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Autore: Euridice100    20/03/2015    9 recensioni
"Ma l’altra rialza il capo e lo fissa con odio.
È allora che Gold la vede.
Arretra di un passo con la certezza di avere dinanzi a sé un fantasma.
'No, non può essere.'
Ma è allora che il passato torna a essere presente."
(Victorian!AU RumBelle
Seguito di "Cleaning all that I've become" e "All of the stars".)
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Nuovo personaggio, Signor Gold/Tremotino, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Your dream is over... Or has it just begun?'
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(Whatsype? SkyApp?),
incurabili compagne di Bobbyte e RumBellite.
Inutile precisare dove vi sto mandando
- con tanto, tanto affetto, eh!
♥ xD ♥
 
 
 
 
VII - Give me love
 
 
 
Give me love
like her,
‘cose lately I’ve been waking up
alone.”
 
 
 
Da piccoli, Viktor e Gerhard Whale avevano una balia. Una donna rotondetta e dalla chioma cespugliosa, priva di segni particolari e in tutto simile a mille altre: sapeva soffocare sul nascere i capricci, attenuare con giochi la noia delle ore trascorse a letto con la febbre ed esorcizzare i timori infantili – senza accorgersi di essere lei stessa a causarli coi suoi racconti di mostri, vampiri e altri orrori simili.
Se le streghe divoratrici di cuori erano l’incubo di Gerhard, il chiodo fisso di Viktor erano i lupi mannari. Le megere, in fini dei conti, erano poco più che vecchiette irritabili: brutte e rugose, strampalate e alle volte inquietanti, ma sostanzialmente inoffensive, proprio come una povera mentecatta che s’aggirava per i villaggi della tenuta. E poi, loro stessi una volta avevano assaggiato una cosa chiamata fois gras, fatta col fegato delle oche: ciò li rendeva forse gli stregoni dei pennuti?
A Viktor sembrava proprio una stupidaggine. I lupi mannari, invece…
Ogni volta che la balia faceva loro cenno, il bambino immaginava derelitti schiavi della luna, gravati da un’orribile maledizione che li costringeva a perdere ogni barlume di controllo, di disciplina, di raziocinio; in una parola, a perdere l’essenza stessa dell’umanità e a trasformarsi in fiere assetate di sangue. Il piccolo scienziato in lui già allora non poteva fare a meno di chiedersi in quale modo le fasi lunari potessero causare il mutamento: cosa lo scatenava? In base a quali criteri coinvolgeva solo alcune persone? Un mannaro era riconoscibile anche in forma umana? Bisognava prestare attenzione ai particolari: nei racconti le creature erano sempre dotate di forza erculea, di denti capaci di lacerare le carni come un coltello taglia il burro e di occhi cangianti capaci di assumere tutte le sfumature dei boschi cui appartenevano.
Era stato proprio questo piccolo e, rispetto al resto, insignificante particolare a colpirlo, a imprimerglisi nella memoria per anni e anni, silente ma presente a tal punto da esser risvegliato dallo scontro casuale con una popolana dal volto discolo.
Da notti sognava quella ragazza, risvegliandosi madido di sudore al ricordo degli occhi verdi e dei lineamenti perfetti che negli incubi assumevano all’improvviso sembianze sempre più animalesche, sempre più feroci, fino a trasformarsi in quelle di una bestia, di un lupo che spalancava le fauci per inghiottirlo.
La sua mente aveva evidentemente compiuto una strampalata associazione: le iridi verdi non erano certo rare, ma la giovane doveva aver ridestato le memorie della sua infanzia popolata da mostri e chimere. Sarebbe stato divertente riferirlo alla diretta interessata: la sua reazione, con ogni probabilità, non sarebbe poi stata tanto diversa da quella del sogno.
Però – scherzare era un conto, ma su questo Viktor era fermo –, per quanto ne fosse rimasto affascinato, avrebbe fatto bene a togliersela dalla mente: la donna aveva già dato prova di una dose non indifferente di follia e, poteva affermarlo senza dubbi, di paranoia tale da farle vincere un biglietto di sola andata per il Bedlam 1. Come spiegare altrimenti il modo in cui l’aveva annunciato alle altre, l’irremovibile decisione di tenerlo d’occhio per l’intera durata della visita e la cura nel fargli scorgere di tanto in tanto il luccichio argenteo della lama, quasi a ricordargli di non compiere passi falsi se aveva cara la vita?
Ma quali passi falsi avrebbe dovuto compiere? E perché diamine avrebbe dovuto far del male a una madre e una bambina, per di più sconosciute?
Scoprire l’identità delle pazienti l’aveva lasciato di stucco: era certo di dover assistere le sventurate in un postribolo sotto mentite spoglie, e invece si era trovato davanti una giovane donna che pelava patate aiutata dalla figlioletta.
La reazione che la prima non aveva nascosto al nome di Gold aveva lasciato adito a ben pochi dubbi: un’idea molto, molto precisa si era fatta strada nella mente di Viktor e più tardi, mentre metteva a parte il mandante della buona salute delle due, aveva prestato attenzione alla ricerca di moti involontari che lo tradissero.
Come prevedibile, non aveva colto nulla: l’industriale era rimasto impassibile al suo responso, aveva allungato la somma richiesta senza batter ciglio – con grande soddisfazione del medico, a essere onesti – e l’aveva fissato come a sfidarlo a chiedergli dell’altro. Viktor non era certo stato così stupido da osare, ma ormai difficilmente qualcuno o qualcosa l’avrebbe distolto dalla sua convinzione.
E bravo lo scozzese!
Con quegli occhioni cerulei e il profilo fine, la donna visitata era carina, sì… Ma mai quanto la sua amica matta.
Avrebbe mentito sostenendo di dedicarle ogni pensiero, ma certo non l’aveva scordata – come scordare una minaccia di morte, del resto? Di tanto in tanto la sua immagine riaffiorava, come se lo attendesse dietro l’angolo per agguantarlo e sussurrargli alle orecchie senza sosta.
A Whale le donne piacevano, e molto. Per quanto gli studi prima e le ricerche e il lavoro dopo occupassero tutto il suo tempo, sin da ragazzino aveva capito di poter poco contro il fascino esercitato su di lui dalle gonnelle femminili: ricordava bene i tempi in cui si nascondeva nei boschi con Theresa, la figlia del cocchiere, e da allora quando ne aveva avuto voglia mai gli era mancata la compagnia femminile. Non era però interessato a metter su famiglia, convinto com’era che per il momento l’impegno stabile di moglie e figli l’avrebbe distratto da occupazioni ben più rilevanti; e del resto anche a Londra sapeva a chi rivolgersi quando desiderava il calore di un abbraccio: la dama di compagnia di un’anziana duchessa che lo interpellava un giorno sì e l’altro pure aveva riccioli d’oro, un’adorabile spruzzata di lentiggini sul nasino all’insù e una completa ignoranza del concetto di inibizione.
(In compenso però conosceva molto altro, e quello era l’importante.)
Insomma, Viktor Whale non aveva alcuna ragione di pensare a Ruby, come l’aveva chiamata la bambina; non una giustificazione logica, non un motivo se non la mera tentazione del proibito.
La ragazza l’aveva intrigato: quelle labbra fresche e rosse, il modo in cui gli aveva tenuto testa e controllato fino all’ultimo per proteggere le amiche, gli sguardi lanciati prima e dopo lo scontro… Tutto in lei sapeva di passione, di carne e sangue, di un desiderio che l’avvinceva e lo trascinava a fondo, sempre più a fondo, fino a fargli smarrire la ragione.
Gli aveva lanciato una sfida che, se fosse stato più saggio, non avrebbe raccolto; ma quando di mezzo c’erano due occhi grandi così, Viktor Whale era tutto fuorché saggio.
Lesse i risultati dell’ultimo esperimento colpendo ritmicamente il foglio col lapis: i conti non tornavano, non tornavano affatto. E certo: aveva sbagliato una rilevazione che in un altro momento avrebbe condotto a occhi chiusi. Ecco le conseguenze del condurre prove con la mente altrove.
A Whitechapel, per l’esattezza, in un taverna in cui serviva la ragazza dai capelli neri e dal sorriso da lupo che anche quella notte l’aveva stregato.
Che faccia avrebbe fatto se l’avesse rivisto? Avrebbe corrugato la fronte e ghignato ancora, lasciando appena scoperti i canini come aveva fatto qualche giorno prima?
Per la conferma un’ipotesi, il metodo scientifico di Galileo richiede la sperimentazione.
Viktor Whale fece ciò che ogni altro scienziato al suo posto avrebbe fatto: scese sul campo a verificare.
 
 
 
The pain splatters
teardrops on my shirt,
I told you I’d let them go.
 
 
 
Tolse un invisibile granello di polvere da tavolo e sistemò la disposizione delle posate come le avevano insegnato un tempo. Nessuno ci avrebbe fatto caso, lo sapeva, e probabilmente i tortini che aveva preparato e solo per poco non bruciato sarebbero rimasti intatti, ma Belle voleva che tutto fosse perfetto; o che almeno provasse a esserlo.
Sarebbe stato il primo incontro ufficiale in famiglia, la prima occasione per Helena e Robert di trascorrere un’ora assieme e conoscersi per ciò che realmente erano: tutto doveva essere perfetto.
La bambina, che fino a pochi minuti prima le trotterellava accanto, ora se ne stava quieta e silenziosa a osservare dalla finestra i tetti anneriti. Belle le aveva fatto indossare il vestitino buono, quello a quadretti verdi e rosa cucito con l’aiuto delle altre durante l’inverno; per quanto fosse sempre bassina, la piccola era cresciuta negli ultimi mesi: quando l’avevano terminato l’abito le calzava a pennello, mentre ora le lasciava scoperte una parte delle gambine.
Notandolo, alla donna si strinse il cuore. Si rammaricò di non poter offrire alla figlia qualcosa di migliore: non desiderava molto, non pretendeva completini all’ultima moda o calzature delicate che con ogni probabilità Helena avrebbe subito calciato via, ma almeno la possibilità di garantirle vestiti che tenessero testa alla sua crescita o scarpe meglio rabberciate di quelle che riusciva a fornirle...
Lamentarsi, tuttavia, non avrebbe fatto comparire stoffe e denaro: i suoi erano pensieri sciocchi, simulacri della ragazzina viziata di una volta. Doveva esser grata per ciò che aveva, per Granny e Ruby che l’avevano sempre inclusa nella famiglia condividendo tutto e offrendole una protezione che gli anni non accennavano a far scemare. Lei ed Helena avevano molto più di quanto avrebbero mai conosciuto molti abitanti del quartiere nella loro intera vita: doveva smetterla di crucciarsi per quisquilie. Il vestitino poteva anche essere due dita più corto, e in spregio all’etichetta lei indossava lo stesso abito del precedente incontro – questa volta portava anche la blusa, con buona pace di una rassegnata Ruby –, ma erano comunque indumenti caldi, puliti e in fin dei conti piuttosto nuovi; se Gold avesse commentato a riguardo, avrebbe dovuto vedersela direttamente con lei.
Aveva invitato le Lucas a cenare con loro: volti noti avrebbero magari aiutato Helena, mettendola a suo agio e dissipando imbarazzi, ma le due avevano rifiutato all’istante. A nulla erano valse le rassicurazioni di Belle: malgrado avesse ripetuto loro che non sarebbero state terze incomode quanto piuttosto preziose alleate, le donne si erano mostrate irremovibili.
- Ma che ti ho detto, benedetta figliola? Se devono conoscersi come padre e figlia, noi cosa c’entriamo? – aveva brontolato Granny scuotendo il capo.
- E poi, se ci fossimo anche noi come potreste parlare dopo aver mandato a dormire Helena? – l’aveva stuzzicata Ruby strappandole un sospiro scherzosamente esasperato – Davvero! Guarda che io di rose me ne intendo, se un uomo te ne manda tante e di quella qualità, o è matto da legare o è cotto!
A Belle la faccenda dei fiori dava di che pensare. Erano soprattutto le vicende dell’ultimo mazzo a farla riflettere, il modo in cui il giorno prima la sua strada era corsa parallela a quella di Robert senza riuscire a trovare un punto di contatto, una giunzione che li avrebbe aiutati. Stando a quanto le aveva raccontato Granny, anche quella mattina si era presentato Blockehurst, annunciando però la presenza di Gold e premendo perché Belle lo raggiungesse in carrozza. Dinanzi alle parole della donna – e soprattutto dinanzi alla sua reticenza nel rivelare la posizione della giovane –, lo scagnozzo era uscito e, tornato con l’omaggio, aveva sottolineato con insistenza l’immenso disappunto del capo per non aver trovato l’interessata in casa.
A Belle dell’immenso disappunto di Robert importava nulla: già da prima che la sua famiglia decadesse era abituata a cavarsela senza la perenne assistenza di domestiche, e ciò che le era mancato davvero i primi tempi a Whitechapel era stata proprio la possibilità di uscire, di sentire il sole o la pioggia baciarle la pelle e mescolarsi tra la folla, perdersi tra la gente, osservarla, capirla.
Robert cos’avrebbe voluto facesse? Che lo aspettasse chiusa in camera, che conducesse la sua vita in funzione di lui e dei loro appuntamenti per poi cadergli ai piedi uggiolante nell’istante in cui avesse visto i fiori? La conosceva abbastanza da sapere di non poter pretendere simili atteggiamenti: lei non era la principessa nascosta nella torre più alta, irraggiungibile per chiunque eccetto che per il suo vero amore, no; era una persona come mille altre, una donna come altre e viveva nella realtà, non in qualche utopia che la voleva angelicata e distaccata dalla brutture del mondo. Aveva sacrificato tanto per lui; non le avrebbe tolto anche la sua indipendenza.
No, a preoccuparla non era questo, quanto piuttosto il modo in cui – lo conosceva troppo bene per illudersi del contrario – Robert aveva sicuramente interpretato quella che a tutti gli effetti era stata una banalissima coincidenza. Aveva letto la sua assenza come un segno del destino, come la prova della vanità di ogni tentativo e del loro avverso fato, o come cos’altro? Era successo infinite volte, per esempio quando l’aveva trovata a chiacchierare con Killian e si era convinto fosse in atto un tradimento; e l’invisibile distacco che qualche giorno prima l’uomo aveva assunto al nome di Graham le aveva fatto sospettare – con suo immenso disappunto, stavolta – che la questione si stesse in qualche modo riproponendo.
Nonostante la pazienza, Belle non tollerava il modo in cui Robert fraintendeva gesti quotidiani, li studiava fino a sminuzzarli e individuarvi significati che andavano sempre contro di lui: non si capacitava di come una persona arrivata tanto in alto in certi ambiti si comportasse ancora come un adolescente insicuro. O meglio: comprendeva il perché di simile reazione – gliel’aveva confessato lui stesso la notte più bella della sua vita –, ma non riusciva a capire perché perseverasse nella convinzione di meritare nulla. Gli aveva offerto tutto l’amore che era in grado di provare, e lui non le aveva creduto: era tornato indietro e riprecipitato nelle brutte abitudini nell’arco di nemmeno un’ora.
E forse lei non era da meno; perché, in un modo o nell’altro, fino ad allora anche lei era sempre tornata indietro quando di mezzo c’era stato lui.
Conosceva l’elettricità e i suoi effetti: le pareva che quella forma di energia le scorresse sottopelle, nelle vene. Per quanto potesse far appello alla sua metà più razionale e ripetersi che non doveva certo affrontare una falange di orchi, che i primi due incontri erano stati ben peggiori e comunque l’ultimo non si era poi concluso male, nulla poteva contro l’ansia, contro l’agitazione che avvertiva strisciarle addosso viscida come minuscoli serpentelli.
Aveva fatto bene a dire a Helena di suo padre? Forse avrebbe dovuto attenderlo e decidere sulla base della cena piuttosto che affrettarsi e prendere decisioni avventate. L’esagerata tranquillità della bambina la preoccupava: se fino ad allora si era comportata piuttosto normalmente, la situazione pareva essere cambiata all’improvviso, come se ella avesse meditato a lungo e solo ora, dinanzi all’ineluttabile, fosse stata investita dagli effetti della rivelazione restandone sconvolta. Se l’invitato fosse stato un semplice amico della madre, senza dubbio sarebbe stata giocherellona e buffa come al solito, alla continua di modi per aiutarla che inevitabilmente avrebbero causato più caos. Si sarebbe comportata come quando Humbert si fermava da loro, al più avrebbe chiesto dove fossero Ruby e Granny, ma certo non avrebbe spiato la strada dalla finestra mordendosi l’interno del pollice com’era solita fare quando era spaventata…
- Helena, – la chiamò con dolcezza. L’interessata non parve udirla – Helena, – Belle le si avvicinò – Tutto bene?
La bambina si voltò appena, un’aria stralunata sul faccino contratto: ma annuì, rivolgendole un sorriso che racchiudeva tutta l’ansia del mondo.
La donna trattenne a stento un sospiro: ancora una volta, era la figlia a provare a rassicurare la madre. Quando Belle attraversava un momento triste, in cui il gorgo della malinconia pareva sul punto di inghiottirla, era Helena la prima ad accorgersene, quasi respirasse le stesse emozioni: le si raggomitolava accanto e le chiedeva cos’avesse, se fosse lei la causa della tristezza; e quella domanda così goffa, così timida, ma così sincera aveva il potere di ridestarla, perché mai avrebbe accettato che loro figlia si facesse carico di colpe non sue, di segreti che non dovevano sfiorarla.
A ben pensarci, la comparsa di Robert aveva costituito il primo autentico colpo per la piccola: fino ad allora era sempre vissuta coccolata dai suoi cari, protetta da un mondo che, sebbene non le venisse descritto come ostile, persino a lei non sempre appariva giusto. I suoi dolori più grandi erano stati inezie: la sconfitta a un gioco, la baruffa con un’amichetta, un capriccio non accontentato; ma, per quanto non lo esternasse, nelle settimane precedenti l’incidente prima e la scoperta del padre poi avevano rivoluzionato il suo piccolo universo pacato.
- Sai, – Belle le confidò complice – Ho paura anch’io.
Helena sbatté le palpebre perplessa. Era sempre la mamma a scacciare i ragni che a lei facevano tanto schifo, a consolarla sostenendo che i brutti sogni non erano reali e a dimostrarle che il buio non era popolato da mostri intenzionati a divorarla – la volta in cui si era accucciata sotto il letto per provarglielo aveva seriamente temuto di non rivederla più. E ora, da dove spuntava fuori l’ennesima novità? Cosa poteva spaventarla? Di sicuro non l’idea di incontrare il signore che era il suo papà, perché secondo la storia lei già lo conosceva…
- Hai paura dei tuoni? – provò, pur sapendo di non essere nel giusto.
- No, anzi. Mi piacciono i temporali.
- Del fuoco?
- A quello è meglio non avvicinarsi troppo, ma no, non mi fa paura.
- Dei topi?
- Non ne vado matta, ma da qui a temerli… Però avevo un’amica che li adorava, sai?
- E allora di cos’hai paura? – tagliò corto la piccola.
- Di perderti, – ammise Belle – Ho paura di perderti. Di svegliarmi una mattina e non averti più con me. Ho paura che ti succeda qualcosa, che tu stia male e io non possa nemmeno starti accanto. Però, – le fece l’occhiolino – Sai cosa faccio quando ho davvero tanta, tanta paura? Lo dico ad alta voce, così: “Io ho paura di perdere Helena! Ho paura di perdere il mio tesoro!” – pronunciò la frase in tono stentoreo, strappandole una risatina di gola – Ad alta voce, ad alta voce, così le paure si spaventano, scappano e non tornano più. Che te ne pare? Ti va di metter paura alla paura?
La bambina si morse il labbro pensierosa, come se stesse raccogliendo il coraggio per esprimersi. Belle preferì non incalzarla, concedendole il tempo per riflettere sui dubbi che – impossibile illudersi – erano connessi all’imminente visita. Spesso le azioni sono più chiare delle parole; e l’atteggiamento di Helena non mentiva.
All’improvviso, dopo quelle che parvero ore, la figlia le piantò addosso il castano ambrato dei suoi occhi e parlò.
- E se non gli piaccio?
Era così triste. Era così crudele che una bambina – la loro bambina – giungesse a credere certe cose, ad angustiarsi con idee che non avrebbero dovuto neanche tangerla, e dubitasse di piacere a colui che a suo modo già le voleva bene. Il timore con cui aveva posto la domanda, come se quasi non volesse chiedere per non rischiare di trovare conferma, la colpì dritta al petto come un proiettile.
Avrebbe voluto afferrarla e scuoterla, ripeterle senza sosta che mai, mai avrebbe dovuto pensare una cosa simile perché lei era perfetta, semplicemente perfetta, e chi mai avesse sostenuto il contrario non sarebbe stato degno di essere definito persona; che suo padre si era innamorato di lei a prima vista, come capita agli uomini che realizzano di essere diventati genitori solo quando stringono tra le braccia il figlio che però già si è inserito in ogni ricordo, come se fosse stato lì tutto il tempo, e che già rende ogni cosa più preziosa.
Helena si torturava le dita in attesa di risposta.
Era la prima volta che Belle la vedeva così vicina a un precipizio.
Ma non l’avrebbe lasciata cadere.
- Tesoro, – si chinò alla sua altezza e le ravviò i capelli dietro le orecchie – L’hai già conosciuto, ricordi? Avete parlato, e vi siete piaciuti tanto che tu stessa…
- Ma se dici che gli sono piaciuta, allora potevo anche non piacergli. E poi abbiamo parlato poco, perché è arrivata Anna. E se oggi faccio qualcosa e non gli piaccio più?
- No, Helena, no, – la donna ribadì con foga – Non puoi non piacergli. Te l’assicuro, amore mio, non ti direi mai una bugia, tantomeno su questo. Comportati come fai sempre, gioca e ridi, ma non essere triste: ai papà piacciono sempre le loro bambine, proprio come alle mamme. Ti prego, sta’ tranquilla, – mentì sapendo di farlo: ai genitori possono non piacere i figli. Possono non amarli tanto quanto dovrebbe essere naturale, possono vederli come delle complicazioni, come degli ospiti indesiderati che portano via ogni energia, ogni risorsa, ogni speranza.
Che portano via la loro stessa vita.
Il semplice pensiero poteva apparire disgustoso, ma il ricordo di Cora e Regina Mills era fin troppo esplicativo in tal senso.
- Forse preferisci non vederlo? – continuò.
Avrebbe accettato la decisione della bambina e l’avrebbe riferita lei stessa a Robert: la reazione era un campanello d’allarme da non sottovalutare. Avevano corso troppo, era evidente; avrebbero dovuto rivedere la strategia e tenerla tranquilla per un po’.
- Non lo so, – tirò su col naso e si passò una manica sugli occhi lucidissimi – Ho paura.
Ma Helena doveva anche affrontare le difficoltà. Imparare a non arrendersi, a non farsi bloccare dal panico scegliendo la soluzione più semplice. La tendenza manifestata aveva una provenienza ben precisa che però non Belle intendeva far prevalere: aveva già sperimentato quali danni potesse arrecare a sé e agli altri…
- Lo so, Helena. Lo so, – l’abbracciò con forza prima guardarla dritta in volto – È normale. È giusto così. Ma quando si ha paura si possono fare due cose: si può lasciar perdere, e va bene, non succede niente di male. Non succede niente, è questo il punto. Oppure… Oppure si può provare a fare qualcosa. Si possono stringere i denti, come fai tu quando ti sbucci le ginocchia e io ti medico, e si può tentare, cercare di comportarsi nel modo più coraggioso possibile e andare avanti. E se si fa la cosa coraggiosa, alla fine il coraggio viene da sé, io la penso così. Quando si ha paura bisogna almeno provare.
Helena ascoltava attenta, ma anche molto, molto critica.
- E allora tu…
Qualsiasi cosa stesse per dire fu interrotta da Ruby, comparsa di corsa sulle scale.
- Ma tesoro, sei splendida! E quel vestito? Bello com’è, dovrebbe comparire sulla copertina di The lady! 2 – fece l’occhiolino alla piccola prima di annunciare all’altra: – È arrivato. Lo porto su, prima che Granny lo intercetti e lo faccia a pezzi…
Belle prese un profondo respiro.
È il momento.
Allungò la mano a Helena.
- Allora, cosa facciamo? – le chiese col cuore in gola.
La bambina sorrise.
 
 
 
And that I find my corner,
maybe tonight I’ll call you,
after my blood turns into alcohol.”
 
 
 
Fu la bruna ad aprire il portoncino. L’accolse con un ghignetto sagace che non provò neppure a dissimulare e che, quando in lontananza le campane batterono sette rintocchi, si tramutò in un’aperta risata.
- Complimenti alla puntualità.
- C’è una marca di orologi che porta il mio nome.
L’assenza di replica gli fece assaggiare l’umiliante sapore di una vittoria non guadagnata, ma concessa al solo scopo di pareggiare i conti in attesa di un nuovo scontro.
Dopo averlo lasciato in cortile per qualche minuto, la cameriera tornò da lui.
- Venite, – ordinò, ed entrò nel locale senza controllare se l’uomo la stesse seguendo – ma in fondo, lei stessa doveva saperlo, cos’altro avrebbe potuto fare se non starle alle calcagna? Non intendeva tirarsi indietro. Aveva dato la sua parola e l’avrebbe mantenuta, se non altro per capire cosa fosse accaduto il giorno precedente e per quale motivo Belle avesse preferito non incontrarlo. Una parte di lui si rifiutava di credere fosse stato per ripicca: la donna che conosceva e amava era troppo matura per simulare simili giochetti, tanto più in un contesto già complicato. Di per sé avrebbe effettivamente meritato di non essere ricevuto, e nel caso avrebbe criticato solo in parte il comportamento; ma sarebbe stato così poco da lei… Nel precedente lustro era cambiata a tal punto? I primi incontri non gli avevano dato quest’impressione. Sembrava così diversa, Belle: più forte, ancora più sicura nel discernere il giusto dallo sbagliato e nel difendere i propri ideali; o forse, anche lei aveva deciso di iniziare a mascherare le fragilità dietro una copertura.
Ma non aveva usato l’acciaio per coprirsi, no; aveva scelto un materiale più fragile, più sottile, che lasciava trasparire ogni emozione nella sua bellezza e crudezza.
Aveva scelto una maschera, ma l’aveva scelta di vetro.
E ora Gold capiva le parole che un tempo lei soleva rivolgergli, quel desiderio ribadito appena pochi giorni prima di farlo tornare alla parte migliore di lui, di farlo guarire dal suo essere malato d’ombra. La volontà di vederla era più forte del bisogno di riposare o mangiare: in ogni gesto, in ogni passo anche nel più quotidiano c’erano lei, le sue scelte e le sue azioni.
Le loro dita vicine, unite, un arcobaleno nella tempesta.
Quel gesto poteva già significare qualcosa. Poteva indicare una primissima, tenue apertura. Era presto, Belle era stata categorica in proposito e, sebbene si fosse riferita all’eventuale ritorno a Kensington, Gold aveva intuito come il discorso avesse una portata più ampia, le cui ragioni non era arduo comprendere e condividere. Ciò che ha un inizio è condannato a conoscere anche una fine, entrambi l’avevano sperimentato sulla propria pelle; un epilogo che stavolta sarebbe stato persino più doloroso.
Perché stavolta non avrebbe coinvolto solo loro.
Scorse col pollice la carta dei pacchi che aveva in mano. Stavolta non si era lasciato cogliere alla sprovvista: aveva portato il dolce preferito da Belle e un dono per Helena. Non aveva mandato un subalterno ad acquistarlo, come soleva fare durante l’infanzia di Regina: si era recato personalmente in bottega, indossando il suo migliore schermo per non lasciar trapelare l’ondata di solitudine che l’aveva assalito varcatane la soglia.
- Ma poi vieni a prendermi?
- Certo, figliolo! Dobbiamo conquistare Londra assieme! Compreremo tutti i giocattoli che vorrai, e andremo in giro su una carrozza dieci volte più bella di quella della regina, mangiando cioccolata fino a star male! Te lo giuro, Neal, te lo giuro.
Si sarebbe fatto scorticare vivo piuttosto che ammettere di non conoscere i gusti della destinataria del dono; perché esiste forse qualcosa di più triste di un padre che ignora le preferenze della sua stessa creatura? Che non sa se predilige l’arancione al rosso, se vorrebbe disporre file di soldatini tutto il giorno o correre sempre dietro a una palla? Di Neal sapeva tutto, e anche di Regina; Helena, invece, era un mistero da svelare.
Una cosa era certa: la piccola non aveva molti balocchi. Forse era il caso di andare sul sicuro e regalarle una bambola: a quale ragazzina non piacevano? La piccola Mills un tempo le adorava: ne aveva a decine e continuava ad accettarle entusiasta.
Ma poi aveva visto un’altra cosa, forse più rischiosa, più incerta, e aveva cambiato idea. Chissà come avrebbe reagito la piccina scoprendo la sorpresa…
La sala lo fece fremere d’ansia: Ruby si aspettava davvero che l’attraversasse, col rischio di attirare l’attenzione degli avventori ed essere riconosciuto? Era pura follia. Probabilmente lì sedeva gente che gli doveva dei soldi, affitti arretrati o interessi di chissà quale prestito; e quale modo migliore per non pagare se non risolvere il problema a monte? Il suo era un volto noto, e il fatto che i massicci Reed e Hulme sorvegliassero la situazione non migliorava le cose.
La Lucas parve notare la sua esitazione, ma per una volta prese la saggia decisione di non deriderlo.
- Così darete nell’occhio, – lo redarguì – Fingete indifferenza e nessuno vi baderà. Sbrigatevi ad andare di sopra, – fece, prima di afferrare un vassoio dal bancone e lasciarlo casualmente cadere per terra pronunciando a voce fin troppo alta – Oh, povera me! Sono proprio una sbadata! 
Gold approfittò della confusione – “Ti aiutiamo noi, bellezza! Tutto per la nostra Ruby!” – per dileguarsi verso il piano superiore, il cuore in gola per mille distinti motivi.
Fu Belle la prima che scorse. Indossava lo stesso abito della settimana precedente – solo più accollato, non poté fare a meno di notare con una punta di rammarico – e portava i capelli in modo diverso: non li aveva costretti in una crocchia severa, ma come raccolti in una coda bassa, lasciata ricadere morbida sulle spalle.
Ciocche simili a raso che gli scivolavano tra le dita, che gli piovevano addosso quando era su di lui e lo baciava piano, lenta, attenta.
Con amore.
Ciò che solo lei sapeva dargli.
Gli sorrise quando lo vide comparire sulla cima delle scale: un sorriso breve e destinato a sfumare presto, ma presente e impossibile da ignorare.
Belle gli aveva sorriso.
Gli aveva sorriso, e non una smorfia carica di furia trattenuta come quelle dello scorso incontro, non un cenno trafitto dalla mestizia che lui avrebbe voluto scacciare pur essendone causa, ma un vero, autentico sorriso. Simile a quelli che gli dedicava nei mesi dolcissimi in cui il Fato, autore beffardo, stava componendo le pagine che li avrebbero indissolubilmente uniti. Quando Belle lo guardava in quel modo la sofferenza che si erano imposti, gli affanni svanivano, quasi il gesto avesse il potere di spezzare le catene e liberarlo da ogni giogo. Erano stati il sorriso di Belle e la sua intraprendenza a colpirlo prima ancora che se ne rendesse razionalmente conto: il cenno imbarazzato allo scherzo che aveva portato a una tazza – la loro tazza – scheggiata, la grinta con cui aveva difeso il suo nome durante il viaggio che la conduceva alla villa. Gold aveva accettato la sua proposta per sfregio, per umiliare quegli occhi risoluti e dimostrar loro che nessuno, nessuno poteva mettersi contro di lui e credere di vincere. Voleva legarla a sé in una sottomissione senza fine, e si era ritrovato lui a essere avvinto a lei da un amore che aveva provato ad andare oltre le barriere.
Un amore che aveva portato a una bambina dal capo chino e dalle mani giunte in grembo, come in religiosa attesa. Pareva… angosciata? Sì, angosciata era la definizione esatta, turbata come mai era apparsa durante la loro precedente conversazione. Si chiese cosa fosse accaduto nel frattempo da inquietarla tanto, e non poté fare a meno di preoccuparsene.
- Buonasera, – le salutò – Come state?
Fu Belle a rispondere, pur posando le mani sulle spalle della figlia – per darsi forza o esortarla a parlare? Non riuscì a capire.
- Bene, grazie. E tu?
- Anch’io – s’impose di sorridere per nascondere l’ansia rivolgendosi alla figlia – Salve, Miss. Tu cosa mi dici? – attese invano una replica prima di ripetere la domanda – Oggi siamo poco chiacchieroni, eh, Dearie? Il gatto ti ha mangiato la lingua? E pensare che avevo una gran voglia di continuare il nostro gioco…
La bambina era persa a studiarsi le scarpe, strusciandole tra loro.
Belle pareva mortificata come in poche altre occasioni prima d’allora.
- Helena, – mormorò sperduta, carezzandole il capo – È il signore dell’altro giorno. Ne abbiamo parlato.
La consapevolezza di quanto accaduto investì in pieno Gold.
Gliel’aveva detto.
Belle aveva rivelato la sua identità alla bambina. L’aveva presentato col suo legittimo ruolo e distinto definitivamente nel pur ridotto panorama di figure maschili che le ruotavano attorno. Non era difficile immaginare la miriade di interrogativi che turbinavano nella testa della bambina, la confusione in cui l’aveva gettata la scoperta, l’agitazione che ora la muoveva.
Doveva essere soddisfatto della chiarezza fatta, o avrebbe voluto esser presente, prendere parola e spiegare anche il proprio punto di vista? Ignorare cos’aveva raccontato la donna era deleterio: come avrebbe risposto se la bambina gli avesse posto delle domande? Fornire versioni differenti era fuori discussione.
Maledizione, Sweetheart, come ne vengo fuori ora?
- Scusaci, – Belle lo disse a voce alta e sicura, ma non riuscì a dissimulare il tremito delle mani. Cosa stava succedendo? Fino a pochissimi istanti prima la bambina sembrava essersi tranquillizzata, e invece anche il suo ultimo discorso si era rivelato un fallimento. Helena non era pronta, non era assolutamente pronta a interagire con l’uomo – Non …
Gold la zittì con un cenno della mano libera.
- Belle, – un bagliore astuto gli attraversò lo sguardo, inducendola a chiedersi cosa stesse tramando – Hai mai sentito nominare Hawkins? È un giocattolaio molto noto… Oh, dovresti proprio vedere il suo negozio: scaffali colmi di bambole e carillon, marionette e burattini ovunque… Il paradiso di ogni bambino, insomma. Venendo, sono passato di lì e ho visto una cosa in vetrina. E sai cosa ho pensato? “Questo potrebbe proprio piacere alla bambina chiacchierona dell’altro giorno!”. Però – si guardò attorno con fare dispiaciuto – Tu vedi qualche bambina chiacchierona qui?
Belle stette al gioco e scosse il capo con vigore.
- Esattamente. E se la bambina chiacchierona non è nei paraggi, cosa me ne faccio io del regalo? Credo proprio lo riporterò indietro. Era davvero bello e sono certo che a qualcuna sarebbe piaciuto, ma cosa possiamo farci? Nulla, ahinoi, nulla. In ogni caso, – continuò con un sospiro teatrale – Sono contento di averti salutata. A presto, – si voltò e fece per andarsene, il dono ancora in bella mostra
Non aveva posato piede sul primo gradino quando una vocina lo raggiunse.
- I gatti non mangiano la lingua delle persone.
Gold si bloccò.
Trattenere il sorriso di trionfo che gli curvava le labbra sarebbe stato vano. Se anche Milah, se persino Cora sostenevano fosse bravo coi bambini doveva esserci un fondamento; e lui aveva inquadrato Helena a prima vista. A mille moine preferiva una sfida, una provocazione che avrebbe raccolto, fatta propria, portata avanti fino a vincere e infine vinto.
Come sua madre.
- Guarda guarda, – fece meditabondo prima di voltarsi – Non sapevo ci fosse un’esperta di felini qui. Sentiamo, cosa mangiano i gatti?
- Ai gatti piace il pesce. E bevono il latte.
- E dimmi, a te piacciono i gatti?
- Sì, specie quelli neri. So dove stanno e vado a portarci il latte con Grace ed Henry, di nascosto a Granny però perché lei non vuole, – accortasi di quanto appena sfuggitole, si morse un labbro pentita – Anche se questo era un segreto e non dovevo dirlo.
Belle alzò le spalle e guardò verso la finestra.
- Io non ho sentito niente… – ridacchiò allegra, e Gold quasi trattenne il fiato udendo la musica che tanto gli era mancata e che all’improvviso gli scaldava il petto. C’era qualcosa in quella risata simile a cristallo, un fuoco chiaro capace di risvegliare in lui una sorta di forza assente quando non erano assieme.
- Neanch’io ho sentito, – confermò, ormai perso a guardare Belle – Allora, vogliamo scartare il regalo?
 
 
 
No,  I just wanna hold you.”
 
 
 
La cena stava procedendo bene. Dopo il gelo iniziale che le aveva fatto temere il peggio, la situazione era evoluta per il meglio: era grata all’abilità dimostrata da Robert, che aveva salvato la serata e – dubitarne era vano – fatto reinnamorare Helena, proprio come la settimana precedente. I due non facevano altro che chiacchierare disinvolti, dimostrando una complicità che difficilmente Belle pensava sorgesse tanto presto; era uno spettacolo vedere un affarista spregiudicato quanto il tanto temuto mago dei tessuti impegnato in un confronto sulle condizioni migliori per giocare a campana e sui disegni che la bambina disseminava per casa – “Arte molto moderna”, aveva commentato l’uomo dinanzi al guazzabuglio di forme e colori, strappandole un irrefrenabile scoppio d’ilarità. Padre e figlia la coinvolgevano nella conversazione, ponevano domande cui rispondeva con piacere, e lei stessa introduceva argomenti: attraverso Helena aveva spiegato cos’avessero fatto e dove fossero state il giorno prima, e non senza soddisfazione aveva visto Robert impallidire per un istante e assottigliare le palpebre, come faceva quando doveva affrontare una realtà che smentiva qualche sua teoria.
Ma se Belle per lo più taceva e restava ad ascoltarli non era per astio, ostilità verso l’ospite o altri sentimenti meschini che in realtà neanche la sfioravano; la verità era molto, molto più semplice: a Belle piaceva – amava – osservare Robert ed Helena insieme.
Lo spettacolo che aveva dinanzi era il più bello cui avesse mai assistito, col suo sapore speciale di sogno divenuto realtà che ancora manteneva una cornice sfumata, come se potesse dissolversi da un  momento all’altro.
Malgrado tutto, il comportamento della piccola non era una novità: in fondo al cuore sapeva che Helena avrebbe affrontato la pur nuova e complessa situazione con coraggio. Non ricordava una sola occasione in cui avesse interagito con un estraneo chiudendosi in sé o ammutolendo, anzi: spesso erano lei stessa, Granny o Ruby a fermarla per evitare che parlasse troppo.
E neanche Robert l’aveva sorpresa: già la prima volta che le aveva accennato di Neal, per quanto all’epoca si mostrasse brusco e autoritario Belle non aveva incontrato ostacoli a immaginarlo alle prese con un bambino; ciò cui stava assistendo confermava appieno la sua prima impressione.
L’uomo aveva intuito subito i punti deboli di Helena, il suo desiderio di essere trattata come un’adulta e mai le si era rivolto col tono quasi canzonatorio in cui alle volte i più grandi indulgono quando trattano coi bimbi: le parlava come se fosse una sua pari, considerandone il parere e le ragioni, ma dicendo la propria anche a costo di contraddirla, senza macchiarsi di sfumature di condiscendenza. Alternavano pareri su come chiamare il pupazzo a forma di gatto che l’uomo le aveva portato al loro gioco dei nomi – dopo essersi beato di false piste, Gold l’aveva indirizzata sulla lettera corretta –, e vederli tanto affiatati, coi loro occhi così simili splendere quando si rivolgevano a lei, era un’ondata di calore capace di sciogliere finalmente quel macigno oscuro conficcato in mezzo al petto.
Ma se lo sguardo di Helena traboccava di vitalità purissima, non più tinta di timore o angoscia, quello di Robert non riusciva a non tradire i mille travagli prolungati che portavano anche il suo nome.
A Belle non erano passata inosservata la carta regalo, né il nastrino che il micio portava al collo: il blu e l’oro erano i loro colori per antonomasia. Non l’avevano mai specificato, forse perché entrambi provavano la ritrosia che spesso rende arduo dire le cose più belle e più vere, o forse perché non esisteva modo di ufficializzare qualcosa di tanto evidente eppure sottile; ma Gold viveva nell’oro ed era vissuto per l’oro, e l’oro era nel suo nome, parte integrante di lui; e il blu…
Blu era il colore dei suoi occhi.
Blu era la divisa che le aveva imposto il primo giorno.
Blu era la pietra dell’anello che aveva fallito la sua missione, dividendoli anziché unirli.
Quella pietra che scintillava al suo anulare sinistro, la fede mai avuta, la promessa mai mantenuta.
La scelta dell’uomo era stata tutto fuorché casuale. Forse avrebbe dovuto arrabbiarsi, restar offesa dal modo in cui aveva strumentalizzato il primo presente alla figlia rendendolo latore di messaggi che sapeva avrebbero colto nel segno. Sicuramente aveva vessato senza pietà il malcapitato garzone perché gli procurasse un dono con quelle caratteristiche, una carta regalo in quei colori…
Eppure Belle non ne era risentita.
Era da parecchio che non riusciva a stabilire con certezza i suoi sentimenti quando lo aveva accanto.
Vedendoli, si chiedeva piuttosto come avesse potuto dubitare della sincerità d’intenti dell’uomo. L’attenzione che dedicava alla bambina, le battute spiritose che le rivolgeva e la luce nelle sue iridi… Non aveva sbagliato dicendo a Helena che suo padre già l’amava: era la verità che implorava affinché fosse creduta, affinché le venisse riposta nuova fiducia, affinché lei decidesse di riprovare. In fondo, non era la stessa cosa che Robert le aveva chiesto proponendole di tornare a Kensington? Offrendole l’anello?
Ogni volta che lui la guardava, poteva leggere la muta preghiera che le rivolgeva e l’amore che mai aveva smesso di provare per lei, neanche quando aveva provato a strapparselo dal petto.
L’amore così differente e simile a quello che da cinque anni le si era insediato nel cuore.
Ma ne avrebbero parlato, ne avrebbero parlato presto. Si sarebbero chiariti sugli eventi di ventiquattr’ore prima e lei gli avrebbe confessato ogni cosa.
Suonarono le venti e trenta. Sebbene non avesse ancora sbadigliato, i segni di stanchezza di Helena si facevano sempre più evidenti. Per la prima volta era sufficiente…
- Si è fatto tardi, – i due si voltarono contemporaneamente verso di lei, i volti adombrati in un identico modo che quasi la turbò – È ora di andare a nanna.
- Nooo! Un altro pochino, un altro pochino per piacere!
- Fossi in te ascolterei tua mamma, – Gold corse in aiuto di Belle – Qualche anno fa ho assistito a una scena spiacevole: un bambino che non voleva mai andare a dormire si è all’improvviso ritrovato invecchiato di mille anni. Dei folletti malvagi gli avevano rubato la gioventù – strinse le labbra e alzò le sopracciglia in una smorfia di massimo disappunto – Una gran brutta faccenda, davvero. Mi spiacerebbe se accadesse anche a te.
Helena lo fissò ansiosa, ma non abbastanza intimidita da non porgli da domanda che le premeva.
- E poi cos’è successo?
- E poi si è messo in viaggio alla ricerca di quanto perduto. Ma questa è una lunga storia, e tu non vuoi diventare vecchissima tutto a un tratto, vero?
Una preoccupatissima Helena fece subito segno di no.
- Però me la racconti la prossima volta.
Il sorriso sul volto dell’uomo si allargò.
- Quando lo vorrai. Fa’ bei sogni, Milady.
La bambina si alzò dalla seggiola ma, come colta da un improvviso dubbio, si fermò e si rivolse all’ospite.
- Senti, io non ho capito una cosa. Ma tu come ti chiami?
- Ma come, Dearie? – la stuzzicò bonariamente – Ti arrendi? Se ben ricordo c’era un accordo tra noi, e io non rompo mai gli accordi.
- Lo so, – la piccola ghignò di tutta risposta – Non mi hai capito. Quando poi scopro il tuo nome, come ti devo chiamare? Con quello o “papà”?
La parola cadde nella stanza come una pietra.
Gold accusò il colpo all’istante, cercando di dissimularlo, dicendosi che in fondo era normale, una domanda legittima che avrebbe dovuto mettere in conto e chiarire sin da subito: ma nulla poteva realmente contro la freccia che gli si era piantata nell’anima, contro il dolore bruciante che andava a erodere i margini di una voragine senza fine facendolo franare su se stesso.
Appena udì la parola, Belle si portò d’impeto una mano alla bocca, conscia del ricordo che, tagliente come una scheggia di vetro, stava lacerando l’uomo. Nulla aveva lasciato presagire simile dubbio in modo da poterlo prevenire, né ora sapeva cosa fare per soccorrere Robert, per gettare le barriere che – quasi poteva vederle – si erano innalzate attorno a lui; ma se l’avesse saputo l’avrebbe fatto, ancora una volta.
Quando lui tornò a parlare, lo fece nel tono imperturbato che l’aveva caratterizzato sino ad allora.
- Penso che a tal punto sarai tu a dover scegliere.
Helena sembrò soppesare l’opportunità prima di annuire con gli occhi socchiusi, come un saggio in miniatura.
- Allora poi decido, – commentò tranquilla, pur soffermandosi a osservare per un istante più del solito l’ospite – Grazie per Baelfire e arrivederci e buonanotte! – afferrò il gatto così ribattezzato di comune accordo – È un nome forte!, aveva esclamato Gold udendolo, facendo ridere entrambe – e andò verso la camera da letto, subito seguita dalla madre.
 
 
 
And it’s been a while,
but I still feel the same.
Maybe I should let you go.”

 
 
 
Chissà come stava andando l’incontro, si chiese Ruby per l’ennesima volta mentre serviva i clienti. L’idea di fare una capatina al piano superiore l’aveva toccata, ma subito l’aveva ricacciata indietro: nella peggiore delle ipotesi i tre stavano mangiando in assoluto silenzio, ignorandosi reciprocamente e provando a sbrigarsi nel minor tempo possibile. Ma Gold era in casa da un’oretta, e in presenza di Helena era improbabile riuscire a mantenere il broncio a lungo…
Se non altro, non poteva lamentarsi: la sala era tranquilla e, dopo aver soddisfatto le comande, l’idea di mettersi sulla porta e prendere una boccata d’aria si fece più tentatrice. Cinque minuti di pausa non avrebbero mandato in perdita nessuno; e comunque, si disse, dalla sua postazione avrebbe controllato la situazione senza difficoltà e subito servito eventuali nuovi arrivi.
Le strade di Whitechapel erano le solite: tristi, sporche e grigie. Solo con loro la pioggia non riusciva nella missione che Ruby da sempre le attribuiva: rendere il mondo più bello. Per molti tutta quell’acqua era fastidiosa e causava malinconia, ma lei non era d’accordo: sin da quando era piccola e viveva ancora in campagna, l’aveva sempre trovata meravigliosa. Le pareva che la pioggia lavasse il mondo, lo purificasse da ogni male rendendolo puro e abitabile almeno finché gli uomini non fossero tornati a lordarlo coi loro peccati.
Ma nei tetri confini dell’East End che tanto le andava stretto non c’era spazio per certe romanticherie.
Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, immaginando di essere ovunque lontano da lì.
- Oggi posso entrare senza rischiare una coltellata?
La domanda inaspettata la fece scattare. Riaprì le palpebre e d’istinto s’appiattì alla parete, i sensi all’erta e pronti a reagire. Impiegò non più d’un istante per riconoscere la voce e ricondurla a un volto: il dottorino, come aveva preso a chiamarlo tra sé e sé, colui che tanto l’aveva fatta innervosire con le sue occhiate becere e i modi supponenti, la osservava a poca distanza, un sorriso affilato sul volto pallido.
- Dipende.
- Da?
- Da quel che siete venuto a fare, – appena aveva capito che l’uomo non costituiva un reale pericolo, Ruby era tornata in sé. E aveva deciso di giocare – Non sapevo stessimo male.
- Ma non tutte le malattie hanno sintomi. E dovere del medico è sincerarsi sempre delle condizioni dei pazienti.
Alzò un sopracciglio rivolgendogli un sorriso furtivo che lo fece deglutire
Un sorriso tale da fargli salire la temperatura corporea di un grado o due.
Non gli era indifferente, stabilì la giovane nascondendo un ghignetto. Era anche vero che ben pochi uomini restavano immuni al suo fascino, ma Whale, malgrado l’esordio, era tra i pochi che riuscivano anche a incontrare il suo favore. Non era malaccio, no; lo avrebbe definito piuttosto un tipo. E, doveva riconoscere, forse Belle aveva ragione con le sue insinuazioni: un pochino – un pochino! – le piaceva, e il modo in cui le teneva testa la divertiva.
Ma se credeva di poter passare da lei solo con un certo scopo si sbagliava di grosso…
- L’unica cura che l’ostessa può fornirvi è un boccale e il consiglio di lasciar perdere. Certi pensieri portano sempre guai.
- Anche se sono pensieri piacevoli?
- State marcando male, dottorino. Molto, molto male.
- Allora prenderò una birra per farmi perdonare.
La ragazza gli fece cenno di entrare.
- Per la gioia delle nostre casse, – fu il suo unico commento.
Malgrado l’intenzione espressa, l’uomo non si mosse. Scosse il capo prima di ribattere con l’aria di chi la sapeva lunga: – Lasciare una donzella sola sarebbe alquanto maleducato.
Non sarai tu a cogliermi di sorpresa, bello mio.
- Più o meno che guardarla con insistenza mentre lavora?
A Whale mancò il respiro. Si morse l’interno della guancia: sapeva che la ragazza era un tipetto tosto, ma diamine, lo stava stupendo non poco. Non ricordava di aver mai avuto a che fare con una donna dalla risposta tanto pronta e tagliente; e la cosa, anziché allontanarlo, lo intrigò ancora di più.
Aprì la bocca per replicare, ma Ruby lo precedette.
- Entriamo, va’. Non sia mai che la nostra conversazione faccia ammalare il dottorino… – esclamò prima di dargli le spalle e tornare nel locale, lasciandolo cool triste gusto della disfatta in bocca.
Ma al momento di mescere la birra, la giovane Lucas si ritrovò a esitare un attimo più del dovuto; un attimo a seguito del quale si ritrovò a riempire un altro boccale.
Per sé.
 
 
 
“And you know I’ll find my corner.”
 
 
 
Quella riunione, si ritrovò a pensare Mary Margaret, aveva il sapore di una cospirazione. Era vero, la colpa era in parte sua: nella sua vita aveva sempre incontrato qualche difficoltà a mantenere i segreti, specie quelli tanto importanti da darle di che pensare. Se una parte di lei voleva credere che la persona vista da Emma fosse davvero Belle, che la ragazza fosse sana e salva e, chissà, magari anche desiderosa di riabbracciarli, l’altra non mancava di sottolineare l’assurdità della teoria.
Era stata proprio la seconda metà a indurla a chieder consiglio a un Archie ancora più turbato di lei e, nel corso delle faccende, a rivelare involontariamente il segreto a Kathryn; e Kathryn l’aveva riferito ad Aurora, che ne aveva messo a parte Sean, che ne aveva parlato a casa con Ashley, la quale a sua volta non aveva perso tempo e – complice la partenza del padrone – quella sera si era presentato a Kensington coi piccoli Alexandra e Thomas per partecipare al consiglio improvvisato di cui gli ultimi a saperne qualcosa erano stati proprio i due che avevano fatto scattare l’allarme.
- È una fortuna che Gold se ne sia andato. Anche se son passati anni, dopo il trattamento che mi ha riservato non ho intenzione di ritrovarmelo davanti. Aleeex! Non si pizzica il fratellino! – esclamò l’ex fantesca proteggendo l’ultimogenito ancora neonato.
- Love, sai che tra me e il Coccodrillo non scorre buon sangue, ma devi ammettere che col pancione non saresti stata di grande utilità, – la rimbeccò Killian dal lato opposto del tavolo.
- E infatti non pretendevo certo di lavorare fino all’ultimo! Speravo solo in un po’ di comprensione. Belle voleva aiutarmi…
Il silenzio calò sulla stanza. L’ordine del giorno si era insinuato nella conversazione prima che potessero frenarlo.
- Non dobbiamo essere troppo duri nei confronti del padrone, – provò a conciliare Hopper – Stava attraversando un periodo terribile. Aveva da poco perso Belle, e tutti sappiamo cosa significasse per lui.
- Se quanto accadeva qui si fosse saputo in giro, saremmo stati tutti travolti dallo scandalo, – l’osservazione di Aurora non riscosse alcun successo tra i presenti.
- Se quanto accadeva qui si fosse saputo altrove, saremmo rimasti al fianco di Mr Gold, – la corresse il maggiordomo, senza perdere la pacatezza che lo contraddistingueva sempre – L’avremmo aiutato, assistito e consigliato nei limiti dell’opportuno, perché il nostro compito è anche questo. Anzi: per come la vedo io, il nostro sostegno vale più di mille argenterie ben lucidate.
- Il prossimo che parla di argenterie lucidate lo sgozzo, giuro, – Emma entrò in cucina trascinando i piedi e si accasciò sulla sedia accanto a Jones. Il sorriso del valletto fu scorto da tutti eccetto che dalla diretta interessata, tutta presa a salutare l’ex collega che non vedeva da un po’.
Mary Margaret decise fosse il momento di introdurre la questione.
- Bene, – esordì – In un modo o nell’altro, tutti sappiamo perché siamo qui. La domanda è una sola: cosa facciamo?
- Come se ci fossero molte possibilità, – commentò la figlia – Fossi stata da sola avrei già risolto il problema: sarei entrata nel pub e avrei chiesto spiegazioni. E questa mi sembra tuttora l’unica cosa da fare. Torniamo là, vi mostriamo Belle e basta così.
- Non è tanto semplice, – il timbro di Kathryn risuonò dolce, ma deciso – È una brutta situazione che si ripresenta proprio ora che siamo tornati a Londra. E se per caso vi foste confusi?
- Non iniziare anche tu con la storia della suggestione, non sono né pazza né bugiarda.
- Non intendevo certo…
- Nolan, calma: nessuno ci sta offendendo. Sai che non sono tipo da lasciar correre le ingiurie nei miei confronti, e ti assicuro che qui non ce ne sono, – Killian fu netto nel sottolinearlo – È lecito che dubitino: a noi stessi è venuto un infarto vedendola. Ma, – si rivolse ai colleghi – Non ci sono stati errori. Non ci siamo confusi, e certo non eravamo né ubriachi né altro: quella che abbiamo visto sulla porta di un locale di Whitechapel era Belle French. Questo è tutto ciò che sappiamo.
- Ma cosa ci faceva Belle in una taverna? Non mi è mai parsa tipo che frequenta certi posti… – domandò qualcuno che l’uomo finse di non udire. Mary chinò il capo: il giorno stesso della rivelazione, approfittando di una momentanea assenza di Emma, l’uomo le aveva parlato dei suoi dubbi circa le attività condotte in quel luogo – e volse la sua attenzione ad Ashley.
- Non capisco. Gold ha detto che Belle è morta. Ci ha fatto sigillare la stanza con tutte le cose ancora dentro, coprire gli specchi, tirare le tende e tutto il resto: la casa era a lutto come se fosse morto uno della famiglia e non un servo, ricordate? Perché avrebbe dovuto mentire su una cosa tanto grave?
- E se neanche lui sapesse che è viva? – avanzò Emma – Magari lui la crede morta.
- E tu vorresti andare a dirgli che hai visto Belle French vagabondare per l’East End?
- Fossi matta, ci tengo alla mia pelle io! Però penso che…
Mary non poté fare a meno di ripensare a poche ore prima. Gold le aveva ordinato di preparare una dessert: di per sé non era una stranezza, ma il tipo di dolce preteso l’aveva colpita tanto da indurla a credere di star udendo male; perché l’uomo voleva la torta al cioccolato di cui era ghiotta Belle.
Una torta che – come tutto ciò che riguardava la ragazza – non doveva essere nominata in sua presenza.
Udendo la richiesta, la mente ancora tutta volta a quanto raccontato dalla figlia, le certezze della governante si erano incrinate, complice anche la seconda parte del comando: il dolce doveva essere consegnato al padrone stesso per le diciotto, ora cui sarebbe partito; ma non era uscito di casa con indosso uno dei suoi completi da viaggio, bensì vestito in modo molto più informale, come se non volesse essere riconosciuto per uomo abbiente.
Forse le sue erano davvero solo suggestioni; fatto stava che però la donna tornava da ore e ore su quei particolari e, a prescindere dall’ultima assurda teoria di Emma, quanto sostenuto da lei e Killian non le pareva tanto avulso quanto all’inizio.
- Voi cosa ne dite, Mary?
La domanda di Archibald la fece riscuotere. Com’era evoluto il dibattito nel frattempo? Non poteva saperlo, ma a costo di ripetere un’opinione altrui decise di essere sincera.
- Io dico che stando qui non risolveremo nulla, – esordì a voce alta e chiara – Se Belle è davvero viva, non comparirà domattina alla porta chiedendo di entrare. Attenderla è inutile; saremo noi a muoverci. Perciò sono d’accordo con mia figlia: andiamo e scopriamo come stanno le cose.
Emma le mandò un bacio esultando e annuì al: – E allora facciamolo quanto prima, – di Killian.
- Domani. Facciamo già domani! – fece eco, ricevendo il plauso generale.
- E allora è deciso, – concluse la Boyle alzandosi – Domani sarà il giorno della verità.
 
 
 

“Give a little time to me,
we’ll burn this out,
we’ll play hide and seek
to turn this around,
all I want is the taste
that your lips allow.”

 
 
 
Ventisei anni, tre settimane e cinque giorni.
Tanto era il tempo trascorso dall’ultima volta in cui qualcuno l’aveva chiamato papà.
Da allora persino il suono della parola gli era diventato inviso: perché indicava un rapporto per lui iniziato e finito troppo in fretta; perché aveva il sapore triste delle possibilità rimaste tali, quelle che non avevano conosciuto l’alba del domani e che per questo mordevano ancora più a fondo, portandosi dietro un carico innaturale da reggere. I genitori non dovrebbero sopravvivere ai figli, si dice; e forse non solo per il dolore, non solo per la sofferenza che dover seppellire la propria creatura comporta, ma perché saranno per sempre condannati a porsi una domanda.
E se?
E se l’avessi portato con me?
E se non l’avessi mandato in quel collegio?
E se quella sera non gli avessi preferito il potere?
E se fosse guarito, se fosse diventato grande?
Come sarebbe adesso?
Si era costretto a odiare la parola papà perché pericolosa quanto l’amore, come diceva Cora: riapriva vuoti chiusi alla bell’e meglio, su cui passava e ripassava mani di stucco per tamponare crepe che trovavano sempre il modo di rompere la facciata e istoriarla. Le sue abituali frequentazioni gli risparmiavano lo spettacolo crudele di piccoli sconosciuti: vedere la gioia quando si stringe un pugno di cenere è la punizione maggiore cui si possa esser condannati.
E lui era stato condannato a mille castighi nella vita, ma nessuno, nessuno duro quanto quello.
Nessuno lo sarebbe stato mai.
 
 
 
Belle riapparve all’improvviso.
Non aveva commentato la serata con Helena: appena entrata in camera, la bimba aveva iniziato a strofinarsi gli occhi e lei aveva preferito non affaticarla ulteriormente; l’aveva pertanto messa a letto, aspettando che si addormentasse prima di tornare da Robert.
Se già prima intendeva parlargli prima di congedarlo, dopo ciò che la figlia aveva detto l’idea di farlo andare subito le pareva inconcepibile; anche se l’unica cosa davvero inconcepibile, si rese conto, era ciò che l’uomo doveva star provando.
L’osservò per un momento prima di palesarsi: era in piedi vicino la finestra e pareva contemplare lo spettrale paesaggio di Whitechapel, reso ancora più cupo dalla pioggia che aveva iniziato a battere sui tetti. Studiandone la piega delle labbra e l’ombra negli occhi, la donna si ripeté che era ancora, era sempre così: al mondo si mostrava Gold l’industriale, il finanziere beffardo votato alla ragione e mai al sentimento, e in privato emergeva Robert l’uomo, colui che sin dall’infanzia aveva conosciuto così tante perdite da essersi ormai convinto di non meritare vicinanza, affetto, comprensione.
Amore.
Un tempo lui aveva osato mostrarsi a lei.
E gli anni non avevano toccato quel lato della sua personalità.
- Robert, – attirò sottovoce la sua attenzione raggiungendolo.
L’uomo che si voltò portava sulle spalle tutto il peso del mondo.
- Si è addormentata? – caricare Belle anche di quello era eccessivo, si disse: non poteva permettersi di alienarsi dalla realtà e concentrarsi sulla quotidianità del proprio dolore.
La donna annuì. Aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse subito, come incerta di quanto stesse per dire.
- Ti chiedo scusa per quanto successo.
Gold soffocò un’inopportuna risata. Era tipico di Belle giustificarsi anche quando non aveva colpa alcuna, anche quando sarebbe dovuto essere lui a implorare perdono.
- È solo una bambina, non può sapere di suo… Di suo fratello, – non aveva mai pensato a Helena come alla sorellina di Neal. La realizzazione fece ancora più male – La domanda è stata più che plausibile dopo ciò che le hai raccontato, e lo stesso vale per la prima reazione.
- Avresti preferito esserci mentre le dicevo la verità?
Gold soppesò le possibilità prima di risolversi per la verità.
- Sì. Sarei voluto esserci, ma sono convinto tu abbia fatto la scelta migliore per lei e le abbia presentato la versione più adatta.
Belle sospirò, guardando anche lei fuori dalla finestra.
- È stato difficile, – ammise – E ho temuto di aver sbagliato. Con lei ho sempre paura di sbagliare, di dire o fare qualcosa che la ferisca.
La sua piccola, tenera Belle. Così decisa e così fragile a un tempo; ed eppure così forte perché orgogliosa delle sue insicurezze.
Era una madre meravigliosa, anche se non se ne rendeva conto; la madre migliore che avesse visto. Non che fosse difficile superare Milah o Cora nel campo, ma era sicuro – se lo sentiva – che nessuna al mondo avrebbe eguagliato la sua Belle.
Sua, perché malgrado non lo fosse più lui non sarebbe mai riuscito a riferirsi in lei in altro modo – perché era una parte di lui, Belle, perché sin dai tempi in cui l’amava senza osare farlo pensava a lei non come a un’estranea, a una persona sì vicina ma comunque distinta: pensava a lei come alla metà del suo animo.
La metà che gli aveva reinsegnato a ridere e a piangere, a permettersi di provare emozioni e a non negarsi più la vita, la metà che gli aveva donato il sole portandolo via con sé quando se n’era andata.
Ma ora che aveva di nuovo la sua metà più bella, il suo sole, non l’avrebbe più lasciato volare via.
- Coi figli è sempre così. Sempre.
La donna sospirò prima di voltarsi verso di lui. Ogni intenzione di affrontare gli argomenti previsti era svanita, sostituita da una realtà molto più pressante, più urgente.
Gli strinse una mano con dolcezza.
- Come stai?
Avrei dovuto credere a te, non a lei.
Non rispose alla domanda. Delle mille cose che avrebbe voluto dirle, riuscì a pronunciare solo una.
- Insieme saremmo stati felici. Insieme avremmo potuto avere tutto.
Scusami.
Belle chinò il mento prima di tornare a guardarlo.
- A me sarebbe bastato essere scelta da te.
Saremmo stati re e regina.
- Non ti ho dimenticata. Mai.
Per un istante a udirsi fu solo lo scroscio della pioggia.
- Neanch’io.
Non lo scostò quando le appoggiò la fronte sulla spalla nel primo gesto di stanchezza che parve concedersi. Tese le braccia e gli circondò le spalle, attirandolo a sé, inspirando il suo profumo, ricordando, rivivendo, perdendosi.
Senza di lei avevi veramente voglia di svegliarti ogni mattina?
Non sarebbe dovuta finire così, non ora, non dopo la cena e le ripercussioni che avrebbe avuto su Helena, sulle loro vite, sul loro futuro.
Non sarebbe dovuta finire così, si ripeteva Belle, quando ancora c’erano mille sbagli da perdonare e mille questioni da affrontare.
Eppure l’unica cosa che riuscirono a fare fu abbracciarsi, stringersi più forte di quanto ricordassero aver fatto persino ai tempi in cui le notti erano sinonimo di loro.
Se avessero potuto fondersi, entrare l’uno nelle carni dell’altro, l’avrebbero fatto.
L’unica cosa che riuscirono a fare fu accostare i volti.
Perché si amavano, ma una cesura c’era stata e da lì sarebbero dovuti ripartire, dal punto in cui la violenza del mondo aveva bruciato il paradiso che stavano costruendo.
L’unica cosa che riuscirono a fare fu permettere alle labbra d’incontrarsi, di sfiorarsi lievi e tornare a essere ciò che erano state.
Non avrebbero saputo dire chi per primo si fosse avvicinato alla bocca dell’altro; e in fondo, era poi così rilevante? No; o almeno, non lo era quanto ciò che stava accadendo.
Fu un bacio leggero e dolce, come quello che le fanciulle regalano alle bestie per spezzare l’oscurità che le avvince, o i principi alle belle addormentate; e forse fu un bacio dallo stesso immenso potere, capace di spezzare sortilegi e maledizioni e di risvegliare entrambi dal sonno in cui erano vissuti per anni – capace di riportarli in un tempo, in un luogo in cui le possibilità erano realtà, bastava tendere la mano per coglierle e farle proprie, farle loro.
Un tempo e un luogo che non sarebbero tornati, ma nei quali si bearono per un attimo eterno, provando l’infinito.
Si allontanarono piano, gli occhi chiusi come a illudersi di trattenere ancora una scintilla di magia; e quando li riaprirono non si ritrassero: restarono uno tra le braccia dell’altro, i volti tanto vicini da potersi sfiorare.
Lo vide passarsi la lingua sulle labbra, come a voler cogliere il suo sapore, cercare un’altra prova per convincersi di non essersi illuso.
Lei non lo imitò.
Sapeva che se l’avesse fatto sarebbe tornata a baciarlo ancora e ancora.
Le parole non sarebbero servite: rimasero in silenzio, ad ascoltare i loro respiri finché le gambe non s’intorpidirono.
La sua voce risuonò più fioca di un sussurro mentre le percorreva i tratti con un dito.
- Stasera partirò, – non ottenne risposta – Vuoi venire via con me?
Sì.
- No. Non ancora.
Le sue ciglia, pizzo sulla pelle candida.
L’avrebbe baciata per l’eternità.
Annuì.
 
Ma continuò a carezzarle il volto a lungo.
 
 
 

My my,
my my,
my my,
give me love.
“Give me love” - Ed Sheeran

 
 
 
1: il Bethlem Royal Hospital – comunemente chiamato “Bedlam” – è il più antico ospedale psichiatrico della città – http://www.londranews.com/2014/10/londra-nel-passato-bedlam/;
2:  “The Lady” è una rivista femminile tuttora pubblicata che tratta argomenti quali la casa, la cura dei figli e la moda – http://en.wikipedia.org/wiki/The_Lady_(magazine). Altre notizie interessanti sui giornali d’epoca qui: http://virtualvictorian.blogspot.it/2009/11/womens-magazines-in-victorian-england.html
 
La citata Theresa figlia del cocchiere dei Whale è un richiamo a Teresa Fattorini, la “Silvia” di Giacomo Leopardi. ♥
Non so se nella Londra vittoriana abbia effettivamente lavorato un giocattolaio di nome Hawkins; prendetelo per una licenza.
 
 
 
N. d. A.: Bentrovat* o benvenut* con una nuova puntata de “Le inutili note della prolissa Euridice”!
Ecco a voi, con qualche ora d'anticipo, il nuovo aggiornamento: allora, quali sono le vostre impressioni? E che mi dite della sorpresa? XD La cena – nelle mie intenzioni una sorta di hamburger date riveduto, corretto e non interrotto – non era una novità, ma non avevate previsto l’evoluzione finale, vero? So di aver recentemente detto a qualcuna di voi che se avessi fatto baciare i protagonisti non mi sarei fermata lì, ma ho cambiato idea: ho preferito anticipare il bacio, che nei piani iniziali sarebbe dovuto giungere tra un po’, ritardandone l’ – eventuale, eh! Mai dire mai XD – evoluzione.
Il fatto è che la serie mi ha sconfitta, ragazz* mie*. Tutto quell’angst ha fatto capitolare anche l’irriducibile Euridice, che più invecchia più diventa cuor di panna e che ha pertanto deciso di dare una piccola svolta fluff alla situazione e ai successivi capitoli – non direttamente nel prossimo, non vi mento, ma in futuro sì. Maledetti autori. :)
In ogni caso, commentate liberamente: il vostro aiuto mi è fondamentale e non finirò mai di ringraziare quant* mi sostengono recensendo, leggendo e/o aggiungendo la long alle varie categorie. Ne approfitto per dire grazie anche a chi ha fatto lo stesso con la mini-raccolta “Once upon a song – About music, fairy tales and love (RumBelle edition!)”: siete delle meraviglie! ♥ ♥ ♥
Vi saluto e vi ringrazio ancora una volta, dandovi appuntamento qui a sabato 4 aprile, su “Euridice’s world” sempre e augurandovi uno splendido inizio di primavera! :)
Un grandissimo abbraccio, Dearies, e “I will…” – ehm! Forse è non è il caso! XD – “I’ll never stop fighting for RumBelle”! :* :) :*
La vostra sempre più idiota
Euridice100
   
 
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