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Autore: Gaia Bessie    01/03/2015    1 recensioni
La verità è che sono troppe le cose che riescono a toccarla, e troppe poche quelle che non ci riescono.
Avvicinandosi alla vigilia del suo compleanno, Gaia se ne accorge. E non riesce a smettere di pensarci.
È che una persona può cambiare davvero tanto, in diciotto anni.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia non ha i canoni di un'autobiografia. E, probabilmente, non lo è: ci sono troppe mezze verità, troppi sottintesi e percezioni prese alla lontana. Ma, per quel che vale, a diciotto meno quattordici è l'unico ritratto abbastanza somigliante che mi è venuto in mente.
Perché continuo a pensarci. E chi mi conosce lo sa, lo sa bene, che non faccio altro che parlare di Bessie come un'altra entità. E, forse, lo è nell'idea che ho di lei, che mi piace infinitamente di più delle mie seconde scelte.
Per quel che vale, questa qui è la scheggia di un racconto. Ci tengo a precisare che le persone citate in queste poche righe sono consapevoli del loro contributo, pseudonimi compresi. L'unica che ha mantenuto il nome sono io: altrimenti, che mezza verità sarebbe?

Gaia Bessie - 1/03/2015: Diciotto anni meno due settimane


 




 

Toccata

 

Ci ripensa tornando a casa, con l'autobus che compie deviazioni improbabili, ché Palermo è la città dei lavori in corso. Quando, però, in corso sta per senza fine. Come quel viaggio, verso casa, verso il pomeriggio che, come sempre, non passa mai. Palermo è la città del tempo fermo, incastrato fra pezzi di palazzi, dietro la stazione, e poi finisce, inevitabilmente, per essere talmente intangibile da non bastare mai. Inevitabilmente.

Palermo è la città che a marzo impazzisce, diventa piovosa senza senso apparente, fuori da ogni cliché.

E sono pensieri, solitamente, con il 101 che costeggia la Cala.

È uno di quei giorni che il cielo sembra dello stesso colore del mare, o viceversa, così che non si capisce dov'è che comincia uno e finisce l'altro. Sono giornate che le piacciono, che le mettono addosso quella voglia infinita di scrivere, o di mettersi a letto e non alzarsi più. Perché ci pensa.

Scende, la stazione, via Roma. Cammina, cammina, le cuffie nelle orecchie e i capelli di un blu opaco, scoloriti, davanti agli occhi. Due settimane e fai diciott'anni, Gaia, non puoi tagliarli, che poi diventa un casino e il parrucchiere vuole avere qualcosa su cui lavorare.

Continua, salendo le scale, aprendo la porta, mamma che torna da lavoro e menomale che sua sorela è ancora a scuola, ché proprio non si può tollerare una dodicenne su di giri alle due e cinque. Soprattutto è che è soltanto per l’ora di pranzo, riflettendoci,  la sorellanza non è mai stata un'abitudine, a casa sua.

Se soltanto potesse smettere di pensarci.

Ma è che, fondamentalmente, non può. Pensa per frasi, da brava pseudoscrittrice in erba, e non riesce a farci nulla, ci esce pazza, almeno finché non trova abbastanza parole per dirlo.

È per questo, sostiene, che non scrive poesie: di parole, ne ha sempre una gran quantità da versare su carta. E non sempre bastano, infatti, ché ci sarebbe sempre altro da aggiungere, quando quel qualcosa la prende e la costringe a pensarci. Colpa sua, sostiene, negli attimi di pausa. La verità è che sono troppe le cose che riescono a toccarla, e troppe poche quelle che non ci riescono.

 

*

Qualche volta, prova anche a rifletterci su, a formulare teorie che poi, un riscontro reale, non lo trovano. Quando si trova a pensarci, e sono tutti quei dubbi e domande, c'è sempre qualcosa che non quadra. Ci sono troppe parole per esprimersi, anche se è routine, e quel qualcosa le rimane dentro, ossidato, un peso nella giunzione delle costole: puoi provare a scoppiarlo, se ti senti abbastanza coraggiosa per tastarlo con le dita, le unghia mangiucchiate che, altrimenti, lascerebbero mezzelune di sangue sulla pelle.

 

Puoi provare a ucciderlo, ma ti scoprirai comunque e inevitabilmente viva.

 

Se è qualcosa che prova a soffocarti, anche se lo buchi con le unghia e lo riscopri pieno d'aria, finisce sempre che senti il cuore che batte, dietro la pelle. E capisci che non puoi soffocare, se l'aria continua a fluire e defluire. Sono soltanto percezioni alterate, è la spiegazione, e sei anche paranoica. O hai paura di annegare.

Gaia, rimprovera Marco che, in anni di amicizia, è sempre stato quello maturo, andando oltre l'età anagrafica. Stai ferma.

Non puoi farla scoppiare, sembra dire, non così.

Ci sono cose che, dietro le bolle d'aria, ti rimangono dentro. Come quando indossi una maschera e non sai bene per chi, e finisce che nemmeno tu riesci a distinguere Gaia da Bessie, che ormai sono la stessa persona. Più o meno. O è Bessie che soffoca Gaia, o è Gaia che tende a Bessie come una predisposizione naturale, un'inclinazione.

E, in fondo, così è meglio.

Sono cose che fai per migliorare, per migliorarti. È che Bessie piace a molte più persone, generalmente, e il teatro era l'alternativa alla scrittura. Come se si fosse trattato di scegliere.

Avrebbe significato cambiare le carte in tavola.

 

Giocano a carte, o si sussurrano segreti, Gaia e Bessie. Quando la notte avanza e il sonno rimane fermo, cominciano a inventare storie. E il talento, se c'è davvero, a chi appartiene: Gaia o Bessie?

La voglia di scrivere, sorridere, parlare, di chi è?

Viene il momento in cui, a diciott'anni meno quindici giorni, se lo chiede. E, quella risposta che non riesce a trovare, un po' la spaventa – e sarà che sua madre, per scherzare, l'ha chiamata Bessie. E lei è annichilita, in silenzio.

Ha pensato che i ragazzi del terzo anno la chiamano GaiaBessie e, forse, sono quelli che ci sono andati più vicino di tutti.

 

*

Tango, tangere, in latino, vuol dire toccare.

Gaia, che per le lingue morte non ha mai nutrito una passione che non fosse esplicitamente filologica, quella parola, è una delle poche parole di cui ricorda il paradigma, il significato, l'etimologia. Il participio del verbo è tangens, tangentis e giù a declinare.

In matematica, altra materia che riesce a suscitarle un odio abbastanza viscerale, la retta tangente è quella che ha soltanto un'intersezione, un punto di contatto, con la circonferenza o il piano o una curva, una funzione, tutto quel che è possibile studiare al triennio di liceo classico.

Tangere è l'alternativa elegante al semplice toccare. Si perde il retrogusto fastidioso della doppia c, per la rotondezza stucchevole della g, la e chiusa della seconda coniugazione, rimasuglio del latino.

Una gran bella parola da usare.

 

Non mi toccare, noli me tangere, è una delle frasi che Gaia usa più spesso. Quando sua sorella decide che è il momento di soffocarla con effusioni non richieste, quando suo padre le deve dare il buongiorno – e, porca miseria, alle sei e quarantacinque non è mai un buon giorno – e ancora non s'è fatto la barba. Quando Daniele l'abbraccia, e l'altezza non è fra le qualità né di Gaia né di Bessie, così che lei diventa GaiaBessie e non mi toccare che mi soffochi, dai.

È un ibrido.

Qualcosa che sta a metà esatta fra due personaggi diversi, che lascia perplessi. Succede perfino a lei.

La risposta non c'è, o magari è che semplicemente le serve una frase per identificarsi.

Metti in ordine la tua stanza che sembra un deposito bagagli, è di papà, smettila di mangiarti le unghia, è la mamma, Gaia esci dalla mia stanza, è la sorellina in tutta la sua benevolenza.

Gaia, sei stupida – è Marco, che come delicatezza concorre con tutta la famiglia. Ma, guardacaso, è paradossalmente l’unico che, quando non riesce a smettere di pensare, riesce a distrarla-

 

Lei, in tutta sincerità, non fa che ridere. Sono talmente cliché, così squisitamente stereotipati che, perfino come inchiostro su carta, non rendono. Manca qualcosa. Manca l'eco delle risate che infrange i silenzi, insinuandosi nella curvatura del sorriso, che è di Gaia o di Bessie o di entrambe.

 

Forse, davvero, le parole sono così tanto importanti: qualche volta ne dubita, quando le usa per tergiversare a ogni interrogazione, circumnavigando i concetti. Suonano vuote, e inutili, approssimative. Eppure ne è dipendente di quella dipendenza quasi fastidiosa, che la costringe ad alzarsi in piena notte per prendere appunti di idee che, la mattina dopo, avranno perso di fascino.

Se le bastassero, però, non ci sarebbe storia, non ci sarebbe cambiamento da narrare. Sarebbe così facile.

E, la storia, che è la materia che ha deciso di studiare per la vita, non interesserebbe più nessuno.

Le narrazioni si basano su semplici assiomi.

È che una persona può cambiare davvero tanto, in diciotto anni.

 

*

Ha preferito un vestito bianco a uno nero. E non se lo aspettava nessuno.

Nemmeno lei.

 

Il bianco non le è nemmeno mai piaciuto. Troppo innocente, troppo simbolico, troppo.

Bianco è lo stereotipo vivente di una persona che non ha vissuto per niente, qualcosa di intonso, la neve che nessuno ha calpestato. Qualcosa che dovrebbe anche solo somigliare a un per sempre.

 

Il nero è perdita, prima di tutto. Ma è pur sempre qualcosa.

 

Il bianco è pallore, un fantasma, il lenzuolo su cui si asciugano gli incubi, un vestito da sposa, i piatti di ceramica rotti, la pagina vuota. Il lutto delle regine di Francia, un dolore senza inizio. O fine.

 

Il nero è, sorvolando sul significato primario, indefinito: non ha poi tutti questi termini di paragone, riflettendoci, e le parole non le sono mai mancate. Come dolore, sempre meno regale del bianco, ché se hai perso qualcosa puoi rialzarti – se perdi un re, perdi un regno. Perdi te stessa, che non sei nata regina. E finisci con il vivere di paure, e spettri.

L'uomo nero fa sempre meno paura di un fantasma: perché, prima o poi, cresci e capisci che nel buio dietro il tuo letto, si nascondono i conigli di polvere e basta così.

I fantasmi, invece, sono reali: forse rimpianti o parvenze di ricordo, ma esistono. Nel loro pallore lattiginoso, posseggono quell'eternita che sfugge al cambiamento. Non serve a nulla, crescere, perché continui a vederli e non puoi farci nulla.

Chissà se non è poi per questo, che si studia la storia. Ci sarà, poi, un motivo se le piace così tanto, lo studio di vite che non le appartengono. E nero è l'inchiostro su carta – le odia, le penne blu.

 

Il bianco è il colore della neve che, a Palermo, non cade mai.

 

La sorellina, che sembra della danza ha fatto un hobby invasivo, parla del Lago dei cigni come se fosse la rappresentazione in diretta della Bibbia. Gaia, i balletti, non li capisce.

Non trova il senso di un cigno completamente bianco o completamente nero.

 

Il bianco è delle spose. E, se lei continua a dire che non si sposerà mai, la verità è che non ne ha la certezza così assoluta. Eppure, continua a sceglierlo.

 

Avrebbe dovuto sceglierlo nero: ma che senso avrebbe, il dolore, se non fosse così bianco?

 

Ma l'ha preso bianco, amore a prima vista, ché il bianco è il colore di una regina piangente, di un altro tempo che si è perso per strada, di un altro spazio che non c'è più. Sono le sue notti bianche, attesa condensata, la pagina vuota di una storia mai cominciata, il piatto frantumato sul pavimento.

Bianco, punteggiato di perline nere: l'uniformità non esiste. Non crede nelle famose cinquanta sfumature di grigio, ma nelle cose fatte a metà, nei puntini. Un vestito bianco è una bella favola, se ci credi davvero.

Sono le sensazioni amplificate, dietro tutto il resto.

 

Dietro la neve che, a Palermo, non cade mai. Eppure, in questo duemilaequindici sbocciato in bianco, è successo tre volte. L'ultima, il ventisette febbraio, è durata un secondo e mezzo. Sedici giorni ai diciotto, ha pensato, e già la battezzano con la neve sciolta sulle finestre della scuola. Bianca.

Come il suo vestito, preso da dicembre, quando ancora il clima non era impazzito.

 

Ma, i capelli, Gaia li ha blu, e prima erano rossi, e rosa e viola. È estenuante, la simbologia dei colori. Quando si tratta di svitare il tappo della boccetta di tintura, versarla nella ciotola e prendere il pennello, lo pensa anche lei. È stata viola e glicine a primavera, color melograno per la bambina che è stata, rossa come il cuore di una fiamma. Il senso del blu, non l'ha capito – e c’è Alberto che continua a chiamarla CD, per quella disuniformità cromatica, sperando anche di risultare particolarmente simpatico – per quanto possa essere divertente, cliché di tumblr, dichiarare che to be blue vuol dire essere triste, la motivazione non è nemmeno questa. Non puoi annegare per sempre.

 

*

Perché ci sono persone che quasi la costringono a restare a galla: non potrebbe perdersi nemmeno se lo volesse davvero.

 

Sarebbe triste vedere, da dietro un muro d'acqua, Marco che scuote la testa, deluso, i genitori che si disperano, la sorella che diventa figlia unica. Se nasci, sostiene lei, c'è un motivo.

Diciott'anni sono troppo pochi, forse è vero, e si tratta di aspettare. Arriverà?

 

Deve arrivare. Se non giunge con il tempo, la consapevolezza, vuol dire che la vita è davvero una gigantesca presa per il culo. E le ragazze di tumblr, di cui continua a ridere nelle loro esagerazioni, sarebbero le uniche ad averci visto giusto.

 

Se tende la mano, adesso la consapevolezza è che qualcuno la prenderà. L'hanno promesso, in silenzio.

 

*

Il papà è l'onda di ferro, inarrestabile, che progressivamente gli ha ingrigito le tempie e poi tutto il cranio. Un tempo, prima che diventassero plumbei come una distesa di nuvole cariche di pioggia, erano del castano scuro di Gaia, quello nascosto da una tintura fatta a metà.

 

Le somiglianze finiscono qui, quelle fisiche. Qualcosa negli occhi, forse, ma basta così.

Poi sono diversi. Ma la mamma ride e dice che sono uguali, altrimenti non colliderebbero continuamente.

 

E lei è bella di una bellezza che consuma, che tocca. È intelligenza razionale, matematica, ma incline anche all'astrazione. Dicono che Gaia le somigli.

 

Dietro la tenda di capelli blu chiaro, però, non ne è così sicura.

 

Non si tratta di somiglianze: si tratta di differenze, ormai. È questa, l'adolescenza.

 

La sorella alta esattamente centosettantré centimetri, conto i centosessantadue di Gaia che, con l'altezza, lotta da un po'. È fastidiosa in formato tascabile, sostiene lei.

La sorella-ballerina che, per cinque anni di differenza, si sente in diritto di ammorbarla a suon di complessi. I quali, inevitabilmente, li prende tutti Gaia, per darli a Bessie a cui non dovrebbe importare. Ma non è sempre così.

C'è quell'angoscia continua, attanagliante, che la fa fermare, sul bus, in cerca di soluzioni.

Ha dodici anni, non ha idea. Ha cominciato a scrivere come imitazione, Gaia ha cominciato a otto, Bessie è nata a quattordici.

C'è tempo. Ci sono ancora due anni.

 

E se diventasse migliore di me?

 

Sei stupida, ride la mamma, che complessi del cazzo.

Ma, quando sei la maggiore, è l'unico obbiettivo: non farti superare.

Gaia continua a temerla, sua sorella, perché in due anni potrebbe diventare un principio di una Bessie 2.0, che lei non riesce a essere, in quelle sue imperfezioni incontrastabili. Potrebbero avere fascino, in una storia.

Ma non è così.

Nello specchio, Bessie sorride a Gaia. Non succederà dice.

 

Ma se accadesse ugualmente, allora, che cosa faremmo?

 

O forse è Gaia che ride e Bessie che scuote il capo, e i capelli sono blu e rossi e fuxia e anche viola.

Andremmo avanti. La risposta non viene da nessuna delle due. Come sempre.

 

*

La cosa buffa è che, da un po' di tempo, non riesce più a drammatizzare gli eventi, cosa che le è sempre riuscita più che bene. Come se fosse inevitabile, la disfatta, l'inferiorità, il tempo che passa.

Adesso, pessimisticamente, potrebbe chiamarla apatia. Se soltanto lo fosse davvero.

La verità è che, invece, un giorno succede che funziona: che qualcosa riesce a toccarti, ti scuoti, ti alzi, e scopri che il mondo andrebbe avanti perfino senza di te. E cominci a rincorrerlo per non rimanere indietro, ché se hai diciassette anni e undici mesi, allora vuol dire che, della vita, non hai capito proprio un cazzo.

GaiaBessie dalle mille domande, diciotto meno quindici, che si guarda allo specchio e si accorge che, in fondo, non lo sa nemmeno lei: dov'è che sta Gaia e dov'è che sta Bessie.

Come se, a forza di idealizzarsi, si fosse spogliata dei suoi difetti per assumere una pelle diversa.

Non è possibile, però: ci sono cose che, in qualche modo, tornano sempre a galla.

E, a quel punto, sono ancora domande.

 

*

Dieci anni fa, quando ancora era una bambina, scriveva incipit di storie con la stessa protagonista.

Da grande voglio fare la scrittrice, diceva, quando era di gran moda fare la cantante, o la ballerina.

E tutti a sorridere, brava bambina, sei talmente intelligente. E se non fosse mai cresciuta?

 

Quattro anni fa è nata Bessie. È stato il ventinove luglio, quando ha deciso di mettersi in gioco, di provarci davvero: sono storie quando qualcuno le legge, Gaia.

Altrimenti li chiameremmo sfoghi.

 

Il sette ottobre duemilaequattordici, trovandosi per la prima volta su un palco, davanti a uno dei suoi scrittori preferiti, ha capito che è così che vuole vivere. In mezzo alla gente, parlando, scrivendo.

Che, forse, fare la scrittrice non vuol dire nulla, finché lo fai dietro un altro nome, in silenzio, nel quaderno di matematica che, una formula, non l'ha mai vista nemmeno per sbaglio.

C'è voluto Stefano Benni, Pantera e Margherita Dolcevita, per farglielo capire.

E una folla rumoreggiante per farglielo dire: si fa arte anche così, quando hai diciassette e, forse, il talento lo devi ancora trovare.

 

*

E le persone, quelle sì, probabilmente Gaia e Bessie sono d'accordo solo su questo, forse, ma sembra bastare.

Le persone che vanno oltre il mero interesse antropologico, quelle che le guardi e rimani così, annichilita, a cercare di capire cos'abbiano, che meccanismo le porti avanti.

Per questo, forse, Gaia continua a sostenere che avrebbe dovuto scegliere la recitazione: sai che bello, ride, essere qualcuno che non sei. Indossare altre pelli per capire che, forse, nessuna di quelle che hai provato ti calza a pennello.

Bessie, che del cinismo ha fatto una professione, ride di nascosto.

Il tuo difetto, Gaia, è che sei troppo poco bionda, troppo rotonda e con un gran caratteraccio.

Occasioni bruciate: anche se, gli aneddoti di Nietzsche, non puoi recitarli per chiunque.

 

Dio è morto, urlò il folle.

Era la gaia scienza: l'ironia sta anche nelle scelte dei libri, e nel professore di filosofia che non sa se prenderla sul serio o a insulti.

 

Nonsense. Gaia tiene il libro in mano, mezzanotte e rintocchi sconnessi, rumori, i tasti sotto le dita.

Dopo una certa ora, le parole cambiano. Smettono di avere senso perché, inevitabilmente, si comincia a comprendere che non basta coprire la realtà con un velo.

E, in questo, Schopenhauer aveva definitivamente e completamente torto.

 

In un certo senso, forse, Bessie è il velo. È quella cosa che avvolge Gaia, silenziosamente, confondendone i tratti. Nemmeno lei, probabilmente, ricorda com'era in un principio che s'è perso per sempre, dopo la prima storia, dopo tutte le altre. Sono le parole, il vero velo.

Quando Bessie tende le braccia, allo specchio, ha sempre storie scritte sulle vene, speculari, inchiostro nero su carta bianca. Un ibrido. Gaia sorride e le tende la mano. Storie.

 

Così cominciano i tramonti: dalle storie. Quelle dal mancato finale.

 

Buffo, come, nel lieto fine non credano entrambe. Non ha senso, non lo trovano, hanno quello scetticismo ostinato, quell'antiromanticismo che sfocia nel dolceamaro del mancato happy ending.

Non ci provano nemmeno, a scriverlo. Non ci riescono.

Nei finali felici ci credi finché te li racconta la mamma. Poi, cominciano a incrinarsi. Ed è inevitabile.

 

È che soltanto i mancati finali riescono a toccarti con maggiore profondità.

 

*

L'incrinatura vera e propria, in Bessie, si ha fin troppo presto: smetti di essere bambina quando capisci che, davvero, la vita non è sempre lineare, una funzione continua.

Ci sono punti in cui salta, s'interrompe e poi riprende.

Era il quindici marzo duemilaedodici: tre anni fa.

Il giorno del suo quindicesimo compleanno.

 

In una recensione, scrissero che non si può essere tristi il giorno del proprio compleanno.

Ma è vero?

Ci pensa ancora, paradossalmente, GaiaBessie che guarda indietro per mestiere.

È storia, sostiene, sfogliando biografie alte quanto lei. Bessie, psicanalista in erba, scuote il capo.

Capelli arcobaleno ancora lunghi, non il caschetto di Gaia. Una tenda, un sipario.

Sono rimpianti, Gaia.

I quaderni di matematica, pieni di appunti, contengono una storia, abbastanza recente. Non ha nemmeno senso, sono quasi paragrafi scollegati, durante un'ora di limiti da calcolare: nel suo attimo di arguzia, Bessie sostiene che il limite sia della matematica, probabilmente.

È così che si muore, ha scritto. Ed è per questo che puoi essere triste in un giorno qualunque della tua vita: non c'è una cadenza, una regola, per la malinconia. Lo sei e basta.

Ed è scrivendo che si vive, che il sangue scorre e scoppia, una bolla nel petto, senza le unghia.

Scoppia tutto. Le distanze, la nostalgia, i rimpianti.

La storia prosegue e, inevitabilmente, domani finiremo per studiare anche il presente. Che è già passato.

 

*

A Marco piace il nonsense, alla mamma piacciono le commedie, a Bessie piace l'Angst, a Gaia piace scrivere.

Basta?

 

La verità è che non basta mai. Non è questione di passione, di ossessione, ma di talento: o l'hai o non l'hai.

A quattordici, quindici, anni non l'hai mai.

Della Gaia del duemilaedodici non rimane che un ritratto sbiadito, velato. Colori indefiniti per una quindicenne degli anni passati: capelli lunghissimi, mossi, castano cioccolato senza sfumature.

Potendo, la cambierebbe.

La demolirebbe per ricostruirla tutta da zero, semplicemente. Per farla più forte, forse, per toglierle quella sensibilità che, adesso, chissà dov'è finita. A saperlo prima, forse si sarebbe fidata di più: avrebbe creato Bessie dal nulla, rendendola quanto più perfetta possibile – e sarebbe cambiata in meno tempo.

 

La verità è che i cambiamenti sono soltanto altri strati di colore. È ancora quindicenne, là sotto.

 

Il racconto dei quindici anni fu duplice, quella volta: primo compleanno su Efp, doppio regalo.

Quello previsto: il principio di quello che sarebbe stato il grande amore della sua vita, il futuro. I Fan di Harry Potter lo sanno, che il futuro lo puoi leggere anche nelle foglie del té.

L'imprevisto fu il nonsense, il dispiacere. Sì, Gaia, puoi essere triste anche a quindici anni.

Non è vero che il dolore ha un'età, che è esclusivo. Ci sono motivi per non crederlo fine a sé stesso, ma è una realtà tangibile, inossidabile. Una bolla d'aria.

Ha cominciato a crescere così: quando ha capito che era forzato, il lieto fine. Ma che, per scrivere un buon mancato finale, devi averlo sperimentato sulla tua pelle, ustionandoti.

Gaia ha cominciato a conoscere Bessie nel mezzo del loro primo anno insieme: quando ha compreso che, per scrivere una storia triste, parte avvantaggiato chi, la tristezza, l'ha conosciuta.

Anche lieve, una puntura e, via una sbavatura sulla tela. Se hai quindici anni e sei così dannatamente fragile, solitamente, basta.

 

Quanto ci vuole per spezzare una ragazzina?

 

Bessie è nata veramente così. Quando Gaia ha cominciato a capire cosa non andava per proiettarsi in un feticcio falsato che, in qualche maniera, risultava essere più forte di lei.

Ha funzionato.

 

Da quel momento, le fratture non sono più state così arbitrarie.

 

*

E ci ripensa, ancora, continuamente.

È storia, l'attimo appena passato, che rimane sospeso nell'aria, in attesa. Quando si chiede perché, è domanda senza risposta: è successo. Finisci per cambiare, così, quando ti costruisci una divinità personale che poi procedi a demitizzare, spogliandola dagli orpelli per renderla simile a te. E cambi, senza possibilità di retrocessione.

Quindici, sedici, diciassette e diciotto meno quattordici.

Si arriva al punto in cui non si comprende più chi è Gaia e chi è Bessie.

 

A quindici anni, erano ancora separate, diverse: quella forte e quella fragile.

A sedici anni, erano opposte: capelli lunghi, Bessie, e Gaia che li aveva troncati a metà.

A diciassette anni, uguali: sfumature di viola, fuxia e rosso. E blu.

A casa, il computer illumina la stanza, la pagina word aperta. Lo scrive per non pensarci.

 

Gaia, diciott'anni meno due settimane, l'una di notte, capelli corti tinti di blu chiaro. GaiaBessie per i ragazzi del terzo anno, che han capito che i cambiamenti sono graduali.

L'ha toccata. La consapevolezza che le ha sfiorato il viso, facendole comprendere che va bene.

Puoi non avere talento, Gaia, ma devi fare questo.

Sono troppe poche, le cose che non ti toccano.

 

Sono diciott'anni che pensi per frasi: è ora di smettere di scriverle sulle braccia.

 

   
 
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