna autorità.
Non l’avevo rispettato quando era in grado di intendere e di volere, figuriamoci se l’avrei fatto in un momento come questo. – Prima rispondi – replicai gelido. – Ti sei ripreso? Basta solo che fai sì con la testa. – Il suo mento si mosse lentamente su e giù, come quello di un povero vecchio in lacrime. Più che annuire sembrava tremasse, ma era ora di arrangiarsi con ciò che avevamo. – Molto bene. Allora ascoltami ancora cinque minuti, ti va?
– Avevi detto che…
– So esattamente quello che avevo detto, ma ora ti ho detto di ascoltarmi altri cinque minuti, quindi tu mi ascolterai, oppure ti spezzo tutte e quattro le dita di questa dannata mano, uno per uno. Sono stato abbastanza chiaro? – Non mi andava di essere così duro con lui, ma dopo aver visto le stronzate che era in grado di fare – per amore di cosa, poi? – mi sembrava più adeguato considerare delle misure ferree. Connor annuì di nuovo, la fronte aggrottata in una smorfia diffidente. – D’accordo. Stammi bene a sentire. Adesso io prenderò la Mela, apriremo quella parete e tu verrai con noi, che lo voglia oppure no. E non perché io mi diverta a farlo, ma semplicemente perché è ciò per cui siamo qui. Sai da quanti anni cerchiamo questo posto? Reginald Birch era senza dubbio un uomo malvagio, ma l’intero Ordine, all’epoca, era d’accordo sull’importanza del Grande Tempio. – Avvicinai il volto al suo, i denti scoperti come quelli di un predatore e l’ansia del momento a parlare per me. – E io non ho intenzione di lasciarmi sfuggire un’occasione come questa solo perché tu hai deciso di fare la brava bambina. Oh, e non pensare di metterti contro di me con una delle tue mosse eroiche. – Indicai Thomas e Charles con un cenno della testa e tornai a guardarlo, la voce carica di sarcasmo. – Non sei portato per quel genere di cose.
Lo lasciai andare, le ossa che finalmente tornavano a una posizione normale dentro le dita gonfie e livide, e mi ravviai i capelli con le mani. Avevo perso il tricorno durante la lotta con Reginald, ma non era certo il mio principale problema. Non in quel momento, almeno. – Bene! – sbottò Thomas mentre mi stropicciavo gli occhi. Per carità di Dio, no. Datemi almeno due minuti per respirare. – Dopo aver visto questa fantastica dimostrazione d’affetto tra te e il tuo bastardo potresti spiegarmi che cosa diavolo sia successo? O devo chiedere informazioni alla palla magica di ‘sto cazzo?
Connor arretrò di un paio di passi, studiandosi il palmo lacerato con la mascella contratta, e gli lanciò uno sguardo che si portava dietro almeno venti casse da tè piene di sdegno. Sollevai un sopracciglio, pensando che poteva anche mostrare un filo di gratitudine in più, almeno per tutto il gin che avevamo sprecato sulla sua stupida mano, poi sbuffai: si trattava sempre di mio figlio, no? – Se qualcuno di voi osa ancora toccare quella cosa, giuro sulla mia vita che farà una brutta fine. – Voltai il capo per sputare verso il cadavere di Reginald, il bisogno impellente di liberarmi in qualsiasi modo di ciò che era appena successo. – Il genio qui ha pensato bene di usare il Frutto dell’Eden per impedirmi di aprire il Tempio.
Tom emise un lungo fischio d’ammirazione, seduto con le gambe incrociate e le spalle alla parete laterale della caverna. – È evidente che qualcuno vuole che tu lo faccia. – I miei occhi corsero di nuovo a Charles, immobile nella stessa posizione di prima, solo che ora anche le sue spalle erano ferme. Sembrava una statua di sale. – Accettalo, bastardo. Non puoi farci niente. – Come una frustata, mi tornò alla mente una frase che aveva detto Reginald mentre tentava di uccidermi. Tu mi servi, Haytham!, così aveva detto forte tra i denti sbarrati. Sei lo strumento della Loro volontà! La volontà dei Precursori, era questo ciò a cui si stava riferendo. La profezia l’avevano scritta loro, a pensarci bene, e nonostante fino a pochi minuti prima fossi fermamente convinto che avremmo aperto in qualsiasi caso il Tempio, Prima Civilizzazione nella mia testa o meno, adesso non mi sembrava più così vero. La mossa di Connor assumeva persino un senso.
Perché obbedire a quei bastardi? Perché seguire ciò che loro avevano prefissato per me?
E abbandonare il Grande Tempio ai futuri possessori della Mela – magari una stupida famigliola di coloni – non era forse peggio? Poteva contenere qualsiasi cosa, e preferivo pagare dopo averlo scoperto che peccare d’orgoglio buttando al vento l’ultimo scopo che aveva visto i Templari – almeno, i pezzi grossi che vivevano a Londra – davvero uniti.
Connor non rispose, limitandosi a grugnire e infossare la testa nelle spalle. Scrollai il capo per liberarmi di quei pensieri e raccolsi cautamente la Mela dal pavimento, la superficie di vetro tiepida contro le mie dita. Non mi fermai nemmeno a guardarla, la lasciai soltanto cadere nella tasca della redingote, limitando il più possibile il contatto, e m’avvicinai di nuovo a Charles, il passo molto meno ansioso dell’ultima volta che l’avevo fatto. – Tutto bene? – Mi accovacciai a terra e poggiai appena le dita sul suo ginoccho, sperando che non saltasse indietro terrorizzato o, peggio ancora, che non fosse morto. – Riesci a sentirmi?
– Sì – sussurrò strofinandosi i pugni sugli occhi. Aprii le mani e se le portò davanti al volto, gli occhi fissi sulle dita tremanti come se non gli appartenessero.
– E stai bene? – Dio, volevo soltanto che smettesse di tremare, di mentire, perché sapevo che la sua risposta serebbe stata un sì. Volevo prendergli le mani tra le mie e ripetergli ancora una volta che era tutto finito, che saremmo usciti di lì e avremmo trovato un posto in cui dormire, come ai vecchi tempi, e non avrebbe più dovuto aver paura di nulla.
Ma non potevo. Aveva bisogno di risollevarsi sulle sue gambe, proprio come me. Tutto quello che mi era permesso di fare era tenere la mano lì, immobile sulla sua gamba, e aspettare. Annuì lentamente, gli occhi che cercavano i miei. C’era così tanta paura, lì dentro, molta più di quanta ne avessi vista in quelli di Connor. – Sono dietro di voi, signore. – Oh, maledizione, perché non chiudeva quella dannata bocca? Ostentava sicurezza, faceva finta di essere d’accordo con me, ma avrei preferito mille volte che scoppiasse a piangere contro il mio petto, implorandomi di tornare a casa. Lui non voleva seguirmi. Era distrutto. – Mi dispiace per quello che è successo. – I miei occhi incrociarono i suoi in quell’esatto istante, e non li avevo mai visti così lucidi e pieni di paura. Non era il terrore istintivo e animale che aveva provato a Fort Lee, quando Tom si era divertito un po’ con lui. Era la paura che continui a provare dopo mesi, anni di prigionia, quando finalmente torni libero. Ecco a cosa l’avevo abbandonato.
E dispiaceva a lui.
Maledizione. – Charles. – Serrai più forte la presa sul suo ginocchio, proprio come avevo fatto poco prima con le dita di Connor. – Non dire un’altra parola. – I suoi occhi azzurri sfarfallarono per cacciare le lacrime, le labbra premute tra loro fino a sparire nel viso. Dovevo muovermi. Sapevo che se avesse cominciato a piangere non sarei riuscito a trattenermi. Avrei dovuto asciugare quelle dannate gocce rotonde con le dita e dirgli che sarebbe andato tutto bene, tutto bene. – Ti prego. – Così mi tirai in piedi, spingendo negli stivali con tutta la forza che avevo, e strofinai i palmi sudati sulle falde della redingote. Meno l’avrei guardato in faccia, più sarebbe stato facile. Per entrambi, suppongo.
Non gli chiesi nemmeno se volesse una mano, lo sguardo perso nel vuoto. Pensavo a ciò che gli avevo appena detto, di non parlare più. Non era completamente vero. Cioè, volevo che stesse zitto, sì, che la smettesse di dare aria alla bocca soltanto perché credeva mi facesse piacere, ma se avesse capito di volersene andare perché era troppo, tutto quello era troppo, non ce la faceva più e sentiva che il cuore gli sarebbe esploso se non avesse dormito per qualche ora e finto che certe cose non fossero mai accadute, Dio, allora sarebbe stato suo dovere dirmelo.
Non avrei mai più messo me stesso davanti a lui. Mai più. Pero no, forse non avrebbe dovuto parlare nemmeno allora. Poteva anche solo, non lo so, dare una stretta al mio braccio o… o qualcosa del genere, sì. L’avrei fatto addormentare con la testa sulle mie gambe, ad accarezzargli i capelli finché non fosse crollato come un bambino. E allora sarei rimasto sveglio, immobile per non disturbare il suo sonno, incantato dal ritmo del suo respiro. Immagino che mio padre dovesse sentirsi così, durante i miei primi dieci anni di vita. Non esisti più tu come persona. Vivi per la tua creatura, perché è l’unica che se lo merita.
Mi voltai a lanciargli un’occhiata, solo per assicurarmi che fosse in grado di rialzarsi senza aiuto da parte mia. Puntò le mani a terra, come un bambino, e lentamente si tirò in piedi, le braccia aperte nel terrore di ricadere in ginocchio, travolto da qualunque cosa la Mela avesse insinuato nella sua testa. Anni prima sarei stato curioso di sapere come ci si sentisse. Ora ne avevo abbastanza. Ero stanco di tutto, della vita stessa. Forse per questo riponevo così tante speranze in Charles. Lui era il futuro. La dottrina dei Templari poteva avere ancora una sua utilità. Toccava a lui, a loro, diffonderla e farne ciò che volevano.
Io avevo chiuso. – Be’ –  dissi, la voce gracchiante per tutto quel tempo passato senza dire una parola, solo a ricacciare le lacrime dietro gli occhi, – direi che possiamo andare.
Thomas si alzò con un colpo di reni, come se non fosse mai stato meglio, e capitombolò addosso a Charles senza nessuna dignità, le mani serrate sul bavero della sua giacca e la bocca aperta in una grassa risata. Mi ritrovai a guardarli con un sorriso triste. Era mancato anche a lui. Era evidente. Forse anche Tom, mentre mi rivolgeva quella stupida scommessa, aveva pregato di sbagliarsi. Pregato che il ragazzino dalla costante aria di superiorità che lo correggeva in continuazione fosse ancora dalla nostra parte.
Mi faceva sentire un po’ meno solo. A casa. Scrollai il capo e annullai la distanza tra me e la parete dipinta di quella grotta, la stessa davanti alla quale avevo baciato Tiio, ormai secoli prima, con un paio di ampi passi. La roccia era sempre la stessa, così come le immagini dipinte. Mi chiesi che diavolo ci fosse nella tintura per farla durare così a lungo.
Forse è sangue.
Pietà, no, basta. Non volevo più sentirne parlare. Guardai la punta dei miei piedi per controllare dove fosse arrivata quella dannata macchia scura, e proprio lì, di fronte a quella che doveva essere la porta del Grande Tempio, vidi il mio tricorno. Perfettamente intonso. Lo calai in testa con un sospiro, lasciando che gli occhi vagassero su e giù, attraverso le immagini. C’erano uomini stilizzati e animali, bestie simili a dei cavalli. Cervi, forse. La fauna che abitava quella dannatissima foresta. Figure umani grandi e piccole, e al di sotto, come venature nel legno, solchi geometrici, scintillanti di una strana iridescenza verdognola. Come quelli sulla Mela. Si avviluppavano in spirali geometriche e arrivavano fino a soffitto della caverna. Presi un gran respiro, il cuore che sbatacchiava contro le costole. I Mohawk ci avevano dipinto sopra, come se non contassero niente.
O per il motivo opposto, chissà. Feci un paio di passi verso destra, seguendo la parete, fino a trovare esattamente quello che cercavo. L’avvallamento emisferico, più o meno all’altezza della mia spalla, cui tutte quelle scanalature sembravano correre. Come vasi sanguigni verso il cuore.
Deglutii a fatica, facendo del mio meglio per evitare di pensare a lei. Tiio mi aveva detto che c’entrava una dea. C’era una storia dietro quegli omini che si spostavano su e giù per la roccia senza un’apparente logica. – Iottsitíson. – Sussultai quando mi accorsi di avere Connor in piedi al mio fianco, una mano sotto il naso e l’altra stretta in un pugno. Perché doveva essere sempre così silenzioso? – I suoi occhi vegliano su di noi – sussurrò, le labbra che si muovevano appena. Per favore, no. – Le sue orecchie ci ascoltano. Le sue mani ci guidano. – Mi accorsi di sillabare quelle parole insieme a lui, allo stesso ritmo, senza emettere un suono. Doveva aver raccontato quella storia anche a lui, e, come me, non era riuscito a dimenticare la sua intonazione, le parole che usava. – Il suo amore…
– …ci da la forza – completai per lui, i palmi affondati nelle tasche. – Ormai lo so a memoria – grugnii. Speravo di risultare più brusco, ma il danno era già bello che fatto.
E poi, al diavolo!, che senso aveva mentire? Non avrei mai potuto scordare sua madre. Non quando lui le era così dannatamente simile. – Andiamo – aggiunsi soltanto, chiudendo la mano intorno alla Mela dell’Eden. – Non vorrete mica marcire qui, giusto? – Gettai uno sguardo a Tom e Charles da sopra la spalla, e pensai che se avevano qualcosa da dire, se non volevano andare avanti, Dio, che lo dicessero allora.
Potevano ancora scegliere. Restare. Meglio, tornare in città e aspettarmi in una taverna.
Sorrisi tra me. Non l’avrebbero mai fatto, non in quella vita. – D’accordo.
Sfilai la Mela di tasca e l’incastrai perfettamente in quella piccola conca. Appena le due superfici furono a contatto si scaturì un’altra di quelle onde di energia dorata. La vidi scorrere nei solchi sulla parete, illuminare a giorno l’intera caverna. Proprio come sangue, o come l’acqua dopo aver rotto una diga. E, cosa migliore, non faceva male. Nonostante il sussulto spaventato di Connor e la bestemmia lanciata da Tom sapevo che quel lampo non era doloroso. Era un segnale, non una difesa.
Guardai Connor, d’istinto, un piccolo sorriso a piegarmi le labbra, come a dire che se ero io a tenere in mano la situazione tutto si risolveva per il meglio. Sempre.
Peccato che la roccia prese a tremare, facendoci indietreggiare tutti di un paio di passi, con il terrore negli occhi. Almeno, io lo sentivo bruciare nei miei molto più della rabbia e della vendetta. – Fischia – fece Thomas, la voce appena venata di sorpresa. Come se vedesse sfere luminose e aprisse caverne ogni santo giorno. – Fischia. – Non potei fare a meno di essere d’accordo con lui quando vidi la parete e le sue venature innalzarsi come una saracinesca e sparire… da qualche parte, dentro il soffitto a malapena visibile sopra le nostre teste. – Porca puttana. – Bisogna ammettere che le imprecazioni di Tom rendevano il tutto molto più affascinante, non c’era dubbio.
Restammo a guardare, incapaci di spiccicare parola. La Mela continuava a irradiare luce, ma io a malapena me ne rendevo conto, incantato com’ero da quello spettacolo così dannatamente strano. Non era possibile. Insomma, la pietra… la pietra non affonda nella pietra. I Precursori potevano avere tutti i poteri del mondo, ma arrivare a questo… No. No, semplicemente. Quella maledetta parete di roccia doveva andare a finire da qualche parte. Doveva. Forse c’era una zona cava o friabile nella terra. Oppure…
– Haytham. – La stretta di Connor sulla mia spalla mi riscosse da quei pensieri. Mi accorsi di aver seguito la corsa di quella stupida parete fin quando non era sparita quasi completamente nella roccia sopra le nostre teste, ignorando il corridoio dalle pareti lisce e ortogonali che si era aperto subito dietro. – Andiamo. – Pronunciò quella parola con una strana intonazione, più come fosse una domanda. Andiamo? Annuii tra me, la mascella contratta nel tentativo di restare concentrato su quel che avevo davanti agli occhi.
Il potere della Prima Civilizzazione mi aveva investito come uno sparo in pieno petto, molto più forte ora che finalmente quell’affare era aperto. Mi annebbiava la vista – o forse la acuiva? –, ogni cosa che luccicava e sfumava nel giro di un secondo, senza avere il tempo di mettere davvero a fuoco. Tesi la Mela davanti a me come una lucerna e mossi lentamente un passo, i piedi che sembravano pesare una tonnellata. Perché avevo ordinato a Charles di non parlare? Non avrei mai dovuto farlo. Dovevo lasciargli la libertà di dire ciò che voleva, idolatrarmi, come una decina di anni prima. Buttai l’aria fuori dal petto in uno sbuffo mentre sollevavo anche il secondo piede. A che scopo? In fondo, Charles non era Connor. Non avrebbe mai messo se stesso e il suo dolore davanti allo scopo dell’Ordine.
Eppure, per una volta, non volevo che facesse altro. Illuso. Come al solito. – Andiamo – intimai al resto del gruppo, cercando di usare un tono autoritario. Che non tremasse dalla paura, almeno.
M’inoltrai nel corridoio, i tacchi degli stivali che rumoreggiavano sul pavimento, ma in modo diverso. Sembrava quasi fatto di metallo, la luce della Mela che si rifletteva appena sulle pareti attraversate orizzontalmente dall’ennesimo solco, come fosse fatto di due blocchi di pietra separati l’uno dall’altro da qualche strano meccanismo avanzato di Coloro Che Vennero Prima.
Un brivido mi corse lungo la schiena. Non mi andava più di guidarli in quell’impresa, eppure qualcosa costringeva le mie gambe a percorrere il corridoio in avanti, senza nessuna esitazione, nemmeno ci fosse in gioco la mia vita. – Gran Maestro?
Mi voltai di scatto, il cuore che batteva come un pazzo nel petto. L’aria lì dentro sembrava più sottile, rarefatta, arrivava dritta al cervello, lo faceva lavorare più in fretta. Il sangue dei Precursori ribolliva nelle mie vene e io non potevo farci nulla. Solo assecondarlo, continuare a camminare nella speranza di arrivare da qualche parte. Non poteva essere tutto così vago, così… inutile, giusto? Non avevamo cercato quel posto solo per camminare verso il nulla come degli idioti. C’era di più. Doveva esserci di più. Eppure non riuscivo a vedere altro che la luce della Sfera e ciò che sfiorava. Il nulla. Lo stramaledetto nulla. – Gran Maestro? – Battei le palpebre un paio di volte. Mi avevano chiamato, credo. Sì, per quello mi ero voltato, solo che non riuscivo a vederlo. Cercavo altri segni sulle pareti, qualcosa che mi facesse capire quando quelle mura si sarebbero aperte, o avrebbero anche solo preso una svolta.
Mi passai la manica della redingote sulla fronte sudaticcia e misi finalmente a fuoco il volto di Charles, sempre pallido e smunto, ma un po’ più rilassato. Almeno finché i suoi occhi non si posavano sulla Mela dell’Eden, ricordando il dolore che doveva aver provato quando l’aveva tenuta in mano Connor.
Il Sangue dell’Aquila e il Pensiero della Croce. Non gli avrebbe mai fatto del male, finché l’avessi avuta io. – S-sì? – mugugnai, le parole che faticavano a uscirmi di bocca, come dopo un boccale di birra di troppo. Sapevo di avergli detto… qualcosa sul non parlare più, ma ero così confuso, e i miei piedi continuavano a muoversi in avanti, non sentivo più le mani, avvolte nel calore benefico della Mela, e i miei occhi scattavano continuamente dal suo viso alla parete dietro di lui. – Cristo – ringhiai, cercando di concentrarmi sulla dannata faccia di Charles. Non mi sentivo più in controllo di nulla.
– Tutto bene?
Perché me lo chiedeva? Era lui quello che ne aveva passate troppe, di recente. Oh, al diavolo, no che non andava bene. Quei bastardi mi stavano facendo qualcosa, e nemmeno io ero in grado di dire cosa. Strizzai gli occhi e strofinai il polso contro la tempia. Piantatela, intimai a Minerva, Giunone e chiunque altro ci fosse nella mia testa. – Sì. Certo – biascicai, gli occhi strizzati tra le palpebre, e finalmente riuscii a guardarlo negli occhi, vedendolo per davvero. Sembrava quasi più tranquillo. Poi si notavano le mani torte come artigli, pronte a scattare, e le iridi azzurre che schizzavano da una parte all’altra dal corridoio, della mia stessa persona, e finivo per giungere alla solita conclusione. Stava fingendo. E fingeva per me. – Tu?
Fece spallucce, evitando di guardarmi in viso. – Non c’è male. – Non c’è male. Ridicolo. Probabilmente stava morendo di paura. – Volevo solo dirvi... So che mi avete detto di non parlare, ma io… Credo sia mio dovere, in fondo. – Annuii senza ascoltarlo davvero. Stavo cercando i suoi occhi, a essere onesto. Quelle dannate macchioline ghiacciate sul suo viso sconvolto. – Io…
– Lascia perdere – grugnii, la testa incassata tra le spalle. – Non è necessario che tu lo dica. – Mi sforzai di abbozzargli un sorriso, ma era così difficile, la mente confusa da tutto quel potere e i piedi che continuavano a premere sul terreno per gli affari loro, senza preoccuparsi della mia volontà. – Davvero. Non ti preoccupare. – L’idea che dopo tutto quel che aveva passato si sentisse addirittura in dovere di dirmi qualcosa premeva nel mio petto dolorosa come un macigno.
Non c’erano molte possibilità. Poteva serrare le mani intorno alla mia gola e dire che ero un bastardo, un enorme bastardo, per averlo lasciato in balia di Reginald per così tanti anni e stringere, stringere fino a spezzare le vertebre e farmi uscire gli occhi fuori dalle orbite. Senza dubbio l’avrei preferito alla seconda possibilità, ovvero che mi ringraziasse per averlo ucciso.
Non me lo meritavo. Non mi meritavo delle scuse, e molto probabilmente non meritavo nemmeno di averlo al mio fianco. Sollevai lo sguardo su di lui e lo trovai a mordicchiarsi il labbro inferiore con insistenza, come se avesse sbagliato qualcosa. Benedetto ragazzo. – Io… – Tenace come poche altre persone al mondo, molto più di me, perché lo era solo quando contava. Sembrava ancora un bambino inglese, educato dai migliori precettori, che deve obbedire a quello che mamma e papà gli hanno insegnato, dire sempre “per favore”, “prego” e “grazie”, in qualunque situazione e anche davanti a Satana in persona. – Vi devo la vita – disse, più serio di come l’avessi mai visto in tutta la mia vita. Il che non era poco, senza dubbio. 
Mentre lo fissavo negli occhi e ripensavo al nostro primo incontro, su un pontile di Boston, quando portava i baffi più corti e ordinati e ogni giorno usciva dalla sua stanza pettinato come neanche Re Giorgio in persona, mi resi conto che, diavolo!, quanto si sbagliava. Ero io a dovergli la vita. Se fosse morto non avrei avuto alcun motivo per cercare la pace, nessuno scopo come Gran Maestro dei Templari. Senza di lui probabilmente io e Connor ci saremmo uccisi molto tempo prima e avrei finito per dimenticare Reginald, perché tanto non avrebbe avuto niente con cui tenermi in pugno. L’Ordine sarebbe rimasto nelle mani di Birch, almeno fino alla sua morte. Poi saremmo semplicemente spariti nel nulla, come una macchia su una camicia. Eppure gli feci sì con la testa, gli occhi piantati nei suoi. Mi sembrava non avesse bisogno di nient’altro. – Mi dispiace – aggiunse, come se quella risposta non fosse stata soddisfacente. Mi stava rendendo le cose difficili, Charles. Gli dispiaceva, aveva detto. Per cosa, di preciso. Per Tiio? Per com’erano andate le cose? Per ciò che Reginald mi aveva fatto da ragazzo?
Pazienza. Certe ferite non cicatrizzano mai, suppongo. – Non credevo… Non… – Oh, Cristo, c’erano così tante cose che poteva non credere. Che sarei andato a salvarlo, che quella tortura fosse finalmente finita, anche soltanto che fossi vivo e m’importasse ancora qualcosa di lui.
L’avevo praticamente cresciuto. Dio, come poteva non importarmi più? – Charles?
– Sì? – Chinò il capo da una parte, come se non aspettasse altro che un mio intervento. Sembrava una suora che sente finalmente parlare la statua del tale santo dopo aver passato l’intera notte a pregare.
Mi sforzai di fargli un sorriso che sembrasse tranquillizzante. – Perché ti dispiace? – Avevo intenzione di zittirlo, a dire il vero, di chiudergli di nuovo la bocca e impedire che si scusasse ancora per qualcosa che non aveva fatto, ma ero curioso. Si sentiva in colpa? O era semplicemente una patetica frase di circostanza che voleva buttare tra noi per riallacciare i rapporti?
Non ce n’era bisogno. Non ce n’era mai stato bisogno. – Ho cercato di uccidervi – sussurrò tra i denti, i pugni stretti così forte da farsi sbiancare le nocche. – Non volevo farlo davvero. Avevo perso la speranza. Pensavo… – Chinò lo sguardo sul mio petto, la voce che tremava nell’uscire dalle sue labbra. – Pensavo fosse l’unico modo per porre fine a tutto. Soddisfarlo. Obbedirgli.
Deglutii faticosamente, come se avessi dovuto inghiottire un groppo grosso quanto il mio pugno, e improvvisamente i miei piedi si piantarono nel pavimento, immobili. Pregavo solo che mi guardasse negli occhi e dicesse che aveva cambiato idea, che aveva capito quanto subdoli fossero i giochetti di Reginald e quell’idea era stata soltanto una scelta sbagliata dettata dalle circostanze. – È normale – riuscii appena a sussurrare, la voce piatta. – Ci sono cascato anche io.
Annuì. Oh, misericordia. – Temevo che vi uccidesse – mormorò. – Avrei voluto fare di più. Aiutarvi a…
Sorrisi tristemente. Ad ammazzare Reginald, intendeva. Non ne sarebbe stato capace. Era già stato abbastanza difficile per me, figurarsi. – Non importa – risposi facendo spallucce. – E non deve dispiacerti. Non è colpa tua.
– Non è l’unica cosa brutta che abbia fatto – aggiunse in un grugnito. Mi lasciò basito, lì, a guardarlo con gli occhi che sfarfallavano e la bocca mezza aperta. Parlava di cose brutte, lui, proprio come Thomas parlava di passioni rare. Aveva sgozzato Tiio. L’aveva violentata.
Cose brutte. Al pensiero mi venne quasi da ridere. – Lo so. – Che cosa avrei dovuto fare? Mettere una mano sulla sua spalla e fare il buon pastore della situazione? Ti sono assolti tutti i peccati, Charles Lee, ora va’ in pace. No. Non ne ero in grado, nemmeno con lui. Certo che aveva fatto degli sbagli, come tutti ne fanno nella vita, ma riportarli in superficie non avrebbe certo fatto di lui un agnello sacrificale. – Non… –  Mi strinsi nelle spalle senza sapere bene che cosa dirgli, quindi buttai fuori il fiato in un sospiro. –  Ti fidi di me, Charles?
Lo vidi aprire la bocca in una smorfia perplessa. Oppure oh, Dio, forse voleva cominciare uno di quei discorsi contorti su ciò che aveva fatto a me e ciò che io avevo fatto a lui. Non ero pronto per una cosa del genere. Lo fermai con un cenno della mano, scoccando un’occhiata alla figura di Thomas che mi aveva superato con due ampie falcate, la luce della Mela a bagnargli la schiena. –  Rispondi e basta. Qui, adesso, ti fidi di me?
– Io… – Lo fulminai con lo sguardo. –  Sì. –  Grazie a Dio.
– Bene – gli grugnii in risposta, – allora dammi retta e dimentica tutto questo. Non parlarne. L’importante… – Premetti le labbra tra loro con un fremito. Non sapevo se fosse giusto dirglielo o meno, con Connor a portata d’orecchio e la Mela dell’Eden stretta in mano. Al diavolo. Gli avevo appena salvato la vita. O il fondoschiena, quantomeno. Se non allora, quando? –  L’importante è che tu sia salvo.
E per una volta nella vita mi sentii bene, davvero bene, come se mi fosse stato tolto un immenso peso dalle spalle. Gli avevo detto la verità, finalmente. Niente avrebbe avuto senso se lui fosse morto, giusto? Niente più Templari, niente di niente. Io e Thomas non potevamo essere un Ordine. Eravamo più un disperato e un ubriacone che filosofeggiano pensando di cambiare il mondo mentre tracannano alcool in onore dei vecchi tempi.
Charles era diverso. – Per favore – dissi, una mano tesa nella sua direzione, – per favore, non dire niente. Non adesso.
– Io… – si mordicchiò l’interno della guancia in un gesto a metà tra uno scatto nervoso e un modo per frenarsi dal parlare. Forse i suoi occhi erano caduti nei miei, o più semplicemente aveva colto la sincerità nelle mie parole. – D’accordo – disse soltanto. Credo di non avergli mai voluto bene come in quel momento, quando incurvò le labbra nel sorriso triste di un amico dopo un litigio, nell’attimo in cui tutto è tornato come prima e si finge che non sia successo nulla.
– Ehi! – La voce di Thomas fu come un brusco risveglio da un bel sogno. Cristo santo. – Quando voi due avete finite di scambiarvi gli anelli venite a dare un’occhiata qua!
Scrollai il capo e mi voltai verso la fine del corridoio, ma non potei fingere di non notare il rossore che aveva invaso il volto di Charles. Gli feci un sorriso di rimando e battei la mano sulla sua spalla in una pacca amichevole, dandogli le spalle per raggiungere Tom. Poteva essere sconveniente lasciare di nuovo lui e Connor da soli, ma nessuno dei due mi sembrava mentalmente pronto a uccidere ancora.
Non sarebbe stata una cosa da tutti, era evidente. Persino nel fodero appeso al mio fianco la spada corta sembrava pesare una tonnellata. – Trovato qualcosa? – esclamai, la voce che a malapena superava l’eco dei miei tacchi. Bastò qualche passo avanti perché il corridoio si spalancasse in un altro ambiente costituito della stessa misteriosa roccia scura.
La luce della Mela s’affievolì di colpo, come quella di una candela troppo consumata, e solo allora notai la parete dritta, come uno strapiombo, che delimitava la camera pochi metri più in là. C’era un silenzio inquietante, lì, e non si muoveva nemmeno un filo d’aria, ma mi sentivo come se qualcuno ci stesse osservando. Oltre la parete c’era… qualcosa. Non finiva nel soffitto, anzi, sembrava più un balcone. Un’antichissima ed enorme terrazza con vista sul niente. – Quaggiù, capo!
Abbassai lo sguardo: il pavimento subiva una brusca pendenza, fino a scomporsi in una piccola rampa di scale, non più di sei o sette gradini. Tom se ne stava lì, un piede puntato sull’ultimo gradino e il volto teso in una smorfia affaticata, le dita infilate in una fessura trasversale della roccia.
– Un’altra porta? – Hickey si voltò a guardarmi, improvvisamente divertito. Aveva colto la sfumatura disperata nella mia voce, e nonostante tutto immagino non potesse darmi torto. No. Un’altra porta poteva voler dire un’altra chiave, una chiave che potevamo anche non avere, e non avevo attraversato la Frontiera, sopportato i fantasmi del mio passato e quelli dei Precursori soltanto per arrivare lì, vedere mio figlio impazzire grazie a quella stupida palla di vetro e scoprire che era tutto inutile.
Non l’avrei accettato. – Eh, già – esclamò con un sorrisetto, passandosi la manica della giacca sulla fronte imperlata di sudore. – Io c’ho provato, ma niente. Non si muove d’un cazzo.
Mi sforzai di sollevare un sopracciglio in un’occhiata scettica. Pensava davvero che la Prima Civilizzazione avrebbe permesso a un uomo così… comune – senza offesa, Tom – di proseguire in quel viaggio? Aprendo una porta a mani nude, magari? – Hai provato a spingere invece di tirare?
– A-ah, questa è bella, mi starei pisciando addosso se non avessi buttato tutto quel che avevo da bere per la mano del tuo bastardo. – Sollevò i palmi in segno di resa e si appiattì contro la parete che scendeva verso la porta, un sorriso di sfida aperto sul volto. – Fa’ tu, predestinato di…
Non ebbe nemmeno il tempo di finire la frase. La Mela s’illuminò tra le mie mani, tiepida come se fosse viva, e la porta rifletté quella stessa, potente luce dorata. Le due parti della porta si separarono, scivolando nella roccia come su dei binari invisibili. – …’sto cazzo.
– Puoi dirlo forte. – Non riuscii a trattenermi dal rivolgergli un sogghigno. – Stammi dietro.
Tom scoppiò a ridere, sbattendosi le mani sulle cosce in un gesto teatrale. – E magari vuoi anche che ti baci il culo, giusto? – esclamò con quel tono strafottente che era così suo, anche nelle peggiori situazioni. – Ti ho salvato la vita, nel caso te ne fossi dimenticato. Potresti anche evitare di trattarmi come l’ultima delle merde!
Scrollai il capo, pensando che poteva anche avermi salvato, ma, Dio, quanto l’avevo odiato in quei pochi, devastanti minuti in cui si era schierato in modo così subdolo dalla parte di Reginald. – Dimmi una cosa. – Feci un mezzo giro su me stesso per parlare guardandolo negli occhi. – Quando ti ho salvato da Bridewell… Avevi già in mente di fare quella simpatica sceneggiata? – gli chiesi, indicando con un cenno della testa il corridoio da cui eravamo appena sbucati.
– In teoria. – Tom fece spallucce, una mano a grattarsi i folti capelli scuri dietro le orecchie. – Pensavo che saremmo morti entrambi molto prima di arrivare a questo, se devo essere sincero.
– E perché hai cambiato idea?
Puntò un gomito contro la parete e roteò gli occhi, prima di allungare una mano e strizzarmi la guancia in un buffetto. – Per il tuo bel faccino, è ovvio. – Gli strinsi il polso così forte che avrei potuto spezzarglielo, allontanandolo da me con un grugnito di stizza e la bocca storta in una smorfia disgustata. – Lo sai, il perché. Non gli interessava l’Ordine. Gli interessava questo coso. E so che interessa anche a te, ma la sua era più… una curiosità morbosa, ecco. Malata.
– E tu quando si tratta di morbosità sei sempre un esperto – grugnii muovendo appena le labbra.
– Uff, quanto sei pesante, capo. – Si voltò per lanciare uno sputo oltre la spalla proprio nel momento in cui Charles poggiò gli stivali sul primo gradino, le guance scavate rese più evidenti dalla luce della Mela. – Tu vuoi entrare perché credi ne valga la pena. Non sei qui per seguire dei fantasmi come fossero farfalle.
Sogghignai. – Non è esattamente il genere di cose per cui sei portato, giusto?
Tom si strinse nelle spalle e puntò i palmi davanti a sé, come in un trucco di magia. – Io? Nah. A me interessa solo avere una birra in una mano e una tetta nell’altra. – Le sue dita fremettero, come se solo il pensiero di stringervi un seno lo facesse impazzire. – Oh, e l’Ordine – aggiunse con un sorriso, picchiandosi il pugno chiuso sul cuore. – Sempre.
– Sempre – gli feci il verso. – Certo.
– Sul mio onore!
Mi voltai con una risatina. Non sapevo esattamente quanto valesse il suo onore, ma non mi sembrava certo una somma su cui valesse la pena di investire. – T’ho detto che ci credo, che altro… – Avanzai di un passo nell’oscurità oltre la porta – razza di idiota, non mi ero reso conto del fatto che nonostante la luce della Sfera non si vedeva a un palmo dal naso – e i miei piedi sprofondarono nel nulla.
Sentii solo la bocca aprirsi, le guance piene d’aria e la Mela stretta al petto, come se valesse più della mia stessa vita, ma nient’altro. Nessun urlo, niente di niente. Battei la schiena contro qualcosa, terra, probabilmente, terra, sassi e radici sporgenti, e il mio cranio emise un inquietante scricchiolio quando impattò sulla pietra, come una noce spaccata nel pugno di un uomo straordinariamente forzuto.
Poi chiusi gli occhi, o forse la Mela smese di emanare quella calda luce dorata, e per un po’ ci fu solo il buio.
Grazie a Dio.

– Porca puttana, capo, come hai fatto a non vederlo? E-eh. – Thomas stava evidentemente sghignazzando, oltre a schiaffeggiarmi una guancia con delle pacche più o meno gentili. – Non ci credo che non l’ha visto. Non ci credo proprio.
– È caduto – puntualizzò Connor con un tono da studente modello che mi aspettavo più di sentire dalle labbra di Charles. – Credo sia evidente che non l’ha visto.
– Senti, bastardo, se sei così intelligente sveglialo. Uhm?
– Sono… – Più che una parola sembrava l’insignificante mugolio di un animale sofferente, ma non aveva importanza. Battei un paio di volte le palpebre, cercando di mettere a fuoco il mondo intorno a me, ancora avvolto nell’oscurità.
Il mio palmo si colmò di nuovo del calore della Mela, e per la prima volta fui felice di sentirlo, di sapere che era ancora lì e non rotta in mille pezzi contro qualche stupido sasso. Sempre che fosse possibile, ovvio. – Visto? – La prima cosa che vidi fu Tom che scattava in piedi, le braccia aperte e lo sguardo rivolto verso Connor. – E tu che non ti fidavi. – Storsi le labbra in una smorfia di dolore mentre tentavo lentamente di mettermi almeno seduto. Effettivamente il suo non mi sembrava proprio il più scientifico e affidabile dei metodi, ma almeno ero ancora vivo. D’istinto calai la mano nella tasca dei calzoni, terrorizzato dall’idea di non trovarci più la stupida medaglietta iridescente che mi era costata così tanto. Trassi un lento respiro alla sensazione del metallo – o qualunque materiale fosse – contro i polpastrelli, e quasi smisi di sentire il dolore alla schiena.
O forse era merito delle mani di Charles, serrate sotto le mie ascelle per aiutarmi a sollevare il busto. – Mollami – ringhiai d’istinto, scrollando il braccio che non reggeva la Mela per allontanarlo da me. Magari fosse bastato così poco. Non riuscivo a credere che si sentisse davvero in debito con me, ma dal suo punto di vista era logico. Per quanto cercassi di dimenticarlo, quel ragazzo aveva ucciso la madre di mio figlio. Stava solo facendo del suo meglio per rimediare, e non si sarebbe arreso solo perché io gli dicevo di lasciarmi in pace. Lo sentii schioccare la lingua contro il palato, come a dire che dovevo stare zitto e non ribattere. Scrollai in capo in un sospiro, ma accettai volentieri la mano che mi tese per aiutarmi a rimettermi in piedi. – Diavolo, Charles – mormorai tra i denti. Sul suo volto era appena abbozzato un sorriso gentile, di quelli cui era impossibile rispondere male. A meno che non si avesse la schiena dolorante e tesa come una corda di violino e un incontrollabile senso dell’orgoglio, naturalmente. – Non prenderla come un’offesa, ma non è necessario che tu sia così… – La parola che avevo in mente era servile, ma non la pronunciai mai. Temevo potesse ferirlo, ecco. Accennai alla sua persona con la mano, e l’unica risposta che mi diede fu una stretta di spalle, come un bambino.
Al diavolo. Gli rivolsi un sorrisetto complice prima di voltarmi verso Thomas e Connor, intenti a parlottare come massaie pettegole del mio stato di salute. O meglio, Tom era intento a parlottare del mio stato di salute, perché Connor ascoltava e basta, il pugno sano stretto e lo sguardo perso nel vuoto. – Te l’avevo detto che stava bene. Insomma, gli avrà fatto un po’ male alle anche, ma quella è la vecchiaia, giusto? È normale.
– Ti conviene chiudere il becco, Tom – esclamai con il mio migliore tono autoritario, mollandogli uno scappellotto nel superarlo. – Le mie anche saranno quelle che sono, ma ci sento ancora piuttosto bene. – Anche troppo, considerando la notevole quantità di voci che popolavano la mia testa. – Stavi dicendo qualcosa sul modo in cui sono caduto, giusto?
Si massaggiò la nuca con le nocche, il labbro inferiore sporto in una smorfia offesa. – Caduto a dir poco, capo. Cascato come un sacco di patate, questo ti si addice di più. – Lo colpii un’altra volta, le dita a frustrare il suo collo.
– Un altro commento del genere e ridò quest’affare a Connor – gli sibilai nell’orecchio, passando lentamente il pollice sulla liscia superficie della Mela.
– D’accordo, d’accordo, direi che sei un tipo convincente. – Sogghignò, scoccandomi una delle sue solite occhiate da mentecatto. – Per farla breve, non hai visto quella discesina là. – Indicò un punto alle mie spalle con un cenno della testa, e quando mi voltai non potei fare a meno di sentirmi un po’ stupido. Qualche metro più su era ancora ben visibile la porta che avevo aperto con la Mela, ma subito dopo il terreno spariva, crollando in un declivio così ripido da sembrare verticale, pieno di radici, sassi e terra dura. – Quindi sei caduto, hai battuto la testa e io ti ho riportato indietro dal mondo dei morti.
– A ognuno i suoi meriti.
– Fai lo spiritoso, bastardo? – Tom tirò un colpo sull’ampio petto di Connor, proprio come gli schiaffi che aveva tirato a me per riportarmi indietro dal mondo dei morti.
Sollevai una mano in segno di resa. – Finiamola qui, vi va? – E feci un passo avanti. Dovevo continuare, raggiungere qualunque cosa ci fosse alla fine di quel percorso. Lo dovevo a me stesso, a mio padre, che era morto per quello stupido libro sulla Prima Civilizzazione che Reginald voleva così tanto, e lo dovevo all’Ordine. Più che a chiunque altro.
La pietra grigia dalla strana consistenza, quasi metallica, che ci aveva accompagnato nel corridoio precedente continuava a ricoprire il pavimento, aprendosi in sporadici varchi da cui faceva capolino uno strano minerale, simile al diamante, ma nero come la pece; le pareti, invece, somigliavano sempre più a quelle di una vera grotta, una naturale.
Il bello… Il bello è che nemmeno per un secondo mi chiesi che cosa stessi facendo lì. Non dubitai mai. Avrei dovuto avere la modestia necessaria per capire di essermi spinto troppo oltre. Basta. Reginald era l’unica minaccia che incombeva sull’Ordine, e con la sua morte vi avevamo posto fine. Perché proseguire? A quale scopo? Perché aprirlo, addirittura? Avrei potuto semplicemente girare sui tacchi e andarmene invece di preoccuparmi per qualunque cosa si nascondesse dietro quella parete di nuda roccia.
Diavolo, quant’è facile parlare con il senno di poi.
Forse mi dispiaceva per Connor. Aveva smosso mari e monti per procurarsi la Mela, lo avevano addirittura bandito dal villaggio. Sarebbe stato uno spreco non utilizzarla. E a quel punto che cosa ne avremmo fatto? L’avrei abbandonata nella Frontiera, col rischio di farla cadere nelle mani di qualche stupido patriota? Nel migliore dei casi sarebbe rimasto folgorato sul colpo, nel peggiore l’avrebbe venduta a qualcuno, il quale l’avrebbe poi regalata a qualcun altro, e quest’ultimo l’avrebbe poi usata come dote di nozze della figlia, e prima o poi sarebbe arrivata alla persona sbagliata. Un Assassino, per esempio. O Washington.
Quello che dicevo a me stesso era di essere curioso di sapere che cosa nascondesse quella grotta e perché Reginald ci tenesse tanto, perché entrambe le fazioni ci tenessero così tanto. Da sempre l’uomo lotta per cose futili, giusto? Un pezzo di terra, diritti sottoscritti su carte che chiunque può stracciare, ideali stupidi e campati per aria come la libertà, e questi erano solo alcuni esempi. Ciò che il Tempio nascondeva aveva un’attrattiva mille volte maggiore, ed era mio dovere in quanto nuovo Gran Maestro – faceva ancora impressione pensarlo – preoccuparmi di cosa celasse davvero.
Ultimamente sono arrivato a pensare che se anche mi fossi rifiutato di stringere la Mela tra le mani e incastrarla in quell’avvallamento della parete ci avrebbe pensato la Prima Civilizzazione a convincermi, con i suoi consigli suadenti e le sue maniere gentili. Non me ne sarei mai andato di lì senza aver risolto quel mistero.
Pensate ancora che ci si possa ribellare? Cristo santo. Quando una cosa deve accadere, accade e basta. I Precursori – Dio, il Fato, il caso, la Sorte, chiamatelo come vi pare, sapete cosa intendo – se ne fregano della vostra volontà. Pregate solo di non essere mai parte dei loro giochi. Pregate per un’esistenza ordinaria, per una vita semplice che non incroci né Templari né Assassini, non direttamente, almeno. Siate grati per quello che avete, maledizione. Forse vi alletta l’idea di poter riconoscere un nemico da un alleato semplicemente sbattendo un po’ gli occhi e concentrandosi, ma credetemi, non ne vale la pena.
Avrei dato tutto il sangue della Prima Civilizzazione che avevo nelle vene per la banalissima possibilità di scegliere. Decidere se andarsene o continuare il cammino, se diventare davvero Gran Maestro o mollare tutto, se lottare contro gli Assassini o insieme a loro per la tregua che aspettavo da una vita.
Come avevo detto a Reginald, certi privilegi non sono concessi a tutti. – Ehi! – Sussultai così forte che per poco non feci un salto quando Thomas serrò di nuovo la presa sulla mia spalla, la stessa gentilezza di un soldato di guardia al carcere. – Stavo pensando una cosa, capo.
Cristo santo, dovevano sempre stare a pensare? Non potevano semplicemente camminare e guardarsi la punta degli stivali?
Oh, be’. A seconda delle circostanze, era uno dei principali pregi o difetti nel guidare proprio i Templari, e non gli Assassini. – Basta che tu faccia in fretta – dissi tra i denti, la Mela sollevata come una lanterna davanti a me.
– Tranquillo, è solo una domanda. – Strofinai i polpastrelli sulle palpebre, pregando che non fosse un’altra idiozia sulle macchie di sperma che avevo lasciato nel Grande Tempio. – Abbiamo…
Andò a sbattere contro la mia schiena, ma a malapena me ne accorsi. La lunga grotta era finita all’improvviso, e davanti a noi si era aperta l’ennesima stanza dall’aspetto… assurdo. Non esisteva un aggettivo migliore, perché tutto lì dentro era così strano da far male agli occhi. Era una piattaforma. Una maledettissima piattaforma, circondata dal nulla più assoluto e lunga abbastanza da non poterne vedere la fine, sgombra e sviluppata su più livelli, come un palazzo. Non c’era una vera e propria fonte di luce, solo i soliti, stramaledetti solchi nella roccia delle… balconate, sì, potevano essere definite così, delle balconate superiori, colmi di energia azzurra e vibrante.
Mi sentii mancare, il potere di Coloro che Vennero Prima ad allagare la mia mente come l’alta marea. C’eravamo. Eravamo arrivati. – È… – Non sapevo nemmeno che cosa dire. I miei occhi correvano da una parte all’altra come quelli di un bambino, senza sapere su cosa soffermarsi. Non c’era niente che arredasse quella stanza, non nel senso proprio del termine, solo sporadici blocchi di roccia, uno dei quali a formare una specie di scrivania.
– È questo – terminò Connor per me, la voce venata di panico. – Ci siamo.
– Questo? Abbiamo smosso mari e monti per… questo? – Tom fece un passo avanti, grattandosi la testa con aria perplessa. – Non ci capisco più niente, capo.
Strinsi i denti e lo ignorai, cercando di arginare la forza della Prima Civilizzazione. Mi sentivo come se la testa stesse per esplodermi, le pareti del cranio pronte a spaccarsi perfettamente a metà e schizzare verso il nulla in cui galleggiava il corridoio. – Non lo senti? – sibilò Connor, addirittura più acido del solito. – Maledizione, come fai a non sentirlo?
Avrei voluto dare uno scappellotto anche a lui. Non aveva ancora capito? Thomas non era come lui. Non era come me. Non gli scorreva qualche maledetta goccia di sangue risalente a migliaia di anni prima dentro le vene. – Qui non c’è proprio niente da sentire, bastardo – sibilò di rimando. – Solo una gran puzza di fregatura.
Strinsi le labbra in una smorfia scettica. Cristo, non avessi sentito quel dannato pulsare dentro la testa gli avrei dato ragione, perché il Grande Tempio, quello vero, il suo nucleo, non sembrava proprio niente di che. – Tom – sussurrai invece, muovendo un primo, debole passo in avanti. Una sessantina di metri più avanti s’innalzava una scalinata di gradini grigio-azzurri, proprio come la luce che scorreva nelle pareti, o… O il colore con cui gli alleati si illuminavano quando usavo l’Occhio dell’Aquila. – La domanda che volevi farmi. – Strinsi i denti fino a sentirli fremere gli uni contro gli altri. Non importava quanto male facesse, cazzo, il dolore era l’unico mezzo che avevo per tenere il controllo della situazione, per assicurarmi di essere ancora in me. – Falla.
Rimase zitto per un secondo, interdetto, come se non avesse capito bene. – Eh? – sbottò. – Sicuro?
– Assolutamente sì. – Dovevo distrarmi, smettere di pensare ai Precursori, farli allontanare dalla mia mente.
Si comportavano come se potessero possedermi, cambiare i miei pensieri e le mie convinzioni come avevano fatto con quelle di William. E io non volevo. Non gliel’avrei permesso per niente al mondo. – Muoviti – ringhiai. – Non abbiamo tutto il giorno.
– Va… Va bene – brontolò con una stretta di spalle. – Il cadavere. È ancora di sopra, giusto? Non abbiamo minimente pensato di spostarlo o… bruciarlo, o portarlo con noi.
– Ce ne preoccuperemo dopo – replicai tra i denti sbarrati. Gesù, e io che pensavo fosse qualcosa d’importante.
– D’accordo, ma… Per quanto riguarda gli orsi? O i lupi?
– Orsi?
Tom schioccò forte la lingua contro il palato. – Be’, sì. Nel migliore dei casi quando torneremo di sopra la sua carcassa sarà mezza divorata da qualche belva famelica, se non trascinata nel folto di quella foresta di merda. Nel peggiore saremo faccia a faccia con un orso che banchetta della morbida carne delle sue guance.
Charles deglutì così forte che lo sentimmo tutti, gli occhi grandi come piatti sul viso sbiancato. – Non guardarmi così – replicò Tom, – sono solo realista. Come possiamo non averci pensato, eh?
– Come se a qualcuno fregasse qualcosa del suo corpo – sussurrai, i passi che si facevano più pesanti man mano che ci avvicinavamo a quella stupida scala. Sentivo le viscere aggrovigliarsi su se stesse, il cuore che pulsava sotto la lingua.
Non c’era niente di normale in quella grotta. Proprio niente. – L’importante è liberarsene. In qualsiasi modo. E se anche ci fosse un maledettissimo orso, abbiamo quante?, quattro pistole? Non siete capaci di sparare un colpo ciascuno a una gigantesca bestia intenta a banchettare? – Diavolo, mi rendevo conto di quanto suonassi scontroso in quel momento, ma non potevo farci nulla. La paura mi scorreva nelle vene così come l’alcool faceva in quelle di Tom.
– Datti una calmata – grugnì Thomas, le mani sollevate in segno di resa. – Era solo un…
– Haytham. – La mano di Connor calò sulla mia spalla come una benedizione, e quando mi voltai per guardarlo c’era qualcosa di rassicurante nei suoi occhi. Lo stesso terrore che sentivo bruciare nei miei. Non so perché, ma mi diede sicurezza. Era confortante sapere che qualcun altro avesse colto il punto della situazione e non fossero… Sì, tutti intenti a pensare a dei dannati orsi. – È...
Annuii senza nemmeno il bisogno di guardarlo in faccia. La sua voce tesa dal dolore, dalla paura, era più che sufficiente. – Al diavolo – sussurrai con i denti stretti così forte da fare male. – Scusa. È questo posto. È tutta colpa di questo dannatissimo posto.
Tom affondò le mani in tasca e mi superò di un paio di passi, lo sguardo che vagava pigramente lungo le pareti. – Chi l’ha messo in piedi, secondo te? Cioè… Dev’essere roba vecchia, giusto? – Succhiò l’aria tra i denti e lanciò uno sputo nel vuoto oltre la piattaforma, sogghignando nel vederlo sparire nel nulla. – Qualcuno deve aver costruito quest’affare.
– Chiediti piuttosto come hanno fatto. – Connor emise uno sbuffo scocciato, come se non riuscisse a tollerare che qualcuno non credesse nei Precursori.
– Scusa tanto se metto in dubbio qualcosa che non posso nemmeno vedere.
– Questo non ti basta?
– State zitti!
Ebbi la tentazione di scagliare la Mela a terra e guardarla spaccarsi in un milione di pezzi, o meglio ancora, di lanciarla verso una parete e studiare la parabola perfetta che avrebbe delineato fino a precipitare nel nulla, ma non ci riuscii. Non ne valeva la pena. O forse sì. Come avevo potuto davvero credere a quell’idiozia della tregua? Era evidente che non sarebbero mai riusciti ad andare d’accordo. Charles dipendeva in tutto e per tutto da me, Connor e Thomas non facevano altro che stuzzicarsi come cani randagi. Non potevamo funzionare. Ero troppo vecchio per addossarmi la responsabilità di tenerli costantemente sotto controllo, manco fossero…
…i miei figli. Oh, Cristo. – Finalmente! – sbottai davanti alle loro espressioni basite, il volto imperlato di sudore. – Andiamo.
– Dove? – La voce di Thomas era venata di ironia. – Qui non c’è niente, Haytham. – Fu il modo in cui nessuno gli rispose, più che le sue parole, a farmi capire che non era l’unico a pensarlo. Non avevano tutti i torti, maledizione. Che cosa mi aspettavo? Cosa pensavo di trovarci? Un cannone con otto bocche che si riducesse alle dimensioni di un orologio da taschino? Il Manuale del perfetto Gran Maestro?
Mi ritrovai a darmi dell’idiota per la seconda volta in pochi minuti. – Io… – Lanciai uno sguardo disperato alla scalinata che si stagliava proprio lì, davanti a noi, e affondai gli incisivi nel labbro. – Non lo so – ammisi. – Non so cosa dovrebbe esserci qui. Davvero, io… – Mi ritrovai a guardare Connor con una piega patetica nella voce. – Non può essere soltanto questo! – sussurrai. Mi sentivo come se stessi per scoppiare a piangere. Oppure a urlare, urlare come un pazzo contro il dolore nella mia testa e tutto quello che la Prima Civilizzazione mi aveva fatto passare per una maledetta grotta vuota. – Deve esserci qualcos’altro – mormorai, ma dentro di me non c’era più nulla. Avevo perso ogni speranza e strizzavo la Mela in mano come se potessi spezzarla, lame d’energia dorata che filtravano attraverso le dita. – Abbiamo… Abbiamo questa! Se c’è un modo giusto per capire come usarla, è qui dentro. Non può essere tutto qui.
Connor fece spallucce, fissandomi con quegli inespressivi occhi neri. Stanco. Sembrava volesse soltanto uscire di lì, accasciarsi sull’erba della Frontiera e fare una dormita. Non potevo biasimarlo, così come non riuscivo ad arrendermi all’evidenza. Probabilmente era esattamente tutto lì, e se l’avessi creduto… Se mi fossi fidato di quella prima impressione e non avessi continuato per la mia strada sarebbe andato tutto diversamente.
Non potevo. Non ne ero capace. Ero furioso. Con me stesso, perché avevo fatto cacciare Connor dal suo villaggio, l’unico legame che avesse ancora con Tiio, per una stupida caverna. E poi con i Precursosi, quei bastardi dei Precursori che mi avevano riempito la testa di stupidaggini solo per aprire quell’affare. Erano dei sadici? Erano… Non sapevo più cosa pensare. Stringevo la testa tra le mani, continuavo a ripetere che non avrebbero invaso la mia mente se non avessero avuto un vero obiettivo.
Me ne sarei inventato uno, piuttosto che arrendermi in quel modo. – Forse è un catalizzatore. – Mi voltai di scatto verso Connor, gli occhi sgranati sul mio volto. Un… cosa? – Un catalizzatore – ripeté tra sé, come se mi avesse sentito. – Concentra le energie. – Abbassò gli occhi sulla punta dei suoi stivali, il pugno sano affondato in tasca. – Il Nexus – sussurrò.
Non sapevo che cosa stesse dicendo, a essere franchi non me ne importava nemmeno. Ero rimasto fermo alla prima parte. Un catalizzatore. Concentrava le energie, giusto?
Potere. Quell’affare vomitava potere allo stato puro, ne colmava il mio sangue come l’alta marea. – Tu vuoi la pace, giusto? – Si strinse di nuovo nelle spalle, la testa che sembrava voler sparire nel suo torace. – Forse dovresti soltanto… chiedere, ecco.
Chiedere.
Idiota. Ed eravamo a tre.    
Strinsi entrambe le mani attorno alla Mela, il cuore che batteva come un tamburo nel petto. Dal nucleo della Sfera partì un altro potente raggio di luce dorata, filtrando in modo piuttosto macabro sopra il moncherino dell’anulare sinistro. Ci era arrivato prima di me. Sapeva perché eravamo lì, lui, e non capivo perché per tutto quel tempo avessi dubitato di lui. Era un discendente di Coloro che Vennero Prima. Sentiva la loro energia almeno quanto me, quella brusca pressione sotto le pareti della testa, e il fatto che Giunone e Minerva non parlassero direttamente con lui così tanto spesso non significava proprio niente. – Vieni qui– sussurrai. Non so perché glielo dissi. Forse non era nemmeno un mio desiderio, ma qualcosa di diverso, di più primordiale. C’era qualcosa di indistinto dentro di me, forse un avanzo di coscienza – mia, di Giunone, Minerva, Giove, che importava? –, che mi stava suggerendo di coinvolgerlo. Come se non fosse già sempre in mezzo ai miei affari. – Non è un’idea mia – grugnii davanti alla sua espressione stupita. Non era esattamente la verità, ma non potevo perdere altro tempo a spiegargli, non quando la curiosità ribolliva nelle mie vene insieme al sangue. – Credo che c’entrino… – Mi puntai l’indice verso la testa, sperando che capisse quel che volevo dire. I Precursori.
– Allora Minerva aveva ragione – Giunone si risvegliò nella mia mente e levai gli occhi al cielo. Sempre al momento sbagliato, quelli lì. – È proprio intelligente. – Non fossi stato così ansioso mi sarei messo a ridere. Insomma, avevo buttato quasi mezz’ora chiedendomi a cosa diavolo servisse quel posto senza ottenere nemmeno le briciole di una risposta, e ora una di loro si rifaceva viva per dirmi che ero intelligente. Con quel tono da stronza sarcastica, per di più.
Piegai il collo di lato finché non scrocchiò, i denti stretti per impedire a me stesso di cominciare a urlare contro la mia stupida testa, quindi allungai le mani verso di lui. – Toccala. – Mi si chiusero gli occhi, quasi contro la mia volontà. – Immagino sia la cosa giusta da fare – grugnii indispettito, e al diavolo quei tre. Che mi sentissero. Che facessero ciò che volevano. Ero lì perché volevo una risposta da loro, e non avrebbero potuto dire di no. Non quella volta.
Sentii le dita calde e callose dell’indiano accostarsi alle mie, poi la Mela esplose in un lampo dorato così potente che la luce filtrò anche sotto le mie palpebre, annebbiandomi il cervello e facendomi perdere coscienza di me stesso.
Simpatici i colloqui con la Prima Civilizzazione, eh?  
 
La prima cosa che vidi fu il cielo nero, come una grande lastra fatta nella stessa roccia del Grande Tempio. Raggi di luce si unirono nel vuoto per formare una griglia dorata, come una cupola, ogni cella grossa come una finestra della Old State House. – Benvenuti. – La voce di una donna, lì, in mezzo al nulla, per quanto conosciuta, mi fece sobbalzare. Minerva. Che piacere. Ci fu un’altra piccola esplosione e una figura femminile prese forma davanti ai miei occhi, a partire da quella stessa luce: alta, il capo coperto da una specie di… elmo, sì, e i lineamenti duri, da guerriera. Aveva l’espressione fiera di Tiio impressi sulla pelle diafana e  avanzava eterea in un lungo vestito da cerimonia, apparentemente più adatto per un banchetto che per una schermaglia. Ciononostante, sembrava perfettamente in grado di sedersi ad un tavolo con George Washington per discutere di strategie di guerra, e senza dubbio sarebbe anche riuscita a dargli qualche consiglio decente.
Be’, non che ci volesse molto. Probabilmente sarebbe stata impresa facile anche per un oste. – Non capita spesso che la vostra specie entri in contatto con la nostr. Sono eventi rari. Eventi legati al sangue. Al cervello.
Un’altra macchia di luce, un’altra donna si formò qualche passo dietro di lei. Giunone, l’aria più dolce, gli occhi grandi, da madre preoccupata, e i capelli scuri acconciati in due grosse trecce, coperti da una sorta di velo nuziale. Potevo chiaramente immaginarla con un dito sul fianco e l’indice puntato contro di me mentre diceva: “Non si fa, signorino Haytham!”.
Girai la lingua in bocca nel tentativo di raccattare un po’ di saliva, ma qualcosa mi diceva che quello non fosse esattamente il luogo giusto per mettersi a sputare come un bifolco. Oh, al diavolo. Non era certo colpa mia se il passato non mostrava l’intenzione di smettere di tormentarmi. – Sangue. Sacrificio. Abbiamo perso tempo. Non possiamo permettere che accada di nuovo. – Perché parlava in quel modo? Era sempre stata enigmatica, anche nella mia testa, ma mai come in quel momento sembrava lo facesse di proposito, per confondermi le idee. – Avete poco tempo. Il seguace dell’Aquila sa cos’è importante, ma può essere fatto solo da un servo della Croce.
Imprecai a mezza voce, rendendomi conto di poter parlare. Fantastico! – Spiegati – sibilai acido, la voce tremante oltre le mie labbra. Sacrificio? Idea simpatica, senza dubbio, ma no, grazie. – Non mi sono fatto mozzare un dito solo per venire qui e sentirvi parlar figurato. – Come se il dito fosse stata la cosa principale. Avevo ammazzato un sacco di persone per raggiungere quel luogo, avevo praticamente rovinato la vita di mio figlio, e quelle due non facevano altro che blaterare stupidaggini. Avevo tutto il diritto di essere nervoso, giusto?
Una risata risuonò sotto la cupola, maschile, questa volta. Una terza e – speravo – ultima chiazza luminosa prese forma mentre quella risata, cupa e calda al tempo stesso, sfumava lentamente, così com’era iniziata. – Oh, il servo della Croce ha ragione! – Non dovetti faticare più di tanto per riconoscerlo. Ce l’avevo ancora impresso a fuoco nella testa, lui, la sua immagine, la sua stramaledetta voce. E quello che aveva fatto ad Alice. – Potreste anche essere franche con lui. D’altronde, dovrà farlo.
Giove. Il bastardo che mancava al trio, quello che aveva mandato a monte tutti i miei piani, ogni possibilità di essere felice con un’altra donna. Alice era morta tra le fiamme di quel dannato incendio solo per colpa sua. Strillando il mio nome. Era letteralmente impazzita, e tutto perché il più potente di loro tre si era voluto infilare nella testa di una donna… comune, per quanto il termine fosse terribilmente fuori luogo. Lei non era comune, non lo era affatto. Si era insinuato come un serpente nella sua salute mentale. Non avrebbe dovuto sapere niente di tutta quella storia. Non aveva il sangue giusto. L’aveva uccisa, e questo mi bastava per odiarlo nonostante le sue parole fossero a mio favore.
Digrignai i denti, buttando fuori il fiato con i pugni stretti. La situazione cominciava a farmi sentire frustrato, il sangue che rombava nelle vene come dopo uno scontro all’arma bianca. – Fare cosa, per la miseria? – esclamai. – Un po’ di chiarezza non ci farebbe male.
– Aspettate – Minerva si fece avanti sollevando le mani.Lui non è qui per parlare del Sacrificio. Ha delle domande. – I suoi occhi parvero scintillare, come se fosse fiera di me. – Dunque parla.
Giunone le si parò davanti. – Dobbiamo dirglielo. Tutto sarà più chiaro. Questo non è solo un messaggio – aggiunse lanciandomi un’occhiata furtiva.
– Lasciagli porre la sua domanda replicò Minerva con un’occhiataccia che al momento non compresi. Forse ero troppo spaventato, forse semplicemente volevo ignorare la verità. Ero arrivato dove volevo. Potevo chiedere. Potevo sapere. Ed ero troppo stupido per restare cinico anche in una situazione come quella. 
Li vidi voltarsi tutti verso di me, come studenti con le orecchie ritte davanti al precettore. Era il mio momento, giusto? Strinsi le mani l’una nell’altra, presi fiato e cominciai a parlare. – Ho passato una vita intera indeciso tra Ordine e Confraternita. Mi hanno detto di essere un Templare con il cervello di un Assassino, definizione che credo contenga un fondo di verità, e non sono in grado di dire quante volte quell’atteggiamento abbia danneggiato i miei scopi. Ferito coloro che amo. – Sospirai. – Ho passato anni a contatto con entrambe le fazioni, per cui suppongo sia… lecito che io me lo chieda. Sono qui perché voglio una risposta. Perché so che voi l’avete. – Strinsi i pugni, lasciandoli crollare lungo i fianchi. Non ero pronto, il fiato che bruciava come fuoco nel petto. – È possibile unire Templari e Assassini?
Giunone e Giove si voltarono verso Minerva annuendo, come se l’avessero sottovalutata, e lei rispose con un sorriso sornione. – Servo della Croce, è esattamente quello il motivo per cui sei qui. – Avanzò verso di me con i palmi al cielo. – Sai della profezia, scritta molto tempo fa proprio da uno di noi. Un uomo di nome Aita. Morto, come tutti gli altri. I suoi occhi non si mossero, puntati fieramente da qualche parte oltre me, ma mi parve di leggervi un lampo di nostalgia. Ciò che chiedi succederà, servo della Croce. Manca solo un passo.
Deglutii d’istinto, i palmi caldi per quanto li avevo stretti. Ero lì per quello, quello e nient’altro. Volevo sapere cosa mancava, cos’avevamo sempre sbagliato. Qual era la chiave? Dove stava l’errore?
Giunone si schiarì la voce, le labbra strette sotto quegli occhi sgranati da madre apprensiva. Se non ci fossi stato io di fronte a lei avrei quasi detto che fosse preoccupata. – Un sacrificio.
La mia stessa saliva mi s’incagliò in gola, quasi soffocandomi, e Connor – sì, poteva essere soltanto Connor – dovette darmi una manata sulla schiena perché riprendessi a respirare autonomamente. – Cosa? – sussurrai con il palmo premuto sul petto. Non avevo sentito bene. Era… Era impossibile che avessi sentito bene, giusto? – Un sacrificio? – Sentivo la voce roca dentro la gola, come il miagolio disperato di un gatto randagio. – Intendi dire che devo prendere un agnello, sgozzarlo e infilzare la sua testa su una picca davanti all’entrata di questo dannato posto?
Nessuno di quei tre sorrise davanti al mio patetico tentativo di smorzare la tensione. Connor, be’, non me lo chiesi nemmeno. – Niente di tutto ciò. – Come se non ci fossi già arrivato da solo. Poteva darsi che nemmeno io fossi il massimo come interlocutore, ma quei tre riuscivano a risultare tutto, meno che rassicuranti.
Forse perché non era nelle loro intenzioni. – Per permettere ciò che chiedi, è necessario che tu muoia.
Non riuscii a dire nulla. Davvero, era come se mi fosse morta la voce lì, tra le clavicole, in fondo alla gola. La mia unica preoccupazione era guardarla in faccia, notare quanto sembrasse proprio sull’orlo delle lacrime. Oh, non avrei dovuto fidarmi di quel presentimento. Peggio, non avrei mai dovuto fidarmi di loro. Di Connor, del suo stupidissimo catalizzatore. Sarei dovuto scappare quando ne avevo occasione e non venire mai a conoscenza di quella verità. Sempre che lo fosse. Tentai di respirare, la bocca che si apriva e si chiudeva fuori controllo, senza emettere un suono. Non era vero. Non poteva essere vero. Eppure non riuscivo a replicare – Due azioni – proseguì Giunone con quei grossi occhi lacrimosi puntati su di me. – Due facce della stessa medaglia. Un Templare e un Assassino a morire per un’unione. Nella morte e nella vita.
– No – sentii Connor grugnire accanto a me. Ero così sbigottito da riuscire solo a battere le palpebre, i miei occhi che sfarfallavano come quelli di un bambino troppo stupido. – No. Non lo farà. – Si fece avanti allargando le braccia. Voleva proteggermi? Sul serio? Se non avessi avuto un blocco nel petto – la gelida sensazione di aver appena firmato la mia condanna a morte – sarei davvero scoppiato a ridere. – Morirò io. La profezia chiede un Templare e un Assassino, giusto? Li avrà.
Giunone gli lanciò una strana occhiata, quasi affettuosa. – No. Non ci serve un semplice Assassino, né tantomeno un comune Templare. Ci serve. Avrei dovuto capirlo. Quant’ero stato stupido. Il cammino, tutti quei morti, le voci e l’omicidio di Reginald… Se fosse rimasto vivo non mi avrebbe mai permesso di fare una cosa simile. Ce ne saremmo andati senza nemmeno provarci. Riuscivo quasi a immaginare la scena, il cadavere di Connor abbandonato nella Frontiera e il nuovo Ordine pronto a tornare a Boston per festeggiare. Alla maniera di Reginald, s’intende. – Il sangue dell’Aquila e il pensiero della Croce. I rimpianti degli Assassini. Ecco cosa serve per arrivare alla pace e all’armonia cui tutti noi aspiriamo.
Giove prese la parola per la seconda volta. – Esattamente. Templari, Assassini, comuni mortali e noi, nessuno possiede altro desiderio. I suoi occhi dorati si fissarono su di me, caldi e gentili ma opprimenti come quelli di un maestro troppo severo. Un brivido mi salì lungo la schiena solo pensando quella parola. Riportava alla mente brutte esperienze. Da una parte Birch, dall’altra Fayling, e l’ultima volta che l’avevo visto. Insieme a mia madre. Insieme a Tiio. – La tua morte sarà già un primo passo. Templari e Assassini saranno uniti. Con Desmond il processo sarà completato. Devi fare la tua parte.
– Noi ti abbiamo permesso di vivere. Di uccidere. Minerva mi guardò con solennità. – Abbiamo aiutato te e tuo figlio. Giove ha ragione. Devi fare la tua parte.
– Devi fare la tua parte – fece loro eco Giunone. Mi sentivo come se la testa stesse per scoppiarmi, gli occhi brucianti dentro le orbite, e al tempo stesso ero così pieno di rabbia da sentire il sangue battere contro le tempie con la violenza di un tamburo di guerra.
Portai le mani alla testa trattenendo un singhiozzo. Dovevo morire. Dovevo morire. E non riuscivo a farmene una ragione. Sapevo che sarei dovuto andare all’altro mondo comunque, prima o poi, ma non in quel modo. Non per quel motivo. – Una causa più grande aggiunse Minerva.
– Non è un bel modo di morire? – cinguettò Giunone.
Oh, quanti bei modi di morire avevo in mente per loro tre, ma il cuore sembrava scoppiarmi nel petto, saturo di rabbia, sapendo che non avrei potuto attuarne nemmeno uno. Presi fiato piano, i pugni stretti così forte da far male. – Avete detto di avermi permesso di vivere – sussurrai a testa bassa. Se la mia morte non fosse stata alle porte forse avrei ridacchiato, ma quello che mi uscii dalla bocca fu il ruggito stanco di una bestia morente.
Patetico. – Permesso? Voi non mi avete permesso un bel niente! – Stavo alzando la voce, così colmo d’ira che credevo di esplodere da un momento all’altro. – Io non vi devo nulla! – Era impossibile. Non poteva essere vero. Non ero arrivato fin lì solo per quello, coraggio. Non era pensabile.
Forse era vero proprio per quello. – Perché devo essere io a morire? Sono parole scritte chissà quanti anni fa!
– Avremmo potuto ucciderti in qualsiasi momento. Bruciare la tua essenza vitale dall’interno. La smorfia lacrimosa di Giunone era stata sostituita da un sorriso quasi più maligno di quello di Minerva. Avrei voluto trapassarle entrambe con la spada, se solo ne fossi stato in grado. Qualcosa mi diceva che nemmeno la Mela dell’Eden avrebbe potuto molto contro delle stupide chiazze di luce tremolante. – Ti abbiamo lasciato attuare la tua inutile, misera vendetta.
Giove sorrise. – Sarebbe scortese non ricambiare, ragazzo.
Ne avevo abbastanza di quelle idiozie. – Sciocchezze! – tuonai con i palmi stretti. – Che cosa avete fatto realmente? Mi avete permesso di uccidere Reginald perché se avesse avuto lui Tempio, anche solo la Chiave, non avrei potuto affrontare questa dannata follia! Ecco perché quella stupida cosa doveva essere nelle mani degli Assassini, vero? – Ricordavo l’assiduità con cui la conservavano, con cui l’avevano cercata dopo che l’avevo brutalmente strappata dal sotto il loro naso. Senza successo. – Per il mio… successore, chiamiamolo così. – Digrignai i denti come un vecchio cane, eppure lo sapevo. Sapevo di non fare più paura a nessuno, non a loro, almeno. – Non avete mai fatto nulla per me. Non potete costringermi.
Minerva rise, cristallina. – Ah, ma certo che possiamo. Le tue dita e quelle di tuo figlio sono poggiate sulla Sfera. L’energia si diffonde facilmente per contatto. – Per contatto. Mi tornò in mente l’immagine del palmo di Connor, mezzo scuoiato, del volto di Charles contratto in una smorfia di dolore. Avevo afferrato il concetto. – Nonostante le nostre differenze ,abbiamo comunque conservato la medesima… – la sua immagine tremolò. – …fragilità.
Aggrottai la fronte senza capire le sue parole. Qualunque cosa stesse dicendo, non mi piaceva. Mi resi conto solo allora di come non mi fosse mai davvero piaciuto ascoltarli. C’era un intento oscuro dietro ogni loro parola. Ma ero stato cieco. Un maledetto imbecille. Per cui, eccomi lì. – Non puoi uccidermi. Io vi servo. Quindi lasciatemi andare e…
– Hai ragione – intervenne Giunone. – Eppure, per quanto mi dispiaccia, possiamo uccidere tuo figlio. – Gli si avvicinò con un sorrisetto malizioso. – Morirebbe tra atroci sofferenze.
Una parte di me avrebbe risposto “Bene, fa pure”, ma non a quel punto. Non potevo più permettermelo. Il ragazzo si era offerto per sacrificarsi al mio posto, anche dopo che gli avevo rovinato la vita. Mi sentivo terribilmente in debito. Dopotutto, era colpa mia se sentiva quelle voci, se la Sfera gli aveva messo a soqquadro il cervello. Colpa del sangue che dalle mie vene era passato alle sue, della mia dannatissima eredità. – Lui non c’entra nulla.
– E con ciò? – Giunone sfiorò il suo petto con le dita bianche. – Questo non è un ostacolo. Obbedire alle nostre condizioni ti risparmierebbe questo dolore. Succederà in fretta. – Sorrise appena, prima di tornare a guardarmi con quegli occhi lacrimosi. – Rifletti, servo della Croce. Che cosa ti resta? Non hai più nulla.
Mi sentii infiammare dall’interno, tutta la furia vendicativa che non avevo sfogato su Reginald come risorta dentro di me. Come potevano parlare così? Dopo tutte le persone che mi avevano fatto uccidere, tutti gli uomini caduti come vecchi alberi per il loro scopo. Erano solo degli ipocriti, i peggiori che avessi mai visto. – Cosa mi resta? – sibilai acido. – Cosa mi resta, chiedi? Restano due uomini devastati e un ragazzo praticamente solo al mondo, ecco cosa mi resta. Io avevo dei piani, delle cose da fare. – La mia voce non era mai suonata più patetica. Nemmeno davanti a Reginald. – Pensavo voleste aiutarmi, ora capisco. Volete solo usarmi.
Minerva sorrise. – Aiutarti? E per quale motivo? Sopportare e contribuire ai tuoi stupidi piani senza ricavarne niente? Tu sei un predestinato. Otterrai molto di più morendo che non proseguendo in quest’impresa. Se non lo farai, non avrai mai ciò che vuoi. Non ci sarà mai un’alleanza, mai la pace. E morirai come ogni altro uomo del mondo, insoddisfatto nonostante tutti i tuoi sforzi.
– Andate al diavolo – grugnii sputando a terra. – Un predestinato? – Mi ravviai i capelli con le mani senza sapere che cosa pensare, che cosa fare. – Merda, che siate maledetti.
– Morirai per una buona causa, no? – fece Giove. – Un bene più grande. Nel futuro.
Scrollai le spalle. – ‘Fanculo. – Ero sempre un subordinato, anche quando pensavo di vincere. Ero riuscito a liberarmi di Reginald, Cristo santo, e ora dovevo sottostare alle folli volontà di quei tre. – Fatemi almeno dir loro due parole. – Nemmeno per un secondo pensai alla concreta possibilità di ribellarmi alla loro volontà. Mi tenevano per le palle come la migliore delle prostitute, e forse non avrei dovuto fidarmi di loro, ma avevo visto Tom, Connor e Charles insieme. Non sapevo quanto sarebbero riusciti a fare in concreto. Forse… Inspirai piano. Forse tutto quello che serviva loro era un intervento divino, o qualcosa del genere.
Poteva non essere la scelta sbagliata. Ma come con tutte le scelte, non si può sapere finché non la si compie.
Mi sembrava di non riuscire più neanche a respirare.  
Giunone si scostò da Connor, un sorrisetto di nuovo aperto sul viso. – Ti è concesso, servo della Croce. Quando il momento arriverà, però, non potrai più tirarti indietro.
Ridacchiai. Solo un folle poteva ridere in un momento del genere, e non mi ero mai sentito meno sano di mente. No. No, non ero pazzo. Disperato. Quello sì. Colmo fino alla punta dei capelli di dannata disperazione. – Ho mai avuto scelta?
L’ultima cosa che vidi prima che la grata si dissolvesse fu un sorriso sul volto di Minerva, luminoso nonostante non mostrasse i denti. Come la scia di una cometa, ecco.
Bastardi.
 
Thomas Hickey e la sua mano tesa verso di me non furono questo granché come prima visione dopo l’annuncio della mia morte. – Ben svegliato, capo – esclamò, aiutandomi a tirarmi su. – Come è andata? Hai avuto le risposte che cercavi? Posso andare a farmi una birra?
Charles Lee, un pallido spettro accanto a lui, gli riservò uno sguardo di disapprovazione. Quei due non erano mai andati d’accordo, ma erano forse gli uomini dell’Ordine più leali a me, oltre ad essere gli unici rimasti in vita. – Magari dopo, Thomas. – Non potevo lasciarli così, senza nessuna spiegazione. La meritavano. Cristo, meritavano mille volte di più, altroché. – Devo fare una cosa.
Vidi Charles sbiancare ancora di più, se mai fosse stato possibile, la mascella contratta in una smorfia di terrore. – Una cosa? – chiese Thomas. – Che significa, Haytham?
Grugnii mentre mi sfilavo la redingote appesantita dalla Sfera di Cristallo, trasferitasi nella mia tasca per chissà quale motivo, e la lasciavo scivolare a terra, arrotolando rapidamente le maniche della camicia. Su quelle braccia c’era tutta la mia vita. Ferite, lividi, il buchetto cicatrizzato del patto di sangue che avevo stretto con Thomas Hickey in nome della sua fedeltà, i segni più chiari sull’avambraccio fasciato costantemente dalla lama celata.
Tutti quei ricordi.
Avevo bisogno di pensare. Respirare. – Cosa volete fare? – Charles sembrava spaventato, e non faticavo a comprenderlo. L’uomo che aveva rovinato la vita ad entrambi giaceva morto da qualche parte sopra le nostre teste, probabilmente mezzo divorato da un lupo. Ammazzato con le mie stesse mani, la testa sbattuta a terra finché l’osso non si era frammentato, formando una morbida ed appiccicosa concavità, il suo sangue che imbrattava copioso il pavimento del Grande Tempio.
Connor, pallido, scosso e steso accanto a me, si alzò di scatto per avvicinarsi a loro. Erano tutti e tre spaventati – terrorizzati, oserei dire –, e avrei dato tutto l’oro del mondo perché i loro sentimenti potessero salvarmi, ma era imposibbile. Avevo un compito, un compito che, purtroppo, soltanto uno di loro poteva capire. – Portate via il corpo, quando tornerete su – sbuffai, giocherellando con la Chiave infilata nella tasca dei calzoni. – E allontanatevi un po’.
– Mastro Kenway, cosa volete fare? – ripeté Charles, la pelle bianca e sottile come pergamena, tesa sul suo viso smunto. Il mio ragazzo ridotto ad uno straccio, mentalmente distrutto. Almeno avevo salvato una buona parte della sua vita. Mi sforzavo di convincermi che fosse così, di aver fatto almeno qualcosa di buono per qualcuno che non fossi io. 
– Kenway, non fare l’eroe – sibilò Thomas contrariato, probabilmente leggendo tra le righe del mio sguardo. Lo ignorai, lanciando uno sguardo d’intenti a Connor. Lui aveva sentito le parole di Minerva, Giove e Giunone, poco prima.
Sospirai. Mi capiva e, cosa più importante, non credevo fosse poi così affezionato a me. Proprio ciò che serviva per lasciarmi agire. – Connor, giurami che spiegherai loro la situazione, d’accordo? Adesso andatevene – sussurrai, le labbra strette in una smorfia addolorata. – Per favore.
Charles mi afferrò per un braccio. – Che cosa sta succedendo, Haytham? – chiese con tanto d’occhi. – Mi avete salvato la vita, ho il diritto di saperlo. – Ancora con quella stupida storia. Al diavolo. Forse io gli avevo salvato la vita, ma come poteva non rendersene conto? Soltanto lui poteva dare un senso alla mia morte.
Scrollai l’arto per levarmelo di dosso, il cuore che sembrava esplodermi nel petto.
Non pensavo potesse fare così male. Avevo visto un sacco di cose, credevo di aver sofferto in tutti i modi in cui un uomo poteva soffrire. Invece no. C’era qualcosa di peggio. C’è sempre qualcosa di peggio. Come guardare nei suoi occhi e vederli così spaventati, gonfi e lucidi per le lacrime, e non poter fare niente per consolarlo. – Thomas, Charles, ho bisogno che mi facciate un favore. – Deglutii, cercando la forza necessaria per dirglielo. Non ero pronto. Molto probabilmente non lo sarei stato mai. – Io sto per morire. – Uno strano senso d’inadeguatezza mi trapassò il petto come una pugnalata. Mi sembrava di averlo detto con lo stesso tono con cui avrei potuto annunciare che uscivo per fare una passeggiata. Io sto per morire. Chi viene con me?
Volsi lo sguardo dall’altra parte della piattaforma di roccia, quella oltre le scale, apparentemente senza fine, nel patetico tentativo di controllarmi. – Sarete voi tre soli, ora. – Ecco, le cose serie. Quello era ciò che contava davvero. La tregua. Ciò per cui avevo lottato fino ad allora. – Voglio che lavoriate insieme. – Guardai Charles e Tom con le lacrime che bruciavano contro i dotti. Non ce la facevo più. – Cercate almeno di non ammazzare il ragazzo un secondo sì e l’altro pure, d’accordo? – Mi sforzai di abbozzare un sorriso, ma nessuno di loro mi assecondò. – Può essere complicato, ve lo garantisco.
Persino Thomas Hickey sbuffò, l’aria sciupata, e incrociò le braccia sul petto, le mani strette sotto le ascelle. – Haytham, io non me ne vado finché non dici chiaro e tondo cosa ti è successo quando avete toccato quella roba. – M’indicò con aria accusatoria, il capo bruscamente reclinato. – Tu… Cazzo, tu non puoi morire! Siamo arrivati fin qui, io non posso accettare che tu lo faccia. 
Lo guardai negli occhi, più serio di quanto fossi mai stato in tutta la mia vita. – Connor sa tutto. Fattelo spiegare da lui. Credimi, Thomas, quando dico che resterei anche altri mille anni qui a raccontarti questa storia – Qualunque cosa, pensai, qualunque cosa pur di rimanere in vita, – ma non posso. Non ora.
Sostenne il mio sguardo con uno strano cipiglio, quasi serio. Aveva capito? Riusciva a comprendere sebbene non gli avessi spiegato nulla? Non avevo tempo, non avevo tempo per niente. La verità è che non volevo fossero lì. Non volevo mi vedessero morire. Dovevano essere via, lontani, faccia a faccia con la loro nuova vita.   
– Haytham! – gemette ancora Charles, alle spalle di Thomas. Aveva gli occhi colmi di lacrime e una smorfia da bambino disperato impressa in volto. Dio, perché? Perché quel ragazzo doveva rendere le cose ancora più complicate? – Io…
Scrollai le spalle e abbozzai un sorriso triste, passandomi una mano tra i capelli. Non c’era bisogno che dicesse altro. Sentire la sua voce, o peggio, le sue scuse, avrebbe solo reso tutto mille volte più difficile. La mia non era un’impresa facile, e nonostante tutto non volevo che i Precursori l’avessero vinta su ogni fronte. Non l’avrei sopportato. Non potevo lasciare a Minerva, Giove e Giunone il controllo su tutta la mia vita, su ciò che avevo faticosamente seminato in più di quarant’anni.
In fondo, il fatto che non ci fosse mai stata un’alleanza vera tra Assassini e Templari non significava che il tempo passato con Connor fosse stato sprecato. Niente escludeva il fatto che loro tre dovessero quantomeno provarci. Se non per loro stessi, almeno per me. In nome del sacrificio che stavo per compiere, sant’Iddio.
Dovevo pur sempre arrivare al mio scopo. Del futuro non m’importava niente, diavolo, era lì, era quello il momento più importante. I giorni, i mesi a seguire. Non potevo arrendermi senza ordinare loro di provarci. Era l’unica maniera possibile per raggiungere ciò che volevo davvero, ciò per cui la Prima Civilizzazione mi stava uccidendo e usando.
Per nulla al mondo quei tre avrebbero dovuto toccare Connor. Non doveva succedere, o i miei non avrebbero avuto nessuno con cui stringere alleanza. Strizzai gli occhi, deglutendo a vuoto. – Credo sia meglio salutarci – sussurrai, cercando i loro occhi con il terrore che rombava nel mio petto. Dio, non volevo accadesse, non in questo modo. Non avevo altra scelta, e tutto perché loro non avevano voluto darmela.
Connor aveva gli occhi lucidi, e avendo sentito ogni parola detta da quei tre, be’, immagino fosse più pronto degli altri due ad accettare la realtà. Non avevano praticamente più parlato, dopo quella rivelazione. Sto per morire. – Haytham – sussurrò mio figlio, il corpo teso verso di me. – Papà…
Mi raggiunse e mi cinse con quelle braccia enormi, le mani grandi come pale sulla mia schiena, la sua testa sulla spalla. Mio figlio mi stava abbracciando. Mi aveva appena chiamato papà. Solo quand’ero in punto di morte, notai con un sorrisetto. Non avrei mai avuto la possibilità di fare lo stesso con lui, di vederlo padre, di vederlo su un letto a tossire e trarre i suoi ultimi respiri. Sollevando le braccia per stringerlo, fui travolto dal rammarico. Il figlio che avevo sempre maltrattato e si era offerto inutilmente per me adesso era lì. Mi abbracciava. Mi voleva vivo. Forse aveva finalmente accettato la verità, che non avevo ucciso sua madre – non direttamente né in modo intenzionale –, forse mi aveva perdonato. Forse…
Ah, quando sei in punto di morte hai pensieri confusi. Bontà, cattiveria, passato e futuro girano in tondo senza un senso logico, si è così colmi di paura e… e consapevolezza, in un certo qual modo.
In quel momento desiderai follemente credere in Dio, tanta era la paura che vibrava dentro di me. Una fede positiva e un po’ di ingenuità, a tanto così dalla morte, per quanto le disprezzassi, potevano anche essermi utili.
Quella notizia e l’idea di doverli salutare per sempre mi avevano scombussolato al punto che d’istinto avvolsi le braccia intorno al suo corpo per stringerlo a me, come non avevo mai fatto in tutta la vita. – Mi dispiace – singhiozzò il ragazzo. Stava piangendo. Sorrisi tristemente. La solita femminuccia. – Pensavo che potessimo andare d’accordo, dopo tutto questo. Io… – S’interruppe, la voce spezzata. – Non volevo finisse così. Non volevo. – Affondò la testa nel mio petto, quel bestione di ragazzo. Dio. – Mi dispiace, Haytham. Mi dispiace così tanto.
Sorrisi. – Sai che non ho ucciso tua madre, vero? – Non il massimo, in confronto a quanto aveva appena detto lui, ma non sono mai stato un uomo facile agli addii. Ridacchiò tra le lacrime, stretto alla mia camicia sporca di sangue. – Solo per puntualizzarlo.
Non avevo ucciso lui, nonostante ne fossi stato tentato. Come avrei mai potuto uccidere la donna che amavo, che l’aveva messo al mondo? – Io non voglio più combattere, Haytham. Se le loro voci… Se tornassero? – Era terrorizzato, la voce sottile come quella di un bambino. – Non voglio più.
Sospirai. – Per questo serve che collaboriate. Dovete farlo. Un’alleanza. – Perché Haytham Edward Kenway deve sempre dimostrare di avere ragione, o almeno provarci. Anche quando sull’altro piatto della bilancia di sono tre spiriti millenari e quasi onnipotenti, a quanto dicevano. – Promettimi che ci proverete – sussurrai nel suo orecchio. – Anche se so che le tue promesse valgono come quelle di un marinaio sbronzo, tu promettilo.
Annuì, e per il momento mi bastò. Lo lasciai andare piano, battendogli una mano sulla schiena. – Non il massimo come ultime parole, ma non dimenticare di riferirle agli Assassini. So quanto alla tua piccola Confraternita piaccia questo genere di cose. – Sapevo che era un addio penoso, anche di più, e sentii un peso sprofondarmi nel petto al pensiero di ciò che avevo appena detto. Gli Assassini. Non sapevo se avessero altri adepti in giro per le Colonie, ma uno degli ultimi Assassini che conoscevo era morto nel suo letto dopo che lo avevo pugnalato a morte. Che razza di stupido. – Oh, e tieni questa. – Sfilai la Chiave del Grande Tempio, quella schifosa medaglietta verde che ci aveva procurato solo guai, e gliela spinsi in mano. – Era ciò che volevi, no? – sussurrai con un sorriso. Aveva gli occhi lucidi. Oh, maledizione, per una volta che non volevo farlo piangere. – Su – mormorai. – Tranquillo.
Feci un paio di passi indietro con un sospiro. – Charles, Thomas, un secondo. – Buon Dio, ora arrivava la parte difficile.
Il mio socio e il ragazzo che per me era come un figlio si avvicinarono, ognuno con il proprio modo di approcciarsi alla mia morte, Thomas ringhiante, Charles con gli occhi colmi di lacrime. – Siete stati la mia famiglia – dissi sentendo un groppo formarsi nella mia gola. – Senza di voi non so dove sarei. Tom, sei sempre stato disponibile quando avevo bisogno. Quando non c’era nessun altro. – Be’, anche quando si era trattato di scoparsi la mia donna, scommettere sulla vita del ragazzo con cui lo stavo abbandonando e allagare la Frontiera a forza di tenere la mano nei calzoni, ma decisi di omettere quella parte. – Non hai avuto paura di metterti contro Reginald. E te ne sono grato. – Il sogghigno che per un attimo incurvò l’angolo della sua bocca fu abbastanza per farmi capire che sapeva esattamente quanto mi avesse fatto cagare addosso con quella mossa. Glielo si doveva riconoscere, aveva ragione. – Charles, tu sei stato mio figlio per tutti questi anni. Io… – Scrollai il capo senza sapere bene come andare avanti. Non volevo suonare patetico o… sdolcinato, ecco. Volevo soltanto che capisse quanto tenevo a lui. Quanto gli avevo voluto bene. Gliene avrei voluto per sempre, era una certezza. Strinsi la mano bianchiccia di Charles Lee tra le mie, sentendolo sussultare. – Vi auguro il meglio. Seguite i miei ordini e non dimenticate mai per cosa si battono i Templari. Per cosa ci battiamo davvero. – Senza rifletterci troppo, allungai le braccia verso Charles e lo cinsi in un abbraccio. L’abbraccio che avrei voluto ricevere da mio padre prima di vederlo impalato nella stanza dei giochi, lungo, intenso, il suo fiato disperato contro il mio collo.
Non era poi tanto giusto trattarlo così davanti a Connor. Lo so. Che avrei dovuto fare? Pretendere delle scuse per aver dato della puttana a Tiio? Per averla ammazzata, per non essersi ribellato a Reginald fin dall’inizio? Perché? Perché rovinare quel momento con patetici convenevoli che non servivano a nessuno, di grazia? 
Volevo solo stringerlo a me, sentire che non aveva più paura e che il suo culo era al sicuro. Almeno finché Tom non avrebbe avuto di nuovo voglia di sfogarsi su di lui, ovvio. 
Quanto avrei voluto non lasciarlo andare, stringerlo fino a dimenticare la fame e la sete. Dimenticare persino di essere vivo, e solo per evitare la morte. 
Che razza di egoista, eh? Potevo sentire il respiro di Charles affannato dai singhiozzi, le lacrime bagnarmi la camicia e scivolarmi sulla pelle come un regalo d’addio. Allontanarmi da lui fece molto più male, come se mi avessero staccato una gamba. L’avevo appena ritrovato. Non avevo nemmeno avuto il tempo di chiedergli cosa avesse passato. Come poteva la Prima Civilizzazione essere così cattiva? Non aveva pietà di me? Pietà di noi?
Charles non si arrese. Forse non l’avrebbe mai fatto. Sentii le sue mani stringersi sulla mia camicia, quasi rabbiose. – Lo farai davvero? – sussurrò. Sembrava davvero un orfanello abbandonato a se stesso.
E, di nuovo, io non sapevo che rispondere. – Ricordate ciò che vi ho insegnato – ripetei in un sussurro, ignorando la sua domanda. Mi sentivo un grandissimo bastardo. Non riuscivo neanche a salutarli con un minimo di dignità in più. – Mi siete rimasti fedeli e… vi ringrazio.
Thomas Hickey, un angolo delle labbra piegato all’ingiù in una smorfia e gli occhi piantati nei miei, poggiò una mano sul petto di Charles, spingendolo via senza troppa gentilezza. Non aveva intenzione di essere un succube, lui. Fortunatamente non ero riuscito a passargli anche quello. – Perché lo stai facendo, Haytham? – chiese, quasi intimorito dalle mie parole. Come se avesse visto fin troppe persone andarsene in quel modo.
Poggiai la mano sulla sua spalla, e per un secondo pensai che se la sarebbe tolta di dosso con una scrollata, ma non lo fece. Non abbassò nemmeno lo sguardo. Thomas. – Devo farlo. Non dipende da me, Tom. È la mia… – Sorrisi appena nel dirlo. – È quanto ho ottenuto per aver ucciso Reginald. Come se fosse stata una gentile concessione.
Scosse la testa. – Da parte di chi? Stai dicendo che tutte le dannate storielle di Reginald sui Precursori…
Non riuscii a trattenere il ghigno davanti alla sua espressione divertita. – Più vere di quanto lui stesso potesse immaginare.
Aggrottò la fronte senza sapere esattamente che cosa intendessi, ma non gli lasciai il tempo di porre altre domande. Non avevo più la forza di rispondere. Gettai le braccia intorno al suo corpo e strinsi anche Tom, quell’uomo con più alcool che anima in corpo, dalla facciata arrogante, e nonostante ciò una delle migliori persone che avessi mai conosciuto. Sorrisi d’istinto, sciogliendo l’abbraccio per un secondo. – Pensavi davvero tutto quello che hai detto a Reginald? – sussurrai, le mani sporche di sangue strette sulle sue. – O questa è solo l'ennesima balla per impedire che ti ammazzi? 
Prese un sospiro. Aveva gli occhi lucidi, quel ragazzone perverso. – Gesù Cristo, Haytham, pensavo di avere questa conversazione davanti a una cazzo di birra, non... – Scosse il capo. – Non in questo modo.
Non sapendo che stai per tirare le cuoia, ecco cosa intendeva. – È andata così, Tom, quindi parla. – Non volevo sentire altro che la verità. 
Inspirò. – La storia del non uccidere era una cazzata. – Annuii. E io sono stato uno stupido a non averlo capito. Certo. Thomas Hickey smetteva di fare il tagliagole, Connor era bianco e la luna era fatta di formaggio. – Ma tutto il resto no. Credimi. Non vedevo l'ora che quel bastardo morisse. Voi... – scrollò le spalle, – siete un po' come tutto quello che ho. 
Mi faceva piacere sentirlo, ma in quel momento non provavo niente. Desideravo solo che tutto finisse. – E non  voglio che tu muoia, Kenway. Rinuncia a questa stronzata. – Scossi il capo senza una parola. Avesse saputo che non potevo… – Tu... Tu non puoi lasciarci così. 
Non era una scelta, Thomas. – Insomma, io... dovrei badare a Charlie e al ragazzo? È...
Sorrisi, le mani strette sempre più forte sulle sue. Ero lì e volevo sentire di esserci davvero, di essere vivo, e che era vivo anche lui. Almeno per quei pochi minuti, volevo godermi la sensazione delle sue mani sporche di sangue, di quel fiato di birra che non avrei mai più sentito, dell’ansia e preoccupazione nei suoi occhi. E, al tempo stesso, non era così che volevo ricordarlo.
Malgrado tutto ciò che possiate pensare, Thomas Hickey era uno psicopatico figlio di puttana, schietto, folle, il peggior bastardo che abbia mai conosciuto. Ed era quello il Tom che avrei portato nella tomba. Il cane che beveva, scopava e tirava fuori nei momenti meno opportuni alcune delle battute più divertenti che abbia mai sentito. – Andiamo, Tom – sussurrai inclinando il capo da una parte, – gli hai già messo una mano tra le chiappe, avete raggiunto la confidenza necessaria. 
Tom sbatté forte le palpebre e tirò su col naso mentre lo stringevo a me come fosse un figlio e lui serrava la presa sulle mie scapole, per non lasciarmi andare. Era stato il ramo traditore, pervertito, stronzo e furbo della nostra malsana famiglia di Templari, e gli avevo voluto bene. Non piangeva nemmeno. Era fatto così, e Dio solo sa quanto l'apprezzassi per questo. – Mi dispiace, capo – sussurrò. – E scusami. Mi dispiace tanto. 
Che si fottessero le scuse. Non me ne fregava più niente. Annuii con violenza e gli diedi una pacca sulla schiena mentre mi staccavo da lui. Con chi sarebbe andato a puttane, ora? Chi avrebbe bevuto il grog con lui? Avrebbe dovuto umiliare Connor da solo.
Era il fratello che mi era sempre mancato, e lasciarlo andare faceva male. Un cazzo di male al petto che sembrava invadermi come una marea. Forse mi verrà un infarto prima di portare a termine questa follia.
Mi sarebbe piaciuto far loro un paio di raccomandazioni, dire che sarebbe andato tutto bene, ma in quell’istante la Sfera di Cristallo rotolò fuori dalla tasca della redingote abbandonata a terra lanciando lampi d’abbagliante luce dorata. Con le mani davanti agli occhi, finalmente riuscii a deglutire – mandando indietro anche un bel po’ di lacrime che spingevano con tutta la loro forza per sgorgare – e mi chinai per afferrare la Mela tra le mani. – Mi dispiace, Thomas – dissi mostrandogli la cicatrice del nostro patto di sangue. – Non c’è più tempo. Proverai a portare avanti ciò che ho iniziato?
La Sfera nella mia mano sinistra continuò a lampeggiare come una miriade di fuochi d’artificio. Oltre Thomas giunse alle mie orecchie il primo urlo di Charles Lee. – Haytham!
Abbassai il capo. Era giunto il momento, quindi. E che potevo farci? – Portate via il corpo – ripetei indicando il soffitto con un cenno della testa. – Non restate qui. Per favore. Andate via.
Lo sguardo di Thomas si colmò di terrore, le labbra aperte in un perfetto cerchio traboccante stupore. Salii le scale alle mie spalle, due gradini per volta, cercando di allontanarmi il più possibile da loro. Quando mi voltai, sulla sommità, intimai loro di andare via, ancora una volta, la mia testa che si muoveva appena mentre i lampi si facevano sempre più forti.
Indietreggiarono senza mai voltarmi le spalle. Sembrava mi giurassero fedeltà anche nella morte.
Ripensai tristemente alla mia vita. Nel momento peggiore, probabilmente.
Ero soddisfatto di quanto ottenuto?
A voi posso dirlo. Mentirei se rispondessi di sì. Ero spaventato, arrabbiato, deluso. Mi avevano spezzato. La Prima Civilizzazione aveva completato l’opera di Reginald sottomettendomi completamente. Non mi avevano dato nessuna scelta, ero stato ingannato per una vita intera, usato come un mulo fino a diventare troppo vecchio o a raggiungere il momento perfetto per uno scopo migliore.
Dannazione, ero riuscito a far faticosamente collaborare due Templari e un Assassino, o almeno ci speravo, ma per quanto sarebbe andata avanti? Per quanto? E Coloro che Vennero Prima avevano ragione? Se quel sacrificio avesse davvero permesso un’alleanza duratura, per chissà quale grazia di Dio?
Con un mezzo ghigno pensai che non sarei stato lì per vederlo, in qualsiasi caso. Quindi qual era il senso di quell’azione? Osservai Thomas Hickey trascinare Charles e Connor verso il corridoio da cui eravamo venuti, lo sguardo gettato oltre la spalla, per tenermi d’occhio.  
Tom. Il lavoro sporco alla fine toccava sempre a quelli come noi.
Cercavo di riflettere, di dare un senso ai miei ultimi minuti di vita, ma stava accadendo tutto così in fretta, cazzo. E come se non bastasse, Minerva, Giunone e Giove sentenziarono direttamente dai meandri della mia mente, fermando quell’ondata di luce e parlando con voce solenne, che stava per finire tutto – o cominciare? Boh. A ‘fanculo la filosofia spicciola. Non anche mentre muori, per carità di Dio.
Lanciai un’occhiata ai tre uomini che mi avevano accompagnato fino alla fine di quell’impresa, e mentre li guardavo con le macchie nere lasciate dai lampi di luce che danzavano davanti ai miei occhi qualcosa si fece strada dentro di me. La consapevolezza mista a paura di cui parlavo prima, ricordate? Stai per morire, mugugnò dall’interno. Stai per morire.
Non volevo esserne sicuro. Non volevo accettarlo in quel modo, senza combattere. Mi stavo sforzando di restare calmo e mantenere un atteggiamento imperturbabile, ma per quanto i miei occhi fossero quasi fuori uso le orecchie funzionavano benissimo, esattamente come la mia testa. Che non aveva intenzione di lasciarmi in pace, nemmeno in quegli ultimi istanti.
Tiio, tua madre, Alice, tuo padre, Holden, Jenny, tutti quanti. Li rivedrai tutti.
Mi venne quasi da ridere. Non era quello il mio piano. Non era mai stato quello. Non volevo morire a cinquant’anni solo per qualcosa che si sarebbe verificato in futuro, ma che potevo farci, a quel punto?
Non credevo alla frottola che morire per qualcosa da giovane fosse meglio che morire senza ideali nella vecchiaia, ma non potevo comunque porvi rimedio. Il calore di quei lampi luminosi aveva in qualche modo fatto aderire la Mela alle dita della mia mano sinistra, come vi fosse incollata. Non potevo nemmeno buttarla a terra, provare a distruggerla in un ultimo, disperato tentativo di salvarmi la vita per scappare da quei tre bastardi. – Stai tentennando – sibilarono quelle serpi nella mia testa.
Lanciai un ultimo sguardo preoccupato a Thomas Hickey e Connor. Stavano trattenendo Charles per braccia, insieme, un Templare e un Assassino. Dio, quella scena poteva anche apparire divertente, ma Charles si era voltato verso di me e stava urlando con gli occhi pieni di lacrime, lo sentivo, lo coglievo nel suo sguardo e nella sua espressione disperata. E sapevo perfettamente che anche gli altri due erano tentati di comportarsi allo stesso modo.
Non potevano impazzire. Dovevano mantenere la calma. E dovevo farlo anche io, per poter compiere quel passo. Non avrei avuto il cuore leggero affrontando la tempesta che stava per abbattersi su di me, ma potevo fingere di averlo. Creare una facciata sperando che fosse qualcosa di veloce.
Abbassai gli occhi e mi sforzai di assumere un’aria pronta. Li salutai tutti e tre un’ultima volta, con un timido cenno della testa, e vidi Charles liberarsi furiosamente dalla presa degli altri due, spingerli indietro e correre verso di me con una lentezza innaturale, scavalcare i gradini delle scale come se l’aria fosse fatta di melassa.
Sorrisi tristemente. Charles. Alla fine non ero stato stupido a fidarmi di lui, perché era solo un ragazzo succube tenuto stretto per i mutandoni dal proprio Gran Maestro, così come lo ero stato io. Gli avevo salvato la vita, impedendogli di fare la mia stessa fine, e stavo morendo.
Come mio padre era morto davanti a me.
La Mela non mi lasciò vivere per bene neanche quel momento. Vibrò tra le mie dita e riprese a brillare, l’intervallo di tempo tra i lampi sempre più ridotto. Vidi con i miei occhi una lastra di vetro chiaro formarsi tra noi, Charles che sbatteva la mano sopra quell’affare, e il viso, senza più voce, la fronte poggiata al vetro creato lì come per magia e i capelli che gli ricadevano flosci ai lati del volto, la bocca piegata nell’espressione più dolorosa che avessi mai visto. Urlava, le lacrime a scorrere come fiumi lungo il suo volto. Thomas berciò qualcosa a Connor e  insieme riuscirono a staccarlo di lì mentre la Sfera nella mia mano emanava lampi gialli come il sole. Si voltarono a guardarmi un'ultima volta. Come avrei voluto che non fossero mai venuti con me, che non avessero dovuto assistere a una scena del genere. Non volevo lasciarli. Non in quel modo. 
Quando sparirono oltre la prima curva del corridoio, solo allora la Mela decise di spegnersi. La strinsi più forte sotto le dita, sentendola fredda come il ghiaccio. Ero rimasto solo. C'eravamo io, la Sfera e i Precursori, lì da qualche parte. 
Presi fiato. Mi sarebbe piaciuto oltraggiare quel luogo e perdere tempo pisciando contro la parete di vetro, ma non avevo lo stimolo. Maledizione. Non c'era più nulla che potessi fare per evitarlo, quindi... be', che accadesse. 
Mi sforzai di respirare, pensando di essere pronto. Facendo del mio meglio per sembrarlo, nonostante non ci fosse più nessuno per cui mantenere la dignità.
A parte me. Quei tre bastardi avevano giocato con la mia vita e morte come e quanto volevano, non avrei permesso loro di prendermi per il culo anche mentre spiravo. Drizzai la schiena. Sarei morto da idiota, ma almeno facendo la mia figura. Senza crollare. Nutrivo fiducia solo in quel pensiero, mi ci affidavo completamente, cercando di nutrirmene per sedare la fossa gorgogliante piena d’ira che s’ingrandiva nel mio corpo.
Espirai. Ero sicuro che sarebbe andato tutto bene, che non mi avrebbero spezzato. Non gliel’avrei mai permesso.
Ammetto che rimasi di quell’idea. Per circa cinque secondi.
Finché la Sfera non liberò un’altra esplosione di luce accecante e dorata, quella definitiva.
Finché non arrivò, insieme a un calore così ustionante da far scoppiare la mia pelle in innumerevoli bollicine e la luce in grado di bruciarmi la cornea, il dolore.
Devastante come un maremoto, peggio di diecimila dita mozzate da una pietra affilata nello stesso momento. Un incendio divampante all’interno del corpo, ogni cellula come sciolta nel più potente acido del mondo. E niente grog che potesse darmi sollievo, soprattutto.
 Avrei voluto urlare fino a strapparmi le corde vocali, piangere tutte le lacrime disponibili, strapparmi ogni ciuffo di capelli e cavarmi gli occhi a mani nude perché tutto finisse, ma non potevo, paralizzato com’ero in un terrificante gorgo di dolore.
No, non semplice dolore. Era quanto di più terribile avessi mai provato.
Agonia.
  
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