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Autore: AlfiaH    02/03/2015    6 recensioni
[Destiel/Sabriel/ lievissimi accenni alla DeanXLisa, alla Megstiel e alla SamXRuby - Castiel ispirato alla sua End!Verse - AU]
Dean e Castiel si sono lasciati un anno fa e non si parlano da allora, ma Gabriel ha bisogno d'aiuto e Sam è piuttosto disperato.
Dal testo:
“Vuoi dirmi perché sei qui – perché siamo qui, o devo aspettare che Dio mi conferisca il potere della chiaroveggenza?” sbotta Castiel. È nervoso, nasconde la mano destra in una tasca, spera che smetta di tremare.
“Lo sapresti se ti fossi degnato di rispondere a quel cazzo di telefono!”
[...]
“Ho lasciato anche medicina. Ho mollato tutto quando- Cristo, non sono abbastanza fatto per affrontare questa conversazione”. Castiel preme i palmi sulle tempie, la testa gli sta per scoppiare.
Genere: Angst, Commedia, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Gabriel, Sam Winchester
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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Il vero Amore non perdona, rimane costante nell'Odio

Note: le parti in corsivo rappresentano i flashback



Castiel si strinse addosso il plaid a quadri viola, scosso da un brivido, e si rannicchiò sul divano con le ginocchia al petto, premendo il volto contro il cuscino, la testa che gli scoppiava. La TV era sintonizzata su un programma di cucina che non stava davvero seguendo, la conduttrice cianciava e gracchiava qualcosa riguardo alcune spezie particolari provenienti da taluni paesi, che avevano codesti sapori particolari, indispensabile per la preparazione del “suddetto piatto”, il cui nome Castiel non aveva veramente afferrato, ed era talmente rumorosa e fastidiosa da far supporre la squisitezza della pietanza in questione – in caso contrario, Castiel non sarebbe riuscito a spiegarsi il perché così tante persone seguissero quel programma. Cristo, persino Meg lo adorava e lei non era certo tipo da torte e biscotti.
Se solo il telecomando non fosse stato così lontano.
Allungò una mano, illudendosi di poter raggiungere con le dita il lampeggiante pulsante rosso del televisore e zittirlo per sempre prima che gli partisse un embolo. Ovviamente era troppo lontano; il telecomando riposava pigramente sul tavolo.
Gemette, frustrato, uno chef prese a sbraitare contro gli altri cuochi, infilò la testa sotto il cuscino e premette forte sulle orecchie, sperando che il mondo sparisse e lo lasciasse in pace.
Poi una chiave girò nella toppa e Castiel seppe che Meg era tornata a casa, alla buon’ora. Era in buona compagnia, come suggerivano le risatine soffocate, e per un attimo, preso dal panico, smise di respirare; magari, se fosse rimasto zitto e fermo, non si sarebbero neppure accorti della sua presenza. Impossibile, pensò poi, la TV era ancora accesa.
Meditò di sgattaiolare via dal divano, prima che Meg ed il suo accompagnatore lo adocchiassero reputando di essere troppo lontani dalla camera da letto, ma davvero non ebbe il tempo di mettere in pratica il proprio piano, poiché, all’improvviso, le voci sommesse si fecero incredibilmente vicine ed il corpo dell’uomo cadde letteralmente su di lui, schiacciandolo e strappandogli un gemito di protesta.
“Ma che cazzo!” urlò l’uomo, rotolando giù dal divano mentre Castiel tirava fuori la testa e si massaggiava la schiena contusa. “Chi diavolo è questo tizio?!”
Dapprima la ragazza si coprì le labbra con le mani, gli occhi spalancati illuminati dalla luce artificiale del televisore, per poi scoppiare in una sonora risata di fronte all’espressione oltraggiata della sua nuova conquista. “Clarence”, si presentò. Qualcosa nella sua voce assonnata la fece ridere più forte ( o forse era semplicemente ubriaca), ma l’uomo non lo trovò divertente allo stesso modo. “Cos’è, uno scherzo?” sbraitò tirandosi su, ma i pantaloni già sbottonati e calati fino alle ginocchia non gli facilitarono il compito; scivolarono lungo le caviglie e, di fatto, il povero sventurato si ritrovò di nuovo col muso per terra, mentre la mora si piegava in due dalle risate commentando, testuale, la sua “faccia da culo”. “Mi dispiace”, intervenne Castiel sinceramente mortificato, ma il malcapitato lo mando gloriosamente a quel paese, riallacciando i pantaloni e spintonando malamente il tavolino in legno difronte al divano, già di per sé traballante (Cas aveva provato ad aggiustarlo miliardi di volte in miliardi di modi, ma, come la sua coinquilina aveva più volte sottolineato, faceva davvero troppo schifo come uomo di casa, così alla fine aveva semplicemente rinunciato), che si rovesciò sul tappeto.
“Cazzo ridi? Ma vaffanculo, puttana”, ringhiò. Nel passarle accanto per raggiungere la porta le diede una spallata ma lei non sembrò farci caso, troppo presa a corrergli dietro. “E dai, Al, non fare lo stronzo!” lo afferrò per un braccio nel tentativo di trattenerlo, Alastair (non era una nuova conquista, realizzò, poiché aveva già sentito quel nome) se la scrollò di dosso con violenza.
Castiel si sporse dalla sua postazione per osservare la scena, rigorosamente in silenzio – Meg era stata chiara e pragmatica su quel punto dell’accordo: “fatti i cazzi tuoi”.
“Chi è quello?”
“È uno che ho conosciuto un mese fa al locale, non sapeva dove andare e mi serviva un coinquilino! Sai com’è, dopo che mi hai mollata per quella troia!”
“Mi sembra che tu ti sia consolata in fretta, no? E dimmi, il tuo cavaliere lo sa che apri le cosce per qualche grammo di eroina?”
Davvero, Castiel aveva provato ad essere un buon coinquilino: aveva provato ad aggiustare il tavolino del salotto, a riparare il condizionatore come una volta gli aveva mostrato Sam Winchester, aveva provato a non addormentarsi tutte le sere con la TV accesa. Aveva provato, davvero, ma era stato subito chiaro che non avrebbe vinto il premio per il miglior coinquilino del mese – non lo avrebbe vinto neppure nelle vesti di amico, ma quantomeno poteva evitare di fare completamente schifo.
Per questo quando Meg colpì in pieno volto Alastair e quest’ultimo l’afferrò per le spalle in modo molto poco amichevole, Castiel ruzzolò giù dal divano con l’abilità di una tartaruga ninja e si frappose tra i due guadagnandoci un occhio nero e un calcio nei gioielli.
Non proprio la giornata più felice della sua vita, insomma.
Fortunatamente Alastair decise di andare via sulle proprie gambe (l’alternativa sarebbe stata usare quelle di Castiel a mo’ di monopattino) e Meg, che nel frattempo si era coperta il viso con le mani, in lacrime, se ne uscì con un ghignante “se ne è andato?” appena lo sbattere del portone ebbe echeggiato nella stanza. Confuso e stordito, il ragazzo annuì e le si sedette accanto poggiandole una mano sulla spalla. “È tutto finito” la rassicurò, ma l’altra batté i palmi sulle cosce e si alzò raggiante. “Era ora! Dio, non se ne andava più! Guarda qui”. Estrasse un tubetto giallastro dalla tasca posteriore dei jeans e glielo agitò davanti agli occhi, entusiasta. “Sai cosa sono?” Cas ci impiegò un attimo per mettere a fuoco la situazione – dopotutto aveva appena preso parte alla sua prima rissa, o quello che era. “Gliel’hai prese durante la colluttazione”, realizzò. L’altra roteò gli occhi. “E’ ovvio, fesso. Avevo tutto sotto controllo. Però sei stato carino”, ammiccò. “Avevi programmato tutto dall’inizio…”
“No, certo che no! Il piano era quello di prendergliele domani mattina, tu hai solo velocizzato le cose. Vedi, il tuo essere un coinquilino di merda è servito a qualcosa. Comunque queste, mio caro Clarence”, e si lasciò cadere sul divano, il busto ruotato verso Castiel e il tubetto tra le dita, “sono oro. E quando Crowley scoprirà che le ha perse, Al sarà spacciato”. Il moro non colse l’ironia della battuta ed aggrottò le sopracciglia, il mal di testa che non era diminuito nemmeno per un attimo. “È solo un tubetto”, osservò perplesso. “Non è solo un tubetto! Non è roba nostra, viene direttamente dal New Messico, Clarence. Dopo lo scontro tra bande di quattro anni fa, Crowley e Raphael si sono dati una calmata e sono scesi a compromessi: niente concorrenza. Ognuno spaccia la propria droga nei propri territori così entrambi guadagnano l’esclusività su una sostanza e tutti sono più ricchi. Se hai un debole per la coca, chiedi agli uomini del Re, se preferisci impasticcarti entri nel capo d’azione di Raphael. Mi spiego?” Annuì, allibito. “Bene. Che succede se uno dei due decide di fare il doppio gioco?” il suo ghigno si allargò a dismisura, così come gli occhi di Castiel. “Crowley…”
“Esatto. Se queste anfetamine finissero nelle mani sbagliate, in questo caso in quelle grasse e fetide di Raphael, sarebbe guerra. E Crowley odia alzare il culone dal suo trono e sporcarsi le mani di sangue”.
Il ragazzo scattò in piedi lasciando cadere sul pavimento il minestrone surgelato che aveva tenuto premuto sull’occhio fino ad allora. “Sei impazzita? Se sono così importanti devi restituirle subito! Hai detto tu stessa che lo scontro armato di quattro anni fa è stato orribile. Vuoi forse che si ripeta? Cavolo, Meg, come puoi-”
“Calmo, Clarence! Appena Crowley prenderà a calci Alastair per averle perse, interverrò io per salvare la situazione e gliele riporterò, okay?”
“Non ho mai conosciuto una persona tanto subdola!” esclamò non così indignato come cercava di sembrare, muovendole un sorriso ironico. “Grazie, tesoro. Che dici, proviamo?”
Quella proposta lo spiazzò – per la verità, non fu tanto la proposta a spiazzarlo quanto il fatto che la stesse realmente prendendo in considerazione.
Insomma, Castiel aveva delle idee sulla droga, sulla dipendenza, sul malessere che comportava, gli spasmi, l’astinenza, le stesse idee terribili che avevano tutti, che ti inculcano sin dalle elementari; ed poi aveva delle nozioni a riguardo, frutto di ormai cinque anni di medicina, che le facevano apparire ancora più spaventose.
Sapeva a cosa andava incontro.
“Rilassati angioletto, mi stai guardando come se avessi appena commesso un omicidio!” scherzò, “sicuro di non voler provare? Dicono che risolva molti problemi, sai? E tu, mio caro, hai proprio un aspetto di merda”, rincarò la dose e Castiel non se la sentì di darle torto: aveva passato l’ultimo mese rannicchiato in un angolo, in lacrime, col cuore a pezzi.
Per Dean, quell’ignobile bastardo traditore – come aveva potuto preferire due semi sconosciuti a lui, che gli aveva dato tutto ciò che aveva? E perché Castiel, per quanto ci provasse, non riusciva ad odiarlo?
Dio, era così patetico.
“Dai…”
La premessa dell’oblio lo tentava.
Ma almeno per quella notte Castiel si tenne stretto il proprio dolore.

*****
 
 
 
“Vai da qualche parte?” non ha fatto che qualche passo quando la voce di Dean alle sue spalle lo fa sobbalzare come un ladro colto sul fatto. È appena uscito dallo studio, Dean deve essere poggiato al muro della corridoio adiacente poiché gli è passato accanto senza notarlo, troppo occupato a cercare le scale con lo sguardo. Il dottor Tran gli ha suggerito di aspettarlo lì, ma lui ha una questione da sbrigare e non può perdere altro tempo.
  Ha sempre i nervi a fior di pelle, Castiel, da un anno a questa parte e quel tono insinuante lo irrita da morire; più passano i minuti più si sente un cane rabbioso. “Non sto scappando, se è questo che intendi” risponde, più acido di quanto vorrebbe, e si volta con un sorriso tirato. Dean ha le braccia incrociate al petto e l’espressione severa. “Perché sembra che tu stia sgattaiolando via come un ladro, allora?”
“Perché a quanto pare ho i cani da guardia attaccati al culo”. Il biondo gli rivolse una lunga occhiata scettica e senza volerlo si ritrovarono intrappolati in un muto dialogo ottico. “Scusa se ho qualche dubbio sulla tua affidabilità. Sai, ho avuto brutte esperienze a riguardo”, sputa fuori sarcastico. Il moro sospira profondamente. “Non ho voglia di litigare, Dean. Non sto andando da nessuna parte, devo solo fare una telefonata”. Winchester si morde l’interno della guancia mentre annuisce, fruga nella tasca dei jeans e gli si avvicina porgendogli il proprio cellulare. Quando Castiel, senza staccargli gli occhi di dosso, allunga una mano per prenderlo le sue dita sfiorano quelle dell’altro ed è costretto a guardare da un’altra parte perché è sicuro di essere arrossito. “Grazie” mormora. “Bastava chiedere”, gli occhi dell’altro non l’hanno abbandonato. Il moro fa retro front e si chiude la porta alle spalle rientrando nell’ufficio di Kevin per avere un po’ di privacy. Ricorda a memoria il numero.
“Meg?”
“Clarence? Che cazzo di fine hai fatto? Ti sembra questo il momento di mettersi a fare gite?”
“Meg-”
“Dimmi dove sei, vengo a prenderti”.
“No!” esclama un po’ troppo ad alta voce. “No”, ripete più piano premendo il cellulare all’orecchio.
“No?”
“No. Ascolta, Meg, non posso tornare a Rushville. Mio fratello ha bisogno del mio aiuto, devo rimanere qui per un po’ di tempo, tornerò appena posso”.
C’è un momento di silenzio dall’altra parte, poi il rumore di una porta che sbatte in malo modo.
“Qui dove? Non sei nemmeno a Rushville?”
Castiel inspira profondamente. “Non posso dirtelo”.
“Non ti fidi di me?”
“Sinceramente no”. La risata dall’altra parte lo fa sorridere. “Ascolta, dì a Crowley che sono impegnato, okay? Non posso preparare tutta quella roba entro martedì, deve darmi più tempo”.
“Non la prenderà bene”.
“Per questo non posso dirti dove sono. Non posso coinvolgere i miei amici in questa faccenda, capisci? Meno sanno di loro, meglio è. E poi non starò via molto, digli di non preoccuparsi. Mi serve solo più tempo”.
“Pensavo di essere io ‘i tuoi amici’. Non pensi a me? Giuro che se la nostra attività fallisce per colpa tua-”
“Te la caverai, te la cavi sempre”.
“Con un cavaliere penoso come te sono costretta a cavarmela da sola, tesoro. Vedrò cosa posso fare”, sospira melodrammatica.
“Grazie”, sussurra sinceramente. Come avrebbe fatto senza di lei per tutto quel tempo? “Davvero”.
“Si, si. Senti, chiamami appena hai risolto i tuoi struggenti problemi familiari. Poi lavoreremo su questa cosa del cellulare – come puoi vivere senza? Ah, e salutami Dean”, e riattacca prima che Castiel possa dire qualunque cosa.
 
*****

Meg entrò nell’appartamento come un uragano, tanto che persino Castiel, spalmato a faccia in giù sul materasso accanto alla finestra in cerca di un po’ di refrigero, riuscì a sentire le porte degli stipi che sbattevano a due camere di distanza. Sulle prime lo ignorò, come faceva con tutte le altre cose; alla depressione dei primi tempi e poi alla rabbia dei secondi si era succeduto uno stato di indifferenza disarmante, che Castiel scambiava per rassegnazione e che, invece, era molto lontano dall’esserlo. Fu solo quando la rossa (di tanto in tanto si tingeva i capelli, infischiandosene altamente delle paternali del ragazzo riguardo la bellezza naturale) sfondò letteralmente la porta della sua – loro – stanza, un borsone tra le mani e l’aria stravolta.
“Devo andarmene”, annunciò aprendo l’armadio e cominciando a lanciare a caso dei vestiti nella suddetta borsa. “Meg? Che succede?” chiese intontito. Gli sembrò di non parlare da millenni. “Le ho perse, Clarence! Ho perso il carico- se Crowley lo scopre farò la fine di Alastair. Devo andare via. Non stare lì impalato, dammi una mano!” Cas si passò una mano tra i capelli sudaticci e si mise a sedere, afferrando giusto in tempo i pantaloni che la ragazza gli aveva lanciato. “Cosa? Come hai fatto a perderle?”
“Io- le ho date a questi tizi, sai, gli spogliarellisti di quel locale dove vai di solito, com’è che si chiama? Flag… Flat…”
“Si, ho capito”.
“E quegli idioti si sono fatti sgamare come dei principianti! Erano a quest’addio al nubilato e uno ha chiamato gli sbirri per una rissa o qualcosa del genere. Dio, non lo so! Tienimi questa”. Gli porse una lunga parrucca verde, sulla quale Castiel evitò di interrogarsi, ed aprì i cassetti del comodino in cerca di qualcosa. “Dov’è quel maledetto passaporto…”
“Meg, calmati! Ragiona, dove pensi di andare? Dobbiamo trovare una soluzione, scappare non risolverà le cose!”
“Scusami?” domandò lei, il tono sarcastico e una risata amara che lo colpì in pieno stomaco. “Ti prego, parlami ancora di quanto sei bravo a trovare soluzioni geniali ai problemi, signor ‘voglio morire perché Dean non mi ama più’! E, oh- raccontami di quella volta che sei coraggiosamente rimasto ad affrontare la situazione!”
“Meg, per favore…” tentò, ferito, ma l’altra si passò una mano sugli occhi e gli puntò un dito contro. “No, tu per favore! Smettila di darmi consigli inutili e aiutami a chiudere questa maledetta borsa”. Prese a gomitate qualche giacca imprecando a denti stretti contro il mondo della moda, finché il ragazzo non la prese per le spalle, costringendola a guardarlo negli occhi. “Respira”. Lei respirò. “Non è da te farti prendere dal panico, giusto?” Lei sollevò gli occhi al cielo, leggermente più rilassata, e acconsentì: “no, non lo è”.
“Perché tu te la cavi sempre, giusto?”
Meg emise uno sbuffo divertito e gli accarezzò una spalla nuda (lei non diceva mai “grazie”, ricordò Castiel). “Giusto”
“Bene. Quanto hai perso?”
“Tipo un centinaio”.
Il moro si lasciò cadere sul letto, una mano ora pigramente poggiata sul fianco della ragazza scossa da un leggero tremolio, e si massaggiò un sopracciglio con le dita. “Mi serviranno delle pastiglie per il raffreddore, della ehm, tintura di iodio, dei fiammiferi, e- suppongo che abbiamo dei filtri per il caffè?”
“Sei impazzito?” Castiel era mortalmente serio. “Non siamo in Breaking Bad, non puoi cucinare certa roba come se niente fosse!” si sistemò nervosamente una ciocca rossa dietro l’orecchio sottraendosi al tocco del ragazzo, che si portò entrambe le mani alle tempie.  Ho bisogno solo di un attimo per concentrarmi e del posto adatto”.
“Puoi davvero farlo?” chiese dopo un attimo, e lasciò correre i polpastrelli tra le sue ciocche scure quando l’altro la fissò con quegli occhi talmente blu da poterci affogare. Per un attimo Castiel volle baciarla. “Non preoccuparti, me la cavavo con la chimica. Usciremo da questo casino, vedrai”. Tentò un sorriso, ma quello dell’altra fu più convincente. “Il mio angelo dagli occhi blu”.
Quando, tempo dopo, se lo chiese non seppe spiegarsi perché poggiò le mani sui suoi avambracci, proprio dove spiccavano i piccoli segni rossastri dell’ago, e si sollevò giusto il poco che serviva per posare le labbra sulle sue. Fu un contatto lieve e breve e nessuno dei due lo commentò; Meg avrebbe potuto prenderlo un po’ in giro perché era un pessimo baciatore e Castiel le avrebbe rinfacciato di aver tenuto gli occhi chiusi come una scolaretta.
Pertanto lei non portò guerra e lui, pacifico per natura, non glielo chiese.
 
*****
 

Dean ripone il cellulare nella tasca dei pantaloni e per un attimo medita di chiedergli a chi ha telefonato; ha comunque il numero registrato, adesso, e potrebbe controllare più tardi, ma sarebbe piuttosto inquietante – sarebbe da fidanzato geloso.
Però Dean vuole saperlo. Cavolo, ne ha il diritto.
Castiel si è persino allontanato per parlarci, gli ha persino chiuso la porta in faccia; deve essere qualcuno di importante per lui. Più importante di Dean (a lui non ha telefonato nemmeno una volta per fargli sapere che stava bene. Come dovrebbe prenderla?)
Potrebbe semplicemente chiedere ma Cas non glielo direbbe, ne è sicuro. Dopotutto non sono affari suoi.
“Stai morendo dalla curiosità, non è vero?” come sempre l’altro riesce a leggere i suoi pensieri
Dean alza le spalle, falso. “Non è affar mio”.
“Ho telefonato ad un’amica. Mi ha aiutato molto in quest’ultimo anno. È stata gentile”.
Winchester sta per domandargli se il suo “essere gentile” riguarda anche l’impasticcarsi insieme allegramente, ma alla fine decide di risparmiarselo per un’altra volta e annuisce; si sente più sollevato e ha paura di riflettere sul perché.
Il moro si poggia allo stipite della porta chiusa con una spalla ed inclina la testa di lato, esponendo il collo nudo ed un eloquente segno rosso marchiato sulla pelle; Dean non riesce a smettere di guardarlo, come se potesse farlo sparire solo con gli occhi. È ancora così arrabbiato con Castiel.
Non di quella rabbia cieca che l’ha spinto a picchiarlo nel cortile o che gli ha fatto strappare tutte le loro foto (ti odio perché mi hai abbandonato), è quella che gli ha fatto rincollare i pezzi una sera di febbraio (ti odio perché non sei con me) e lo fa sentire ridicolmente fragile.
Cas segue il suo sguardo e si copre il succhiotto con una mano, visibilmente a disagio, ma non fornisce alcuna spiegazione, si schiarisce la voce, stira le labbra in una linea sottile. “Se non c’è altro che vuoi sapere, puoi andare. Non tenterò il suicido come i carcerati”.
“Non sono qui per farti da cane da guardia”. Dean si guarda le punte dei piedi, Castiel aggrotta le sopracciglia, perplesso, gli basta lanciargli un’occhiata per realizzare: “ti dispiace”. Il biondo si morde il labbro inferiore, lo guarda di sottecchi, sposta il peso da un piede all’altro, indugia come se stesse per dire una cosa importante e difficile. “Si, mi dispiace. Okay? Per quello”. Addita il suo occhio nero, “non avrei dovuto”.
“Me lo sono meritato”, concede il moro abbozzando un sorriso.
“Non ti sei difeso, è stato come bastonare un cucciolo”.
“Sai cosa penso della violenza. E poi non sono un cucciolo!” pronuncia quest’ultima parola quasi si tratti di una bestemmia, la bocca storta in una smorfia schifata. “No, non lo so” è la risposta spontanea di Dean. “So cosa pensavi, Cas. Che la droga fosse una merda, per esempio, o che scopare sul retro di un locale fosse poco igienico. Ma a quanto pare le persone cambiano”. “Anche tu sei cambiato”, stavolta è Cas a sorridere amaramente additando la fede al dito dell’altro, “hai messo la testa a posto. Abbiamo chiarito che non volevi sposare Lisa. Chi è la fortunata, allora?”. “Lisa”, Dean fa spallucce, la bocca di Castiel mima un risentito “wow”. “Minacciavano di toglierle l’affidamento di Ben quando ha perso il lavoro, così abbiamo deciso di sposarci. Sono rimasti a casa nostra- a casa mia per un po’, sai per salvare le apparenze con gli assistenti sociali”, gli sta davvero dando una spiegazione? “Ha trovato lavoro in New Messico e si sono trasferiti lì. Vedo Ben tutti i giorni con la telecamera del computer”.
“Skype”, lo corregge Castiel senza reprimere un sorriso – sembra felice, non ha neppure bisogno di interrogarsi sul perché. “Si, quello”, grugnisce. “Abbiamo un bel rapporto, anche se mi piacerebbe essere più presente per lui”. “Sembra proprio che tu sia un buon padre”, dice incrociando le mani dietro la schiena (gli temano: pensa che Dean non se ne sia accorto?), l’altro si guarda attorno, indugia sull’ordinatissima scrivania di Kevin e sull’estremità mordicchiata di una matita (è sempre così nervoso, quel ragazzo) prima di incrociare i suoi occhi. “Cercare di essere un buon padre è quello che mi ha fatto andare avanti quando te ne sei andato”.
“Mi dispiace”.
“Ripeterlo all’infinito non cambierà le cose, Cas. Avresti dovuto parlarmene, fidarti di me. Cazzo, se solo ci ripenso…”
“Intendevo che mi dispiace per prima, Dean”, avanza di un passo senza interrompere il contatto visivo, “non avrei dovuto ridere, ma- Cristo, tu volevi sposarmi! E io ho combinato un tale casino. Ridevo di me stesso, non di te. Perché non posso credere di essere stato così cretino, capisci? E la cosa mi fa ridere, dal momento che ero io l’intelligente della coppia. È tutta colpa mia e-” e il fiato gli si blocca nei polmoni perché proprio mentre apre la bocca per aggiungere altro Dean lo bacia.
È più uno scomposto schiantarsi di labbra, ma basta per fargli spalancare gli occhi in un’espressione comica; il biondo ha le mani sul suo viso per tenerlo fermo (perché Castiel vuole scappare, come no) e gli occhi serrati, e lo lascia andare talmente velocemente che l’altro pensa di esserlo sognato – il dolore alla nuca, però, è piuttosto reale e probabilmente c’è anche la forma della sua testa sulla porta a testimoniare, tanta la violenza con cui Dean ce l’ha sbattuto contro.
“Dean…”
“Questo non significa niente”, mormora evitando la bocca dell’altro che cerca la sua. “Niente”, concorda Castiel come ipnotizzato dal suono della sua voce. “Sono ancora arrabbiato con te”. “Va bene” ed infila le dita tra i capelli sulla sua nuca, lo spinge contro il suo viso per azzerare le distanze ma l’altro ancora si ostina ad evitare le sue labbra. “Anche quello è di un’amica?” chiede invece sul suo collo, sul segno sbiadito che poco prima il moro ha coperto sollevando il colletto della camicia. Castiel socchiude gli occhi. “Potrebbe essere del tizio che hai picchiato ieri notte”.
“Bene. Spero di avergli fatto male”. Inspira il suo odore, lascia che gli invada il corpo “Pensavo che non te ne ricordassi”.
“Me lo ricordo”, ribatte, le mani che corrono sulla sua schiena. “Ero felice di vederti”. Finalmente i loro occhi si incrociano di nuovo e Cas riesce ad addentargli il labbro inferiore; Dean non si concede. “L’ho notato. Mi sei stato appiccicato tutto il tempo con un’erezione spaventosa nei pantaloni”.
“E non mi hai scopato?” il tono fintamente deluso cerca di nascondere l’imbarazzo. “Non ti facevo un gentiluomo”, il sarcasmo cela la delusione (quand’è che si è trasformato in Meg?). “Volevo farlo”, ammette baciandogli l’angolo della bocca.
“Volevi farlo?” Il biondo sussulta quando le dita gelide dell’altro entrano in contatto col calore della sua pelle sotto la maglietta. “Si”, pronuncia lentamente lasciandogli una scia bagnata lungo la mandibola mentre la bocca del moro lascia andare un sospiro umido. Castiel non si rende davvero conto di quanto Dean sia effettivamente vicino e reale ed eccitato fin quando non spinge il bacino contro il suo e sente le sue labbra a pochi centimetri dal proprio orecchio. “Mi hai implorato di scoparti lì, piegato sulla mia auto come una puttana”, Castiel deglutisce a vuoto, “e sai perché non l’ho fatto?”
“A parte il vomito sulle scarpe?” la sua voce è roca e si spezza quando Dean gli addenta il collo, forte, dove la carne è già arrossata, in un vano tentativo di strapparne il ricordo. “Sarei stato uno dei tanti” sussurra sulla sua pelle, le mani sul suo petto a premerlo contro il legno della porta “non te ne saresti nemmeno ricordato. Invece volevo che sentissi” le sue mani scendono sui fianchi dell’altro trovandoli incredibilmente stretti, più di quanto abbia memoria, mentre il moro allaccia le dita ai passanti dei suoi jeans per tirarlo più vicino, bacino contro bacino, “ogni centimetro del mio uccello nel tuo culo e che fossi abbastanza sobrio da non dimenticarlo mai”.
“Che egocentrico bastardo” sibila, prima che la porta lo spinga in avanti, tra le braccia di Dean.


#Angolo della disperazione
Hello boys!
Eccoci al nostro quasi puntuale più o meno randevùZ con "Di come Castiel fu costretto a cambiare spacciatore e Gabriel gliene fu grato", ed eccoci giunti anche alla tanto attesa ma da chi  riappacificazione tra Cas e Dean.
E alla comparsa di Meg, donna maledetta (è un complimento). Adoro il rapporto che ha con Castiel, alla "sei adorabile, davvero, ma Cas J. appartiene solo a Dean" - perché è così, Meg non può farci niente. Ma la amo lo stesso.
Cosa dire? Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e, come al solito, ringrazio tutti coloro che stanno seguendo questa fanfiction!
Ma- prima di dileguarmi, vorrei chiedere /a voi poveri plebei che addirittura leggete le note dell'autore/ se qualcuno è per caso interessato a condividere i magici piaceri di una roleplay con la sottoscritta (ho questo bisogno fisiologico di ruolare Destiel ma, come ho detto in precedenza, sono piuttosto nuova nel fandom). Mi fareste la donna più felice del mondo ;A; 
Grazie per l'attenzione!
PS: non ho mai cucinato anfetamine. Gli ingredienti citati sono bellamente scopiazzati da Breaking Bad - Walter cucina metanfetamine e non ho la più pallida idea della differenza che intercorra tra le due cose perché, purtroppo, sono ignorante (e non spaccio droga). 

Tanti biscotti,
AlfiaH. <3

 
  
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