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Autore: Ghevurah    19/02/2015    6 recensioni
Una piccola raccolta di altrettanto piccole storie. Storie d’amore e desiderio, possibili e impossibili, canoniche e non.
- Beren a Lúthien
- Thranduil a Thorin [NB: questo capitolo presenta l'avvertimento "dub-con" in relazione alla coppia Thranduil/Thorin]
- Maeglin a Idril
- Sauron a Melkor
- Faramir a Éowyn
- Túrin a Beleg
- Andreth a Aegnor
- Fingon a Maedhros
- Nerdanel a Fëanor
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Elfi, Maiar, Nani, Uomini, Valar
Note: Lime, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Fandom: Il Silmarillion
Rating: R
Personaggi, pairing: Melkor, Sauron; Melkor/Sauron
Avvertimenti: flash-fic, slash, lime
Genere: dark, introspettivo, drammatico, sentimentale
Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
Note: scritta per il prompt Melkor/Sauron, “The mind is its own place, and in itself can make a heaven of hell, a hell of heaven…” (Paradise Lost, J. Milton)

Ho trovato questo prompt semplicemente subilme (non solo perché adoro il Paradise Lost, ma anche per la sua adeguatezza), ed esso mi ha accompagnata per tutta la scrittura della storia... spero che ciò si evinca dalla lettura.










Lontano è il suono delle fucine di Aulë, ove le fiamme splendevano ancora di riflessi dorati, perdendosi in un guizzo bollente sotto l’incudine del suo martello. A quell’epoca la forgia trasudava un potere puro, magnifico: il potere dell’invenzione. E l’oscurità delle cave, delle miniere, era sempre rischiarata delle vene preziose che vi scorrevano.
Lui si specchiava sulle superfici scintillante dei metalli per scorgere il proprio viso, fattosi di carne e sangue dopo l’ingresso in Eä. Tratti fulgidi, sereni, alieni alla durezza, perché a irradiarlo era la gioia dell’invenzione.
Ma a un certo punto quello non fu più sufficiente.
Da lontano o forse da vicinissimo giunsero voci inquiete: là, dove la mano dei Potenti si posava, traboccante di estro, sembrava seguire rovina. I mari venivano investiti da correnti di lava che ribolliva e solidificava, creando terre di cenere; le voragini infuocate gelavano, gole e crepacci spaccavano le piane, tempeste di neve tormentavano luoghi temperati. Le montagne, appena sorte, erano livellate da una lama d’ombra che si tendeva su tutto il creato.
L’invenzione, così, cominciò a declinarsi in distruzione, e la potenza di quegli eccessi, di quell’instabilità, finì con l’affascinarlo.
Distruggere trasmetteva una sensazione nuova, corrosiva, eppure inebriante. Ma farla divenire il proposito della propria esistenza comportava il rifiuto della luce, l’accettazione di un’oscurità densa e impenetrabile, in cui i contorni perdevano consistenza e il tutto diveniva nulla.
Ora le fiamme delle sue fucine sono un singulto livido fra volute di tenebre E grotte senza fondo si inabissano nella profondità di un terra arida, priva del bagliore di venature preziose. Anche i metalli che lavora hanno perduto la loro intrinseca bellezza: si sono fatti opachi, materiali grezzi di cui conta solamente il vigore. Non può più specchiarsi sulle loro superfici fosche, ma questo è un sollievo: sa di essere divenuto parte del buio in cui dimora. Spento è il fulgore del suo viso e affilati sono i suoi tratti, modellati dalla fredda durezza dell’invidia. Così si aggira ombra fra le ombre, ascoltando lo strepitio di creature corrotte, celate negli antri remoti di quella fortezza sotterranea. La luce e il calore sono solamente un ricordo, l’invenzione si è distorta per sempre, tramutandosi in bieca alterazione.
Eppure quando passi cupi, rombanti come tuoni che annunciano tempesta, echeggiano per quelle aule, qualcosa in lui sembra tornare a splendere.
Il suo Signore si palesa, ammantato di un’oscurità limpida nel suo nero ardore. Occhi accesi dell’imprevedibile scintillio di fulmini azzurri: elettricità viva e mutevole.
Mia piccola creatura, lo chiama e la sua voce è il fervere di rivi magmatici, un coro di mille voci che scava nell’animo, lasciandovi una propria impronta.
Lui gli si prostra dinnanzi, ma il suo Signore lo fa alzare con un tocco gentile e assieme imperioso. Affonda lo sguardo nella sua mente, svelandone i più intimi segreti: la nostalgia delle fucine di Aulë, il desiderio di rivedere la luce.
Non è abbastanza ciò che possiedi qui, mia piccola creatura, mio luogotenente? Domanda, ed egli china il capo per mormorare: Perdonami, sono un ingrato. Non meriti un servo quale io sono. E implora di essere punito, poiché la grandezza che ha dinnanzi è tale da instillargli un odio viscerale per la propria inadeguatezza.
Allora il suo Signore ride, mentre la terra attorno a loro sembra tremare a quel suono. Lo attira a sé, fra le sue braccia incandescenti come stelle prossime all’esplosione, assiderate come ghiacciai sempiterni. Con gentilezza gli solleva il viso così indurito, gli carezza i capelli spentisi dei loro rifratti dorati, modellandolo di nuova, oscura, essenza.
Lo sovrasta, dunque, scendendo a mordere la sua carne. Ne assaggia il sapore lentamente, soffocando i suoi lamenti con una mano.
Quando gli permette di muoversi, lui cerca il suo sguardo e vi scorge spirali di galassie palpitanti. Sente le sue mani scorrere sulle membra con la forza erosiva di un fiume, le sente stringere, calcare, quasi avessero l’intento di trapassarlo, di insinuarsi nella sua materialità.
Infine il corpo del suo Signore, plasma magnetico e instabile, lo costringe in una morsa straziante. Ed egli si abbandona a quell’agonia, mentre il piacere cresce come onde infrante nelle profondità dell’animo.
Poi labbra umide di sangue suggellano torbide promesse d’amore, e le tenebre vengono inghiottite dall’empito di una luce illusoria.





 

   
 
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