Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: tartaruga_dt    06/03/2015    2 recensioni
Mycroft ha un pesce rosso e nessuno si rende conto di cosa questo possa significare per lui, non sua madre, non Sherlock e in fondo in fondo neanche Mycroft stesso. Suo padre lo intuisce, e forse anche il dottor Watson e sua moglie Mary si sono fatti un’idea. Bill Wiggins invece sa di per certo che cosa questo significa per lui, ma per quel che riguarda Mycroft non gli interessa poi molto. L’importante comunque è che non lo venga a sapere Jim Moriarty, altrimenti potrebbe chiedere a Irene Adler un aiuto per portarglielo via.
[SOSPESA - IN REVISIONE]
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bill Wiggins, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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goldfish 3
3. il ritratto.

Prima ha freddo. Poi caldo. Poi di nuovo freddo. Trema e suda alla stesso tempo, batte i denti ma la sua pelle brucia. Le fa male la testa come se le martellassero senza sosta le tempie e ogni rumore, ogni minimo movimento, non fa che peggiorare le cose.
Immobile. Deve rimanere immobile se vuole che il dolore si attenui, e deve tenere gli occhi ben chiusi, per impedire alla luce di ferirla.
Non sa dov’è, non si ricorda come ci è arrivata, ha perso il filo degli eventi, i pensieri le si aggrovigliano in testa e non riesce a districarli.
Da dove si comincia? Cosa viene prima?
Ricorda un uomo alto, altissimo, sottile ed elegante come l’ombrello che ha sempre con sé ma… no, no, lui viene dopo, giusto? No, non è nemmeno così, lui è all’inizio ma poi se ne va, sparisce come se non ci fosse mai stato, come un sogno a occhi aperti, e infatti nel suo primo ricordo lei è sola, seduta stretta a lunga tavolata di bambini, con un piatto di minestrone davanti e gli occhi pieni di una fame che tutto il cibo del mondo non basta a saziare mai.
Quello che viene dopo, nei giorni, nei mesi, negli anni interminabili che vengono dopo, è la solita trafila di quelli che nessuno vuole: istituto e poi affidamento parziale, qualche mese o poco più in una famiglia che la tiene giusto il tempo di capire se lei è la scelta giusta e dopo, quando hanno deciso che no, non lo è – troppo silenziosa, troppo chiusa, troppo stupida, troppo brutta, tutto da capo: istituto, affidamento, ancora istituto, affidamento, istituto…  E via così finché un brutto giorno ha undici anni, sporca di sangue il lenzuolo del letto e all’improvviso è troppo grande perché la si possa scambiare per una bambina, con i piccoli seni acerbi che spuntano a tradimento dalle magliette e attirano tutto un altro tipo di attenzioni orribili e insistenti, attenzioni umide di saliva da parte di gente a cui piace sentirsi chiamare papà, carezze viscide, che le si appiccicano addosso, la sporcano e che non bastano le lacrime a lavare via.
Poi un giorno tutto questo finisce  – la paura, l’angoscia di cambiare casa, di cambiare letto, di non sapere chi ti aspetta lì e cosa si aspetta da te, e diventa solo un brutto sogno da buttarsi alle spalle.
Succede un venerdì di marzo con il cielo grigio e un vento freddo e tagliente. I signori Holmes si presentano in Istituto la mattina presto. Lei è bionda, ha occhi azzurri intelligenti e modi autoritari da sergente maggiore, lui invece ha l’aria mite e il sorriso più dolce che Shelley abbia mai visto. E’ questione di un secondo: la signora Holmes la individua in mezzo a un branco di ragazzini scalmanati, la guarda fisso per un tempo che a lei sembra infinito e poi guarda il marito. L’attimo dopo le stravolgono la vita.

Bill le stende sopra un’altra coperta e gliela rimbocca per bene finché di Shelley non si vede altro che la parte di faccia che va dal naso in su.
– Sei fradicio e stai tremando. – gli fa notare Wendy, in piedi contro lo stipite della porta  – Vatti a cambiare, sto io con lei finché non torni. –
Ma Bill rimane immobile dov’è, in ginocchio accanto al letto, con una mano sulla fronte bianca della ragazza e l’altra stretta sulla coperta.
– Scotta. – mormora – Non hai niente per abbassare la febbre? –
– Non lo so. Puoi provare a chiedere a Sybilma dovrai aspettare, ora è con un cliente. –
Bill annuisce senza staccare gli occhi dal viso Shelley. E’ tanto pallida che può riconoscere il percorso azzurrino delle vene sotto la pelle.  
– Mi dispiace essere piombato qui in questo modo ma è... è svenuta all’improvviso, in mezzo alla strada. Non sapevo dove andare. –
– Non fa niente, non pensarci. – Wendy si siede su un angolo del letto e accavalla le lunghe gambe nude – Tu ci hai aiutato tante volte, ci fa piacere essere noi a darti una mano una volta tanto. –
– Sì, beh, aspetta a dirlo. La parte difficile deve ancor arrivare. –
– Perché? Che cosa avete combinato? –
Bill fa scorrere le dita magre tra i capelli bruni di Shelley ancora umidi di pioggia. Pensa a Sherlock seduto sulla sua vecchia poltrona in Baker Street, con le mani giunte davanti alla bocca e lo sguardo assorto e poi pensa al dottor Watson che gli ha slogato la spalla in due mosse.
– La cercheranno. – dice alla fine.  
– Intendi la polizia? – la voce di Wendy suona improvvisamente stridula e agitata. Ma non è la polizia a impensierire Bill, la polizia potrebbe depistarla.  
– La polizia non è un problema. –
– E allora qual è il problema? –
Bella domanda. Non ne ha la più pallida idea, ecco la verità, lei gli ha detto che non voleva tornare indietro e lui non ha fatto domande, non ha chiesto chiarimenti: l'ha vista in lacrime e ha agito d'istinto, portandola il più lontano possibile da casa Holmes. Ora che la vede lì però, rannicchiata su una brandina sotto tre strati di coperte e con i capelli bagnati incollati alla faccia esangue, si chiede se sia stata una buona idea.
– Bill? –
Lui alza lo sguardo e incontra gli occhioni celesti di Wendy.
– Bill, non dirmi che c'entrano Dave o i fratelli Morris. Lo sai che io e Sybbie non vogliamo averci a che fare con le faccende di droga, non… –
– Niente droga. – si sbriga a dire prima che alla ragazza prenda un accidenti. Ma Wendy lo fissa sospettosa, con le braccia incrociate sotto al reggiseno nero.
– E allora qual è il problema? –
Non ha senso mentire. Si lascia cadere all’indietro, ritrovandosi seduto a gambe incrociate al lato del letto, e si passa le mani sulla faccia. Deve trovare il modo di farsi la barba perché ha la faccia ruvida come carta vetrata e non vuole che Shelley lo veda in quel modo.
– Sherlock è il problema. – sospira alla fine, sentendosi esausto.
– Sherlock? –
– Holmes. Il tipo per cui lavoro. –
– Oh. Quello carino e molto, molto strano? –
Sherlock Holmes carino? Bill fa una smorfia.
– Se è carino non lo so ma strano è strano. –
Wendy inclina la testa bionda su un lato, osservando Shelley con occhi critici.
– E perché al tuo capo carino interessa questa ragazzina? –
Lui non risponde subito, sceglie le parole con cura.
– Perché vive con i suoi genitori. – risponde poi, evitando accuratamente le parole “fratello” e  “sorella” – Loro l’hanno adottata. –
– Vuoi dire che hai rapito la sorellina adottiva del tuo capo? –
La voce di Wendy ha ripreso il tono stridulo di prima e Bill drizza la testa.
– Non l’ho rapita! – sbotta offeso – E’ uscita da casa di corsa, l’ho seguita e quando l’ho raggiunta ho visto che era in lacrime. Ha detto che non voleva tornare indietro. Che dovevo fare secondo te? –
Insistere per sapere cosa fosse accaduto, mormora una vocetta da qualche parte dentro la sua testa. Oppure rassicurarla e riportarla indietro. Seguirla senza farti vedere e telefonare a Sherlock non appena si fosse calmata, o ancora fare dietro front e andare dritto dritto dal signore e dalla signora Holmes per avvisarli che Shelley “non voleva tornare indietro”. Ma non ha fatto niente di tutto questo, ha avuto tutte queste possibilità e le ha tutte deliberatamente ignorate. Perché?
Wendy si alza in piedi. Ha gambe lunghissime che le mutandine nere e sgambate fanno sembrare ancora più vertiginose.
– Ti dico quello che non avresti dovuto fare, the wig. – gli dice piantandosi le mani sui fianchi – Per cominciare non avresti dovuto immischiarti nelle faccende di una famiglia che non è la tua, e  poi non avresti dovuto approfittarti di quello che è successo, di qualunque cosa si sia trattato, per svignartela con la ragazzina che ti piace. –
– Che mi piace? – le fa eco lui indignato – Ma che cavolo… –
Wendy gli tira un calcio sullo stinco. Non è molto forte ma ha le scarpe con le zeppe e la botta si sente.
– Ti piace. – insiste, ed è più un’accusa che una costatazione la sua – E ora vatti a cambiare prima che salga la febbre anche a te. –

Le hanno messo qualcosa di freddo sulla fronte. Shelley rabbrividisce e si stringe nelle spalle raggomitolandosi meglio sotto le coperte.
– Ti prendo un’altra coperta? Hai ancora freddo? – chiede una voce che Shelley non riconosce. , vorrebbe dire, ho freddo, ho sempre freddo, è tutta la vita che ho freddo, e le viene da piangere perché con gli Holmes no, con loro non ha avuto mai freddo, è sempre stata piena estate, una calda, assolata, infinita estate finché…
Oh beh, doveva saperlo che non poteva durare, troppa felicità, troppo tepore: doveva esserci per forza qualcosa di sbagliato, ed è un peccato perché ci aveva sperato, ci aveva sperato davvero che questa fosse la volta buona, e invece no.
Stupida.
E’ una stupida.
E' fatta male.
E' lenta.
Il mondo va veloce e lei no, lei va lentamente: quando gli altri arrivano lei è ancora all’inizio; quando gli altri capiscono lei sta ancora studiando la cosa. E a volte si perde, i pensieri volteggiano, si posano su particolari insignificanti, sul profumo lievissimo dei capelli tinti d’oro della signora Holmes – Cecilia, chiamami Cecilia. O nonna, che ne ho l’età, sai? – sui colori caldi del papillon del signor Holmes, sulla sfumatura indaco degli occhi di Sherlock e sui sorrisi sottili di Mycroft, sorrisi rari e affilati come rasoi che però avevano il singolare potere di calmarla, di farla sentire al sicuro, di... ecco, lo fa di nuovo! Si distrae e non arriva al punto. E il punto è che, come al solito, è stata stupida. Non si è fatta domande, non si è chiesta perché gli Holmes, che potevano avere chiunque, avevano preteso lei. Le bastava sapere che il signor Holmes non era il tipo d'uomo che si abbassa i pantaloni davanti a una quattordicenne, che la signora cucinava la torta al limone più buona del mondo e che in casa loro c'era una stanza pronta per lei. Una stanza intera.
“Era la stanza di Mycroft, mio figlio più grande” le aveva spiegato la signora Holmes – Cecilia, e Shelley ricorda di aver visto qualcosa nei suoi occhi chiari, un'ombra che avrebbe dovuto far squillare un campanello dall'allarme nella sua testa e farle chiedere perché le davano proprio quella stanza e non l'altra, quella del fratello più giovane, o meglio ancora quella degli ospiti. Ma no, lei era distratta, guardava la camera piccola e linda, la finestra grande da cui si vedeva il sole tramontare, il letto pronto e invitante e la scrivania ingombra di blocchi da disegno intonsi, di matite, di carboncini, di colori a olio e a tempera.
“Ci hanno detto che ti piace disegnare” le aveva spiegato con un sorriso Robert – il signor Holmes, “C’è qualcos’altro che può servirti? Non so, dei pennarelli per esempio o dei pennelli particolari… devi solo chiedere, sai?” Ma Shelley non aveva chiesto niente, non aveva detto neanche una parola. Aveva preso un foglio, poi una matita e aveva cominciato a disegnare.
Disegnare era meglio che parlare: riusciva a dire più cose e a dirle meglio, senza inciampare nelle parole.
Così aveva disegnato Sherlock in bilico su una corda tesa, una corda che a ben guardare era una corda di violino su cui lui procedeva cautamente, un passo alla volta. Era quello che vedeva quando osservava la sua figura alta e concentrata, la fronte liscia e quelle dita lunghe e sottili giunte davanti alle labbra serrate: corde lunghe, tese fino allo spasmo, corde da cui non ci vuole niente per cadere e scivolare giù, nel baratro.
Mary Watson era tutta un’altra storia invece, una storia cupa, densa di sangue e segreti. La disegnò seduta in un campo di papaveri rossi, nell’atto di togliersi una maschera nera dal viso. I papaveri erano per il sangue perso e per quello versato, mentre la maschera era per le bugie, per gli inganni e i tradimenti. Il viso di Mary sotto la maschera però era bello e allegro, un ovale luminoso dal sorriso spensierato, perché i papaveri e la maschera erano il passato e il presente era dorato e tiepido come il sole che le splendeva alle spalle.
Quando era toccato al dottor Watson l’aveva ritratto di profilo, con i gomiti appoggiati al bordo della finestra, le maniche della camicia a quadretti blu arrotolate sugli avambracci e lo sguardo perso oltre le vetrate. Nessuna corda tesa per lui, nessuna maschera, nessun mistero nascosto negli occhi chiari: John Watson era esattamente così come appariva, ed era per questo che Mary e Sherlock lo amavano tanto, perché era limpido dove lei era bugiarda e solido e incrollabile dove lui era fragile. Per questo, pensava Shelley mentre colorava d’azzurro gli occhi calmi del dottore, la piccola Felicity lo amerà alla follia.
Poi era stata la volta di Mycroft e allora erano cominciati i problemi. Problemi grossi, ingombranti come macigni, ma lei naturalmente non se ne era accorta, era distratta! Guardava Mycroft lei, arrossiva per i suoi occhi duri e scintillanti come il diamante, per il sorriso che era solo una piega lieve e amara delle labbra sottili, e osservava affascinata l’eleganza distinta dei suoi completi su misura, la disinvolta noncuranza con cui faceva roteare l’ombrello, l’espressione assorta con cui si portava la sigaretta alla bocca.
Mycroft le piaceva più di tutti. Più dei signori Holmes che pure l’avevano accolta e la riempivano di affetto e regali, più di Sherlock che pure si sforzava costantemente di metterla a suo agio, più degli Watson che stravedevano per lei fino a considerarla di famiglia, e anche più di Bill, quello strano ragazzo che seguiva Sherlock ovunque andasse e che la guardava sempre come se si aspettasse qualcosa da lei.
Mycroft invece non si aspettava niente, né da lei né da nessun altro. Bastava a sé stesso, stava al mondo come il sole al centro del sistema solare: gli altri gli si muovevano intorno seguendo orbite prestabilite, ora lontani anni luce e ora tanto vicini da sfiorarlo, ma non lo toccavano mai. E del resto toccare il sole era pericoloso, si rischiava di bruciarsi. Shelley però aveva avuto freddo tutta la vita e ustionarsi le dita sembrava un prezzo accettabile per riscaldarsi, così si era armata di tutto il poco coraggio che aveva e gli aveva rivolto la parola.
Ricorda perfettamente che era Natale, il primo Natale che trascorreva con gli Holmes, e che la casa era calda e profumata perché era dall’alba che Cecilia non faceva che sfornare dolci. Mycroft era appoggiato allo spigolo del camino e fissava assorto il fuoco che scoppiettava allegro, incurante di tutto il trambusto che c’era intorno a lui – di Robert che posava la mano sul pancione rotondo di Mary, di John che avvertiva Bill che ‘l’avrebbe tenuto d’occhio’, e di Cecilia che insisteva perché Sherlock indossasse un buffo cravattino rosso.
“Dormo nella tua stanza”, aveva detto Shelley a Mycroft, e per qualche motivo quell’affermazione aveva avuto il potere di far piombare la sala da pranzo nel più profondo dei silenzi. A ripensarci ora, con il senno di poi, capisce che probabilmente tutta quell’attenzione era dovuta al fatto che erano le prime parole in assoluto che le sentivano dire da quando era stata adottata.  
Mycroft dal canto suo reagì con il quieto savoir faire di chi, abituato a trattare con Reali, politici e super criminali, non si spaventa certo per una ragazzina.
“Davvero?” le aveva detto guardandola dall’alto della sua statura vertiginosa “Ne sono onorato mia cara, non potevo sperare in un utilizzo più appropriato del mio letto”. L’attimo dopo Sherlock aveva protestato che, quando era stato lui ad appropriarsi della sua stanza dopo che era partito per il College, non l’aveva presa così bene. “Perché l’avevi trasformata in una fossa comune, fratellino” “Non una fossa comune, una sala autopsie!” aveva ribattuto Sherlock.
“Autopsie, precisamente. Autopsie a ratti e cani randagi sul mio letto, e ti chiedi perché non l’ho presa bene?”
“Mica vivevi più qui”
“Ma tornavo per le vacanze, te lo ricordi fratellino?”
E via così per almeno un’ora. Ma non aveva avuto nessuna importanza: ormai Shelley era entrata nell’orbita del sole e sentiva che presto sarebbe stata al caldo. Ne era assolutamente certa. Assolutamente, ridicolmente certa.
Che stupida.
Tre anni d’estate e ora eccola di nuovo nel più gelido degli inverni. Ed è colpa sua, tutta colpa sua: si è distratta, non ha fatto domande, ha solo preso tutto quello che le davano, tutto l’amore, tutta gentilezza, tutte le cure, tutto.
Stupida, stupida, stupida.
E’ stata stupida.
Stupida e ottusa come un pesce rosso.
Magari se fosse stata meno sciocca, se avesse dimostrato di non essere tanto irrimediabilmente idiota, allora forse lui…
Forse.

Bill s’infila una maglietta bianca e si guarda nel piccolo specchio sopra al lavandino. La maglietta che Wendy gli ha prestato ha il pregio di essere asciutta ma gli sta larga e, anche infilata nei pantaloni, gli casca addosso come su un attaccapanni. Si è dato una sistemata alla barba con una delle lamette che Wendy e Sybil usano per depilarsi ma la situazione della sua faccia non è particolarmente migliorata. La verità è che pallido e secco com’è sembra un cadavere ambulante. Quante probabilità ha uno come lui di piacere a una ragazza? Non ci ha mai pensato davvero. La vita per lui è stata una fuga continua, prima dalla cinghia del patrigno, poi dai ragazzi più grossi, dopo ancora dal riformatorio, e alla fine dalla realtà. Non ha mai avuto molto tempo per le domande esistenziali lui, era sempre andato avanti spinto dalle necessità: fame, sete, dose – soprattutto dose in effetti, e le ragazze che aveva conosciuto lui erano animali da marciapiede: o le pagavi o gli facevi un favore, così poi loro avrebbero fatto quel favore a te. Era così che aveva conosciuto Wendy e Sybil, tra un favore e l’altro.
Poi è arrivato Sherlock – Shezza, e all’improvviso la vita è cambiata. Sherlock è come lui – beh no, è più di lui, ma è simile a lui, perciò capisce quando Bill gli parla, segue senza sforzo i balzi del suo ragionamento e riesce a rendere tutto molto meno noioso. Con Sherlock Holmes o ragioni bene e in fretta o muori.
E’ stato Sherlock a presentargli Shelley. Oddio, non che gliel’avesse proprio presentata, semplicemente se l’era portato dietro a un pranzo di Natale e lei era là, seduta in un angolo del salone, con un’espressione assorta e lontana sul viso bianco, un blocco da disegno aperto sulle ginocchia e l’estremità della matita tra le labbra. Bill ha un ricordo nitido di quel momento, un’immagine precisa e fedele come una fotografia. Shelley aveva i capelli lunghi e castani acconciati in una traccia morbida che le scendeva su una spalla, indossava un maglione rosso scuro, con le maniche ampie e traforate, e una gonna marrone. Era piccola al suo confronto, una bambina di non più di tredici o quattordici anni mentre lui sfiorava già i venti, eppure capì all’istante che l’avrebbe amata incondizionatamente per tutto il resto della sua vita.
Così era passato un anno, poi un altro e un altro ancora, e alla fine eccolo lì, nel bagno dell’appartamentino di due lucciole di Soho, con i vestiti fradici e nessuna idea su come comportarsi.
Si passa una mano tra i capelli biondicci cercando di dargli un ordine e poi apre la porta del bagno. Nel corridoio stretto c’è odore di caffè e questo gli ricorda improvvisamente che ha una fame da lupi. Trascina i piedi nudi sul pavimento freddo seguendo il profumo fino a un cucinino minuscolo, e qui trova Sybil che si versava una dose generosa di caffè in una grande tazza colorata.
– Wendy mi ha detto della tua impresa. – esordisce la ragazza. Indossa una vestaglia leggera, di quelle lucide che scivolano via alla prima carezza, e ai piedi un paio di infradito di gomma. – L’hai scioccata, sai? Pensava che nonostante tutto tu facessi parte dei buoni. –
Bill apre la credenza e afferra un bicchiere.
– I buoni non spacciano. – borbotta allungandolo il bicchiere nella sua direzione. Sybil lo guarda di traverso. Ha occhi verdi da gatto, occhi ipnotici e intelligenti che sembrano sempre ridersela per qualcosa. Anche in quel momento, mentre gli versa il caffè, Bill ha l’impressione che qualcosa la diverta.
– Non avevi smesso? – gli chiede.
– Ora ho un solo cliente. –
– Giusto. Il tuo capo carino. Il fratello della ragazzina che hai rapito. –
Bill quasi si strozza con il caffè.
– Io non ho rapito nessuno! Non l’ho mica costretta! Lei non voleva tornare a casa e io non volevo che finisse nei guai, non volevo che finisse in qualche brutto posto con qualche brutto tipo… –
Sybil si blocca nel gesto di accendersi una sigaretta e lo fissa incredula.
– Certo che per essere uno che capisce tutto di tutti sei proprio un cretino. – soffia – L’hai portata nell’appartamento di due prostitute insieme a uno che, per sua stessa ammissione, è uno spacciatore. Questo è il brutto posto Bill, e tu sei il brutto tipo! –
Bill apre la bocca per replicare ma poi ci ripensa e la richiude. Vorrebbe poter dire che, ok la scelta del posto non è stato un granché, ma che lui non è un brutto tipo, non lo è mai stato. Un tossico magari, un barbone, un deliquentello ma un brutto tipo no. Però mentre lo pensa s’infila un mano nella tasca dei jeans e sfiora con le dita l’acciaio del coltello a serramanico che si porta sempre dietro, quello con cui ha minacciato John Watson la prima volta che l’ha visto, quello che ha usato di recente per mettere paura a un uomo da cui Sherlock pretendeva delle risposte, quel coltello lì. E come una valanga viene giù tutto il resto: i piccoli furti, i borseggi sui bus, la droga, e tutti i lavori per Sherlock, Sherlock che è uno dei buoni magari, ma che certe volte usa metodi che proprio buoni non sono.
– Non le farei mai del male. – mormora alla fine, e almeno questa è la sacrosanta verità.
Sybil butta fuori il fumo e alza le spalle.
– Oh ma io ti credo. – dice – Ma guarda la scena da fuori: tu sei il fratello o il padre di questa ragazzina. La sgridi per qualche motivo e lei si precipita fuori casa in lacrime. E qui chi incontra? Bill the Wig Wiggins, ladruncolo e spacciatore occasionale maggiorenne che le mostra dove nascondersi e come sfuggire ai radar della polizia. Che pensi? –
Bill rimane zitto e si lascia cadere pesantemente su una sedia sentendosi improvvisamente le gambe molli.
– Rapimento, ecco che penseresti. – continua Sybil con un sorrisetto strafottente sul viso a cuore – Oh, e abuso di minore naturalmente, perché non credo che lo scopo di essertela portata via sia il riscatto. –
– Non c’è nessuno scopo. – protesta Bill sputando fuori l’ultima parola come se gli scottasse in bocca – Né il ricatto né l’a-l’a-oddio non riesco nemmeno a dirlo! Ma no! No, io volevo solo… davvero io volevo solo… –
Tenerla con me.
E’ un pensiero che gli attraversa la testa all’improvviso, come un lampo, e lo svuota di ogni energia. Stringe le mani sulle ginocchia e piega la testa sul petto. Forse è davvero un brutto tipo dopotutto, forse Sybil ha ragione, ma ha avuto paura di perderla e aiutarla a scappare sembrava la cosa più intelligente da fare per tenersela vicina, per legarla a lui a doppio filo, una buona occasione per farsi notare, per avere la sua attenzione, per farsi guardare come guardava il fratello maggiore di Sherlock, quell’arrogante bastardo figlio di buona donna, con la stessa incondizionata fiducia, con la stessa innamorata ammirazione, con…
– Ehi Bill, – Wendy fa capolino oltre la porta del cucinino – credo che dovresti venire. –


***

Mycroft osserva distrattamente la torta di mele sul suo piatto. Il cameriere gliel’ha posata davanti da almeno dieci minuti e in tutto questo tempo lui non ha fatto altro che guardarla e ridurla a una poltiglia molliccia con la forchetta, ma neanche un boccone ha raggiunto la sua bocca. Non ha fame e la sua proverbiale golosità chissà dov’è finita, forse è scappata via insieme alla sua capacità di concentrazione.
– Sono spiacente sir, – dice Anthea seduta davanti a lui, con l’onnipresente blackbarry posato in grembo – ma la ricerca non ha prodotto alcun risultato. –
– Niente di niente? – domanda Mycroft aggrottando la fronte, gli occhi ancora fermi sulla poltiglia giallognola che era stata una torta di mele – Non è possibile. E’ solo una ragazzina, e neanche tanto sveglia… –
Lo sguardo che Anthea gli rivolge è duro e acuminato, ma quando torna a parlargli la sua voce è morbida, bassa, e non tradisce nessuna tensione.
– La mia ipotesi è che qualcuno l’abbia aiutata a sparire, sir. –
– Stephen Scott – mormora Mycroft serrando la presa sulla forchetta – o chiunque si nasconda dietro quel nome. –
– Se mi permette sir, vorrei farle notare che è scomparso anche Bill Wiggins, il giovane collaboratore di suo fratello. –
Mycroft la guarda.
– E questo chi gliel’ha detto? –
– Sua madre, sir. Mi ha telefonato poco fa. –
– Mia madre le ha telefonato? –
– Sì sir. –
– Su una linea protetta dell’MI6? –
– Sì sir. Ha detto che non ci è voluto poi molto per dedurre il mio numero, che si trattava di fare qualche calcolo e di usare la logica. –
Mycroft sospira coprendosi la bocca con il pugno chiuso. Quella donna! Dopo tutto quello che era successo, dopo il disastro che aveva combinato, non esitava a impicciarsi ancora.
– E perché la scomparsa di Will dovrebbe essere un nostro problema? – chiede esasperato.
– Bill. – lo corregge Anthea – Ed è un nostro problema perché lui e Shelley sono scomparsi insieme e… beh, perché il ragazzo ha un interesse sentimentale per lei. –
A Mycroft scivola di mano la forchetta che cade sul piatto e solleva schizzi di torta in poltiglia che gli finiscono un po’ ovunque sulla giacca scura.
– Un…? –
– Una cotta, sir. –
Una cotta. Quel topo di fogna ha una cotta per…
– Sta bene sir? –
Anthea lo guarda in un modo che gli fa accapponare la pelle. Cos’è? Pena, preoccupazione, ansia, cosa? Non riesce a capire, ci prova ma non ci riesce. Sa che ci sono informazioni negli occhi di Anthea, nella piega delle sue labbra, nell’uso che fa dei muscoli facciali, sa che ci sono risposte ma non riesce a leggerle. Perché non riesce a leggerle?
– Certo che sto bene. – si affretta a rispondere ma gli occhi profondi della sua segretaria non lo lasciano.
– Si è sporcato la giacca. – osserva, e c’è una nota d’incredulità nella sua voce che a Mycroft non sfugge.
– Sì, mi sono distratto un secondo e… – ma non riesce a finire la frase. Gli sembra così stonata, così sbagliata: lui è Mycroft Holmes e non si distrae, non s’inzacchera i vestiti come un moccioso, lui nota tutto, vede tutto, deduce tutto. Cosa gli sta succedendo? Cosa gli stanno facendo? Perché si sente improvvisamente così lento?
– Sir, se posso permettermi… –
– No, non può. –
Anthea sospira ma non fa una piega.
– Allora prendo congedo. – dice alzandosi in piedi – Continuerò la ricerca e metterò anche qualcuno sulle tracce di Wiggins. –
Mycroft afferra il tovagliolo e prova a ripulire la giacca dagli schizzi giallognoli della torta.
– Faccia tutto quello che serve, – le dice senza neanche guardarla – usi ogni mezzo che riterrà opportuno. Non mi deluda, non questa volta. –
Anthea fa un cenno con la testa e gli dà le spalle ma non fa in tempo a raggiungere la porta che questa si spalanca e un uomo con un’elegante livrea nera da maggiordomo fa il suo ingresso nel salottino.
– Mi spiace disturbarla Mister Holmes, – esordisce dopo un piccolo inchino – Ma c’è suo padre che vorrebbe vederla. Posso farlo accomodare? –


***

Bill le s’inginocchia accanto.
– Shelley? – la chiama posandole una mano sui capelli – Shelley mi senti? –
Lei non gli risponde. E’ rannicchiata su un fianco, si tiene la testa tra le braccia e piange senza fare alcun rumore.
– Shelley? –
Ma lei nemmeno lo vede.
– Non mi vuole, – mormora pianissimo – non mi vuole, non mi vuole, non… –
Bill le scosta un braccio dalla testa e le prende la mano. E’ bollente, la febbre deve esserle salita ancora.
– …non mi vuole, non mi vuole, non mi vuole… –
– A un certo punto ha aperto gli occhi, – spiega Wendy in piedi sulla soglia della porta – le ho chiesto se aveva sete ma lei ha cominciato a vaneggiare. Non sapevo che fare. –
Bill invece sa esattamente che cosa fare.
– Vai in bagno e apri la doccia. Regola il getto in modo che sia fredda. –
– Cosa? –
– Vai! –
Wendy non se lo fa ripetere e sparisce in corridoio.
– Che vuoi fare? – gli chiede Sybil ma Bill non le risponde. Butta all’aria le coperte scoprendo le gambe di Shelley, bianche come le lenzuola.
– Mi dispiace, – mormora lui mentre le passa un braccio sotto le ginocchia e l’altro sotto la schiena – ma devo far abbassare la febbre, lo capisci? –
Shelley non gli risponde. Prova a resistergli mentre Bill la solleva tra le braccia, gli pianta le mani sul petto cercando di staccarsi da lui, ma è debole e ottiene solo che lui la stringa più forte.
– Non mi vuole. – piagnucola sottovoce, con la fronte poggiata sulla sua spalla ossuta – Sono troppo stupida, troppo lenta, troppo semplice, troppo… –
Bill la porta in bagno, dritta nel box della doccia dove Wendy ha aperto il getto al massimo. Quando l’acqua gelata la raggiunge Shelley lancia un grido e, prima che ricominci a divincolarsi, Bill se la stringe al petto.
– Devo far scendere la febbre. – le dice all’orecchio mentre l’acqua gli incolla addosso i vestiti – Mi dispiace, mi dispiace tanto. –
Appoggia la schiena contro il muro e si lascia scivolare giù, sul fondo della doccia, con Shelley tra le braccia che trema come una foglia e si nasconde la testa tra le mani, cercando di ripararsi dalla violenza dell’acqua.
– Mi dispiace. – le dice ancora, scostandole dal viso i capelli fradici – Devo far scendere la febbre, devo… mi dispiace. –
Lei non lo ascolta, continua a piangere e a singhiozzare parole senza senso.
– Non mi vuole, – ripete con la voce spezzata dai brividi – è mio padre e non mi vuole, non mi vuole, non… –
– Tuo padre? – le fa eco Bill.
– Non mi vuole, lui non… sono troppo i-impressionabile, troppo fragile, troppo se-semplice… –
Bill le solleva il mento costringendola a guardarlo. Shelley ha gli occhi rossi e gonfi, pesti come se l’avessero picchiata, e pieni di un dolore che gli spezza il cuore.
– Chi è Shelley? – le chiede – Chi è tuo padre? –
– …sono stupida, stupida e lenta come…come un pesce rosso e lui, lui non… –
Pesce rosso. Bill l’ha già sentita la stronzata sui pesci rossi, dalla lingua biforcuta e velenosa del fratello di Sherlock: vivo in un mondo di pesci rossi, diceva sempre, come se lui fosse uno squalo. Sente il sospetto aggrovigliargli lo stomaco.
– Shelley – sussurra posandole la mano sulla guancia liscia – Shelley, è… è Mycroft? Tuo padre è Mycroft Holmes?  –
Shelley s’immobilizza tra le sue braccia. Non trema più, non piange più e per un lungo, eterno momento nemmeno parla. Quando torna a farlo la sua voce è ferma, senza nessuna intonazione, come se parlasse del tempo o delle notizie del giorno.
– Ma non mi vuole. L’ha detto, non mi vuole ed è colpa mia. Andava tutto bene, andava tutto benissimo prima che gli facessi il ritratto e ora… ora non mi vuole, non mi vuole, non mi vuole, non … –
I singhiozzi tornano all’improvviso. Bill se la stringe al tetto e appoggia la testa sui suoi capelli bagnati.
– E’ un’idiota. – dice pianissimo – E’ solo uno stupido, stupido idiota. –


***

Al Diogenes Club Mycroft si è sempre sentito come a casa. E’ il luogo dove viene a riposare al termine di una lunga giornata di lavoro, il posto dove fumare in pace, sprofondato in poltrona accanto a un camino acceso, magari sorseggiando del brandy. Nessuno lo disturba lì, il personale di servizio è addestrato ad andare e venire senza far rumore e tra i soci vige la regola non scritta di parlare il meno possibile. Se qualcuno poi ha affari importanti da sbrigare, il Diogenes mette a disposizione piccoli e confortevoli salottini, dove i soci possono incontrare i loro collaboratori e, allo stesso tempo, usufruire del perfetto servizio del Club. E’ qui che Mycroft riceve suo padre, in un piccolo salotto luminoso, con acquerelli di paesaggi innevati alle pareti e il pavimento coperto dai tappeti morbidi, dai colori scuri.
– Avevi detto che avresti telefonato. – gli fa notare non appena l’uomo prende posto davanti a lui – Non ho ancora nessuna novità. Se l’avessi avuta vi avrei telefonato immediatamente, a te e alla mamma, per tranquillizzarvi. –
– Di questo sono più che certo figliolo. Sei sempre stato un ragazzo molto responsabile. –
– E allora? –
Robert Holmes lo guarda.
– Allora cosa? –
E’ calmo, valuta Mycroft, calmo e padrone di sé come se non fosse successo nulla, come se non ci fosse alcuna spada di Damocle a pendere sulle loro teste, come se nessuno Stephen Scott li minacciasse tutti. Mycroft invece riesce a mantenere il controllo a stento. Se potesse griderebbe, sbatterebbe la testa contro il muro, ancora e ancora, fino a ridurre in poltiglia il ricordo irritante di quella ragazzina esile e bianchissima, con i lunghi capelli castani che le piovono disordinati sulle spalle strette. Se potesse, se solo potesse… Ma lui è Mycroft Holmes, è l’Uomo di ghiaccio e no, non può. C’è troppo da fare per permettersi una crisi di nervi.
– Perché sei qui? – chiede allora.
Le sopracciglia bianche di suo padre si aggrottano perplesse.
– Mi sorprendi. Non lo deduci da te? –
Mycroft stritola il tovagliolo nel pugno chiuso e trattiene a stento l’impulso di rovesciare il tavolo davanti a sé.
– Non ho tempo per fare discorsi. – sputa l’ultima parola come se avesse un sapore disgustoso – Né per ascoltare stupide prediche, perché… –
– Nessuna predica. – replica impassibile Robert Holmes – Sei troppo cresciuto per le prediche e, siamo onesti, non te ne ho fatte molte neanche quando eri un bambino. –
Un cameriere entra nella stanza con passo felpato, arriva al loro tavolo e gli posa davanti una tazza di tè, una teiera fumante e una piccola brocca piena di latte.
– Desidera altro sir? – chiede ma il signor Holmes lo congeda con un sorriso. – Probabilmente anzi, – continua poi tornando a rivolgersi a Mycroft – questa situazione è, almeno in parte, colpa mia. – immerge il filtro del tè nell’acqua bollente della teiera e la richiude in fretta, prima che il calore si disperda. – Magari… – sussurra senza guardarlo – …magari se fossi stato più presente, se non mi fossi fatto da parte in quel modo… –
Mycroft è immobile, rigido, con le braccia incrociate sul piano del tavolo. Non si aspettava che la conversazione prendesse questa piega, immaginava un interrogatorio serrato sui fatti riguardanti la ragazzina, su Stephen Scott e sui suoi sentimenti al riguardo ma non questo. Non è preparato a questo, a suo padre che gli parla a cuore aperto. Così indurisce la faccia nella più distaccata e annoiata delle espressioni del suo repertorio e spera che basti a nascondere il suo sconcerto.
– Ma eravate talmente intelligenti tu e tuo fratello! – continua suo padre sollevando gli occhi chiari nei suoi senza rendersi conto del suo disagio – Davvero Mycroft, hai idea di cosa si prova a parlare con un genio? Con qualcuno che a cinque anni sa già molto più di quello che tu saprai in tutta la tua vita? –
Il sorriso mite di suo padre si allarga quando lui non gli risponde.
– No. No, non lo sai. E come potresti? Il genio sei tu, giusto? –
– Papà… – prova a dire ma il padre scuote la testa bianca.
– Ti prego, – gli dice sottovoce – lasciami parlare. Sto cercando di chiederti scusa, lo capisci? –
D’istinto Mycroft si tira indietro, contro lo schienale della sedia.
– Ma perché dovresti… –
– Perché sono stato un vigliacco. E uno sciocco. Ho confuso l’intelligenza con la maturità Mycroft, ho pensato che siccome eravate geniali non avevate bisogno di me, del vostro stupido padre limitato, così mi sono fatto da parte. Sono rimasto a guardare mentre la vostra intelligenza vi inorgogliva, vi separava dagli altri, vi isolava fino a scavare un fossato tra voi e il mondo, tra voi e me e alla fine… oh beh, eccoci a questo punto. – allarga le mani come a indicare la stanza intorno a loro. All’improvviso ha l’aria molto stanca. – Hai avuto una figlia Mycroft. – sussurra guardandolo negli occhi – Hai avuto una bambina e io, tuo padre, l’ho saputo per caso. –
– Non per caso, – si affretta a contraddirlo Mycroft, sforzandosi con tutto sé stesso di mantenere un tono di voce neutro e controllato – sono certo che il misterioso Stephen Scott abbia dei piani in cui tu e la mamma avete giocato un ruolo preciso. Non so ancora quali ma… –
– Non è questo il punto. –
No, non lo è e Mycroft lo sa. Istintivamente si prepara a difendersi, pianta i gomiti sui braccioli di legno della sedia e intreccia le lunghe dita davanti al viso.
– No? – chiede forzando un sorriso – Beh, lo sarebbe se solo tu e la mamma non foste stati così ottusi da… –
Suo padre non lo lascia finire neanche stavolta, si protende verso di lui allungando una mano sulla tovaglia bianca. Non lo tocca, nota Mycroft, non osa tanto, ma è lì ed è la cosa più vicina a una carezza che ci sia mai stata tra loro.
– Mycroft, – gli dice piano, dolcemente, come se parlasse a un bambino – non sono venuto per litigare, e nemmeno per perdere altro tempo in recriminazioni. Sono venuto per parlare di te figliolo, e di lei. –
Mycroft si schernisce dietro un sorriso tirato. Proteso in avanti, verso di lui, con il braccio che ancora si allunga nella sua direzione, suo padre lo guarda in un modo che lo fa sentire vulnerabile come il bambino che non è mai stato.  
– Che vuoi che ti dica? – chiede simulando una calma che non sente – Non ho tempo per questo, lo capisci? Devo trovare questo Stephen Scott, scoprire chi diavolo è in realtà, cosa vuole, e soprattutto devo trovare la ragazzina prima che la trovi lui. –
– Shelley. – lo corregge suo padre – Non è una ragazzina, è Shelley. –
Mycroft scuote la testa.
– Chiamala come vuoi, tanto è solo questione di tempo. Appena l’avrò trovata dovrà cambiare nome, città, nazione… tutto. –
– Perché? –
– Perché è pericoloso! – sbotta Mycroft esasperato – Pericoloso per lei, per me, per… –
– No, no, non è questo che volevo chiederti. – dice piano suo padre – Lo so che è pericoloso, so che Shelley dovrà cambiare identità e sparire chissà dove, l’ho capito. Anche tua madre l’ha capito. Ma io voglio sapere un’altra cosa. Io voglio… voglio capire perché siamo arrivati a questo punto. –
Mycroft lo guarda.
– Tu e la mamma avete adottato a mia insaputa una ragazzina di cui io mi ero sbarazzato anni fa. – replica tagliente – Ecco come siamo arrivati a questo punto. –
– D’accordo ragazzo, ma… ma poi? Voglio dire, a te piaceva quella ragazzina. Venivi a trovarci più spesso da quando c’era lei, a volte la andavi a prendere a scuola, la portavi fuori, ai concerti, alle mostre… e no, non dirmi che la usavi come sostituta di Sherlock perché ce li ho gli occhi figliolo, e quello che lega te e Sherlock è molto, molto diverso. Cosa è successo poi Mycroft? Perché tutta questa rabbia? Perché non riesci neanche più a dire il suo nome? –


***

Bill è di nuovo seduto in cucina. Sybil e Wendy gli hanno dato un accappatoio, un asciugamano e l’hanno spedito via mentre spogliavano Shelley, l’asciugavano e la rimettevano a letto.
Mycroft.
Bill non riesce a crederci.
Mycroft, proprio lui. Come fa Mycroft Holmes, l’arrogante, cinico, velenoso Mycroft Holmes a essere il padre di una ragazza così?
Shelley è gentile, pensa Bill frizionandosi la testa con l’asciugamano, sensibile, tanto sensibile e tanto, tanto insicura. A volte, quando la guarda, Bill ha l’impressione di trovarsi davanti a un fiore, a una margheritina solitaria e timida che basta un niente per sgualcire. Un vento troppo forte, uno sguardo affilato, una parola sbagliata. E Mycroft Holmes è il re delle parole sbagliate, eppure…
Bill si passa l’asciugamano dietro la nuca e butta la testa all’indietro.
Eppure avrebbe senso. Se Mycroft Holmes fosse davvero il padre di Shelley si spiegherebbero tante cose: la preferenza smaccata e palese che lei gli ha sempre dimostrato per cominciare, e poi l’inusuale morbidezza di lui, le sue attenzioni nei confronti di una ragazzina di cui giurava non gl’importasse niente, tutte quelle uscite loro due soli e l’affetto inespresso ma palpabile che correva tra loro come una corrente invisibile. Per ognuna di queste cose Bill ha odiato Mycroft con tutto se stesso, con tutta la rabbia frustrata e feroce degli innamorati ignorati, ma ecco, se Mycroft fosse davvero il padre di Shelley le cose sarebbero diverse. Più sopportabili.
Ora Shelley però non fa che ripetere che lui non la vuole. Perché? A Bill è sembrato che la volesse eccome, anche troppo per i sui gusti: a volte la sottraeva ai signori Holmes per ore e ore, la andava a prendere a scuola con quella sua lunga limousine nera e la scarrozzava chissà dove, riportandola a casa giusto per l’ora di cena.
“Andava tutto bene” ha detto Shelley “andava tutto benissimo prima che gli facessi il ritratto e ora…”. Bill si rigira la frase in testa. Andava tutto benissimo prima che gli facessi il ritratto.
In effetti è vero, di recente c’era stato un cambiamento nel comportamento di Mycroft, un irrigidimento lieve, appena percettibile all’apparenza ma forse Shelley, sensibile com’è, l’aveva avvertito come uno schiaffo in faccia.
E’ accaduto tutto durante un pranzo di famiglia, uno di quei pranzi che la signora Holmes ha cominciato a organizzare spesso da quando Shelley è arrivata tra loro e a cui Sherlock e Mycroft si sottopongono volentieri nonostante facciano di tutto per mostrare il contrario.
Bill si fa i conti in testa: oggi è il dieci Novembre mentre il pranzo si è tenuto quando? Più o meno tre settimane prima, la seconda domenica di Ottobre. E’ successo tutto per colpa di Sherlock naturalmente, che mai e per nessun motivo può astenersi dal ficcanasare. Quel giorno aveva avuto la pessima idea di farlo nella stanza di Shelley e lì aveva trovato qualcosa di interessante.
“Questo l’hai fatto tu?” aveva chiesto piombando nella sala da pranzo, dove erano tutti riuniti a mangiare il dolce. Aveva tra le mani una tela più grande di quelle che Shelley aveva usato in precedenza e la guardava assorto, come ipnotizzato.
“E’ Mycroft?” aveva chiesto senza staccare gli occhi dalla tela e Bill ricorda che Shelley era scattata in piedi. Ma anche Mycroft si era alzato, curioso, e avanzava rapido verso il fratello.
“Se è il mio ritratto non hai il diritto di guardarlo prima di me” aveva obbiettato ma Sherlock non gli aveva prestato attenzione.
“Non so se sei tu” aveva replicato continuando a fissare la tela “Non si capisce bene, è… è onirico”. Mycroft intanto l’aveva raggiunto e gli aveva preso la tela dalle mani.
Bill ricorda la scena con precisione: c’era Mycroft che dava loro le spalle e Sherlock in piedi accanto a lui, con l’espressione più perplessa che Bill gli avesse mai visto sul viso allungato. “Sembri tu” lo sentì mormorare “Ma non sei tu, o almeno non credo che tu…”.
Mycroft scelse quel momento per voltarsi verso di loro.
“Lo posso tenere?” chiese rivolgendosi a tutti e a nessuno in particolare, e Shelley aveva annuito una sola volta. Dopodiché Mycroft se n’era andato.
Nessuno ci aveva visto niente di strano, dopotutto lui era Mycroft Holmes, il super impegnato stratega del Governo Inglese, e andava e veniva come gli pareva. Ma se ci ripensa adesso Bill si accorge che è , che quello è il momento esatto in cui per Shelley è cambiato tutto.


***

Mycroft vorrebbe poter dire che non è successo proprio niente, che la ragazzina non gli piaceva neanche un po’ e che non gliene è mai importato nulla, ma suonerebbe patetico e lo sa. Si è spinto troppo oltre, si è esposto e ora la sua debolezza è sotto gli occhi di tutti. Stephen Scott, nascosto nell’ombra chissà dove, avrà di che esultare.
Suo padre lo guarda con aspettativa ma Mycroft davvero non sa che dirgli. Ha ragione ovviamente, quella ragazzina gli piaceva ma ammetterlo ad alta voce sarebbe… beh, sarebbe troppo. Non se la sente, non ci riesce. E poi come dirlo? Che parole usare?
Prende il tovagliolo e comincia a piegarlo con estrema lentezza. Cerca una scusa per sfuggire allo sguardo di suo padre e prendere tempo.
Lei, la ragazzina che ha il terrore di chiamare per nome, gli è piaciuta un po’ alla volta. Prima gli è piaciuto il suo silenzio infrangibile, il mutismo quieto che opponeva al mondo, alle chiacchiere, ai convenevoli; poi gli è piaciuto lo sguardo, la capacità rarissima di spogliare le persone di tutte le loro maschere, di tutte le armature, di guardare attraverso tutti i muri fino ad arrivare al cuore; e infine gli è piaciuta la dolcezza, il modo di fare delicato di chi sfiora un fiore, di stargli intorno senza invadere il suo spazio, aspettando pazientemente sulla porta che lui la invitasse a entrare. Era convinto di non averle mai dato quel permesso, era convinto di averla tenuta sempre lì fuori dalla porta, vicina ma non troppo-vicina, era certo di avere tutto sotto controllo e invece la situazione gli era sfuggita di mano da un pezzo. Se ne era accorto all’improvviso quando aveva avuto tra le mani quella tela.
Era un acquerello dai colori delicati, fragili e vaghi come i ricordi di un sogno. C’era un uomo di schiena nel dipinto, un uomo alto, con un lungo ombrello nero che saliva uno scalone sulla cui sommità stavano le statue minacciose di due figure mostruose, con corpi possenti e musi leonini. Poi lo scalone si biforcava in due scalinate e, sulla sommità di quella che puntava a ovest, c’erano quattro porte: tre erano in sequenza, una dopo l’altra, identiche, con i rilievi intagliati nel legno e le maniglie d’ottone, mentre la quarta…
Mycroft stritola il tovagliolo bianco tra le dita lunghe.
La quarta porta era distante dalle altre ed era dipinta con un rosso violento.
– Mycroft? – lo chiama suo padre ma Mycroft lo ignora.
Il suo palazzo mentale. La ragazzina aveva disegnato l’interno del suo palazzo mentale, e la porta dell’ala ovest rossa come il vestito di Rosalie. Come ha fatto? Come?
– Mycroft? –
Quando le ha dato accesso a tutte quelle informazioni? Quando è riuscita a entrargli dentro in quel modo?
– Mycroft? –
E perché, perché non riesce a non pensarla? Perché non riesce a rimanere calmo e a dedurre dove si è nascosta? Perché? Lui è Mycroft Holmes, è l’Uomo di Ghiaccio, perché si sente scoppiare il cuore?
– E’ come… come se mi fosse entrata dentro. – mormora esausto – Nella carne. –
– Figliolo, – sospira suo padre afferrandogli il braccio – lei è la tua carne. –



Mi scuso per la lunghissima assenza, ma ho  qualche problema nella mia vita di qua dal pc e il tempo per scrivere e stare davanti a Efp è molto ridotto. Scusatemi mille volte. Spero che questo capitolo lunghissimo (quasi 20 pagine di Word) vi renda un po' indulgenti nei miei confronti... ^^
Che dire?
Bill comincia a prendere più spazio finalmente. Cosa ne pensate? A me piace molto come personaggio ma non compare molto nel telefilm, quindi il rischio dell'OOC è estremamente concreto. Innanzitutto il problema dell'età: non ho fatto ricerche sull'attore che lo interpreta ma, a vederlo, l'impressione è quella di un ragazzo (denutrito) tra i 20 e i 25 anni. Poi l'affetto per Shelley, che è molto più piccola in questa storia (14 anni quando si conoscono, 16 nel presente): spero non vi scandalizzi, si tratta di un amore platonico e innocentissimo come avete avuto modo di leggere, perciò non credo sia necessario mettere avvertimenti di sorta.
Che altro?
Ah, sì. Soho è il quartiere a luci rosse di Londra, o almeno così dicono.
Fine. Fatemi sapere cosa ne pensate, mi raccomando.
   
 
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