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Autore: GiadaGrangerCullen    22/02/2015    1 recensioni
Storia dedicata a tutti gli sportivi che hanno lasciato la vita in campo. Che possano essere felici laddove si trovano ora.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Jo aveva iniziato a giocare a calcio quando aveva solo tre anni. Correva con i suoi coetanei per le strade nella periferia di Rio de Janeiro con un pallone di pezza, i piedi scalzi e la terra sotto ai tacchi.

Quando si era trasferito in Italia, non aveva di certo abbandonato la sua passione e poter correre su prati falciati, con scarpe speciali, calciando un pallone vero in delle porte di rete lo faceva sentire più felice che mai. In quel periodo, poi, non stava più nella pelle: giocava nella prima squadra del suo paesino e niente gli dava più soddisfazione di quelle partite. Anche quando perdevano lui era contento, perché si divertiva, adorava la collaborazione con i suoi compagni, le corse a perdifiato, le strategie. Un giorno, magari, sarebbe diventato così bravo da entrare in una squadra di serie A, avrebbe giocato nei grandi stadi con le telecamere puntate addosso e tutta Italia, se non tutta Europa, che lo guardava attraverso lo schermo del televisore. Immaginava suo fratello o un'ipotetica ragazza a fare il tifo per lui e proprio per questo continuava a mettere sempre più impegno in quello che faceva.

Aveva, però, un gran difetto. Per carità, non che fosse colpa sua, ma era un ragazzo mulatto e nel paese questa cosa era vista male. Perché il razzismo era duro da estirpare in certe zone rurali del nord Italia, la diversità era vista come una minaccia. Jo, però, aveva la straordinaria capacità di fregarsene delle critiche.

Quella sera giocavano contro la squadra della cittadina accanto, si disputavano il terzo posto in classifica. Il primo tempo non era stato particolarmente emozionante, viaggiavano zero a zero. Al secondo tempo la partita prese una piega diversa, facendo prendere due goal alla squadra di Jo, che ce la mise tutta per recuperare e si ritrovò al novantesimo nuovamente in una situazione di parità.

Tempi supplementari. Jo, diede il massimo e segnò il primo goal al primo minuto. Da lì iniziarono i cori. "Negro di merda" era l'insulto più leggero che la tifoseria avversaria gli lanciava, ma a lui non importava. Si lasciava scivolare addosso ogni parola, si chiudeva in una bolla dalla quale il mondo circostante era escluso. E segnò un altro goal.

Un gruppo di ragazzi mezzi ubriachi e mezzi accecati dall'odio e dall'invidia, iniziò a tirare delle pietre in campo. Sassolini di ogni tipo e dimensione, i primi che venivano loro sotto mano. L'arbitro fischiò l'interruzione della partita, ma Jo era vicino ai limiti del campo e un sasso lo colpì in testa prima che potesse accorgersi di cosa stava succedendo.

 

***

 

Rabbia. Rabbia folle. Per poco non li prendeva a pugni quegl'imbecilli! Rabbia e preoccupazione lo invadono mentre fa su e giù per il corridoio di quell'ospedale, aspettando che gli portino notizie. Possibilmente buone notizie. Ed ecco che arriva un'infermiera, ha lo sguardo serio. Gli chiede se è lui il fratello di Jo, ma lui non crede a ciò che la donna gli dice. Quei bastardi non hanno ucciso suo fratello. Non l'hanno fatto. Jo non è morto. Non è possibile. Però la consapevolezza che ora dovrà tornare a casa da solo non lo abbandona.

E pensare che aveva organizzato una cenetta coi fiocchi per festeggiare l'ultima partita di campionato, con tanta birra e una telefonata internazionale. Come l'avrebbe detto ora, alla sorella rimasta in Brasile, che Jo non c'era più? Come poteva perdonarsi per averlo portato in quel posto così pieno di odio e stupidità? Come poteva anche solo guardare una partita di calcio, ora, senza pensare al suo fratello perduto?







Avevo smesso di fare angolini autrice, ma qui sento che è di dovere, perché questa raccolta è di anni e anni fa e solo ora mi sono decisa a completare e pubblicare l'ultimo capitolo. Il mio stile si è un po' modificato da quando avevo iniziato a scriverlo, ma ho tentato di mantenere una continuità con quello che avevo scritto, anche se, se dovessi riprendere tutto in mano, riscriverei tutto da capo e probabilmente non lascerei nemmeno una frase così come sta. Però sono pigra, ho poco tempo, quindi ho deciso solamente di aggiungere questo capitolo per concludere, almeno per una volta, una cosa iniziata tanto tempo fa.
Certi "errori" come frasi senza verbo o che iniziano per "e" sono scelte stilistiche consapevoli, probabilmente poco condivisibili, ma amen.
Saluti! (Mi sento Sharpay Evans di High School Musical D:)
GiadaGC

   
 
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