5. Emme
Squilla
il telefono.
L’ennesimo starnuto. Al prossimo sputerò un
polmone, me lo sento.
“Brondo?”. Dall’altra parte una risata
nemmeno troppo trattenuta. So perché,
chiunque sia, sta ridendo e lo farei anche io al posto suo: ho una voce
che farebbe sbellicare pure i polli. Non
semplicemente voce da naso tappato con consonanti sbagliate in ogni
dove, ma
anche bassa da fare schifo. Sembro una vecchia stregaccia malefica.
“Scusa, sono un idiota”, dice, ancora con la risata
attaccata alle corde vocali.
Manuele. Ci mancava solo lui.
“Sono d’accordo”, commento.
Fa una battuta su quanto sia tenace il mio sarcasmo. “Ti
salverà dai batteri
cattivi”, dice e un sorriso me lo strappa, ma non gli regalo
la soddisfazione
di rendersene conto. Poi mi chiede come sto.
“Distesa. Del letto”.
Ride. Fa una battuta dall’aria vagamente sconcia, sconcia con
eleganza.
“Si sente la tua mancanza al lavoro, signorina”,
dice.
Brontolo che le sue smancerie non mi guariranno
dall’influenza che mi costringe
a letto da ormai tre giorni. Mi chiede, stavolta in tono serio, se ho
bisogno
di qualcosa, se sono a posto con la spesa e con le medicine, se
può essermi
utile in qualche modo. Lo ringrazio sinceramente e lo informo che
è tutto a
posto.
“La bia vicida di casa è bolto
preburosa”, dico e poi sbuffo per come le parole
escono dalla mia bocca. “Grazie della telefodata”,
aggiungo sperando così di
sfuggire a quella tortura.
Lui capisce, e mi lascia sola con le mie lamentele raffreddate.
Sono tre giorni che non mi muovo da questo dannato letto. Sono tre
giorni che
non aggiorno il blog e la cosa mi irrita da morire. D’altra
parte non sono
comunque in grado di ragionare su nulla al momento,
tant’è che carta e penna
sono rimaste intatte sul comodino… Come ho potuto anche solo
pensare di
mettermi a scrivere in questo stato? Almeno, però, la febbre
è scesa. Forse
riesco ad alzarmi per prendere il pc… Non lo
terrò acceso per molto, promesso!
Mi colpisco con grande debolezza sulla fronte con il palmo della mano:
ora scendo pure a compromessi
con me stessa, mi faccio promesse che so che non manterrò e
mi auto analizzo
manco fossi una psicologa.
Ho il viso in fiamme e il resto del corpo ghiacciato. Mi tiro su le
coperte e
affondo la testa nel cuscino.
Dire che sono di fretta
è un eufemismo, ma non me la sento
di tornare al lavoro senza prima passare di qui. Per un attimo ho
creduto che
ci avrei lasciato le penne, invece era soltanto una brutta influenza.
In ogni
caso non gliel’avrei data vinta, di qualunque cosa si fosse
trattato,
non prima di aver visto la quarta stagione di Sherlock.
È spaventoso
il numero dei vostri messaggi in casella e già mi vedo
trascorrerci un mucchio di tempo prima di riuscire a rispondere a tutti
– cenerò davanti
al computer, non importa. Ve lo devo, con tutto l’affetto che
mi dimostrate con
una costanza che forse io non riuscirei ad avere.
Traduco in inglese e posto entrambe le versioni.
Spengo in fretta il pc, afferro tutto ciò che mi serve, mi
avvolgo in una
sciarpa più lunga di quanto io sia alta e più
calda di un termosifone e mi
fiondo fuori di casa.
Puntuale arrivo sul posto di lavoro e mi becco una raffica di
“Bentornata!” e “Come
stai ora?”, prima di poter iniziare davvero a svolgere i miei
compiti. C’è
anche Manuele e questo riesce a risollevarmi il morale: per quanto sia
incline
a collezionare appuntamenti su appuntamenti, resta comunque una
presenza
piacevole e con lui il tempo sembra scorrere più velocemente.
In una pausa mi imbatto in Deborah, una collega molto attenta al look,
che mi
chiede cosa ci sia tra me e Manuele. Se non altro non si perde in
chiacchiere. Ho la vaga sensazione che lui le piaccia e
che per questo motivo lui non l’abbia ancora mai invitata ad
uscire: se me ne sono accorta
io, figuriamoci lui che c’ha le antenne per queste cose.
“È un collega”, rispondo soltanto.
“Ma ti piace”, dice lei senza punto interrogativo.
“No”. Secco e deciso.
“Secondo me sì”, insiste.
La squadro per una manciata di secondi. “Bel
rossetto”, commento. Magari la
smette.
“Grazie. Uscite insieme?”.
No, non la smette. “Se fosse così lo sapresti,
suppongo”, le rispondo
sollevando solo metà bocca in un sorriso tirato. Deborah
è una pettegola di
prima categoria, riesce a sapere tutto di tutti e puntualmente dispensa
le
informazioni per ottenere qualcosa. Sappiamo tutti qui che se Giada e
Alessio
hanno smesso di frequentarsi è perché lei ha
messo in testa a Giada che Alessio
è inaffidabile soltanto perché ai tempi del liceo
cambiava fidanzate come le
mutande. Sa essere molto convincente quando vuole. Poi, per confermare
il
tutto, è uscita lei con Alessio.
La sua smorfia, in risposta alla mia, è orrenda.
“Quindi non ti dispiace se ci
esco io, vero cara?”.
Puoi risparmiarti il cara, guarda. Le sorrido. “Fai
pure”. E la lascio lì,
continuando per la mia strada. Prendo un tè caldo al limone,
al distributore, e
decido che per una volta posso provare l’ebbrezza di essere
una pettegola anche
io. Cerco Manuele, mi siedo di fianco a lui e gusto la mia bevanda
lasciando
passare una decina di secondi. “So da fonti certe che
qualcuno qui dentro vuole
uscire con te”, dico senza guardarlo, trattenendo un sorriso.
“Tu?”. Scoppia a ridere.
“Ti piacerebbe”. Mi soffio il naso.
“Forse. Deborah?”.
Ero certa che se ne fosse accorto. La pausa volge al termine,
così mi alzo e
annuisco. Lui sospira scuotendo il capo. Forse dovrei dispiacermi per
Deborah.
Non credevo
che rientrare a casa, dopo quasi sei giorni di
clausura forzata, potesse essere così piacevole. La prima
cosa che faccio è
accendere il pc. Intanto mi infilo il pigiama e decido che
mangerò una pizza
che mi farò consegnare a domicilio.
Incredibilmente i messaggi sono aumentati rispetto al mattino. Prendo
un
profondo respiro e inizio a leggere. Fortunatamente molti lettori
semplicemente
mi chiedono che fine io abbia fatto, come sto e perché non
sto più aggiornando
il blog. Quelli meno recenti, invece, mi riportano alle avventure di
Sherlock
Holmes e del dottor Watson. Quanto mi sono mancati!
Continuo a scorrere i messaggi, rispondo a quelli brevi e lascio in
sospeso
quelli più impegnativi, finché mi imbatto in quel
nickname. Il cuore prende a
battermi forte nel petto senza un motivo razionalmente esplicabile. Non
capisco
da dove arrivi il leggero stupore che avverto dal momento che era stato
lui a
manifestare l’intenzione di non terminare la conversazione
con quell’unica
email.
Ma che diavolo mi sta succedendo?
Sono costretta a prendermi una pausa, quindi sospendo la lettura per
entrare
nell’account Twitter e fiondarmi sul profilo di Mark Gatiss:
in sei giorni avrà
pur dato qualche altra indicazione! E mentre carica telefono in
pizzeria
ordinando una bianca con wurstel, patatine e mozzarella.
Scopro che Gatiss ha seminato più di un indizio e questo mi
entusiasma
abbastanza da farmi affrontare l’email con uno spirito
migliore anche se non mi
impedisce di leggerla tutta d’un fiato. La data d'invio
corrisponde a due giorni dopo la mia prima ed unica risposta, ovvero il
giorno stesso in cui mi sono beccata la febbre.
A presto, M.
Se
non sapessi per certo che Manuele non è a conoscenza del
mio blog, penserei che è un suo scherzo. M… Quale
nome si celerà mai dietro una
emme? E perché firmarsi con quella che potrebbe essere
l'iniziale del suo nome nel secondo messaggio e non nel primo?
Quest'uomo si veste volutamente con un manto di mistero. Sospiro e
decido di non rispondergli ancora: lo farò dopo aver postato
nuove deduzioni.