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Autore: SalvamiDaiMostri    23/03/2015    2 recensioni
Johnlock dai toni estremamente drammatici a causa di una particolare condizione di Sherlock: mai avrebbe pensato che le stronzate del suo passato avrebbero inciso così profondamente sulla sua vita adulta e compromesso fino a tal punto la sua felicità. E a pagarne le conseguenze è John. E questo Sherlock sa che è terribilmente ingiusto, oltre che pericoloso.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sherlock sedeva sul lettino dell’ospedale. Indossava la leggera vestaglia in dotazione;  il nero dei suoi ricci selvaggi contrastava drasticamente con il bianco e l’azzurrino di tutto ciò che lo circondava: la vestaglia, le lenzuola, le pareti, il mobilio. La sua carnagione invece ci si perdeva. Teneva lo sguardo basso, leggermente rivolto verso la sua sinistra, ovvero dalla parte opposta della stanza a quella in cui sedeva sua madre. Suo padre le stava accanto, inpiedi. Entrambi ormai erano ore che lo stavano rimproverando; Sherlock si mordeva il labbro e con i pugni saldi al materasso torturava le lenzuola. Fissava il vuoto mentre questi gli gridavano addosso, non perchè non avesse il coraggio di reggere il loro sguardo, ma perchè era davvero infastidito dalla loro presenza: ormai aveva trent’anni e ancora non erano sufficienti affinchè quelle persone smettessero di intromettersi nella sua vita?? Non riusciva a pensare ad altro.
La signora Holmes era sinceramente preoccupata, Sherlock non ne dubitava affatto:  le occhiaie incavate sotto agli occhi, il suo pallore, il leggero tremolio della mano destra. Tutto indicava che la donna fosse stata sottoposta a grave stress psicofisico nelle ultime settimane: aveva mangiato a malapena, dormito pochissimo e pianto fino all’esasperazione: ogni centimetro del suo corpo ne aveva risentito e lo gridava agli occhi attenti del figlio. Ma questo non l’avrebbe resa meno noiosa. Suo padre invece era più deluso che preoccupato, anche se era certo che anche lui avesse smosso mari e monti per ritrovarlo.
 

Mycroft era solito chiamarlo ogni venerdì sera. Si trattava di una telefonata estremamente breve in cui questo gli chiedeva se stava bene, Sherlock rispondeva di sì, Mycroft gli augurava buonanotte e lui lo mandava a quel paese:  suo fratello lo faceva perchè era sinceramente preoccupato per lui: tale telefonata gli confermava che il suo fratellino stava bene e che si trovava a casa sua. Sherlock lo sapeva e, anche se rispondeva sempre seccato e lo insultava, stava sempre attento ad essere a casa per quell’ora del venerdì per poter rispondere e rassicurare suo fratello.
Tre settimane prima, per la prima volta, Sherlock non rispose al telefono. Mycroft ne fu terrorizzato. Ricompose il numero: ancora nessuna riposta. Chiamò altre quattro volte quella notte: ancora nulla. Nonostante ormai fosse l’alba, si precipitò in strada e prese l’auto diretto all’appartamento di suo fratello: bussò, suonò il campanello fino a romperlo, ma nessuno rispose. Allora avvertì la polizia e denunciò la scomparsa di Sherlock. Le autorità competenti irruppero nell’appartamento: nessun segno di effrazione o rapimento; conclusero che Sherlock avesse lasciato l’abitazione di sua spontanea volontà. Fu subito chiesto a Mycroft se avesse qualche idea di dove potesse trovarsi  suo fratello.
“A iniettarsi eroina in qualche tugurio di questo Paese, nel migliore dei casi.” rispose.
Furono necessarie tre settimane per trovarlo. Mycroft, grazie alla propria posizione all’interno del governo inglese, ottenne il permesso di seguire in prima persona le indagini della polizia, assicurando alle autorità conoscenze approfondite sul ricercato, ma anche la sua intelligenza e il suo intuito. Ma le capacità di Mycroft furono messe a dura prova: Sherlock era dannatamente bravo a non farsi trovare. Non voleva essere trovato.
Lo scovarono, appunto, tre settimane dopo in uno dei più malfamati quartieri di Manchester: malnutrito, più pallido del solito, sporco, vestito di stracci, la barba incolta e le braccia logore dalle punture.
 

“Ma ti rendi conto di quello che hai fatto passare a tua madre?? A tuo fratello, a me?! Non ti sei chiesto cosa sarebbe stato per noi? Abbiamo temuto il peggio per settimane...” suo padre ora aveva preso a camminare avanti e indietro per la stanza mentre gridava: grandioso, ora Sherlock doveva persino muovere la testa man mano che si spostava per continuare ad evitare di guardarlo.
“Non mi è successo niente.” masticò rabbioso
“Oh ti prego Sherlock! Con i luoghi che frequentavi, quella gente... Avresti potuto beccarti una coltellata ad ogni angolo!”
“Magari papà.” Mycroft irruppe nella stanza con una cartella in mano “Magari.”
Sherlock pensò a uno sfogo di rabbia: magari ti fossi preso una coltellata, magari avresti imparato la lezione. Magari ti avremmo trovato in un ospedale.
No. Mycroft non intendeva nulla del genere. Si avvicinò a lui e con tutta la rabbia che aveva in corpo gli scaraventò addosso la cartellina: i fogli che conteneva si sparsero sul letto e a terra. Sherlock li guardò: su uno di essi erano riportati i risultati degli esami del sangue che gli erano stati fatti quella notte.
Allora capì. Magari ti fossi preso una coltellata: esiste la possibilità di sopravvivere a una coltellata.
L’HIV è per sempre. “Positivo” riportava scritto.
Sua madre lo raccolse, lo lesse e si portò la mano alla bocca lasciandolo cadere. Con sguardo terrorizzato pianse come mai in vita sua. Suo marito la abbracciò, Mycroft lasciò la stanza.
Sherlock, come sempre, decise di affidarsi alla logica: avrebbe pagato le conseguenze di ciò che aveva fatto. Era sempre stato una persona estremamente razionale: aveva commesso una sciocchezza, anzi, molte. Pretendere che le sue cazzate non avessero ripercussioni sarebbe stato da stupidi. E Sherlock non era stupido, solo annoiato. Ogni azione comporta una conseguenza: fare uso di eroina in tuguri dimenticati da Dio con la feccia dell’umanità di conseguenze possibili poteva averne tante, l’HIV era una di queste e ora ci avrebbe fatto i conti.
 
La diagnosi non fu mai un problema troppo grave per Sherlock.
Non si era mai aspettato una vita lunga e sana: nonostante la sua straordinaria memoria editetica, non riusciva a contare quante volte nella sua vita qualcuno gli avesse detto che prima o poi si sarebbe fatto ficcare una pallottola in testa; col tempo si era semplicemente abituato all’idea. Arrivare alla vecchiaia non era cosa che gli interessasse: era già stato tutto così terribilmente noioso in quei trent’anni, di certo non sarebbe migliorato nulla nei prossimi sessanta o più.
Con grande sorpresa dei suoi conoscenti, ciò che più premette da allora a Sherlock fu di non infettare nessuno: nessun altro avrebbe pagato il prezzo dei suoi errori. Il sesso non era mai stato una priorità per lui, ne avrebbe fatto a meno senza problemi. Data la sensibilità della sua pelle al freddo dell’inverno inglese, cominciò ad usare sempre spessi guanti neri, per evitare che la pelle si screpolasse e quindi di contagiare qualcuno tramite banali strette di mano a causa di micro-lesioni o graffi. Ovviamente si mantenne sempre a debita distanza dagli oggetti taglienti.
Decise di dedicarsi completamente al suo lavoro e di intrattenere meno relazioni possibili, vivendo ogni giorno al massimo, aspettando il giorno in cui l’AIDS sarebbe sopraggiunta. Accettò la riabilitazione, affrontò le crisi di astinenza, partecipò agli incontri dei tossici anonimi: tutto sommato, sentiva di doverlo ai suoi genitori e a Mycroft.
E, finalmente, dopo anni, tornò il giorno in cui fu libero di tornare a vivere per conto suo. Certo, a dure condizioni: prima di tutto avrebbe accettato che Mycroft continuasse a vegliare su di lui senza opporre resistenza, avrebbe continuato a presentarsi dal proprio medico regolarmente per controllare che il virus non si fosse destato, avrebbe preso i suoi farmaci con costanza e mantenuto uno stile di vita sano. Avrebbe quindi preso casa se e solo se con un coinquilino. Qualcuno che gli tenesse compagnia e che si assicurasse che Sherlock stesse lontano dagli stupefacenti, una persona affidabile sulla quale Mycroft avrebbe potuto fare affidamento. Un’ancora che lo tenesse vincolato alla realtà: qualcuno con cui parlare e sfogarsi, anche se a suon di insulti. Questa clausola irritava molto Sherlock, ma, quantomeno, avrebbe potuto proporre lui stesso i candidati; Mycroft ne avrebbe poi approvato uno.
Passarono le settimane e Sherlock non riusciva a trovare nessun candidato da sottoporre a suo fratello. Non aveva mai avuto un coinquilino al di fuori della sua famiglia e poche settimane infernali al college prima che riuscisse a ricattare il direttore della facoltà, minacciandolo di rivelare la sua piccola perversione, ed ad ottenere quindi una stanza tutta per sé anche là. La verità era che sapeva di essere un terribile compagno, era consapevole dei propri difetti: chi mai lo avrebbe accettato come coinquilino? Inoltre, nella sua così ridotta cerchia di amici, nessuno rispondeva al profilo indicato da Mycroft, oppure avevano famiglia e non sarebbero stati comunque disposti a trasferirsi con lui. Doveva incontrare qualcuno. Ormai non ne poteva più di convivere con suo fratello, ma non sarebbe sceso a patti con se stesso: Sherlock non aveva altro che la sua solitudine e il suo lavoro; colui che avrebbe condiviso anche solo una di queste parti fondamentali non poteva essere uno qualunque. Nessuno sembrava idoneo a ricoprire la carica.
 
La diagnosi non fu mai un problema troppo grave per Sherlock, mai.
Poi, un giorno, John Hamish Watson entrò a far parte della sua vita.
   
 
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