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Autore: Water_wolf    25/02/2015    3 recensioni
ATTENZIONE: Seguito di "Sangue del Nord" e "Venti del Nord".
Percy Jackson? Scomparso? Alex, Astrid ed Einar non riescono credere alle loro orecchie. Eppure, è proprio Annabeth, arrivata al Campo Nord da Long Island, ad annunciarlo. Chiede aiuto: forse il suo fidanzato è stato portato in Norvegia. Nel frattempo, Gea sta risorgendo e ci sarà bisogno di tutte le forze disponibili per salvare il mondo… e non solo da lei.
«Dimmi, Leo. Cosa faresti tu al posto mio?»(…) «Non lo so» ammisi. «Forse scapperei, o cercherei di sdrammatizzare con qualche battuta idiota. Dopotutto è quello che ho sempre fatto.» «Ma non questa volta, vero?» (…) «No. Forse perché so che questo posto mi avrebbe dato qualcosa di più… una nuova casa, uno scopo. Ma che dico, io non sono adatto a fare questi discorsi tragici» dissi, tornando a sorridere.
Le stelle bruciavano la notte sopra di noi. Nuotavamo nell’inchiostro che, forse, qualcuno avrebbe usato per scrivere la nostra storia. Eravamo giovani ed eravamo folli ed eravamo felici. || C’era qualcosa di magico, nella durezza che assumeva ogni profilo durante la tempesta.
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Gli Dèi, Nuovo personaggio, Piper McLean, Quasi tutti
Note: Cross-over, Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cronache del Nord'
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Il dolce abbraccio di una madre
•Alex•
 
Il giorno sarebbe dovuto essere bello e assolato, nonostante la neve ed il freddo invernale della Norvegia. Annabeth stava meglio e ci stavamo salutando. Aspettavamo Astrid da un pezzo. La figlia di Atena avrebbe voluto vederla, prima che la Skidbladnir partisse, riportandola a casa. Mi chiese anche di continuare le ricerche di Percy, in attesa di informazioni maggiori, anche se, con l’arrivo di Jason e degli altri, era palese che lui fosse a Nuova Roma.
Il figlio di Giove mi aveva dato, in modo confidenziale, l’ubicazione della città segreta dei romani, a patto che la tenessi segreta. Io avevo giurato, ma avevo la sensazione che mio padre sapesse già molto su Nuova Roma e che presto l’avrei sentito.
Eravamo, ora, nell’area di allenamento, adibita in modo non diretto a zona di atterraggio e aspettavamo Astrid. Ero preoccupato: Hermdor non aveva specificato nulla riguardo a quello che sarebbe successo, quindi non sapevo dire che cosa poteva trattenerla.
«Non dovresti andare a cercarla?» chiese la figlia di Atena, preoccupata.
«Forse…» risposi, incerto.
Se c’era un problema, di solito, lei preferiva affrontarlo da sola. Avevo paura di darle fastidio.
«Va’ da lei» mi consigliò Piper, sorridendomi.
Non capivo se stesse usando la lingua ammaliatrice o no.
«Forse avete ragione» considerai, avviandomi verso il forte principale. «Aspettatemi qui!» raccomandai loro, certo che ci avrei messo poco.
Invece, dopo esser passato accanto al lago, arrivai al Forte principale e la trovai in lacrime, distrutta e disperata.
«Astrid!» esclamai, correndo verso di lei e tentando di abbracciarla, ma lei si scansò.
«Lasciami stare!» urlò, istericamente, dandomi una spinta.
Io indietreggiai, sorpreso, ma non protestai. Mi sedetti per terra, lasciandola sfogare. Non sapevo di cosa si trattasse, ma intuii che si trattasse della telefonata, dato che l’apparecchio era saltato, tanto forte l’aveva rigettato al suo posto.
Rimanemmo entrambi seduti a lungo. Osservai Astrid che si sfogava disperata su non sapevo bene cosa, ma sapevo che andava lasciata stare, in questi casi. Ci volle un po’, ma quando si riprese sbuffò e mi guardò.
«Saluta Annabeth e Jason da parte mia. Anche Leo e Piper e tutti quanti. Io non vengo» disse, asciugandosi le lacrime, fissandomi tristemente. Le braccia abbandonate sui fianchi, come se fosse troppo debole per reggerle.
«Astrid… che è successo?» chiesi, provando ad avvicinarmi per sfiorarle la guancia.
Volevo che capisse che io c’ero, ma lei si scansò velocemente.
«Scusami, Alex, non ora… voglio… stare da sola» sussurrò flebilmente, scappando via.
La osservai andarsene sentendomi triste e abbattuto. Questo, sommato ai brutti presentimenti che avevo per il futuro, non migliorò certo il mio umore.
Salutai i nostri amici greci, promettendo loro che, qualsiasi cosa sarebbe accaduta, avrei aiutato, almeno per quel che potevo.
«State attenti. Sono sicuro che Gea sta tramando qualcosa con Ymir» raccomandai loro, stringendo la mano di Jason.
«Andremo a Nuova Roma tutti insieme. Sono certo che mi ascolteranno e potremmo allearci contro questa minaccia» mi rispose con un sorriso.
La gamba era fasciata a causa della ferita che gli avevo inferto, ma non sembrava risentirne troppo.
«Speriamo bene» confermai, dandogli una pacca sulla spalla.
«Allora… ci vediamo presto?» chiese Annabeth, abbracciandomi..
«Verrò a trovarvi in America. E poi voglio venire anche io a Nuova Roma, ho la sensazione che devo esserci» risposi, stringendola come se fosse mia sorella. «Tu riguardati e cerca di star bene. Ritroveremo Percy» la rassicurai.
Lei annuì, e passai a Leo, che aveva appena salutato Einar.
«Ci vediamo, Valdez. Cerca di star bene, e ricordati che puoi farcela. Nulla è impossibile… Almeno, non per te» gli ricordai, stringendogli la mano.
Se avessi potuto gli avrei fatto l’occhiolino.
«Tranquillo, bello, e non preoccuparti: finché sarai con me i romani non ti attaccheranno. Nessuno può resistere al fascino di Leo Valdez» replicò con un sorrisone furbo, mettendosi sull’attenti, come un soldato.
Salutai tutti i greci a seguire, augurando loro buona fortuna, dato che ne avrebbero avuto bisogno. Lars si prese il disturbo di riportarli a casa con la Skidbladnir insieme a Nora e Finn. Li salutai da lontano, insieme a diversi ragazzi dell’Orda del Drago che facevano lo stesso per amici e compagni, anche se una forte inquietudine mi attanagliava il petto come le zampe di un rapace.
Probabilmente era il silenzio tombale in cui era caduta la mia mente, dopo l’arrivo di Ymir. Jason mi aveva confidato che suo padre aveva continuato a sussurrare parole malevole su di me, durante la sua permanenza, mentre il mio era diventato stranamente silenzioso. Come la calma che precede il cataclisma. La verità è che una parte di me sapeva che lo scontro che volevo impedire era inevitabile.
Provai a cercare di nuovo Astrid, ma non la trovai. Einar mi disse che era da sola nella sua stanza, dove non voleva vedere nessuno. Volevo provare a parlarle, ma prima che potessi raggiungerla, Hermdor mi bloccò e mi disse che i capi delle orde dovevano incontrarsi al Forte Principale per un annuncio importante, così fui costretto a seguirlo.
Mi presentai con Einar, come mio unico secondo, e trovai Johannes, Rebekka, Oscar e Grete.
«Capi delle Orde, benvenuti per esservi presentati» cominciò il Direttore, mettendosi seduto.
Tutti seguimmo il suo esempio e ci accomodammo.
«Il Padre dei Giganti del Ghiaccio si è risvegliato ed i nostri Dèi sono impegnati in guerra. Noi con loro dobbiamo prepararci allo scontro. Odino ha richiesto che tutti noi fossimo pronti, prima di partire per il fronte. Per tanto, il Campo Nord è appena sceso in guerra. Saranno dati a tutti i semidei permessi di due settimane per tornare alle famiglie e salutarle, prima di partire per la guerra» annunciò duramente, squadrandoci con i suoi  penetranti occhi grigi come l’acciaio.
«Quindi partiamo per andare a nord, signore?» chiese Oscar, inarcando le sopracciglia.
«Va benissimo» concordò Grete, accarezzando il manico della sua ascia. «Se gli Jotunar vogliono sconfiggere gli Dèi, ci uniremo all’esercito di Asgard per sconfiggere loro ed il loro padre maledetto.»
«No!» ci fermò Hermdor, prima che io potessi esprimere il mio consenso. «Andiamo ad ovest.»
«Cosa?» domandai, sorpreso. «Il nostro nemico è a nord!» protestai.
«Odino è preoccupato delle possibili minacce. Nuova Roma potrebbe rivelarsi ostile. Odino vuole che il Campo Nord sia pronto a rispondere ad un suo possibile attacco. Invierà contingenti di rinforzo e navi per poter attraversare l’atlantico. Elfi e Nani sono inviati in grossi eserciti a nord per occuparsi dei Giganti. Noi difenderemo Asgard da un possibile attacco alle spalle» spiegò Hermdor, tutt’altro che infastidito dal mio intervento.
«Finalmente! Gli Dei sono con noi!» urlò Johannes, eccitato. «Quando partiamo? Voglio massacrare qualcuno di quei maledetti.»
«Ma loro non sono nostri nemici!» bottai, battendo i pugni sul tavolo. «Sono semidei, esattamente come noi!»
«Sono nostri nemici!» replicò Il figlio di Thor, guardandomi negli occhi furibondo. «Dobbiamo distruggerli! I nostri Dèi ci ringrazieranno per la loro morte!»
«Non possiamo ucciderli! Non siamo animali!» dissi, mettendomi faccia a faccia con lui.
Non avevo certo paura di quel gorilla senza cervello.
«BASTA!» ci ordinò Hermdor, separandoci con tanta forza che barcollammo entrambi.
Sbuffai, furibondo, pronto a venire alle mani, ma fummo bloccati dalle parole del Direttore che ci paralizzò con una delle sue solite occhiate di fuoco.
«Sono certo che Alex Dahl abbia un’idea migliore di Odino. Dopotutto, lui ha detto di rimanere in guardia, non di attaccare. Che cosa hai in mente, tu, Dahl?» indagò, lanciandomi un’occhiata di avvertimento.
Se mi fossi sbagliato, avrei pagato le conseguenze.
«Possiamo parlare con loro» proposi subito, cercando di guadagnare tempo. «Lasciatemelo fare, magari possiamo stringere un’alleanza. Loro potrebbero restituirci la Corona di Odino e aiutarci contro Ymir. Ne guadagneremo tutti.»
Tutti mi guardarono, soppesando le mie parole. Sudavo per la tensione, dato che non sapevo cosa avrebbero fatto loro. Andavo con loro, al Campo Nord, da più di cinque anni, eppure, con i loro genitori divini che gli dicevano chissà cosa, non ero più sicuro di poter confidare nel loro buonsenso.
«Diamogli questa possibilità» convenne Rebekka, fissando i suoi compagni. «Dopotutto ha più esperienza di noi ed è figlio di Odino. Chi meglio di lui potrebbe trattare con i romani?»
Ci volle un po’, ma, alla fine, riuscii a convincere tutti i capi delle orde a non attaccare subito ed aspettare una mia possibile trattativa con gli amici di Jason, anche se dovetti concentrarmi molto per non pensare ad Astrid. Alla fine si accettò di intavolare una possibile trattativa con loro, però, se ci fossero stati segni di minaccia, i semidei nordici non avrebbero esitato ad attaccare.
Quella sera tornai al Forte, sperando di ritrovare Astrid, ma, invece, Einar mi trascinò nella sala comune, dove i miei compagni si stavano riunendo. Molti di loro avevano l’aria tesa e abbattuta. Mostravano ancora ferite e lividi provocati durante gli scontri contro Kara nella nostra spedizione a nord, ma intuivo che ci fosse altro, dietro.
«Alex» mi chiamò Marcus, che si teneva il braccio fasciato. «Vorremmo parlarti» disse, facendosi avanti.
«Certo… Cosa volete dirmi?» chiesi, sedendomi per terra, davanti al camino, mentre gli altri si riunivano intorno a me.
«Vorremmo chiederti che cosa dobbiamo fare» iniziò Ren, portandosi una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio. Sembrava nervosa. «Abbiamo saputo dei permessi e della… possibile guerra contro Roma.»
«Esatto» confermò Xenia, una figlia di Ullr. «Dobbiamo prepararci ad uno scontro?»
«No» risposi subito, cercando di mantenere la calma. «So che i vostri genitori divini stanno spingendo per la guerra, ma con Ymir alle porte non apriremo un altro fronte. Noi discuteremo con i romani e chiederemo loro un alleanza.»
«Perché dovremmo? Siamo figli di Asgard, possiamo occuparci da soli di Ymir. Inoltre, chi ci dice che possiamo fidarci di loro?» domandò Allan, figlio di Tyr, guardandomi in modo minaccioso.
«Siamo solo semidei. Non dico che siamo deboli, ma da loro c’è anche Gea. Credete che ci lascerà in pace? Dobbiamo cooperare per sconfiggere questi nemici. Non fatevi influenzare dall’odio dei vostri genitori. I romani non hanno fatto nulla né a voi né a me. Insieme diventeremo ancora più forti e potremmo sconfiggere qualsiasi nemico. Vi chiedo solo di avere fiducia in me e di combattere per la pace» spiegai, senza abbassare lo sguardo.
Tutti mi osservarono a lungo, finché, senza dire una parola, si alzarono e annuirono.
«Siamo con te, Alex. Speriamo tu abbia ragione. Cercheremo di non batterci contro i romani, a meno che non si renda necessario» accettò Marcus, annuendo.
Gli strinsi la mano e sorrisi, mentre Einar annuiva soddisfatto. Se tutto andava bene, forse, non si sarebbe risolto con un massacro.  
Il giorno dopo io rimasi con Astrid tutto il tempo che potevo, aspettando che lei mi parlasse di quello che era successo. Inevitabilmente, crollò. Pianse di nuovo, ma la cullai. Le sue lacrime rigavano le guance e bagnavano la mia maglietta, mentre inveiva contro suo padre che era morto. La strinsi forte, finché non si calmò.
Fu quasi con dolore che le dissi del permesso che Hermdor ci aveva dato, perché lei non aveva più nessun luogo da chiamare casa, ma le promisi che, qualsiasi cosa fosse successa, io e mia madre l’avremmo ospitata.
Ero molto dispiaciuto per lei, ma una parte di me non poté fare a meno di pensare che, forse, senza suo padre, sarebbe stata meglio. Dopotutto, era un criminale. Un’altra parte di me, invece, mi faceva provare pietà per quella famiglia così sfortunata.
Non fu difficile, quindi, tornare a casa. Dopo colazione preparammo le valige e prendemmo la via del ritorno. Il Campo aveva dato il via ad un servizio bus che ci avrebbe riportati a casa o all’aeroporto, per chi abitava lontano. Un pericolo, visto che i mostri avrebbero potuto fiutarci, ma indispensabile dato che, alcuni di noi, avevano parenti esterni.
Einar sarebbe ritornato dalla madre, mentre io ed Astrid ci saremmo fermati a casa sua a prendere delle cose, prima di trasferirsi a casa mia.
Fu un viaggio silenzioso, carico di tensione e tristezza: avevamo paura per un futuro che sembrava troppo cupo, che poneva sulle nostre spalle il destino di oltre tremila anni di civiltà e migliaia, se non milioni, di vite umane.
Il cielo, sopra di noi, era grigio e scuro ed una neve leggera cadeva, ondeggiando leggermente. L’influenza di Ymir si stava facendo sentire anche qui. I meteorologi mortali avevano  identificato la causa di queste condizioni particolare come l’effetto di una misteriosa perturbazione formatasi al polo Nord fisico che avrebbe provocato una primavera molto fredda ed interessato tutto l’emisfero boreale del mondo.
Un modo molto gentile con cui la Foschia stava nascondendo la potenza del Padre dei Giganti del Ghiaccio agli occhi dei mortali. Se avessero potuto vedere quello che avevo visto io, i suoi occhi glaciali e il suo viso, specchio della furia e del caos originale, i mortali sarebbero scappati dal terrore. Per fortuna, gli Dèi sembravano reggere il colpo… Per il momento, anche se avevo timore di sapere quanto avrebbero retto.
Cercai di non pensare al peggio e che, almeno per ora, stavo con Astrid. Non fu affatto semplice, però, quando, davanti a casa sua, ci ritrovammo dinnanzi quattro volanti della polizia ed il nastro giallo non superabile che delimitava le scene del crimine.
«Che cazzo succede?» sbottò la figlia di Hell, guardandosi intorno spaesata.
Prima che potessi dire qualcosa, uno dei poliziotti si avvicinò a noi impettito.
«Astrid Jensen?» chiese, fissandoci con sospetto.
«Sì» rispose bruscamente lei, lanciandogli un’occhiataccia.
«Ci siamo già sentiti per telefono. Sono l’ispettore von Aue, del dipartimento di polizia» spiegò lui, mostrando il distintivo assicurato alla cintura. «Chi è il suo amico?» chiese, rivolgendosi a me.
«Mi chiamo Alex Dahl, signore» risposi, cercando di mantenere la calma, ma strinsi i pugni, sentendomi leggermente teso.
«…Dahl» sussurrò, annotando tutto su un tablet. «Brutta ferita, quella. Come te la sei procurata?» aggiunse, ammiccando al mio occhio di meno.
«Pirata della strada» risposi tranquillo. Hermdor aveva un semidio che lavorava in un ospedale della zona, e aveva fatto stillare un rapporto ed un certificato per il mio falso incidente, quindi ero coperto. «Non si sono fermati al rosso.»
«Capisco.»
«Io, invece, non capisco cosa stia succedendo a casa mia» sbottò Astrid, nervosa, guardando male l’ispettore. «Perché non sono stata informata di questo
«Ha riagganciato. Inoltre, temevo che, se avessi l’avessi informata, avrebbe tentato la fuga» spiegò il poliziotto.
Alle sue spalle, da un furgone, uscivano dei poliziotti con tute isolanti, come per entrare in una zona contaminata.
«Che vuol dire?» chiesi, indicando il nastro di separazione. «È successo qualcosa?»
«In effetti, sì» ammise l’ispettore, assumendo un’aria dispiaciuta ma decisa, tornando ad osservare la mia ragazza. «Se non avesse terminato la telefonata, le avrei specificato le circostanze della morte di suo padre, signorina Jensen.»
Strinsi la mano di Astrid, intuendo che stava venendo fuori qualcosa di grosso. Lei ricambiò la stretta e annuì, cercando di assumere il più in fretta possibile una maschera di indifferenza.
«Suo padre è rimasto coinvolto in una sparatoria con la polizia. Sono morti due agenti e tre spacciatori e abbiamo sequestrato un grosso carico di stupefacenti e compiuto numerosi arresti. Suo padre era coinvolto in un grosso traffico di droga» illustrò l’ispettore von Aue, accigliato, fissando i suoi occhi azzurri a quelli neri di Astrid.
Sentii la presa di lei aumentare sulla mia mano, ma cercò di assumere la sua aria più innocente possibile. «Da-davvero?» chiese, stupita. «Io… non ne avevo idea.»
«Ne è sicura?» insistette l’agente. Era palese che non le credesse e aveva assottigliato leggermente le palpebre, come per minacciare. «Qualsiasi elemento potrebbe esserci utile. Si ricordi che nascondere qualcosa alla polizia è ostacolo alla giustizia, un reato penale.»
«Assolutamente sicura, ispettore» replicò decisa Astrid, senza esitare. «Ora, per favore, posso rientrare in casa mia? Non posso vivere di questi soli vestiti» aggiunse, provando a superare il cordone.
«Non così in fretta» la fermò lui con il braccio. «Devo farle ancora qualche altra domanda.»
«Posso rimanere con lei?» chiesi, cercando di calmare gli animi.
L’ispettore non sembrò gradire la mia presenza, ma annuì sebbene contrariato, lasciandoci entrare sotto scorta di altri due agenti. Ci fece accomodare in salotto, sul divano, mentre lui si accomodava sulla poltrona. Intorno a noi, gli agenti della polizia scientifica prelevavano campioni ovunque.
Uno di loro portò via un portatile in una busta, forse per esaminarlo meglio in centrale.
«Sapeva degli strani movimenti bancari di suo padre?» domandò l’ispettore, dopo che ci fummo seduti. «Pare che avesse un secondo conto segreto in Svizzera.»
«Svizzera? No. Mio padre ed io non avevamo un buon rapporto, anche se non credo mi avrebbe mai lasciato gironzolare per il suo conto» rispose Astrid, tagliente.
Sorrisi. Sapeva farsi rispettare.
L’ispettore non gradì la risposta, ma si sporse in avanti e aggiunse: «E non era nemmeno al corrente di come mai usciva spesso fuori dai suoi orari di lavoro?»
«Diavolo, no! So solo che aveva un’amante e non avevo voglia di indagare sulla donna che si portava a letto» sbottò nervosa.
Stava perdendo il controllo, ed iniziava a sudare.
«Mi scusi, ispettore» intervenni, poggiandole una mano sulla spalla. «Non crede di mancare un po’ di sensibilità? Suo padre è morto!» gli ricordai.
«Non credo debba essere un ragazzo a dirmi come si fa il mio lavoro» mi fece notare aggressivo, cercando di spaventarmi. Come se un poliziotto mortale potesse.
«No, ma credo di poter conoscere la mia ragazza meglio di Lei. Le posso assicurare che Astrid è una persona onesta» replicai, senza abbassare lo sguardo.
Non mi sarei mai fatto battere da quel poliziotto che si credeva chissà chi.
«Molto bene…» sbuffò infastidito, tornando a concentrarsi su Astrid. «Le darò il tempo di riprendersi dal lutto, signorina Jensen, ma mi deve dare un indirizzo dove poterla rintracciare.»
Si alzò imitato da noi due.
«Starà a casa mia» risposi, dicendogli il numero civico.
«Molto bene. Rimanga a disposizione, signorina Jensen» concluse l’ispettore, tendendoci la mano.
Non la strinsi. Quel tipo non mi piaceva per niente, e nemmeno ad Astrid.
«Certo, signore. Stia tranquillo, non scapperò nei boschi inseguita dalla polizia di tutta Oslo» rispose sarcastica, ignorando la mano tesa. «Ora posso andare in camera mia?»
«Uno degli agenti la accompagnerà» disse in fretta il poliziotto, andandosene, facendo un cenno ai suoi di accompagnarci.
Arrivati al piano superiore, dove c’era la stanza di Astrid, il poliziotto si mise davanti alla porta, permettendoci di avere un po’ di privacy, mentre Astrid prendeva un grosso zaino da sotto il letto e ci metteva dentro alcune sue cose: la maggior parte erano poster e CD con il lettore apposito di gruppi e band che le piacevano, poi vestiti, biancheria, alcuni effetti personali.
«Grazie, Alex» disse, mentre ripiegava un paio di calzini e io prendevo alcuni suoi CD. «Non ti saresti dovuto esporre così tanto.»
«Non dire sciocchezze. Quel pallone gonfiato ti avrebbe sfinita, era il minimo che io potessi fare» spiegai, mettendo i CD in valigia e abbracciandola da dietro per la vita. «Mi dispiace.»
«Non è colpa tua» sussurrò Astrid, rigirandosi uno strano flauto tra le mani. «Non è colpa tua.»
Rimasi un attimo ad abbracciarla, dopodiché la lasciai e lei mise il flauto nella borsa. Sapevo che era uno strumento che Rupert aveva fatto per la figlia. Mi aspettai che Astrid lo spezzasse per gettarlo via, oppure che lo lasciasse semplicemente lì. Invece sospirò e lo lasciò cadere nello zaino.
«Maledetto… Ha rovinato tutto» sussurrò, tremando come una foglia per la rabbia, la tristezza e la frustrazione.
«Astrid» la rassicurai, tenendole la mano. «Lo so che è dura per te. Mi dispiace tanto.»
«Tutti quelli a cui voglio bene o mi tradiscono o mi abbandonano, oppure fanno entrambe le cose» sbuffò senza, però, lasciare la mia mano.
«Non io» dissi sicuro, sollevandole il viso per darle un bacio a fior di labbra. «Io non ti abbandonerò, Astrid.»
Lei annuì e deglutì, ingoiando il pianto, ricacciando le lacrime, abbracciandomi. La strinsi forte a me, lasciando che il calore del suo corpo mi tranquillizzasse. Quando fummo entrambi calmi, prese il suo zaino e ce ne andammo, diretti verso casa mia.
Arrivammo quando il sole stava per tramontare. Eravamo stanchi  ed Astrid era scossa. Mia madre ci preparò una cena veloce a basa di carne impanata e verdure. Inizialmente era molto felice di vederci, ma, quando aveva visto le condizioni di Astrid era entrata subito in modalità “mamma protettiva”.
Le avevamo spiegato delle indagini su Rupert e del fatto che Astrid sarebbe rimasta a casa nostra per un po’. Non batté ciglio e annuì, invitando la mia ragazza a sistemarsi nella stanza degli ospiti, rassicurandola, dicendole che non sarebbe stata di disturbo.
Passammo la serata a guardare la tv, con i telegiornali che, improvvisamente, si erano focalizzati su quella che già veniva definita tempesta del secolo. I mortali avevano identificato la tempesta che occupava praticamente quasi tutto il Polo Nord e che si stava spandendo lentamente verso sud con un’ondata implacabile di gelo e precipitazioni.
Nelle città più a nord era già stato diramato l’allarme meteo e la gente veniva invitata ad evacuare le proprie abitazioni.A sentire quelle notizia, mi si strinse il cuore, al pensiero che, se avessi fallito, non importava quanto a sud si sarebbero potute spostare. Ymir avrebbe congelato anche il deserto.
Mia madre ci guardò apprensiva. Lei sapeva tutto, ormai, della mia vita da semidio e, nonostante questo, non disse nulla. Si limitò ad un sospiro rassegnato.
Quella sera, Astrid andò a letto molto presto. Distrutta dalla giornata, si lasciò abbracciare prima di infilarsi sotto le coperte e addormentarsi come un sasso.
Ma io non ci riuscii. Rimasi in cucina, ad osservare il tavolo che, al buio, sembrava fatto di roccia vulcanica, pensando a quanto poco roseo appariva il futuro.
Una parte di me voleva scappare. Insomma, io ero solo un semidio Come potevo sconfiggere il Padre di tutti i Giganti del Ghiaccio se non ci riuscivano gli Dèi? Che si trovassero qualcun altro da manipolare e su cui scaricare la loro divina frustrazione.
Idiota!
L’altra parte della mia mente tornò in sé, quando la mano di mia madre si poggiò sulla mia spalla.
«Non riesci a dormire?» chiese, con voce dolce, come un canto calmante.
La stessa voce che da diciassette anni mi rivolgeva, quando avevo un problema.
La stessa voce che mi cantava la ninna nanna, quando avevo quattro anni.
La stessa che mi tranquillizzava, quando a cinque avevo paura dei tuoni e dei lampi che solcavano il cielo.
La stessa che a sei mi proteggeva, quando i mostri iniziarono a perseguitarmi.
La stessa che urlava disperata, quando scappai di casa, sperando che la mia assenza aiutasse.
«No, mamma. Non riesco a dormire» ammisi, trattenendo le lacrime. «Ho paura.»
«Tutti hanno paura, tesoro» mi rassicurò, abbracciandomi da dietro e sfiorando la mia testa con la sua, i capelli castani le ricadevano in morbide ciocche, incorniciandole il bel viso solcato da leggere rughe d’età.
Sbuffai senza diniego a quel contatto, che, anzi, mi rassicurò. Finsi di essere ancora un bambino che si lasciava cullare dalla mamma, e non un ragazzo che, affacciato all’età adulta, doveva affrontare non solo problemi adolescenziali, ma salvare il mondo.
Mia madre attese diversi minuti che io iniziassi, ignorando il mio testardo silenzio.
«Ho paura di non essere all’altezza» crollai, infine, sentendomi un nodo stringermi la gola. «Cos’altro devo fare per dimostrare di meritare una vita decente? Non desidero diventare un dio, né diventare qualcuno di importante. Ma voglio vivere… Voglio che i mostri ti lascino in pace, voglio che gli Dèi la smettano di tormentarmi e voglio che quel dannato gigante se ne torni da dov’è venuto!» sbottai, mentre due lacrime solitarie mi rigavano il volto, lasciando andare la frustrazione e la rabbia che provavo e che, come suo solito, scemava in fretta.
Dana mi guardò e si sedette accanto a me. «Posso capirti» iniziò, accarezzandomi la schiena e le spalle, cercando di rassicurarmi. «Non sono una semidea, certo, ma posso comprendere come ci si sente. So che tu hai paura, Alex, ma so una cosa di te. Tu non ti tirerai indietro, e riuscirai a fare ciò che vuoi, indipendentemente dal successo che potrai ottenere» disse, facendomi voltare verso di lei.
Ormai ero alto quanto mia madre, ma lei emanava una forza ed un’esperienza che mi facevano sentire bimbo.
«Che vuoi dire?» chiesi, sorpreso dalla sua fiducia.
«Io ti conosco, tesoro. Sei mio figlio e nessuno ti conosce meglio di me. So per certo che, qualsiasi cosa accada, tu non ti arrenderai mai. Farai sempre del tuo meglio, finché sarai in piedi. Vorrei poterti dare rassicurazioni migliori, ma di una cosa sono certa: qualsiasi cosa tu faccia, non mi deluderai, e non deluderai chi ti sta intorno. Ti voglio bene» mi rassicurò, stringendomi in un abbraccio.
Ed io la lasciai fare, sentendomi protetto come quando ero piccolo e chiedevo a lei di proteggermi.
Aveva ragione: dovevo fare la mia scelta, e sentirla mia. Avrei combattuto perché le persone come lei non se ne andassero.
Per Einar e Lars, come fratelli, per me. Per Nora, mia sorella e compagna. Per Astrid, la mia ragazza, per fare in modo che non soffrisse più una perdita.
E per Dana Dahl. La donna che ero fiero poter dire mi aveva cresciuto e amato. Che era mia madre.
 
∫ Einar ∫
 
C’erano giorni in cui avrei voluto fuggire da quel luogo. Un quartiere fatiscente delle periferie di Oslo, uno di quelli malfamati, dove, nei film, ci sono quelle sparatorie fighissime e quei salti da ninja sui muri, manco fossero delle scimmie. La verità era che, se eri di casa, era un quartiere tranquillo. Bastava farsi i fatti propri e tentare di non rapinare la gente per guadagnarsi da vivere.
Casa mia era un bilocale al terzo piano di un palazzone fatiscente che più volte mi ero chiesto come mai non fosse crollato sotto il suo stesso peso. Ma era casa mia.
Quando entrai, però, non mi ritrovai davanti un maniaco che si divertiva con mia madre o lei che preparava un pasto veloce prima di tornare a quello che si poteva definire a malapena un lavoro.
C’erano degli scatoloni nella stanza principale che fungeva da cucina e salotto, tutti pieni dei nostri pochi averi: qualche libro, poche foto, scattate da mia madre quando era ancora giovane, alcune mie da bambino e tutto il necessario per andarsene. Sembrava un trasloco.
Entrai nella mia stanza, poco lontana, gettando lo zaino sul letto ad una piazza, mentre, con mio incredibile stupore, sentivo mia madre canticchiare allegra.
Canticchiare?
Mi sorpresi: mia madre aveva una voce molto bella, che non poche donne le invidiavano, ma che, negli ultimi tempi, non sentivo spesso. Ogni volta che tornavo era sempre più abbattuta e stanca, quasi spossata, mentre sospirava.
Ultimamente, per sopportare il dolore della maledizione di Sigyn, aveva iniziato ad assumere antidolorifici forti, che, però, la stavano rendendo peggio di una drogata. Era molto assente e soprappensiero.
Invece, in quel momento la sentivo… felice.
Mi tolsi le scarpe e andai in camera sua, per assicurarmi che tutto andasse bene e, con mia sorpresa, la trovai che stava piegando alcuni vestiti.
«Mamma!» salutai, correndo ad abbracciarla.
«Einar!» mi rispose, stringendomi forte, cullandomi come se fossi un bambino. Be’, era mia madre, per lei lo sarei sempre stato. «Fatti guardare, sembri sciupato» aggiunse, guardandomi in viso.
«Sto bene, mamma. Solo che, al Campo, abbiamo compito un’impresa di una certa importanza. E… diciamo che c’è molto di cui parlare» spiegai, sentendomi leggermente in imbarazzo.
Mia madre sapeva praticamente tutto della mia vita da semidio ed era felice che potessi passare il mio tempo lontano da quel quartiere, ma, quando le dicevo così, si preoccupava sempre. Infatti i suoi occhi si intristirono un po’, ma riuscì a sorridere, mentre una scintilla di allegria che non le vedevo da tempo le illuminava il volto.
«Be’, mi racconterai tutto davanti ad una bella tazza di tè. Anche io ho una buona notizia» mi rassicurò, dandomi un bacio sulla guancia, dirigendosi in cucina.
La seguii sempre più confuso, ma felice per lei. Doveva essere accaduto qualcosa di molto buono.
«Come mai tutti questi scatoloni?» chiesi, mentre prendevo le bustine di tè e lei riscaldava l’acqua.
Elinor mi sorrise radiosa, prima di rispondere. «Ce l’ho fatta, tesoro! Ho un lavoro ed una casa quasi in centro. Ho acquistato un appartamento per entrambi, in un quartiere migliore e più vicino al negozio in cui andrò a lavorare. Non è nulla di ricco o particolarmente elegante, ma è un posto accogliente. Mi hanno trovato un lavoro in un negozio elettronica. Possiamo trasferirci, Einar… andarcene da qui.»
La notizia mi prese alla sprovvista, ma sorrisi felice: erano anni che mia madre combatteva per avere una vita un po’ migliore. Aveva speso tutto, pur di permettermi di vivere decentemente e, allo stesso tempo, mettere qualcosa da parte per comprarci una casa migliore e finalmente ce l’aveva fatta. Ma io non avrei potuto seguirla.
«Partiamo domani, ho noleggiato un furgone e abbiamo poco. Quando mi hai chiamata per dirmi che tornavi volevo farti una sorpresa, per questo non ti ho detto niente» continuò, versando il tè, radiosa come non mai.
Mi fece male il cuore a vederla così: il Fato – o  forse c’era lo zampino di mio padre – aveva dato a lei la felicità per togliergliela subito dopo averla conquistata. Come facevo a dirle di Ymir, dei romani, di Sarevock e di tutta la merda che stava arrivando?
Strinsi la tazza di tè, sentendomi come se il padre dei Giganti del Ghiaccio mi avesse soffiato contro un raggio gelido che mi aveva prosciugato di ogni calore.
«Di che mi volevi parlare, caro?» chiese, mia madre che, al contrario di me, sembrava lo specchio della felicità.
Deglutii, mandando giù un po’ di tè, sperando che mi aiutasse a rendere tutto più facile. Non fu facile, ma, le raccontai tutto.
La prima parte fu abbastanza semplice: la nostra impresa al Polo Nord, come avevamo superato la calotta polare, fino a spingerci alle porte dello Jotunheim, dove, dopo aver sconfitto il gigante greco Toante, avevamo affrontato Kara e ne eravamo usciti vincitori.
Le raccontai di Sarevock, Chione ed Ymir, e di come gli Dèi stessero combattendo a nord, nel tentativo di distruggerlo. Dopodiché le parlai dei Romani, di Jason, del Campo Giove in America e del pericolo di una guerra su scala globale, mentre, a nord, il più grande e potente dei mostri tramava per distruggere la civiltà occidentale.
Le parlai, infine, della nostra missione e di come noi semidei fossimo implicati nel difficile piano di salvaguarda della gente mortale.
Quando finii, tutto l’entusiasmo nello sguardo di Elinor si era spento, sostituito da un luccichio preoccupato.
«Tu… non…. non vorrai andare» sussurrò con voce tremante, mentre mi prendeva una mano.
Distolsi lo sguardo. «Cos’altro dovrei fare?» sospirai. «Devo tornare.»
«No che non devi» sbottò, alzandosi in piedi. «Se non ricordo male il Campo Nord non ha vincoli: se vuoi, puoi andartene, smetterla di frequentarlo!»
«Mamma! Ne abbiamo già parlato. Se lo facessi, ti metterei in pericolo! Già i mortali di questo posto non sono esattamente raccomandabili, figuriamoci i mostri che potrei attirare, ed io non ci tengo a vederti…»
Mi bloccai. Non riuscivo nemmeno a pensarla senza vita. Mi venivano le lacrime agli occhi solo a figurarmi quello che avrebbero potuto farle i mostri per arrivare a me.
«Einar, ti prego» disse, con voce supplichevole, mentre gli occhi le si inumidivano. «Questa è la nostra occasione… la nostra occasione per essere felici. Da quando sei nato ho sognato di darti il meglio. So di non essere stata la migliore delle madri. Ci sono stati momenti in cui temevo di non avere possibilità, ma non ti ho mai lasciate, sebbene fossi disperata. Non lasciarmi adesso… Non andartene proprio ora che potremmo stare meglio, che potrei darti tutto quello che non ti ho dato fino ad ora.»
Non la guardai, tenendo gli occhi fissi sul motivo a fiori rossi e bianchi della tovaglia, sentendomi  soffocare dai sensi di colpa. Se solo avessi potuto avere una scelta diversa. Se solo avessi potuto rimanere con lei senza rimpianti.
Ma non potevo. C’erano persone che contavano su di me, al Campo. Alex, Lars, Astrid, Nora, Helen… Nico.
«Non posso» sussurrai, deglutendo, cercando di sciogliere il nodo alla gola. «Mamma, non posso farlo. Devo aiutare i miei amici. So che le mie parole ti potranno sembrare vuote, ma fuori di qui ho allargato la mia famiglia. Ho incontrato persone che mi hanno dato possibilità insperate, mi hanno accettato per ciò che sono. Non voglio dire che tu non sia più la mia famiglia, mamma, lo sarai sempre. Ma non posso lasciarle al loro destino, sarebbe come se abbandonassi i miei fratelli.» O le persone che amo, aggiunsi mentalmente, mentre la mia mente andava a Nico, che volevo tanto rivedere.
Mia madre abbassò lo sguardo rassegnata. «Sapevo che un giorno ti saresti allontanato da me, Einar, ma pensavo sarebbe avvenuto più tardi e non con il rischio di dover piangerti, stringendo in mano un mucchi di terra sulla tua tomba» sbuffò, con macabro sarcasmo.
«Cenere, mamma. I nordici cremano i loro morti» la corressi, sperando di rispondere battuta su battuta.
Ma non era proprio il momento di fare il brillante.
«Quel che sia, non voglio che ti accada» concluse, asciugandosi le lacrime.
«Mamma…» sussurrai, stringendole la mano che non mi aveva lasciato. «Io so che hai paura, ma ti assicuro che, qualsiasi cosa accada, farò di tutto per tornare da te. Alla fine di questa… merda, tornerò e ci godremo una nuova vita, lontano da questo schifo» la rassicurai, guardandola negli occhi.
Dicevo sul serio.
«E poi, se dovessi fallire, Ymir distruggerà tutto comunque, quindi sono incentivato a non morire» aggiunsi sarcastico, cercando di alleggerire la tensione ulteriormente.
Mia madre mi sorrise mestamente. «Devo presupporre che c’entri quel ragazzino di tredici anni che è venuto a trovarci qualche mese fa, vero?» intuì, ammiccando, anche se il suo sguardo rimaneva triste.
Mi sentii avvampare, nonostante non avessi problemi del genere, anzi, di solito ero io a fare commenti arguti per far arrossire gli altri e farli sentire in imbarazzo.
«Nico è un amico» risposi, senza fretta, mentre lei mi fissava. «Okay, forse qualcosa di più» aggiunsi, quasi sotto voce.
Elinor sospirò stanca, ormai rassegnata. «D’accordo, tesoro. Immagino che io non possa fare nulla per convincerti.» 
Scossi la testa, facendole capire che io avevo preso la mia decisione. Qualsiasi cosa sarebbe accaduta, non mi sarei tirato indietro.
«Almeno ti va di restare per ‘sta notte e domani che ci trasferiamo? Così sai dove tornare» mi propose, sorridendo.
Un sorriso triste, ma non senza speranza.
«Certo mamma» risposi, abbracciandola. «Con piacere.»
E lei mi strinse. Mi strinse, come fanno tutte le madri che vedono i figli partire per la guerra, sapendo che, forse, sarebbe stata l’ultima volta che li vedevano. Un abbraccio possessivo, forte, ma carico d’amore e di affetto che solo una madre può comunicarti.
Sul suo volto solo una tacita raccomandazione: «Torna a casa.»
Quella notte, rimasi sdraiato sul letto, sveglio, desideroso di addormentarmi e rifugiarmi nel mondo dei sogni, dove la fantasia e l’immaginazione diventano uno schermo contro la realtà maligna e crudele. Eppure, non avevo sonno.
Non riuscivo a sopportare quella situazione di merda in cui mi trovavo. Mi sentivo tradito dal fato e dagli Dèi che mi avevano giocato quel brutto tiro. Sembrava quasi che la mia vita non potesse mai andare per il verso giusto.
Pensai ad Astrid ed Alex, che erano pronti a sacrificare la loro stessa vita pur di stare insieme.
Perché io rischiavo la vita per gli altri? Cosa mi spingeva a farlo?
Mentre pensavo, presi in mano lo specchio comunicante che mi teneva in contatto con Nico di Angelo, che, in quel momento, si trovava a Nuova Roma. Una parte di me avrebbe voluto chiamarlo, un’altra parte  avrebbe voluto mandare tutto a quel paese e chi s’è visto s’è visto.
Ma la verità era che io sapevo bene per cosa, o meglio, per chi ero così ansioso di rischiare la vita, pur sapendo che, nel mio schifoso cinismo, mi sarei dovuto vergognare di quello che provavo. Attaccarsi alle persone rendeva schiavi di esse, come Astrid ed Alex, che erano schiavi l’uno dell’altra e viceversa. Eppure, in qualche modo, era una schiavitù accettabile, perché la migliore di tutte.
Era proprio vero: l’amore fa fare follie e rende ciechi, pensai, rigirandomi nel letto, mentre la risposta nella mia mente rimbombava chiara: Nico di Angelo.

 
koala's corner.
Buonasera, semidei! Questo è il penultimo capitolo della serie e vi annunciamo già da subito che l'ultimo verrà pubblicato venerdì stessi , per una serie di motivi vari che potete vedere sula pagina FB di "Cronache del Nord."
La prima parte del POV di Alex è un classico dei semidei: piove merda. Ovviamente, Odino non poteva starsene buono ed è pronto a fare guerra al Campo Giove. E Johannes fa lo stronzo come al solito.
Io mi stupisco di come Ax abbia arricchito il suo vocabolario da quando mi frequenta. Davvero. E' commovente.
Poi, volevamo mostrare un po' le madri dei semidei che sono sempre rimaste di sfondo, quindi abbiamo esplorato le loro vite adesso portando un po' di gioia.
Dopo Dana, c'è anche Elinor, che forse ricorderete per il piccolo colloquio padre-figlio di Venti del Nord con la partecipazione di Sigyn.
Einar è lo sfigato del gruppo, che però ha anche lui un buon rapporto con sua madre :P
Ci vediamo venerdì, alla prossima!

Soon on DnN: POV Astrid, finale di stagione (?) decisamente felice. Evviva!
 
  
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