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Autore: Some kind of sociopath    26/02/2015    2 recensioni
Anno 1769: Haytham E. Kenway, dopo il suicidio dell'amico Jim Holden e la morte della sorella Jenny è tornato a Boston alla ricerca di Tiio. Lei è sopravvissuta all'incendio del villaggio, nonostante il figlio non lo sappia, e Haytham ha intenzione di ricucire la sua famiglia, quella che non è riuscito ad avere nella propria gioventù. Ma non ha messo in conto gli altri Templari, il suo vecchio Gran Maestro Reginald Birch e la piccola e fastidiosissima Confraternita degli Assassini...
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Il testo dei primi due capitoli è stato rivisto e modificato. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate al riguardo e quale "versione" preferite, ;)
 
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Achille Davenport, Altro personaggio, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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Respirava a fatica, la schiena premuta contro una delle colonne di legno che adornavano la taverna e le mani premute sulla faccia sudata. Idiota. Era stato un dannatissimo idiota a pensare che quella storia potesse portare a qualcosa di buono, e Haytham con lui. Avrebbe voluto averlo di nuovo davanti a sé, in carne, ossa e cappello, soltanto per afferrarlo per le spalle, scuoterlo e gridargli addosso che era un folle. Non poteva funzionare. Non avrebbe mai funzionato, mai. Sudava come se lo avessero messo ad arrostire su uno spiedo, le ginocchia che gli tremavano nei pantaloni e grosse gocce di sudore a solcargli la fronte e quella specie di tronco che aveva al posto del collo. – Tutto bene, signore? – Connor sussultò quando una delle cameriere gli piazzò una mano sul braccio, spalancando la bocca in una smorfia stupefatta. – È tutto a posto? Vi serve un tavolo? – Le sue ciglia sfarfallavano senza vederla davvero, il pomo d'Adamo che rifiutava di scendere in gola e fargli deglutire tutta la saliva e la paura che gli impregnavano la lingua come veleno. Un tavolo, gli chiedeva, con gli occhi sgranati sul volto e un sorriso cortese, di circostanza, tipico di quelle persone cui non importa nulla di come ti senti davvero, ma si limitano a fare il loro mestiere come meglio possono.
– No, grazie – mormorò il ragazzo, il cuore che rombava dentro il suo petto. C'era già un tavolo cui lo stavano aspettando, e in quel momento gli sembrava già uno di troppo. Non avrebbe mai dovuto dare retta a Haytham e al suo modo di pensare. Sembrava tutto così realizzabile quando era ancora in vita.
Ora sentiva soltanto un terribile presentimento gelarlo fin dentro le ossa, come ogni volta che passava davanti a una forca o prendeva in mano la Chiave del Tempio, quel piccolo ciondolo tiepido stretto contro il palmo della sua mano. Non poteva andare bene. Niente era mai andato bene nella sua vita, nemmeno quando si trattava di cose semplici, figuriamoci per qualcosa di tanto grandioso. Era un'idea ridicola. Così dannatamente degna di suo padre.
L'occhiata della cameriera si fece affilata come un coccio di vetro, improvvisamente sospettosa. – Avete intenzione di ordinare? – gli soffiò contro.
Connor sollevò un sopracciglio, interdetto. Il suo primo pensiero fu quello di risponderle con un secco "A dire il vero occupo una delle camere", ma non era nei suoi scopi causare problemi, se poteva evitarlo. – Io... Sì – mormorò, lanciando una scrupolosa occhiata al bancone. Nient'altro che una tavola sudicia e piena di schegge e macchie, ma occupava con un quadrato perfetto il centro della sala. Era un buon posto per pensare senza essere notato. – Dell'acqua – le disse senza pensarci troppo, un dito già puntato verso la sua futura postazione. – La prendo...
– Non posso servirgliene. Una birra? – Rieccolo, il sorriso della ragazza, aperto e ostentato come un regalo. Le persone erano davvero tutte così, nel mondo? Non riuscivano per una volta a essere sincere?
Gli sembrava di risentire Haytham. – Vada per la birra, grazie.
– Di nulla. – E sparì, così come gli era apparsa davanti, indicandogli con un cenno il bancone circondato da marinai, contadini e abitanti della città.
Era uno spettacolo strano. Si discuteva di guerra e rivoluzione, di schiavi e tasse, di donne e carte, eppure nessuno sembrava davvero prendere sul serio il proprio argomento. Tutti i loro sguardi finivano per vagare nel vuoto, forse a causa dell'alcool, oppure per quella strana inerzia che inibiva tutti quanti, come circondati da un'armatura di melassa. Non si sapeva più niente della guerra, niente dell'Inghilterra e meno di niente sulla sorte degli indiani. Era come se da un po' di giorni il tempo avesse smesso di scorrere, ma non si trattava una tregua. La brutta sensazione di Connor era la stessa che spingeva i loro occhi verso il nulla. La terrificante quiete prima della tempesta.
– La vostra birra.
Gli piazzarono davanti un boccale di quella roba strana e giallina che tutti gli uomini bevevano e sembravano gradire molto, ma a Connor non diceva proprio nulla. Eppure preferiva quello a un tè – troppo inglese, troppo presto – o a un silenzioso pasto in solitaria alla Tenuta. Non era ancora riuscito a tornarci, non dopo quella notte. Rivedere la buca in cui aveva seppellito Achille, accanto a sua moglie e suo figlio, l'aquila impagliata sul cassettone della sua stanza e i registri compilati con la sua pessima scrittura lo avrebbe distrutto, quasi quanto scendere nella stanza segreta degli Assassini ed essere costretto a fissare gli occhi vitrei del ritratto di Haytham.
Cercò di dimenticare quei pensieri seppellendoli con un sorso di birra amara, e lasciò che i suoi occhi scandagliassero per bene la taverna. Ogni tavolo, ogni commensale, in tutte le direzioni. Avrebbe potuto usare l'occhio dell'Aquila, ma l'idea non lo allettava. Non dopo quello che i Precursori avevano fatto a Haytham. Voleva averci il meno a che fare possibile, a costo di diventare cieco nello scrutare persino gli avventori più lontani. Quella roba scivolò giù per la sua gola come lungo un pendio scosceso e pieno di sassi, gli sembrava di ingoiare olio di pietra.
Non ce la faceva. Non poteva farcela, e maledetto lui per aver dato quell'idea. No. No, no, non era pronto, non poteva sopportare una cosa del genere, non così presto. Sfilò una sterlina dalla scarsella, le dita tremanti, e sollevò un dito in direzione della cameriera, il volto che bruciava e la camicia appiccicata alla schiena madida. – Signorina? – tentò di esclamare con un briciolo di entusiasmo, la voce flebile come quella di un vecchio in punto di morte. – Quanto...
– Ehi! Guarda guarda, chi non muore si rivede. – Una mano era calata sulla sua spalla come un artiglio, le unghie conficcate nella carne e nei tendini sotto la giubba da Assassino, e quella voce... Dio, quella voce, così ebbra, viscida e impastata come ne aveva sentite uscire solo dalle bocche dei disperati che dormivano per strada. Non aveva mai pensato che risentirla sarebbe stato così terribile, invece bastò quel poco a fargli lanciare un sospiro rassegnato, le labbra aperte in una smorfia che tradiva la fuga istantanea delle sue speranze. – Come andiamo, dolcezza? Giocavi a nascondino?
Connor strinse i denti e strizzò la moneta nel pugno, lo sguardo chino sui propri calzoni. Iniziava a pensare che la sfortuna lo stesse perseguitando. – Hickey – sibilò. – Rivederti è sempre una gioia.
– Pure per me, bastardo – gli sussurrò nell'orecchio con quella voce liquida, come se stesse per schioccargli un bacio sulla pelle sudaticcia del collo. – Pure per me. Andiamo, che stai aspettando? Prendi quel piscio, dai, non abbiamo tempo da perdere. – Il Templare puntò gli occhi scuri e lucidi come pozzi dentro i suoi, un sorriso sghembo a incurvargli l'angolo della bocca mentre gli tirava un colpetto sullo sterno con l'indice. – Io e Charlie ti stiamo aspettando da un pezzo. – Detto questo agganciò il dito alla sua cintura e lo tirò verso di sé con una smorfia, le gambe appena schiuse e il bacino pericolosamente inarcato verso di lui. – Forza, muoviti.
Tom schioccò forte la lingua contro il palato, manco stesse richiamando un cavallo, e Connor roteò gli occhi. Oh, il cuore stava per esplodergli dalla gioia, come avrebbe detto suo padre.

– Ehi? Charles? – Connor affondò il pugno in tasca, lo sguardo ostinatamente fisso sulle ginocchia. Avrebbe venduto la propria anima per non avere la vista periferica, ma i suoi occhi continuavano a cadere su quella triste scenetta. Tom stringeva le dita sulle spalle di Lee, le labbra quasi poggiate sul suo orecchio, mentre il più giovane dei Templari nonché prediletto di suo padre fissava il vuoto con le labbra strette in una smorfia disperata, le palle degli occhi così lucide e piene di lacrime da potercisi specchiare. – Charlie? Ehi, hai visto chi c'è? Dai, non farti pregare, guardalo. – Hickey gli strinse la mascella in mano, girando bruscamente il suo viso verso Connor. – Il bastardo! Che sorpresa, eh? Non sei contento di vederlo?
Le palpebre di Charles si mossero velocemente, battendo sugli occhi come in preda a un tic nervoso mentre il boccale nelle sue mani rischiava di traboccare da un momento all'altro, scosso dai tremori delle sue dita. L'indiano gli rivolse un muto cenno del capo, ma non poté fare a meno di abbassare gli occhi sulle sue mani, su quelle nocche bianche a forza di stringere il metallo. Il pensiero che qualcosa del suo viso, qualunque cosa, potesse riportare l'immagine di Haytham nella sua mente gli colmava il cuore di una sorta di dispiacere. Pietà, più probabilmente, pietà per il suo nemico, quell'uomo che lo aveva quasi strozzato quando era soltanto un bambino e gli era parso così spavaldo e pieno di sé che il solo pensiero del suo volto lo faceva fremere di rabbia, mentre ora non riusciva nemmeno a guardarlo in faccia. Pensava al suo naso, lo stesso che aveva occupato il volto di Haytham, e alla forma dei loro occhi, gli occhi dei Kenway, e sapeva che nonostante gli anni, nonostante la prigionia presso l'altro Gran Maestro, Reginald Birch, Charles non aveva dimenticato quei dettagli. C'era persino la possibilità che non ci riuscisse mai. Aprì la bocca in un sospiro, la lingua improvvisamente secca come un pugno di sabbia. Haytham aveva sempre guardato a lui come a un figlio, ma era senz'altro più evidente la considerazione che Charles ancora provava nei suoi confronti.
Era lui quello che era scoppiato a piangere quando Haytham aveva stretto la Mela nel pugno e si era allontanato su per le scale. Lui aveva sbattuto la faccia contro quella parete di vetro venuta fuori dal nulla, la bocca aperta in un raglio disperato mentre Haytham sorrideva, e sorrideva per Lee, Connor lo sapeva. Poteva non essere stato il miglior figlio del mondo, ma conosceva suo padre. Sapeva che non avrebbe mai fatto niente che potesse ferire Charles in alcun modo, specie in quel momento. Aveva preferito fingere di averlo sempre saputo e mostrarsi rilassato, sereno, così che facesse meno male a tutti.
Connor sbuffò e afferrò una sedia dal tavolo vicino, trascinandola accanto a quella di Lee. Forse lo sapeva anche lui, per questo era così disperato. Perché qualcosa gli diceva che non sarebbe stato piacevole come Haytham voleva far credere. Perché l'aveva salvato, e nessuno di loro aveva fatto niente per ringraziarlo. Gli aveva detto di dir loro la verità, di raccontare com'erano andate le cose quando avevano toccato la Mela e parlato con gli spiriti della Prima Civilizzazione, ma come poteva farlo? Insomma, lui si era offerto per morire al posto di Haytham, Tom gli aveva salvato la vita con quel suo folle piano da doppiogiochista, ma Lee? Cosa aveva fatto Charles, a parte blaterare scuse, guardarlo con gli occhi sognanti e piangere? Non voleva che stesse peggio, ma i fatti parlavano chiaro.
Che assurdità, eh? Lo aveva odiato con ogni fibra del suo corpo, e ora viveva con la paura di distruggere la sua salute mentale.
Si lasciò cadere sulla sedia al contrario, un avambraccio poggiato sullo schienale, e pensò che la vita a volte era proprio strana. – Riesce a parlare? – chiese a Hickey, la voce sottile e roca fuori dalle sue labbra. Impaurita. Mandò giù un lungo sorso di birra, sperando che gli sciogliesse quella dannata lingua, come un blocco di metallo in bocca, altro che Lee.
Thomas fece spallucce, sollevando il suo bicchiere. Conoscendolo, doveva essere scotch, o gin, o rum, o qualcosa di forte di quel genere. I dettagli, sì, era quello l'importante. Focalizzarsi sui dettagli. – Uhm, sì. Eh, Charlie? Ci siamo fatti delle belle chiacchierate, non è vero? – Fece strisciare la sedia verso Charles, punzecchiandogli con un dito il lobo dell'orecchio. – Sul vecchio Reginald, per esempio. Aveva un buon ritmo? Com'era messo a resistenza? E vuoi non parlare di misure? Eh, Charlie-boy? Vuoi non parlare di misure? – Hickey scoppiò in una lugubre risata, come il latrato di un cane difficile, la fronte premuta contro l'orecchio di Lee e una mano serrata sul suo collo per tenerlo vicino a sé. Connor aggrottò un sopracciglio, cercando di non chiedersi a cosa potessero alludere quei discorsi. Non voleva sapere. – Bravo ragazzo – sussurrò, la voce venata di qualcosa che somigliava terribilmente al rammarico. – Sei davvero un bravo ragazzo. Non è vero, bastardo? Guardalo! – esclamò, la mano libera che ora dava piccole pacche sulla sua guancia. – Guarda che faccino.
Deglutì forte, il sapore della birra a infiammargli l'esofago. A lui sembrava più il volto di un orfano devastato dal dolore, la pelle trasparente tesa sugli zigomi e sulla fronte, in netto contrasto con la barba e i baffi così scuri. Persino l'azzurro dei suoi occhi era spento, l'ardore di quel giorno di vent'anni prima nella Frontiera completamente risucchiato dalla disperazione. – Hickey – sibilò tra i denti, cercando di metterci un po' di autorità. – Lascialo in pace.
Chissà cos'avrebbe detto Haytham davanti a una scena del genere. Forse avrebbe riso per i loro ridicoli tentativi di andare d’accordo, ma era quel che voleva, no? Che almeno provassero a essere uniti. – Sei ubriaco?
Thomas sollevò un sopracciglio, l'angolo della bocca inarcato in un sogghigno. – Domanda idiota, bastardo. – E chinò il capo sul bicchiere, il volto ancora torto in quell'espressione famelica. Per un attimo Connor fu tentato di seguirlo, mandando giù sorsi di birra fino a vederci doppio. Tutto era meglio di intraprendere quel discorso, ma qualcuno... Qualcuno doveva pur farlo, no? Per Haytham, per il resto del mondo. Per tutti loro.
– Giunone mi ha parlato – sibilò tra i denti, la mano destra stretta sull'impugnatura del boccale. – Di nuovo.
Charles gli scoccò uno sguardo interdetto, le ciglia che continuavano a sfarfallare sopra le palle lucide dei suoi occhi. – Una donna ti ha rivolto la parola? Per più di una volta? – Tom emise un lungo fischio divertito, completamente sbracato sulla sedia. – Cazzo, uno di quei momenti che segnano la tua esistenza.
– Giunone – ripeté Connor, stupendosi di cercare con gli occhi Lee. Forse avrebbe capito un filo di più. – Uno degli spettri della Prima Civilizzazione. Mi ha parlato – sottolineò. Fece del suo meglio per mantenere il contatto visivo con Lee, ora imbambolato a strizzare gli occhi come se non volesse sentirne parlare nemmeno sotto tortura. Ma dovevano. Dovevano, maledizione, almeno per ciò che aveva fatto suo padre. – Lo fa spesso, ecco. Ma ora è più insistente che mai.
– Che cosa vuole? – La voce strisciò timida attraverso le labbra di Charles. Finalmente. Non avrebbe sopportato un'altra delle battutine lascive di Hickey, o quel suo modo di toccarlo come fosse un dannato quarto di bue.
Connor si allungò verso di loro, la schiena tesa e i gomiti poggiati sul piano pieno di macchie e tacche del vecchio tavolo rotondo. – La Chiave – sussurrò. – Vuole che la abbiano gli Assassini, ma quelli... Del futuro, ecco. Per chissà quante generazioni a venire.
– E allora? – Tom inclinò il bicchiere sulle labbra e lo ingollò tutto in un sorso, sbattendolo giù con fin troppa enfasi. – Voi simpaticoni incappucciati avete tenuto la Mela nascosta per secoli, con quello lì... Come si chiamava, eh?
– Altaïr – puntualizzò Charles a mezza voce. – L'Assassino di Masyaf.
– Quello, bravo. Siete riusciti a nascondere la Mela in un posto sperduto in mezzo alle montagne della cazzo di Europa e buttare via tutte le chiavi. E già prima che la trovasse quell'altro era rimasta lassù quattrocento anni. – Thomas gli sventolò quattro dita davanti alla faccia, come se fosse troppo tardo per capire. – Quattrocento!
– Come fai a conoscere quella storia? – brontolò Connor. Lo scioccava molto di più scoprire che Hickey conosceva Altaïr Ibn-La'Ahad che non sentirsi sbattere in faccia la propria inettitudine come Assassino. Di quello poteva quasi dirsi consapevole, bastava pensasse alla Tenuta, la meravigliosa villa in cui era cresciuto e dove ora aveva paura di tornare.
L'irlandese gli rivolse un'altro di quei sorrisi sghembi prima di far cadere gli occhi dentro il bicchiere vuoto. – Birch. Haytham. Sapevano un sacco di allegre storielle sul vostro mucchio di fanatici. Su quando ancora contava qualcosa, intendo. – Sollevò entrambe le mani in segno di resa e fece schioccare forte la lingua contro il palato, pronto a cambiare discorso. – Tralasciando questo, che problema vuoi che ci sia nel passarvi una collanina di cui non frega niente a nessuno? Voglio dire, adesso siamo nella stessa barca, uh? Non cercherai di ammazzarci con del vino avvelenato, spero.
Connor infossò la testa nelle spalle e prese un gran respiro. Non era pronto, forse non lo sarebbe stato mai, ma quando se non allora, con la birra in circolo nel sangue e il brusio della taverna a ronzargli dentro le orecchie? Doveva rischiare. Cosa avrebbero potuto fargli, tanto? Tirargli uno sculaccione?
Il pensiero di Thomas Hickey intento a colpire il suo fondoschiena con il palmo aperto gli fece risalire un brivido inorridito lungo la schiena. – Il problema – mormorò sovrappensiero, gli occhi puntati sulla bocca storta di Tom. – Un problema c'è eccome, ed è più grosso di quanto sembri. – Eccolo lì. Il punto dolente, il nocciolo della questione, quello che gli divorava il petto come un tarlo da quando Haytham era morto, fin dalla sua prima solitaria notte in quella taverna. Doveva dirglielo. Lo meritava. E loro meritavano di sapere, in fondo, perché erano lì nonostante tutto. Era lui il codardo, quello rimasto appiattito contro una colonna con il fiato grosso per la paura di guardarli negli occhi. Meritava il loro disgusto e la loro indignazione, pietà, compassione, qualunque cosa volessero offrirgli, ed era suo dovere accettarlo come un dono.
– Voglio uscirne – mormorò. – Lascio la Confraternita.
Onestamente Connor si aspettava tutto, tranne quel devastante silenzio. No. Non avevano sentito. Insomma, era una notizia sconvolgente. Aveva stentato a credere a se stesso quando la sua coscienza gli aveva suggerito quell'idea, il male minore per tutti, come potevano quei due reagire così? Doveva aver sbagliato qualcosa. – Lascio la Confraternita – ripeté, la voce più alta di mezzo tono. Solo dirlo gli provocava uno strano dolore al petto, come se qualcuno lo avesse punzecchiato con un coltello da burro, eppure c'era una nota di isteria nelle sue parole, una risatina in fondo alla gola pronta a incrinare tutto il suo discorso. – Io...
– Abbiamo capito – replicò Tom secco, lo sguardo appena sollevato dal fondo del bicchiere. – Non devi cercare di metterti al centro dell'attenzione a ogni costo, lo sai?
Connor deglutì forte, la lingua improvvisamente spessa come un ciocco di legno in bocca. – Tutto qui? – gemette. Dio, sembrava che stesse per scoppiare a piangere, con le labbra che tremavano e i pugni stretti in due morse che avrebbero potuto spezzare a metà il tavolo. Non che volesse dargli ragione, ma era assurdo che non avessero niente da dire. – Sapevate che sarebbe successo? – La curiosità e l’ira gli bruciavano nel petto insieme all’alcool, un miscuglio che minacciava di farlo saltare in aria come una santabarbara.
– Nah. – Thomas gli sorrise, facendo rotolare rumorosamente il bicchiere contro le assi sconnesse. – Però non mi stupisce, visto come siete ridotti. – Gli parve quasi di sentirlo aggiungere due parole in un colpo di tosse, qualcosa che suonava un po’ come inutili perdenti.
Serrò la mascella. “Come voi ci avete ridotto” avrebbe risposto in qualunque altro momento, magari davanti a Haytham o ad Achille. Lì non c’era più nessuno. Soltanto loro, una squallida taverna alla periferia della città e un piano da mettere in piedi. Affondò le unghie nel palmo della mano libera, così teso verso di lui che i muscoli della schiena gli bruciavano come vecchie corde usurate. – Spero tu abbia capito che tutto questo non significa nulla – riuscì a sibilare, gli occhi fissi in quelli di Hickey. Odiava il modo in cui sembrava impossibile fargli paura. Guardava tutti allo stesso modo, con quella strana miscela di divertimento e svogliato disinteresse, come se niente al mondo fosse importante, tolto il liquore nel suo bicchiere. – L’alleanza ci sarà. – Si assicurò di spostare lo sguardo dall’uno all’altro, puntandolo anche negli occhi vitrei di Charles Lee, il volto mezzo affondato nel suo boccale. Era lui quello più sensibile alle parole di Haytham, lui quello su cui far leva. Forse Achille non aveva aiutato la Confraternita a espandersi, ma almeno gli aveva insegnato qualcosa sugli affari. O quella era stata la vita alla Tenuta?
Non importava. – Si tratta solo di deciderne i termini. Per questo siamo qui. – Ritornò ad appoggiare il fondoschiena sulla sedia, i muscoli del dorso improvvisamente rilassati. Sembrava che già solo dicendo di voler mollare gli Assassini gran parte del peso che gli premeva addosso fosse sparito. – Carta e penna?
– Buono, bastardo, rallenta un minuto. – Hickey strinse il bordo del bicchiere tra pollice e indice, sollevandolo con la stessa cura che avrebbe riservato un banchiere a una pila di sterline. – Perché tagli la corda? – sogghignò. Non gli era mai sembrato particolarmente intelligente, eppure aveva quello sguardo, come se potesse cogliere i suoi pensieri più vili solo guardandolo, che gli metteva addosso una gran paura. – Se non sono indiscreto, ovviamente.
Lo era eccome, ma non gliel’avrebbe data vinta per niente al mondo. Con tutto il rispetto per suo padre, dovevano formare un’alleanza, non un circolo di pettegolezzi. Non era necessario andare d’accordo, la fiducia reciproca doveva essere più che sufficiente. E, a malincuore, Connor concluse che quello era un buon punto da cui cominciare. – Non mi sento in grado di portare avanti gli Assassini. Ci sono persone che meritano questo compito più di me, uomini con un altro senso del dovere. Con uno sguardo diverso sul mondo. – Strinse la labbra tra loro, e d’istinto si nascose la bocca con il boccale. Maledizione. – Dopo tutto il tempo passato insieme a voi due è come se il mio ottimismo fosse svanito. – Ottimismo o ingenuità, come volesse chiamarlo. Connor strinse i denti. Non riusciva a fingere di non vedere il sorrisetto che aveva appena fatto capolino sulle labbra di Thomas, ma che altro poteva fare?
Sopportare. Si trattava di sopportare e parlare, mettere le carte in tavola. Doveva fidarsi di loro. Stava tutto lì, no? Fidarsi. Sembrava così semplice a pensarlo. Il vero problema era metterlo in pratica, con soggetti del genere. – Guarda questo posto – sibilò, la voce fuori controllo e trasudante ira. – Guardali. Dovrebbero essere lì fuori a combattere. Nessuno gli dice niente, eppure non si ribellano. La guerra c’è ancora, e un sacco di soldati continuano a morire, ma si rifugiano in questa pace apparente come fosse un giaciglio sicuro.
– Allora perché non glielo dici tu?
Connor sbuffò. Hickey poteva fare il furbo quanto voleva, ma a questa domanda era preparato. Lo sapeva. Aveva capito. – Per lo stesso motivo per cui non merito il posto di Mentore. Perché non ce la faccio. – Fece strisciare il boccale verso il centro del tavolo con un grattare sinistro e sollevò le mani in segno di resa, sentendo il sangue bruciare in piccole mezzelune sul palmo. – Contento?
Il Templare fece spallucce e accavallò le gambe sotto il tavolo. – Diciamo di sì. – Si voltò verso Charles, come a cercare il suo appoggio, ma Lee continuava a tenere gli occhi su di lui, le palpebre che sembravano rifiutarsi di muoversi. – Però fammi capire se ho colto il concetto. Io e Charlie qui ci mettiamo d’accordo con te sui termini di questa cosa, giusto? Poi? Tu diffondi la buona novella tra gli Assassini e passiamo il resto delle nostre vite a pregare e bere come fossimo sempre stati dei bravi compagni di giochi?
Deglutì forte. Su per giù, il suo piano consisteva più o meno in quello. – Farò del mio meglio per convincerli di quanto tutto questo sia vantaggioso. Ve lo posso…
Lee emise uno sbuffo, come se fosse tornato dall’aldilà. – Non hai idea di come siano fatti gli uomini – gli soffiò contro, lo sguardo perso in un imprecisato punto alle sue spalle. O forse gli stava fissando il naso, chissà. – Solo perché tu non vuoi combattere non significa che tutti gli altri accetteranno.
– Sono stanchi – replicò Connor cercando di restare calmo. Mantenere il contatto visivo. Respirare. Piccole cose che rendono più facile il dialogo e più difficile l’essere uccisi. O almeno, così sperava. – E lo sono almeno quanto me. Questa guerra ci sta portando alla rovina. Sarà una situazione di prova, mettiamola così. Se va tutto bene, la tregua permarrà. Altrimenti…
– Questo fino a quando? – Era così strano. Pensava che sarebbe stato proprio Lee quello più facile da convincere. Era stato il prediletto di suo padre, il suo pupillo, non sarebbe stato da lui opporre resistenza al suo ultimo desiderio, giusto?
Peccato che quei gelidi occhi azzurri dicessero l’esatto contrario. – Fino alla fine della guerra, conflitti interni successivi compresi. – Sentì un groppo amaro scendergli giù per la gola. Qualche anno prima non avrebbe mai neppure pensato che una guerra potesse durare così tanto, ora prendeva in considerazione persino le piccole scaramucce che quelle catastrofi si lasciavano alle spalle. E Charles Lee osava dirgli che non conosceva gli uomini. – Avete idea di quanti inglesi ci siano ancora nelle Colonie? Di cosa potrebbe succedere loro quando i patrioti vinceranno? – Pensò a Lee con un moto di tristezza nel petto. La sua carriera militare poteva anche essere andata in fumo per tutta una serie di battaglie perse e pessime scelte in campo diplomatico, ma nessuno poteva negare che il fatto di essere inglese avesse inciso sulla sua considerazione nell’esercito. Ma lui era ricco, o lo era stato, e sapeva difendersi. Che cosa sarebbe successo a tutte le madri e i bambini inglesi, vedove e orfani di uomini che li avevano abbandonati in un paese straniero e in cui tutti li additavano come appestati?
Case in fiamme, gente impiccata, la feroce applicazione della giustizia personale. Un brivido gli solcò la schiena come un cavallo imbizzarrito. Non potevano permettere una cosa del genere. Non era giusto. – Solo fino ad allora. – Solo. Si diede mentalmente dell’idiota, il cuore stretto in una massa acida e pulsante in cima alla gola.
– Se non vi uccidiamo tutti prima – replicò Hickey gelido, le labbra piegate in un cinico sorrisetto. Gli venne istintivo scuotere la testa, come davanti a un bambino turbolento e disobbediente. – Che c’è?
C’erano un sacco di cose, in teoria, ma non poteva seminare zizzania. Suo padre. Lo doveva a suo padre, maledizione. – Haytham… – Si poggiò una mano sul petto, per un attimo incapace di respirare. La rabbia lo stava colmando come un vecchio otre. Doveva calmarsi, o rischiava di esplodere. – Haytham non avrebbe mai permesso che ce ne restassimo qui con le mani in mano.
Thomas inclinò il capo da una parte, gli occhi stretti in una smorfia che sembrava solo ribadire quanto fosse ingenuo. – Tu non lo conosci, bastardo. – Forse, ma conosceva se stesso. Hickey doveva togliersi quella smorfia dal volto, oppure gliel’avrebbe levata lui con un pugno.
No. No. Respirare. Contatto visivo. Perché era così difficile, maledizione? Si costrinse a deglutire, annuendo anche se non c’era niente cui farlo. – Ho passato settimane con lui in quella vostra bettola di Boston, e forse non le avrò trascorse con le mani in mano, ma con l'uccello in una e una bottiglia nell'altra sicuramente sì. – Il suo sguardo vagò da Connor a Charles, scrutandoli come alla ricerca di una loro reazione. Ma nessuno parlava. Nemmeno Lee. Forse perché non lo trovavano così poco credibile, pensò Connor, il cuore pesante. – Haytham parlava. Il fatto che desiderasse una tregua non l’ha mai resa possibile.
– Sei un ingrato.
Connor sussultò, a metà tra il sollievo e la sorpresa. Sembrava che il secondo in comando dei Templari si fosse finalmente risvegliato da quella sua apatia e si stesse finalmente facendo avanti per difendere suo padre. E se una parte di lui era rimasta scossa nel sentire quelle parole uscire dalla bocca di Thomas, accendendogli nel petto la voglia di replicare in favore di Haytham, un’altra sapeva che era meglio lasciare quell’onore a Charles. Se lo meritava. E lo desiderava più di qualunque altra cosa al mondo. – Che? – Abbozzò un sorriso davanti all’espressione disgustata di Thomas. Aveva conosciuto un sacco di soldati come lui, come Israel Putnam, tanto in gamba quando si trattava di diplomazia quanto bruschi e scortesi con i propri sottoposti. Un atteggiamento tipico.
Solo che Charles non sembrava in vena di tollerarlo. – Ho detto che sei un maledetto ingrato – ripeté, gli occhi improvvisamente accesi di furia puntati in quelli di Tom. Pregava soltanto che non si iniziassero a prendersi a pugni. Non lo avrebbe sopportato. Dopotutto, Lee aveva ragione. Suo padre era morto, maledizione, e Hickey si comportava come se non avesse fatto nulla di speciale. Ma la colpa era anche sua, rifletté mentre sentiva il sudore colargli in gelidi rivoletti lungo il collo. Sua, perché non gli aveva parlato di quella strada cupola di raggi di luce, della richiesta della Prima Civilizzazione, e probabilmente non l’avrebbe fatto mai. Non aveva nessuna voglia di ripensarci. E poi, coraggio, chi avrebbe creduto a una cosa simile? – Ci ha salvato la vita. – Fortunatamente la voce di Lee lo riscosse da quei pensieri, riportandolo nella quiete apparente della taverna. – A tutti e tre.
Non pensava di essersi mai trovato più d’accordo con Charles, in fondo, e si stupì del fatto che Thomas non stesse roteando gli occhi e sbuffando come al suo solito. Chissà, magari era anche arrivato a riconoscere il fondo di verità nelle parole di Lee. Si schiarì la voce, sentendo il bisogno di intervenire prima che la situazione degenerasse. – Ha ragione. – Due paia d’occhi si spostarono su di lui, intenti a fissarlo come se non l’avessero mai visto davvero. – Se credevate davvero in lui e credete in quello che fate dovreste cercare una mediazione con gli Assassini. Cercarla sul serio, non soltanto perché è ciò che vi ha ordinato. Non credete che tutto questo sia sprecato? Voi cercate la democrazia, noi anche. Dite di sapere come siano fatti gli uomini, giusto? Lasciate che siano loro a scegliere, dunque. – Si fermò a riprendere fiato. Non era stato un discorso lunghissimo, ma gli sembrava di avere i polmoni ridotti a due prugne secche. – Gli Assassini possono ancora fare qualcosa. Io... Io non ho mai pensato davvero a quel che diceva il Credo. – Sentì il sangue pompare più forte, il rombo delle vene dentro le orecchie. Non lo stava dicendo ad alta voce, giusto? Non era vero. Non… – Mi hanno dato una casa, delle armi, degli ideali, ma nessun modo giusto per sfruttarli. Io non so quale sia, il modo giusto. Non l'ho mai saputo. – Maledizione. Maledizione a lui e alla sua boccaccia e agli occhi di Charles Lee, che non la smettevano di puntarlo come delle lucerne. Doveva restarsene dietro quella colonna, ecco la verità, con le mani sulla faccia e il sudore a inzuppargli il viso, e mandare al diavolo la cameriera e chiunque volesse impicciarsi degli affari suoi per tornare in camera, il volto affondato nei cuscini e la mente travolta da un sonno agitato.
Odiava se stesso per continuare a parlare. – Non sono adatto a un compito come questo. – Odiava se stesso per non riuscire a cambiare le cose.
– Quindi che farai? – chiese Thomas, il solito tono noncurante. Non riusciva a crederci, dannazione.
– Metterò una buona parola per voi – gli uscì stancamente di bocca. – È tutto quello che...
Il Templare scoppiò a ridere, e questa volta fu lui a tendere il busto verso Connor, quel sorrisetto malizioso perennemente stampato in faccia. – No, bastardo, intendo che farai adesso.
Grazie al cielo aveva una risposta anche per quello. Era stata forse la parte più semplice dell’intera situazioni. – Aiuterò… i patrioti. – A dire il vero la sua prima idea era stata quella di aiutare Washington, ma non poteva dimenticare quel che aveva fatto al suo villaggio, quel che avrebbe potuto fare se non fosse intervenuto in tempo. Perdendo per sempre il suo migliore amico. – Lotterò perché questo finisca. Per un governo che sia giusto. Il popolo merita di scegliere.
Thomas Hickey puntò un gomito sul tavolo, il volto premuto contro il pugno chiuso come una ragazzina petulante. Connor non aveva idea di come stesse seduta una ragazza, a dire il vero, ma se la immaginava esattamente così. Con quel sorriso e le ciglia a sbattere con aria scaltra sugli occhi scuri. – Ti svelerò un segreto, bastardo. – Magari con la stessa nota da bambino combinaguai nella voce. Solo, senza dargli del bastardo. – Il popolo non merita niente. Li hai visti, no? – Roteò gli occhi verso gli altri clienti della taverna e lanciò uno sbuffo, l’indice puntato sotto la mascella a sollevargli il volto. Come un pezzo raro di qualche macabra collezione. – Gli dai un briciolo di potere e subito ci si crogiolano come dei maiali nella merda. Con questi coglioni è come bere del buon vino, un bicchiere tira l'altro e prima che te ne renda conto sono sbronzi fino al buco del culo.
Solo quando Hickey lo lasciò andare con una risatina Connor si rese conto di aver smesso di respirare, come se in fondo credesse a quel che Thomas gli aveva detto. No. Era un Assassino. Cioè, no, non più, d’accordo, però… Diavolo, non aveva sempre pensato che gli uomini potessero migliorare la propria condizione, se solo l’avessero voluto? Era il fondamento della democrazia, no? L’idea di prendere in mano il proprio destino e farsi strada nel mondo, tutti insieme. – Hai mai… – Tom Hickey sollevò le spalle e prese fiato, storcendo la bocca in una smorfia scettica. – Lo sai. Pensare che forse ti impegni tanto per niente. Tu per dire chiunque. Ti riempi di merda fino ai gomiti per gli altri, eppure nessuno nota i tuoi sforzi. Mai successo?
Connor deglutì forte, la saliva come acciaio fuso lungo l’esofago. Certo che sì. Gli era successo in quella taverna, e prima, quando Achille era morto, quando Molineux era morto, o quando London era morto, o alla sua esecuzione, quando tutti continuavano a fissarlo con disprezzo e lanciargli sassi senza sapere che si trattava dello stesso ragazzo che aveva ucciso John Pitcairn e aiutato George Washington ad acquisire potere. Gli era successo davanti a Kanen’tò:kon, prima di guardarlo negli occhi e affondare la lama celata nella sua carne, lo scricchiolio delle costole che ancora gli rimbombava nelle orecchie. Quando immaginava il cuore esplodergli nel petto, impalato sulla lama mentre le vene e le arterie si agitavano come serpenti dalla testa mozzata.
Eccome, se gli era successo. Un sacco di volte. – Perché lo tratti come se fosse lui la vittima di tutto questo? – La voce di Charles Lee era accesa di così tanto astio da farlo sobbalzare, perdendo il filo dei suoi pensieri. Meglio. Qualunque cosa per non essere torturato ancora da quei ricordi. E se il prezzo da pagare era stare a sentire Lee, con quella nota incrinata nelle voce e gli occhi lucidi, be’, sarebbe stato al gioco. Era così che si andava avanti, giusto? – Haytham è… – Il Templare abbassò gli occhi sul proprio petto e si tappò la bocca con la mano, tentando di soffocare un singhiozzo. Tutto inutile. Un attimo dopo grosse gocce rotonde sgorgavano dai suoi occhi chiusi e rotolavano sulle guance, sulla giacca consunta che gli fasciava il costato scosso dal pianto. D’istinto Connor fece arretrare un po’ la sedia, la testa ancora più incassata nelle spalle. Non riusciva più a guardarlo in faccia. D'istinto i suoi occhi precipitarono sulle nocche dell’altra mano, bianche e strette sul bordo del tavolo. Succhiò una boccata d’aria tra i denti, a malapena in grado di respirare, e cercò lo sguardo di Hickey con uno spietato connubio di paura e disagio a comprimergli i polmoni. Che cosa avrebbe dovuto fare in un momento del genere? Allungarsi verso di lui e… abbracciarlo? Dirgli che sarebbe andato tutto bene? Tutto cosa, poi? Era stata la morte di Haytham a devastarlo in quel modo. Era una sua reazione alla cosa, proprio come Connor aveva preferito rifugiarsi in una taverna e andare avanti e indietro per la città a rimuginare, ignorando le proprie responsabilità.
Nuovo Mentore. Suonava così strano. Così inappropriato.
No, no, no. Lee. Lee in lacrime. Non doveva lasciare che i suoi problemi prendessero il sopravvento su tutto il resto. I Templari erano suoi alleati. Doveva fare qualcosa, in teoria. Ma abbracciare Charles non avrebbe cambiato il fatto che Haytham era morto e senza una fossa, abbandonato in una caverna non più raggiungibile in balia di chissà quali parassiti. Un brivido gli fece torcere la schiena dal ribrezzo. Ricordava fin troppo bene lo schianto della roccia contro la roccia, quando finalmente erano riusciti ad andarsene e Lee era crollato sulle gambe, quasi trascinandolo a terra con sé, il volto distrutto e il corpo scosso da un pianto silenzioso, ma non per questo meno disperato.
Non aveva fatto nulla. Proprio come ora. Thomas se ne stava lì, un sorrisetto in viso e il capo poggiato su entrambi i pugni, come si trovasse davanti a una visione di particolare tenerezza. Senza dire una parola. Tese solo una mano verso Charles, facendo scorrere piano il pollice sulla sua pelle umida.
– Non mi toccare! – sbottò Lee facendo un salto indietro con tutta la sedia. Connor non aveva mai visto i suoi occhi farsi così grandi e pieni di paura. – Non mi toccare – ripeté, il volto stropicciato dalle lunghe dita.
Al contrario, il sorriso di Hickey si era fatto ancora più grande e cattivo. – Continua – lo supplicò Connor in un brontolare sommesso, pregando che Tom non avesse niente da aggiungere. Non sapeva se Lee avrebbe retto ancora per molto.
Prese un respiro e tentò di sollevare lo sguardo dalle mani di Charles. Non sapeva nemmeno se lui avrebbe retto ancora per molto. Doveva farsi forza, così gli avrebbero detto Achille, suo padre, i saggi del villaggio. Loro tre avevano un compito. Continuare. Il folle motivo per cui si trovavano lì. Andare avanti, per quanto costasse caro. Solo… darsi una mossa e far sì che le cose funzionassero bene e il più a lungo possibile.
Semplice, eh? – Tutto quello che è successo – sussurrò Lee, e immediatamente Connor trovò la scusa per distrarsi da quei pensieri troppo pessimisti. Troppo da Templari. A rifletterci, era partito tutto dalla bislacca idea di Achille di andare a salvare Haytham da quell’impiccagione. Se non l’avesse fatto… No. Sarebbe morto lo stesso. E il suo villaggio avrebbe avuto gli stessi problemi, così come i patrioti. Anche di più, forse. Lee avrebbe avuto praticamente campo libero nell’esercito. In un certo senso, era meglio che fosse morto nel Tempio.
Un brivido gli fece contorcere la schiena in preda agli spasmi. Come poteva averlo pensato davvero? E davanti a Lee, poi! Si sforzò di deglutire, di non sembrare turbato, ma la parte più ripugnante di quel pensiero, quella che gli girava in bocca come il sapore di un cibo guasto, era che nemmeno per un istante gli era saltato in mente che Haytham potesse sopravvivere.
Non aveva mai provato un tale disgusto per se stesso, maledizione. – Tutto quello che ha fatto – enfatizzò Lee, la voce appena più alta per attirare la loro attenzione, – è stato per noi. E tu credi di essere nel giusto? Credi che io abbia pietà di te solo perché hai aperto gli occhi? – Le parole di Charles erano solo rabbiosi ringhi tra i denti, un fiume di ira che scorreva contro... Oh, diavolo!, stava parlando con lui. Disse a se stesso di sollevare lo sguardo, ma sapeva di non essere pronto. Non era preparato a guardare quell'uomo negli occhi. Poteva accusarlo anche del crimine più deplorevole del mondo, ma niente lo faceva sentire in colpa come quei disperati occhi azzurri.
C'era così tanto dolore che era impossibile ignorarlo, era come avere un chiodo nel petto, a trapassargli le carni da parte a parte, e non potersene liberare mai più. – Tu non sei un Assassino – sibilò, le nocche bianche contro il bordo del tavolo. – Non capisco perché sto ancora perdendo tempo a parlare con te.
– Lee... – Tom scoppiò a ridere, quel latrato basso e isterico che da sempre lo caratterizzava e gli faceva venire i brividi ogni volta, e in quell'istante Connor sentì bruciare nelle vene la tentazione di prenderlo a pugni. Quello sì che era un incoraggiamento. Hickey lasciò cadere gli occhi sul boccale, la bocca spalancata in un ampio sospiro carico di quella che sembrava pietà. Accipicchia. Non credeva che Tom potesse provarne. – Ti prego. Non è così che risolveremo...
– Sei più idiota di quello che sembri, eh? – Charles puntò i pugni sul tavolo, lo sguardo lacrimoso riversato nel suo. Gli sembrava di poterci leggere dentro, e più lo guardava, più l'ancestrale desiderio di alzare i tacchi e rifugiarsi nella sua camera si faceva forte, rombava nel suo petto come un'onda. – Come fai? – Si sentì di nuovo catapultato al loro primo incontro, quando aveva solo quattro anni e il suo piccolo corpo era premuto contro la corteccia di un albero dalle mani del Templare, serrate sul suo collo a impedirgli di respirare. Avrebbe dato qualunque cosa perché smettesse di guardarlo così. Si sarebbe persino inginocchiato a terra, le mani giunte nell'implorare pietà, gli bastava solo che spostasse gli occhi. Che se li asciugasse, almeno. Se Haytham stesso fosse tornato dal mondo dei morti a dargli del pessimo figlio avrebbe fatto meno male.
Trasalì, quasi saltando sulla sedia quando Charles lo afferrò per il bavero della giubba. – Non mi è mai mancato così tanto qualcuno – sussurrò, il volto così vicino al suo da poterlo baciare. – Mai. Fa sempre male, ogni secondo di più. Io... – Si affondò i denti nel labbro inferiore, come un bambino sul punto di piangere. No, no, per favore, non di nuovo. – Quanto puoi tirare avanti con un dolore del genere? Dimmelo. Quanto puoi continuare?
Scrollò piano il capo, gli occhi colmi di terrore in quelli di Charles. Non lo sapeva. Era così facile andare avanti quando avevi ancora qualcosa per cui combattere, una causa qualsiasi, anche la più fittizia e ignobile. Una guerra. Il guaio arrivava in quel disperato periodo subito dopo la morte di qualcuno in cui tutto ti sembra vano e vorresti soltanto morire anche tu.
Come quando sua madre se n’era andata. Pochi giorni dopo si era avvicinato al fuoco sacro con tutta l'intenzione di buttarcisi dentro e raggiungerla. Avevano dovuto trascinarlo via in due, talmente scalciava. Ma allora era un bambino. Solo uno stupido bambino.
Forse... Forse persino quell'infantile stupidità era meglio del ghiacciato vuoto che c'era ora. – Manca anche a me – replicò Connor in un sussurro, ma non sapeva quanto fosse vero. Avrebbe voluto Haytham al suo fianco? Certo. Aveva voglia di piangere e disperarsi per non avergli voluto abbastanza bene? Nemmeno più. I fatti erano quelli. Non sarebbe cambiato molto versando due lacrime.
Solo che non se la sentiva di dirglielo. Era quella la politica, no? Illudere i tuoi rivali di essere dalla stessa parte.
Oh, no, era il metodo sbagliato. Non doveva illuderlo. Si trattava di convincerli, lavorare di diplomazia. Tutte quelle menzogne non lo avrebbero portato da nessuna parte.
Vide Thomas puntare una mano sulla spalla di Lee, spingendolo di nuovo a sedere. Doveva dirgli la verità, o non avrebbe mai funzionato. – So che non sembra... Charles. – Il Templare si stava stropicciando la bocca con una mano, come torturato da un pessimo sapore sulla lingua. – Gli ho voluto bene. Io... – Il suo istinto era di dirgli che non era giusto. Che crucciarsi in quel modo non era giusto, che Haytham sarebbe rimasto morto nonostante le sue sofferenze, che nulla di tutto ciò avrebbe reso le cose più semplici, ma non ci riusciva. Aveva voglia di aprire le braccia e dirgli di piangere tutte le sue lacrime, fino a sentirsi così vuoto da poter morire.
Non poteva. Non era la cosa giusta da fare, e di errori nella sua vita ce n'erano già stati troppi. – Io...
– E che cazzo, smettila di piagnucolare. – Tom roteò gli occhi, sbattendo forte il bicchiere sul tavolo per attirare l'attenzione di qualche cameriera. Inutile. Sembrava che il resto del mondo non li vedesse nemmeno. Oppure le ragazze avevano paura che allungasse le mani, e non sarebbe stato un timore ingiustificato. – Sto parlando anche con te, Charlie-boy. – Gli mollò un colpo con l'indice sull'orecchio prima di scompigliargli i capelli come a un cane fedele e buttare un braccio intorno al suo collo per stringergli la testa al petto, con un sogghigno in viso che gli aveva visto fin troppo spesso. Non prometteva nulla di buono, dannazione. – Cazzo, perché complicarci la vita andando a trattare con un altro di quegli stronzetti incappucciati?
– Lasciami – ringhiò Lee, le mani premute contro di lui per liberarsi della sua stretta, delle sue labbra premute tra i capelli. – Maledizione, lasciami.
– Eddai, 'sta zitto. – Gli fece schioccare la bocca sulla testa con un sogghigno prima di proseguire nel suo discorso con quel viscido tono complice. – Almeno il bastardo, qui, lo conosco. Eh? Che dici?
– Che devi lasciarmi in pace. – Eppure sembravano così amici, maledizione. Si appartenevano l'un l'altro senza riuscire a capire quanto fossero fortunati.
Lui non aveva più nessuno. Non aveva nemmeno Washington. Soltanto la guerra, i fucili, il sangue. E il popolo. Quel mucchio di uomini che sembrava diventare sempre più apatico e indifferente a tutto il resto, proprio lì, sotto i suoi occhi, era la sola cosa importante. L'unica che contasse qualcosa per lui, per la sua causa. La sua nuova causa. – Ssh – sussurrò Tom, il suo collo ancora stretto nell'incavo del gomito. – Dicevo, potremmo restare per ore a blaterare di come andrebbero fatte le cose e con chi sarebbe meglio parlare e tutte queste cazzate. – Sollevò l'angolo delle labbra in un sorrisetto scaltro prima di scompigliargli di nuovo i capelli con le mani. – Ma sappiamo tutti e tre qual è il vero problema qui, giusto?
Connor sbuffò, le mani mollemente abbandonate lungo i fianchi. Non ebbe bisogno che Hickey lo illuminasse anche su questo. – Washington.
– Oh! Cazzo! – Vide Charles liberarsi della stretta di Tom con una gomitata nelle costole che gli mozzò il fiato, lasciandolo sgonfio sulla sedia come un otre bucato. – Piccolo... stronzo. – Eppure Hickey continuava a sorridere, come fosse tutto soltanto un maledetto gioco. – Washington – confermò puntando l'indice contro di lui, l’altra mano premuta sullo stomaco dolorante. – Centro, bastardo.
A malincuore, lo sguardo di Connor si posò su Charles Lee, intento a ravviarsi i capelli con le mani mentre scoccava occhiate velenose a Tom. – Oh, Dio, e adesso che cosa vuoi? – ribatté Lee acido, manco lo stesse punzecchiando con un ramo.
Diede una stretta di spalle prima di incrociare di nuovo le braccia sullo schienale della sedia. Doveva rilassarsi e dire le cose come stavano, solo così avrebbe funzionato. Respirare. Essere onesti. – Eri un suo diretto sottoposto. Sei...
– Mi hanno cacciato – replicò seccamente. – Mi pare fossi tu quello che gli girava attorno come un tafano, di recente. – Lee abbassò lo sguardo sul boccale mezzo vuoto, e Connor non poté che lanciargli un silenzioso ringraziamento. – È per caso successo qualcosa?
La verità? Non lo sapeva nemmeno lui. Forse era tutto dovuto alla lettera che gli aveva mostrato Haytham, o all'attacco che voleva muovere verso il suo villaggio, ma gli sembrava di non conoscere più quell'uomo come una volta. – Non ne sono sicuro – rispose con una smorfia. – È un presentimento. Non voglio che perda il posto, ma una volta sconfitti i lealisti è necessario che sia il popolo a scegliere.
Charles annuì piano, lo sguardo puntato da qualche parte tra lui e Thomas, oltre. – Sei già convinto che i patrioti vinceranno? – lo stuzzicò. Connor non aveva alcuna intenzione di rispondere, né tantomeno di pensarci. L'ultima cosa di cui aveva bisogno erano altri dubbi. – Temi che il potere possa dargli alla testa.
– Come a chiunque altro. – Nonostante il suo fosse solo un brontolio polemico, Thomas Hickey non aveva poi così torto. – Succede a tutti.
– È per questo che dobbiamo allearci. – Gli ingranaggi del cervello di Connor presero a lavorare più in fretta, come cardini oliati di fresco. – Immaginate di rimettere tutto in piedi. Due eserciti con membri di tutte le estrazioni sociali, in grado di distruggere l'immagine di un uomo nel giro di pochi giorni. E quando un capo non riesce più a mantenere la pace nel popolo se ne sceglie un altro. – Aprì i palmi sul tavolo, guardandoli in un misto di imbarazzo e timidezza che non provava da quando era un ragazzino e la Grande Madre gli faceva un qualche complimento davanti all'intera Kanatahséton. – Sarebbe tutto così facile.
– Hai detto bene – borbottò Tom. – Immaginare. Guardaci. Non siamo mai stati ridotti peggio.
– Io sono d'accordo con lui. – Charles strizzò gli occhi sotto le palpebre, come se gli fosse impossibile credere di averlo detto davvero. – È quello che dobbiamo fare. È...  È quello che avrebbe voluto Haytham. – Lo disse di corsa, tutto in un fiato e con gli occhi chiusi, prima di lanciare un gran sospiro di sollievo.
Non riuscì a evitare di sorridere, perché se suo padre fosse lì avrebbe fatto esattamente lo stesso. – Non ci piove – replicò Hickey, – ma quindi? Cosa facciamo? Ci hai pensato, bastardo? O credi di andare a braccio finché la guerra non finirà?
Connor si strinse nelle spalle. – Non serve una strategia – borbottò con gli occhi fissi sul piano del tavolo, prima di afferrare il bicchiere di Tom e capovolgerlo per calmarsi le dita tremanti. – I patrioti devono vincere. Solo così potremmo avere una possibilità. Se lasciamo che Re Giorgio metta le mani sulle Colonie abbiamo già perso. Qui si tratta solo di sostenere l’esercito. A qualsiasi costo.
Thomas inclinò il capo in una risatina, le dita strette sulle sue per riprendersi il bicchiere. – Fammi capire, vuoi barare? Tipo, rubare rifornimenti all’Esercito Britannico? Infiltrare un gruppo di Assassini nelle loro fila e lasciare che la strage si compia? Tu? – Gli strappò finalmente il bicchiere di mano e si lasciò cadere sulla sedia, facendolo roteare sulla punta dell’indice. – Fammi il favore.
– Non voglio barare, ma investire. Comprare all’esercito fucili migliori, assumere medici più in gamba. Lasciare che vincano con le loro forze.
Il Templare sbuffò. – Ma ci pensi? Hai idea di quanti soldi spenderesti? E quei poveracci dei sudditi di Sua Maestà morirebbero comunque, decimati dai tuoi stupidi fucili migliori.
– E una soluzione diplomatica? – La voce di Lee era tesa e sottile come la corda di un violino. – Mettersi d’accordo con gli ufficiali e…
– Non risolveremo niente sul campo di battaglia. – Tom fece schioccare la lingua sul palato in segno di secca disapprovazione. – La chiave è nelle città. Fa’ rivoltare questi straccioni. Caccia gli inglesi dalle città con il fuoco e i forconi e le maledette macchine per stampare, e vedrai se avranno ancora il coraggio di mettere piede qui.
Connor aggrottò la fronte, umettandosi le labbra con la punta della lingua. Suo malgrado, non sembrava nemmeno un’idea malvagia. – Tu non eri quello che non aveva fiducia nel popolo? – buttò lì a mezza voce. Ci mancava soltanto che qualche inglese ubriaco li sentisse e decidesse di spaccare i loro crani in nome di Re Giorgio.
– Be’, sì. Infatti quella è la parte che dovresti sbrigare tu – replicò, un sorrisetto sottile a sollevargli un angolo della bocca. – Io sarei quello che si occupa di bruciare le riserve di polvere e guidare la plebaglia alla conquista dei forti. – Indicò la gente intorno a sé con un ampio cenno della mano e lasciò cadere il bicchiere con una strizzatina d’occhio. Non aveva mai conosciuto un vero uomo d’affari, ma Connor immaginava che dovessero essere più o meno così.
Scambiò un’occhiata con Charles Lee, cercando di cogliere qualunque presentimento si nascondesse in quei grandi occhi azzurri. – Hai avuto idee peggiori, da che ti conosco – brontolò grattandosi la testa.
– Grazie, Charlie. – Hickey si allungò di nuovo a scompigliargli i capelli e Lee gli rispose con un’altra delle sue famose occhiatacce. In un altro momento un immagine del genere lo avrebbe risollevato, ma ora nella sua testa c’era soltanto una gran confusione. Doveva esserci qualcosa di sbagliato in quel piano. L’aveva architettato Thomas, insomma, non poteva essere l’idea migliore a loro disposizione.
Forse semplicemente non ce n’era nessun’altra. E spesso un uomo deve arrangiarsi con ciò che ha, per andare avanti. – Ma… – Dannazione, le parole gli uscirono di bocca con una brutta nota acuta, da bambino capriccioso. – E tutti quei soldati?
– Preferisci che si scannino in una guerra di chissà quanti anni ancora? – Tom incrociò le mani sulla nuca e poggiò i piedi sul tavolo, come se stessero chiacchierando amichevolmente del più e del meno. – Io no. Che ne pensi?
Pensava che fosse semplicistico, terribilmente semplicistico, e che qualcuno si sarebbe fatto male. Non si può architettare un piano con un uomo del genere e sperare di uscirne tutti sani e felici. – Devo pensarci. Devo…
– Hai avuto un sacco di tempo per pensarci, bastardo. – In un attimo Hickey era di nuovo teso sul tavolo, i piedi ben saldi a terra e l’indice puntato sul tavolo per ribadire le proprie ragioni. – Adesso devi scegliere.
– Tom. – Charles gli poggiò una mano sul petto, spingendolo appena indietro. – Lascia parlare me. E bevi qualcosa.
– Offri tu?
Charles aggrottò la fronte, come se non avesse mai sentito una domanda più stupida. – No. Anzi, lascia perdere, resta qui, solo… – Si mordicchiò le labbra con fare nervoso. – Non t’intromettere. Non troppo.
Thomas Hickey sbuffò, sbattendosi le mani sulle cosce in un gesto drammatico. – Tutto quello che vuoi, dolcezza. – E si sbracò sulla sedia, gli occhi fissi su Charles e pieni d’aspettativa. Pareva un padre affettuoso davanti al figlio. O un fratello maggiore che avrebbe goduto nel vederlo fallire.
Fortunatamente a Lee sembrava non importare. – Se vogliamo fare questa cosa dobbiamo essere dalla stessa parte, va bene? – Connor annuì appena, il cuore che gli batteva nel petto come un tamburo. – Ti garantiamo la più totale sincerità, ragazzo, ma dev’essere una cosa reciproca. Tutte le decisioni saranno prese a tavolino. Insieme. Non si fa niente se non siamo tutti d’accordo, almeno in minima parte. – Si portò il palmo davanti alla faccia e ci sputò sopra. Era un gesto che Connor aveva già visto fare altre centinaia di volte da decine di uomini, ma non riuscì a trattenere una smorfia disgustata. Sembrava tutto così vero quando si doveva giurare materialmente, così pesante e pericoloso, come una spada di... Damocle, no?, sospesa dritta sopra la sua testa. – Ci stai?
– Garantisci che non vi alleerete contro di me?
Lee scrollò il capo, scoccandogli l’occhiata stanca di un vecchio che ha visto troppo. Troppo dolore, troppe paure, troppe perdite. Gli si strinse un nodo alla bocca dello stomaco, qualcosa di orribilmente simile al compatimento. – Garantirei tutto quello che vuoi, basta che la finiamo qui.
– Tutto quello che vuole? – Thomas si fece di nuovo avanti, ridacchiando. – Anche se si trattasse di succhiare il suo cazzetto da mezzosangue?
Connor si sentì avvampare fino alla punta delle orecchie, ma fu grato a Lee per il suo silenzio. Nascose il viso rosso e imbarazzato per seguire l’esempio del Templare e sputarsi sulla mano. Un grumo bianchiccio e viscido lì, immobile sul suo palmo consumato dalle armi. Come poteva un affare del genere assicurare una promessa di simili dimensioni?
Inspirò forte, i polmoni così pieni d’aria da poter scoppiare, e serrò le dita sul dorso della mano di Charles in una stretta fin troppo forte, piena di sicurezza ostentata. La sentiva invadergli lo stomaco come un acido. – Ci sto – sussurrò con molta meno convinzione di quanto avrebbe voluto. Un attimo dopo anche Hickey si stava sputando rumorosamente sulla mano, mezzo girato verso gli altri tavoli.
– Fallo di nuovo – sibilò Lee. – Forse a Philadelphia ancora non ti hanno sentito.
– Fottiti. – Thomas tese il palmo verso di lui con un inquietante sorriso in volto, e Connor non poté sentirsi più vicino di così a Charles Lee. Voleva soltanto che se ne andassero, tornare nella sua stanza, al caldo, e dormire. Tutto il resto sarebbe venuto dopo.
Non ce la faceva più. Non riusciva nemmeno a sembrare soddisfatto, dannazione. – Bene! – esclamò Tom, scattando vigorosamente in piedi. Era davvero questo che voleva suo padre, quel che sarebbe stato meglio per tutti? E se non avesse portato altro che ulteriore caos? Aveva giurato, doveva esserne sicuro, maledizione!
Invece era a malapena in grado di respirare. – Facciamo un brindisi?
– No. – Lee gli premette una mano sulla spalla, le labbra compresse in una piega severa. Non lo avesse odiato così a lungo, Connor si sarebbe gettato ai suoi piedi e lo avrebbe ringraziato di cuore, con le mani gettate intorno alle sue ginocchia e tutti i convenevoli del caso. Voleva restare solo. Isolato da tutti i problemi, da tutto ciò che voleva dimenticare. – Dobbiamo andare a Valley Forge. Tenere d’occhio Washington. Farai lo stesso, giusto?
Connor annuì. Certo che l’avrebbe fatto. Solo, quando il suo cuore fosse stato un po’ più calmo, Lee e Hickey ben lontani dalla sua vista. – Grazie. Andiamo.
– Guastafeste di merda.
Con suo gran sollievo, le sedie strisciarono sul legno.
L’incontro, quello per cui suo padre era andato incontro alla morte, era finito. Li vide pagare e uscire dalla taverna, entrambi calmi e cordiali come se non fosse successo nulla.
Hai fatto la cosa giusta, Assassino. – Una voce femminile dentro la testa, delicata e melliflua al punto da mettere i brividi. – Ora non ti resta che nasconderla, seguace dell'Aquila. Fare la tua parte.
Solo quando le falde della giacca di Thomas Hickey scomparvero oltre la porta, finalmente solo e avvolto dal silenzio, si sentì libero di prendere fiato, chinare il volto nelle mani e scoppiare in un'acuta risatina isterica, le spalle che sussultavano come in un pianto e flebili ragli che gli venivano fuori dalla bocca mentre il suo petto continuava a sobbalzare senza riuscire a fermarsi.


Chapman,
perdonami se questa lettera ti suonerà ambigua o confusa, folle, addirittura, ma ancora non riesco a credere a quello che ho visto e a quello che so, per cui ti chiedo di avere pazienza. Siamo ufficialmente alleati dei Templari. Dobbiamo accettarlo. Era l'unica via a nostra disposizione, per cui ritengo sia lecito sfruttarla. Il nostro scopo è cambiato. Non siamo più al mondo per ucciderli, ma per raggiungere la pace insieme a loro, a qualsiasi costo. So di non avervi minimamente coinvolti in questa decisione, ma mi sembrava il solo modo per dare una vera svolta alle cose. Perciò vi chiedo di starli a sentire, di tanto in tanto. Di stare a sentire anche me, per quanto sia fastioso. Io voglio che il popolo possa scegliere, Chapman. Scegliere di seguire Washington, scegliere il proprio destino e scegliere che mondo lasciare ai propri discendenti. Scrivo queste parole di getto, perché temo che il rimpianto mi porti a cancellare tutto e riscrivere, senza dubbi e senza follie, ma ho una domanda, ed è una di quelle che mi sono sempre posto e non posso fare a meno di porre anche a te. E se volessero i Templari? Pensaci. Forse il popolo vuole essere controllato, e tutte le nostre lotte sono inutili. Vogliamo convincerli del potere della libertà. Non possiamo immaginare che la disprezzino. Forse i fanatici, quelli sbagliati, siamo noi. So che il libero arbitrio è quello che meritano, ciò che renderebbe questo mondo migliore, più equo, ma è senza dubbio più complicato, non credi? Perché convincerli del fascino di qualcosa che non vogliono? Solo perché è la cosa giusta da fare? 
Questo è ciò che non mi ha mai convinto della nostra Confraternita. Voglio soltanto un parere. Sapere se le mie sono speranze che credevo essere vere e ideali che stanno collassando su loro stessi o soltanto gli stupidi sproloqui di un folle. Non so quale delle due sia la migliore, a essere onesto. Lo lascio decidere a te.
In origine questa missiva non doveva contenere così tante parole, ma credo sia come con un buon vino, un bicchiere tira l’altro e prima che te ne renda conto sei già ubriaco. Ero qui per dirti che la pace non è il nostro solo scopo. Abbiamo la Chiave. Sono tornato qui solo per nasconderla. Forse mi giudicherai male, ma ritornare in questo posto e vederlo così vuoto, privo di vita, ormai nient'altro che una tenuta diroccata in mezzo al niente, un rifugio per qualche pioniere colto da una tempesta di neve o da un’alluvione, provoca uno strano dolore sordo, proprio qui, nel petto. È il simbolo del mio fallimento, e non ti chiedo di avere pietà di me, perché non la merito, ma solo di comprendermi. Da amico e fratello, Chapman. Avrei dovuto fare di più per gli Assassini, ma mi sono reso conto che oltre qui non so andare. Riesco soltanto a nascondere reliquie come un cane e scappare, fuggire verso un altro luogo e meno responsabilità. O forse solo diverse responsabilità, non lo so. Riesco soltanto a scriverti quanto mi dispiaccia. Per tutto, ecco.
La Chiave, dicevo. Non deve cadere nelle mani dei Templari, d'accordo? Mai. Non ha niente a che vedere con quest'alleanza. È una cosa della mia famiglia, e vi chiedo di rispettarla in nome della Confraternita. I Precursori possono essere molto pericolosi, quindi ti prego di darmi ascolto. Se dovessi avere dei figli e dovessi morire senza riuscire a dirglielo, fatelo voi per me. Dite loro che la Chiave è morta con Achille Davenport, che è fondamentale che la famiglia lo sappia. In tutti i secoli a venire. Finché sarà necessario.  
Non voglio più far parte di questo, amico mio. Considerala la mia ultima lettera come membro della Confraternita. Lascerò questa casa troppo vuota e mi stabilirò in città, a tenere un occhio su Washington e occuparmi della guerra. Di porvi fine il più in fretta possibile e con il minimo numero di vittime. Non possiamo combattere tutte le battaglie che la vita ci pone davanti. Dobbiamo scegliere. E inizio a dubitare che la risposta ai problemi del nostro mondo sia nel Credo. Nessuno degli uomini che vogliamo salvare segue quel Credo, molto probabilmente non lo fa nemmeno uno di noi, e mentirei se ti scrivessi di aver capito cosa significhi. Nulla è reale? Cosa vuol dire? Che il mondo come lo vediamo non è importante? Che gli uomini e le donne che muoiono in mezzo alle strade e sui campi di battaglia non sono veri, non pesano sulle nostre coscienze? Oppure di non fidarsi delle figure che si pongono ai vertici della società, in quanto semplici uomini con uno stupido titolo? E la seconda parte, quel 'Tutto è lecito'? Forse parla di ciò che dobbiamo fare in nome della libertà, degli ideali in generale. Oppure è una spinta al fanatismo, tutto è lecito se può difendere la Confraternita. Ci sono così tante interpretazioni a esso, e mi sento come se la testa fosse sul punto di saltarmi in aria. Voglio fermarmi. Forse voi saprete fare un lavoro migliore con gli Assassini, ma ho vissuto troppo a lungo insieme  a un Templare per avere ancora fiducia in questi convenevoli. Ordine, Confraternita, non mi importa più nulla. Sarò con il popolo. Sempre a disposizione se vi servirà aiuto, naturalmente, e immagino che continuerò a indossare una giubba che non merito, portatrice di ideali di cui non mi fido, di cui forse non mi sono mai fidato, ma gli Assassini sono stati la mia casa per tutta la vita. Tengo molto a tutto questo, eppure temo che riuscirei soltanto a distruggere quel poco che è rimasto.
Sento di non avere più nulla da fare tra queste mura, a parte piangere. Spero che tu, o uno qualunque degli altri ragazzi, possa trovare questa missiva, leggerla, capire quello che provo, perché non è una scelta che faccio a cuor leggero, anzi, e so che non possiamo fuggire dal nostro passato, ma io non voglio scappare. Non è questo quello che sto facendo, o così provo a dire a me stesso. Sto cercando un'altra strada per sfruttare quello che ho imparato, e prego che mi porti da qualche parte, qualsiasi parte, e zittisca queste voci che urlano nella mia testa. E porti la Chiave a Desmond, ovunque si trovi. Il messaggio, Chapman. Ricorda il messaggio. 
Lo vedi? Mi distruggeranno. Per questo ho bisogno di te, di voi. Che mi promettiate di mandare avanti questa tradizione, in un certo senso.
Perdonami. 
Connor 


 
Note dell'autrice:
Giuro che ci metto poco, eh.
Scusatemi per aver pubblicato di nuovo di giovedì, LOL, e per non aver ancor risposto alle recensioni. Lo faccio, giurin-giurello.
Niente di tutto questo è colpa mia, LOL. *addita la scuola con fare accusatorio*
Vabbè, se non sparo la boiata del giorno non sto bene, eh?
Sempre graaazie, folks. Vi adoro, sappiatelo.
Alla prossima! :3
  
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