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Autore: _Lalli    24/03/2015    2 recensioni
Arya Dröttningu, ambasciatrice degli elfi, protegge l'unico uovo di drago in possesso alla resistenza; Durza lo Spettro attende da anni l'occasione di impossessarsene e finalmente pare esserci riuscito, ma l'elfa riesce a rovinare miseramente i suoi piani. Allo Spettro non rimane che un'unica soluzione: torturare la sua prigioniera senza pietà, fino a che non confessi il luogo in cui l'uovo è stato trasportato.
Ma se, durante la prigionia, qualcosa di inaspettato fosse accaduto ad Arya? Qualcosa di cui nessuno, a parte lei e Durza, è a conoscenza?
Costretta ad un viaggio avventato e ad un'improbabile alleanza, Arya scoprirà lati insospettabili del suo nemico e si lancerà in una ricerca che getterà i semi del suo destino. Coinvolta in segreti incredibili, finirà per svelare alcuni dei molti misteri che ancora oscurano la bellissima terra di Alagaësia.
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Altri, Arya, Durza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Ciao
38. Orfana di madre, madre di un'orfana

Le luci grige del mattino schiarivano timidamente il cielo quando Alba scostò la stoffa della tenda ed entrò. La notte era stata tormentata, specialmente perché Shruikan si era fatto vedere in lontananza e io avevo temuto di dover correre nella mia tenda a prendere Niernen e abbandonare prima del tempo la mia bambina.
«Ti ho portato qualcosa da magiare» annunciò l'elfa con indifferenza, porgendomi un quadrato di tessuto annodato.
Lo presi con la destra e tenni la mia bimba con il braccio sinistro.
Era ben sveglia e muoveva le manine in modo sconnesso. Non piangeva, ma non sembrava tranquilla e io mi chiesi se per caso non fosse a causa della mia inquietudine.
Mangiai con lentezza il pane con miele che mi aveva dato Alba e la fissai negli occhi spenti dalla stanchezza. Io stessa non dormivo da tre notti, ma l'eccitazione e l'ansia per la giornata mi mantenevano sveglia e attiva, almeno per il momento.
Finito il pane, pronunciai qualche parola di potere e restituii a mia figlia il suo aspetto originario.
«Dalle l'aspetto che preferisci» dissi. «L'importante è nascondere..»
«..Le orecchie, lo so» completò per me.
Contrassi la bocca in una smorfia amara. Le avevo sempre visto l'aspetto di un'umana addosso, doveva sapere meglio di me quali fossero i dettagli da nascondere.
«Bene, allora».
«Devi andare adesso?»
«Sì. All'alba devo essere con Blödhgarm e gli altri in un punto preciso. Ho sì e no un'ora di tempo e devo ancora prepararmi».
Mi alzai in piedi, accarezzai le manine della bambina e le baciai ripetutamente, poi la baciai anche sulla fronte e la strinsi un'ultima volta.
«Sii forte, figlia mia» le dissi con la mente.
La avvolsi nel mio mantello e la depositai sulla branda dove avevo trascorso la mia notte di veglia, canticchiando nenie e parlando alla piccola di tutto ciò che mi passava per la mente, consapevole che nulla di quella conversazione sarebbe rimasto nella sua memoria.
«Tieni questa» dissi, sfilandomi la collana di Durza e porgendola ad Alba. «Impedirà a chiunque di divinarti».
Lei sorrise amaramente e la indossò. «Lo so».
«L'anello di ametiste non serve più a nulla, fanne ciò che vuoi».
I suoi grandi occhi, azzurri come il cielo estivo, si alzarono solennemente su di me.
«Torna, Principessina, io non sono capace».
«Tornerò» dissi con poca convinzione, «ma te fai lo stesso del tuo meglio».
«Ovviamente».
Avevo mille parole sulle labbra, ma me le morsi e me ne andai, dopo avere gettato un'ultima occhiata alla creaturina che si agitava sulla branda.
Corsi in direzione della mia tenda e quasi mi scontrai contro Angela l'erborista, che camminava insieme ai primi soldati che uscivano dalle loro tende, con la sua armatura verde indosso e il bastone a doppia lama serrato in una mano.
«Venerabile» ansimai.
«Arya!» esclamò lei. «Allora come procede?»
«Lei è con Alba».
«Ah sì?» I suoi occhi guizzarono di consapevolezza. «Non potevi fare scelta migliore».
«Era l'unica dopotutto» minimizzai.
«Vero anche questo. Ma cosa fai ancora qui? Dovresti andare a prepararti! Eragon e gli Eldunarí sono già in allerta su quella collina lassù e c'è anche Elva con loro».
Sobbalzai. «Tu sai di loro?»
«Certo che sì! Ne conosco parecchi. Ho realizzato una cosetta per loro, un centinaio di anni fa, una specie di uomo di metallo, ma non mi chiedere a cosa servisse perché al momento non me lo ricordo». Scosse la mano in un gesto frivolo. «Sto invecchiando. Io vado in battaglia con gli uomini, ci vediamo al più tardi domani, devi ancora parlarmi del tuo incontro con i Sacerdoti!» si congedò, con una tale allegria che per qualche istante fui totalmente sicura che sarei sopravvissuta.
«A domani, Venerabile» la assecondai.
E proseguii nella mia corsa, tuttavia le sorprese non erano finite.
Davanti alla mia tenda mi attendevano due donne. Entrambe indossavano una giubba imbottita e una di loro aveva una spada alla cintura, l'altra ne aveva addirittura due.
«Ambasciatrice» mi salutò Augyra.
Athala si dondolava sulla punta dei piedi alle sue spalle. Quella ragazza sembrava sempre desiderosa di scomparire dietro alla sua compare.
«Non ho tempo, devo vestirmi!»
«Noi no, siamo già pronte e ti stiamo aspettando da un'ora. Facci entrare con te, dobbiamo parlarti» insistette Augyra.
«Prego» borbottai, cogliendo lo sguardo interrogativo di Laufin, mentre passava accanto alla mia tenda.
Feci entrare le due donne e tolsi le mie cose dalla branda, così che potessero sedere su qualcosa di più comodo della nuda terra.
«Non posso concedervi più di pochi minuti» annunciai, afferrando gli abiti donatemi da mia madre e cominciando a cambiarmi rapidamente.
«D'accordo» disse Augyra, impassibile, «sarò breve. Non sappiamo come si svolgerà la strategia di attacco di oggi, ma supponiamo che il cavaliere e i suoi elfi guardiani vadano ad affrontare Galbatorix e che forse tu andrai con loro».
Allentai i lacci del corsetto e lo indossai. «Corretto».
«E vorremmo che tu facessi qualcosa per noi».
«Trattabile».
«Secondo le informazioni che abbiamo trovato nelle gallerie di Dras-Leona, il re custodisce quattro uova di Ra'zac nella sua stanza del tesoro. Ti stiamo chiedendo di distruggerle per noi, nel caso riuscissi ad arrivare fin lì, perché siamo certe che comunque finisca questa guerra noi non riusciremo ad averne accesso dato che saranno sicuramente protette con la magia».
Allacciai Ren a cintura e rivolsi alla donna uno sguardo severo. «La mia prima missione è occuparmi del re. Potrei fare ciò che chiedete solo dopo che avrò finito con lui».
«Certamente».
«E non è finita qui». Sentii un sorriso aleggiarmi sulle labbra. «Voglio sapere per chi lavorate».
Stranamente, nessuna delle due parve sorpresa alla mia richiesta, anzi, sembravano aspettarsela. Athala aveva un'aria quasi soddisfatta e Augyra sembrava in procinto di sputare una bacca acerba, tuttavia acconsentì: «D'accordo, ma voglio che tu giuri nella tua lingua che non riferirai quanto detto ad altri».
«E come fai a fidarti del mio giuramento se non conosci la mia lingua?»
«Cosa ti fa credere che io non conosca la tua lingua?»
Alzai un sopracciglio. «La conosci?»
«In parte. In misura sufficiente per sapere quali sono le parole necessarie per un giuramento».
«Allora sappi che mi impegnerò a mantenere il tuo segreto, ma con un limite: mi prendo la libertà di rivelarlo se dovesse risultare necessario per il benessere di Alagaësia».
Occhi di Lupo annuì e io pronunciai il giuramento, vincolandolo nell'antica lingua.
«Conosci il
Domia adr Wyrda?» domandò la donna.
«Sì, lo lessi qualche decennio dopo la morte di Heslant il monaco».
«Allora sai che Heslant faceva parte di una setta religiosa di Kuasta, Arcaena. Bene, anche noi» disse controvoglia.
«Arcaena esiste?» indagai, scettica.
«Certo che sì e ha dato parecchi impulsi ai Varden, negli ultimi decenni!» fu la secca risposta.
Scossi la testa lentamente, incredula, mentre il mio cervello cominciava a mettere insieme diverse tessere del mosaico. «Jeod. Anche Jeod Gambelunghe è dei vostri, non è vero?»
«Jeod ormai non è più pienamente coinvolto nelle nostre attività, ma è un amico prezioso e un grande studioso. E noi valutiamo la conoscenza al di sopra di ogni altra cosa».
Certo. E gli impulsi di Arcaena ai Varden era sempre avvenuti tramite l'uomo: le informazioni per intrufolarsi ad Uru'baen e anche quelle per entrare a Dras-Leona. E lo avevo anche visto discutere con le due donne, due giorni prima..
«Se valutate la conoscenza al di sopra di tutto, perché voi girate armate e cercate di portare una razza all'estinzione?»
«Perché i Ra'zac sono pericolosi per gli esseri umani» disse Augyra semplicemente. «E perché si possono assumere diversi ruoli all'interno della setta. Non abbiamo propriamente un Dio, come i Sacerdoti dell'Helgrind, noi crediamo nella ragione e nello sviluppo dell'intelligenza dell'uomo e ci operiamo affinché la società non sprofondi nella decadenza». Rabbrividì. «Un giorno il mondo come lo conosciamo finirà nel fango e se qualcuno non si premurerà di conservare memoria della civiltà, gli uomini non risorgeranno più dalla melma. Anche per questo combattiamo i Ra'zac e Galbatorix: per rallentare l'inesorabile avvicinamento della decadenza».
Rimasi impassibile, ma il mio scetticismo stava aumentando ulteriormente. Certo la loro religione sembrava molto più logica di molte altre, tuttavia aveva un fondamento di follia, come tutte.
«E se un giorno decideste che gli elfi sono pericolosi per gli uomini?»
«Cercheremmo di eliminarvi» disse, tagliente. «Ma non accadrà fino a che non ci farete esplicitamente del male».
Non credevo che sarebbero mai riusciti a sconfiggere gli elfi, non finché avevamo la Du Weldenvarden dove poterci rifugiare.
«Quindi voi due siete una specie di corpo armato, come le Ombre. E gli altri cosa fanno, se non hanno un Dio a cui rivolgere preghiere?»
«Noi non abbiamo un corpo armato», mi contraddisse lei, «noi abbiamo delle spie, degli Occhi e delle Voci, ci chiamiamo così. Ciascuno di noi fa ciò che riesce al limite delle proprie capacità: alcuni passano giorni e giorni in polverose biblioteche; altri si mettono al servizio di un nobile o di un generale, lo spiano per decenni e scrivono regolarmente rapporti per la sede centrale; altri si ritirano nel reliquiario in meditazione; altri trascrivono i rapporti e ne fanno dei libri; altri cercano la conoscenza annidata nei posti più nascosti; altri si impegnano con le armi per preservare la civiltà».
Augyra aveva fatto un po' di tutto, allora: aveva cercato le biblioteche segrete dei Sacerdoti, li aveva spiati e ormai era una cacciatrice di Ra'zac.
«Ancora non capisco che ruolo abbia lei, oltre ad essere un fabbro» insinuai, additando Athala.
La giovane non si fece avanti, ma mi rispose: «Io faccio parte di Arcaena da pochi mesi e in modo indiretto, Ambasciatrice. Augyra e il suo amico mi hanno salvato la vita e io non avevo alcun posto dove andare, mentre me la cavavo bene con le armi. Così ho deciso di accompagnarla nella sua missione senza fare troppe domande e dopo pochi mesi sono stata ammessa». Si bloccò, notando l'espressione ammonitrice della sua compagna.
«Chi sei?» domandai, guardandola direttamente negli occhi.
Lei scosse la testa e mi parve spaventata. «Oggi non è il giorno giusto per rivelarti questo segreto».
Decisi di non insistere, almeno per gentilezza nei suoi confronti.
«Grazie per le vostre confessioni» dissi invece.
Occhi di Lupo assunse la solita espressione di animale feroce e braccato. «Se rivelerai queste informazioni ad altri metterai in pericolo anche le nostre vite: abbiamo concesso ad Angela l'erborista di accompagnarci nei sotterranei di Dras-Leona e abbiamo dato nuove informazioni a te perché tu agisca a Uru'baen. Secondo le nostre regole, non era permessa la collaborazione di terzi e se qualcuno venisse a sapere che qualcosa di assurdamente simile ad un Inarë e un'elfa sono stati coinvolti nei nostri affari, verremmo nel migliore dei casi espulse dalla setta, nel peggiore avvelenate nel sonno».
Inarë?
Mi morsi la lingua per non tempestare le donne di ulteriori domande e allungai una mano per afferrare Niernen. Ero pronta per l'assalto di Uru'baen.
«Vi ho dato la mia parola e ovviamente la manterrò».
«Grazie» disse Athala.
«Grazie» le fece eco l'altra.
«Devo andare e mi pare che anche voi dobbiate partecipare agli scontri, vista la vostra mise. Che le stelle vi proteggano!»
«Pensi di tornare?» si accertò Augyra.
Se pensavo di tornare? Il sole stava sorgendo, il sangue mi ruggiva nelle vene, i muscoli si flettevano svelti ai miei comandi, Niernen roteava pigramente tra le mie dita, avevo una figlia, avevo amato Durza, avevo avuto Glenwing e Fäolin, avevo una madre, avevo amici come Däthedr ed Eragon e Galbatorix avrebbe almeno tremato, quel giorno. Ero viva, e amavo troppo la vita per pensare di potermene già separare.
«Certo che sì!» ringhiai, con rinnovata energia.
Quella notte, con mia figlia tra le braccia, avevo creduto che non l'avrei rivista mai più, ma in quel momento, forse grazie alla luce del sole, mi sentivo più ottimista.
«Che la tua spada resti affilata», mormorò Augyra, «e anche la tua lancia, effettivamente».
«Così come le vostre» risposi.
Raggiunsi Blödhgarm e accettai l'ultimo saluto di mia madre, che mi corse incontro e mi baciò la fronte con tale leggerezza che quasi non me ne accorsi. Poi, senza dirmi una parola, si allontanò per mettersi in testa all'esercito elfico.

Tutti gli addii a cui mi ero dedicata quella mattina si rivelarono quasi totalmente inutili, dato che io sopravvissi indenne. La morte di Galbatorix, invece, fu rapida quanto la sua ascesa.
Alla fine l'uomo più potente di Alagaësia fu sconfitto da se stesso. Da quei demoni che albergano nel cuore di ogni essere che ha avuto la presunzione di stroncare una vita. E lui ne aveva stroncate tante.
Non realizzai immediatamente che il re nero era scomparso. Conficcai la Dauthdaert in profondità nell'occhio di Shruikan e restai a guardare attonita le macchie di sangue sfrigolante sui miei vestiti.
Poi tutto cominciò a crollare.
Realizzai che mi ero presa un impegno con Athala e Augyra e mi rivolsi a Murtagh. La mente del giovane sfiorò la mia e mi indicò tramite immagini il tragitto per la sala del tesoro, la fugace immagine di un grande scrigno e quella altrettanto fugace di quattro uova dal colorito malsano.
Corsi in quella direzione, evitando calcinacci e pietre, e riflettendo al contempo sulla solitudine e la sconfinata tristezza che avevo percepito nel breve contatto con il cavaliere che, in un modo o nell'altro, aveva permesso la sconfitta del suo aguzzino. Galbatorix doveva essere stato bravo a procurarsi alleati, ma non a mantenerli tali.
La sala a cui arrivai dopo aver abbattuto la porta a spallate era bassa, con il soffitto coperto da volte a crociera fortemente costolonate. Se fossi stata fortunata, se anche fosse crollato il palazzo, quella stanza avrebbe resistito.
L'intero ambiente era illuminato da poche torce, ma risplendeva di mille bagliori dorati. Non avevo mai visto così tante ricchezze ammassate tutte insieme.
Per prima cosa raggiunsi le uova di Ra'zac e le fracassai con quattro colpi ben assestati di spada, poi mi misi alla ricerca dello scrigno, mentre intorno a me si udivano rombi e forti tonfi e il terrore di morire sepolta tra le macerie prendeva piede nel mio cuore.
Trovai infine il prezioso contenitore e mi accertai del suo contenuto, poi lo presi sottobraccio e mi accinsi a cercare un'uscita. Peccato che la porta da dove ero venuta fosse ormai totalmente inaccessibile.
Trovai una scala di pietra umida che sembrava sparire nel ventre della terra e la imboccai, accendendo un globo luminoso per farmi strada. Camminai per diversi minuti prima di imbattermi in diversi respiri affannati. Cominciai a correre e non mi fermai fino a che non udii la voce quasi ringhiante di Blödhgarm gridare: «Arya!» Con un tale entusiasmo che dimenticò l'appellativo Dröttningu.
Mi accertai che tutti stessero bene e -mentre guadagnavamo faticosamente l'uscita tramite incantesimi per orientarci negli stretti corridoi, incantesimi per liberare passaggi dalle macerie e proteggerci dalla caduta di altre- ascoltai il loro racconto e loro ascoltarono il mio. Erano rimasti immobili, prigionieri dei loro stessi corpi, in una stanza sotterranea, fino a che la morte di Galbatorix non li aveva liberati dai vincoli magici. Poi si erano spostati a casaccio nella direzione dai cui ero venuta io e avevano recuperato tutti gli Eldunarí tenuti sotto il controllo di Galbatorix, che in quel momento fluttuavano davanti, dietro e intorno a noi.
Riemergemmo dopo un tempo che mi parve interminabile, sudati, ansimanti e coperti di polvere.
Eragon ci accolse con sterminato entusiasmo e, dopo aver visto il tesoro che tenevo tra le mani, raccontò a me e agli altri di avere trovato molte altre uova a Vroengard e che la rinascita dei draghi e dei loro cavalieri non era una possibilità così remota come si credeva.
Nel preciso istante in cui le parole di Eragon tacevano e le esclamazioni degli undici riempivano l'aria, vidi -dietro di Eragon- Murtagh e Nasuada. Erano molto vicini e i loro nasi quasi si toccavano. Il cavaliere stringeva delicatamente la punta delle mani di Nasuada e la fissava con una tenerezza e una vergogna che mi fecero sprofondare il cuore per la pietà.
«Tornerò, lo giuro» disse pianissimo.
Poi saltò in groppa a Castigo e spiccò il volo. Eragon lo seguì subito dopo e Nasuada reagì con orrore alla vista della consapevolezza che doveva brillare nei miei occhi.
Forse non ero un'esperta di questioni amorose, ma avevo riconosciuto l'espressione del volto di Murtagh: era la stessa che aveva avuto Durza prima che Eragon comparisse a Gil'ead, quando era costretto a farmi del male e l'idea di sfiorarmi anche solo un istante con le stesse mani con cui mi torturava lo nauseava.
E riconoscevo anche l'espressione sul volto della signora dei Varden perché rifletteva la frenesia e l'attenzione con cui avevo celato al mondo il segreto che condividevo pienamente solo con Durza. L'amore in qualche modo sbagliato che avevo provato per il mio carceriere.
Nasuada scostò lo sguardo e il momento di riflessione terminò.
All'improvviso realizzai che tutto era finito.
Blödhgarm -che dopo aver raccolto gli Eldunarí abbandonati da Murtagh si era immobilizzato in piedi accanto a me- sembrava stupefatto in ugual misura.
«Abbiamo vinto, Arya Dröttningu».
Galbatorix era sconfitto e io ero viva. Sarei tornata da mia figlia e non l'avrei lasciata mai più.
«Oh sì» soffiai, con la voce che vibrava di eccitazione. «Abbiamo vinto».
Gli altri elfi si ammassarono intorno a noi, gli occhi brillanti di gioia e stupore e i volti illuminati da sorrisi che brillavano più del sole.
«Abbiamo vinto!» gridò Yaela.
«Vittoria!» le facemmo eco gioiosamente, liberando una cascata di risate.
Mi unii al loro entusiasmo, ma colsi con la coda nell'occhio la figura di Nasuada, fragile e tremante al margine del mio campo visivo.
Mi avvicinai a lei e le presi una mano tra le mie. «Bentornata Nasuada. Sono immensamente felice di ritrovarti viva».
La donna rise nervosamente. «Non sono ancora sicura che sia davvero successo. Non è una visione, vero?» soffiò implorante. E i suoi occhi corsero al cielo vuoto, nella direzione in cui era volato Murtagh, in groppa al rosso Castigo. Sembrava aver dimenticato il nostro scambio di sguardi e si guardava intorno con la disperazione di chi sa che sta per svegliarsi nel bel mezzo di un sogno bellissimo.
Sentii di capirla ad un livello terribilmente profondo. Entrambe prigioniere di guerra, entrambe forti e insieme volubili, entrambe portate sul baratro tra vita e morte, salute e follia, entrambe innamorate del nostro aguzzino, entrambe costrette a vivere.. e morire lontano da lui.
Forse io e Nasuada saremmo guarite, prima o poi. Avremmo dimenticato gli orrori che ci eravamo lasciate alle spalle a ci saremmo costruite una nuova vita. Probabilmente lei sarebbe diventata regina del mondo degli uomini e io avrei continuato a essere l'ambasciatrice degli Elfi. Entrambe avremmo finito per accompagnarci ad un altro uomo, un aristocratico che ci desse potere, forse. Forse lei avrebbe avuto molti figli, io non ero per nulla certa di poter sopportare una seconda volto il terrore, il panico, la solitudine e la gioia che avevo provato nel mettere al mondo la mia. Ne sarei morta.
Questo pensavo, mettendo a confronto la mia vita e quella della figlia di Ajihad.
Ancora non sapevo fino a che punto le nostre esistenze fossero diventate simili.
La signora dei Varden iniziò a tremare e io mi permisi di stringerla delicatamente in un abbraccio. Era più bassa di me e sentii le sue lacrime colarmi sul petto mentre il suo corpo si scuoteva in pochi, profondi singhiozzi.
«Ti accompagno nella tua tenda, vuoi?» dissi morbidamente.
Lei annuì e recuperò il suo contegno con rapidità incredibile, anche se l'incertezza e il terrore rimanevano evidenti nei suoi occhi spalancati.
Dissi a Blödhgarm di occuparsi dei preziosi tesori che avevamo recuperato dal palazzo, presi Nasuada a braccetto e insieme ci incamminammo verso le mura esterne.
Non avevamo fatto più di un centinaio di iarde quando ci imbattemmo in Jörmundur e Däthedr.
L'uomo si illuminò di gioia e corse ad inginocchiarsi davanti alla sua signora, mentre Däthedr mi si fece vicino, con gli occhi arrossati dal pianto e un'espressione funerea in volto.
Disse poche parole, piano, quasi spaventato.
All'inizio decisi di non crederci, mi voltai dall'altra parte e mi tappai le orecchie in un gesto infantile che non mi s'addiceva.
Semplicemente non potevo accettarlo, era un dolore troppo forte da riuscire anche solo a
immaginarlo. Galbatorix era sconfitto, io non potevo passare la mia esistenza accanto all'unico uomo che avevo amato, ma non importava. Ormai andava tutto bene, le morti erano finite, nessuno doveva più morire. Saremo una famiglia, madre, ma adesso basta scherzi.
Ma la notizia mi fu ripetuta, più e più volte, con spietata crudeltà.
«Tua madre è caduta, Arya Dröttningu».
Mia madre è cosa? Avevamo detto basta agli scherzi e ai silenzi. Madre adesso ci dobbiamo volere bene, dobbiamo diventare una famiglia.
Qualcuno mi scosse delicatamente per le spalle.
NO, BASTA SCHERZI!
Non me ne resi conto, ma probabilmente urlai perché vidi i presenti scrutarmi con espressioni terribilmente preoccupate, già incupite in un'espressione contrita.
L
oro non sanno dello scherzo. Mi dissi scioccamente.
Nasuada fu la prima a riprendersi e mi tirò da parte, lontana dai due uomini. «Mi dispiace per il tuo lutto, so cosa si prova a perdere un genitore, hai tutto il mio appoggio e la mia comprensione» mormorò, la voce ancora incerta dal pianto.
Sarai un'ottima regina, Nasuada, la tua gente ti vorrà bene e tu la renderai felice e consolerai tutti per le loro perdite. Ma non me, ti prego, non di nuovo.
«Non mi importa» dissi invece, aspramente. «Lei non era mia madre. Mi ha odiata con tutta se stessa, mi ha considerata alla stregua di un oggetto atto ad abbellire la sua corona. In me vedeva solo la sua erede, un semplice strumento per proseguire la sua linea di sangue. Lei non ha mai sentito il minimo affetto per me. Mai. Nemmeno quando mi credeva morta. Era solo arrabbiata perché avevo fallito la mia missione e quando sono tornata a casa è stata quasi compiaciuta di rinfacciarmelo. Si è anche scusata con me, ma lo ha fatto solo per convenienza, per cercare di trattenermi a palazzo e proseguire con la mia educazione. L’unica aspettativa di me che ha avuto è stata vedermi sul trono di Ellesméra. Io non potrò mai perdonarla per ciò che mi ha fatto. Per colpa sua ho perso tutta la mia infanzia ed è un tempo che non tornerà mai più. Per questo.. per tutto questo io non sento dolore, non mi importa niente».
Avrei voluto vedere l’espressione di Nasuada, ma non potevo. I miei occhi erano appannati.
Mi tremarono le labbra. «Non è vero», gracchiai subito dopo, «non è vero niente». Le lacrime si riversarono sulle mie guance.
Mia madre è morta! Singhiozzai. Prima che ci fosse dato di volerci bene.. lei è morta! MORTA!
Mi coprii il volto con le mani e ispirai profondamente, cercando di dominarmi.
«I-io» balbettai.
Nasuada mi strinse una spalla, ma non disse nulla. Il gesto fece traballare ulteriormente le mie resistenze.
«Vado» riuscii a biascicare, e corsi via.
Corsi per le strade ricolme di sangue e morti, scudi spezzati e frecce ancora integre. Poi trovai una porta aperta e mi intrufolai all'interno, sbattendola alle mie spalle, lasciando la luce del sole dietro di me.
Caddi a terra con violenza, ferendomi le ginocchia.
Mia madre era entrata nel vuoto. La stessa madre che mi aveva sorriso, promettendomi comprensione e baciandomi la fronte con delicatezza, quasi con paura. La madre che era sempre stata poco più di un'estranea per me, che mi aveva lasciato intravedere un bagliore di comprensione, la possibilità di riaprire i rapporti ormai congelati.
Piansi amaramente le occasioni perdute, il tempo sprecato, i litigi frequenti e i pochi confronti. Cercai di rievocare un'immagine piacevole di Islanzadi, ma non potevo.
Perché il Fato, Dio, Destino, Caso o qualunque altra vigliaccata non mi avevano dato il tempo di crearmene una.
Maledetta. Dovevo essere maledetta. Le persone intorno a me morivano come fiori sradicati da una tempesta. Arrivavo a malapena a concedere parte del mio affetto a qualcuno che quello mi era subito strappato via. Era successo con tutti. TUTTI! Dovevo andare via per sempre o avrei ucciso altre persone innocenti, dovevo raggiungere mia madre e..
Mia figlia! Io avevo una figlia!
Appena raggiunta quella consapevolezza, il mio stomaco si ribellò a tutto ciò che avevo appena vissuto.
Rigettai in un angolo e il sapore acido mi pizzicò spiacevolmente la gola, lasciandomela secca e ruvida.
Menta.. Comprami anche delle foglie di menta, fresche mi raccomando!
Battei le palpebre e mi imposi di tornare alla realtà. Brutta, lurida, insopportabile realtà. In quel momento volevo essere chiunque tranne che me stessa, ma le persone che conoscevo non rappresentavano valide alternative di una vita migliore.
Tutte cose spezzate gli eroi di Alagaësia.
Digrignai i denti. Dovevo concentrarmi.
Mia figlia. Lei era viva, da qualche parte fuori da Uru'baen. Lei respirava e aveva i capelli di Durza.
Tornai a correre, evitando tutto e tutti, e non mi fermai fino a quando non raggiunsi la tenda di Alba.
L'elfa era sulla soglia, con le braccia incrociate sul petto e un'espressione lugubre. Doveva già sapere tutto, le voci arrivavano all'accampamento insieme ai feriti.
Non cercai nemmeno di asciugare le lacrime che mi imbrattavano il volto, scavando probabilmente una scia sulla mia pelle impolverata.
«Ti rimango solo io adesso» dissi, vibrando come una corda d'arco e percependo io stessa il tono ridicolmente pietoso della mia voce.
«I conti che avevo in sospeso con tua madre sono estinti, Arya Dröttningu» disse Alba passandomi accanto. «Mi dispiace per la tua perdita. La tua bambina è dove l'hai lasciata stamane».
E fece per andarsene.
«Ora non vuoi più uccidermi?!» gridai istericamente.
Volevo che ci provasse. Mi sentivo ricolma di orrore e disperazione e avevo assoluto bisogno di liberarmi di quelle orribili sensazioni. In quel momento mi sarei volentieri gettata in uno scontro all'ultimo sangue.
La bionda si voltò nella mia direzione e mi parve di leggere frustrazione nella sua espressione. «Io non ti avrei mai e poi mai uccisa, Principessina, probabilmente non sarei nemmeno riuscita ad uccidere tua madre. Io ho paura della morte, io odio vedere gli altri morire. Credi davvero che sarei mai stata capace di stroncare una vita? Io non c'ero cento anni fa, ad Ilirea. Ero troppo codarda per partecipare ad una battaglia, troppo debole per stare nel bel mezzo della mischia ed ignorare il dolore dei morenti, troppo ingenua per capire che Solus avrebbe potuto incontrare la morte in quello scontro!» Scoprì i denti in un'espressione feroce e mi puntò dolorosamente un indice al centro del torace. «Tu ora stai soffrendo e sei furiosa, ma non ti permetterò di usarmi per scaricare la tua rabbia. Non ti ucciderò né oggi né mai e se hai intenzione di aggredirmi e di pestarmi, allora sappi che mi lascerò ammazzare piuttosto che assecondarti».
Conclusa la sua sfuriata, ritrasse il dito -che mi aveva scavato un solco tra le costole- e batté rapidamente le palpebre per asciugare gli occhi umidi.
Dal canto mio, sentii la mia ira sgonfiarsi, subito soppiantata dalla sofferenza.
Ero una sciocca. Una sciocca patetica.
E non ero nemmeno andata a rendere omaggio al corpo di mia madre, accecata com'ero dall'enormità di ciò che era successo.
Un dolore martellante alle tempie mi fece barcollare. Alba mi afferrò prontamente un braccio e mi guardò con occhi duri come lapislazzuli, gli occhi limpidi di un guerriero.
«Va' da tua figlia e tienila tra le braccia. Tu non sei sola, tu hai qualcuno che ti aiuterà a superare anche questa perdita, hai qualcuno per cui vivere il futuro senza doverti necessariamente aggrappare al passato. Sotto questo punto di vista, sei stata più fortunata te di me».
«Alba io..»
«Odio le smancerie, quindi puoi evitare!» sbottò. Mi spinse leggermente in direzione della tenda. «Vai».
Rischiavo di emulare il terribile crollo emotivo che avevo subito quando ero arrivata ad Ellesméra, dopo la battaglia del Farthen Dur, e non era quello il momento. C'erano ancora mille cose da fare, anche se Galbatorix era morto.
Per l'ennesima volta, mi dissi che il momento per strapparsi i capelli e graffiarsi il volto sarebbe venuto poi.
Entrai nella tenda di Alba e il respiro della mia piccola mi riempì le orecchie. La strinsi fortissimo, fino a farla piangere. Poi le chiesi stupidamente perdono, tempestai la sua testolina di baci e le mormorai parole dolci per placarla, mentre nuove lacrime si scavavano una loro via sul mio volto.
Quando infine riuscii a calmare il battito furioso del mio cuore, mi sentivo a pezzi, esausta e al limite della sopportazione. Lasciai che la manina della mia piccola si stringesse con forza inaspettata intorno al mio indice e trassi conforto da quel semplice e rassicurante gesto.
Non doveva essere passata neanche un'ora quando tornai a rivolgere la parola ad Alba, che era seduta a terra al centro della sua tenda, a poche iarde da me, con lo sguardo perso nel nulla.
«Puoi tenerla per qualche altra ora?»
«Vai pure».
Cercai la mente di Blödhgarm, ma non la trovai. Intercettai Däthedr, invece.
«Däthedr ti chiedo perdono per il mio comportamento».
«Non devi chiedermi perdono, Arya Dröttningu».

Mi passò per la mente il pensiero che il titolo Dröttningu non mi era più dovuto, ormai. Cercai di tenere per me quella considerazione, ma dovette filtrare anche nella mente dell'elfo.
«Il corpo di Islanzadi Dröttning è stato portato nella sua tenda, insieme all'uovo verde, se desideri renderle omaggio». Sentii il suo cordoglio penetrare insieme alle sua parole.
«Ti trovo lì?»
«No, sono nella mia tenda. Tra poco avrà inizio un consiglio con i comandanti del nostro esercito. Sei la benvenuta, se ti senti di venire».

Andai al consiglio. I capi dell'esercito stavano discutendo dei futuri movimenti degli elfi e anche della posizione da assumere riguardo al futuro sovrano degli uomini. Sicuramente avevano il diritto di sceglierlo da sé, ma gli elfi dovevano almeno dire la loro.
Stabilirono che l'avanguardia dell'esercito si sarebbe messa in marcia già dal mattino seguente. Le nostre armate marciavano in maniera scomposta per non inaridire il terreno, quindi un ritorno in gruppo nella Du Weldenvarden era da evitare.
Rimasi in silenzio per buona parte del tempo e mi feci avanti solo quando chiesero il mio parere sull'integrità morale e fisica di Nasuada, assicurando loro che era la sola candidata che avrei mai potuto proporre come futura regnante.
Tutti mi trattarono con rispetto e delicatezza, ricordandomi in continuazione ciò che era accaduto a mia madre. La sua stessa assenza sembrava palpabile in quella tenda.
Quando la riunione era ormai terminata, Eragon si mise in contatto con me per informarmi degli ultimi sviluppi e mi trasmise un dolce pensiero di cordoglio.
Non riuscii a ringraziarlo.
Prima di presentarmi alla seconda e ultima riunione della giornata, restai per lunghe ore al capezzale di mia madre.
Era stata distesa nella sua tenda e ripulita dalle fatiche della battaglia. Aveva indosso un vestito rosso, come bacche di agrifoglio, e le sarebbe stato d'incanto addosso, se solo le sue labbra non fossero diventate così pallide. Le ciglia serrate ombreggiavano gli zigomi alti e i capelli erano sciolti sotto di lei, lisci e neri come un mantello di seta.
Era bella come lo era stata fino a poche ore prima, ma non respirava, il suo viso non aveva colorito e il suo cuore non batteva. Era un guscio vuoto, privato di energia e della coscienza che aveva fatto di lei ciò che era.
Sfiora la fronte di Islanzadi. Era fresca, ma non ancora gelida. Poteva sembrare addormentata.
Däthedr mi raggiunse e, dietro mia richiesta, mi raccontò di come fosse avvenuta la dipartita di mia madre.
Fui invasa da una furia selvaggia quando venni a sapere che era dovuta a Lord Barst, lo stesso deplorevole individuo che era venuto nella mia cella a Gil'ead, mesi e mesi prima.
Era morto, e forse era meglio così. Perché se mi fossi nuovamente imbattuta nella sua faccia, squadrata come quella di un urgali, non avrei resistito alla tentazione di ucciderlo, con molta lentezza e poca pietà.
No. Dovevo smettere di lasciare che simili pensieri mi prendessero. Se avessi continuato su quella via, il desiderio di vendetta avrebbe ucciso ogni briciola della mia umanità, com'era successo con Durza e con Alba, prima che entrambi rinunciassero -per un motivo o l'altro- alle loro pretese.

L'elezione di Nasuada avvenne all'unanime, ma Orrin tirò fuori gli artigli, mostrando infine un certo desiderio di occupare il trono appartenuto a Galbatorix. Nasuada riuscì a moderare le sue richieste e a spuntarla, ma non mi sarei stupita se il re del Surda avesse avanzato nuove pretese, in futuro. Forse avrebbe proposto a Nasuada di sposarlo, come contratto politico, ma la donna avrebbe certamente rifiutato, sapendo bene che la presenza di un marito avrebbe ridotto drasticamente il suo potere. Forse un'unione tra i loro rispettivi figli avrebbe finito per riunificare i due regni, e forse sarebbe stata una saggia soluzione per evitare futuri scontri armati.
Quando finalmente mi trascinai fuori dalla torre ero esausta e non vedevo l'ora di coricarmi. E i miei compagni sembravano condividere il mio stesso desiderio perché ci congedammo rapidamente, con pochi saluti e auguri di una felice notte.
Tuttavia il mio riposo doveva attendere ancora qualche tempo, come capii non appena vidi Athala, in piedi davanti alla torre, con le due spade ancora alla cintura, gli abiti sporchi di sangue e uno stretto bendaggio sulla fronte. La giovane si dondolava ancora sulla punta dei piedi e mi rivolse un esitante cenno di saluto.
«Vuoi che ti accompagni alla tenda, Arya?» chiese Däthedr premurosamente.
«No, ti ringrazio. Prima di coricarmi vorrei parlare con un'amica e riferire alla Venerabile la decisione della nomina di Nasuada. Suppongo che ci vedremo domattina».
L'elfo annuì. «Pensavo di portare ad Ellesméra il corpo di Islanzadi dopo la nomina di Nasuada, se sei d'accordo».
«Sei tu il reggente», gli ricordai senza malizia, «ogni tua decisione è legge».
«Devi decidere tu, si tratta di tua madre».
«Sono pienamente d'accordo con te, purché si attenda il mio ritorno per la cerimonia di addio. Credo che io rimarrò qui per qualche altro giorno, per accordare le ultime cose con Nasuada in qualità di ambasciatrice».
«Certamente».
«Allora bella notte, Däthedr».
«Bella notte, Arya».
Mi avvicinai ad Athala, che alzò infine gli occhi nei miei, ma non resse lo sguardo per più di qualche istante.
«Hai combattuto bene?» le chiesi piano.
Fece un cenno di assenso. «La ferita è una sciocchezza» si affrettò a spiegare, non appena vide i miei occhi fissi sulla sua fronte.
«Vuoi che te la guarisca?»
«No, ambasciatrice».
«Dov'è Augyra?» chiesi, ricordando di avere incrociato la donna mentre mi avvicinavo alla torre in vista della riunione. Mi aveva rivolto un gesto interrogativo e io avevo risposto con un cenno di assenso, chiarendo di avere eseguito ciò che mi avevano chiesto.
«Lei non sa che sono qui» disse Cantalama in tono supplichevole. «E spero che mai lo saprà, non approverebbe».
«Allora cosa posso fare per te?» chiesi, sentendo nuovamente un dolore sordo martellarmi le tempie.
Non dormivo da tre notti e in quel breve lasso di tempo era successo di tutto e di più.
«Chi è stato nominato sovrano di queste terre?» domandò tutto d'un fiato, come se avesse messo tutto il suo coraggio in quella domanda.
«Nasuada» dissi, laconica.
Athala parve compiaciuta. «Era l'unica a meritare quel titolo, sarà una buona regina». Mi parve che la giovane fosse sul punto di aggiungere altro, ma si morse le labbra e tacque.
«Come mai questo interesse per il nuovo sovrano?»
«Perché sarò un suo suddito, dato che..» Si morse nuovamente le labbra. «Puoi mantenere un segreto?»
«Mi sono già impegnata a non parlare di Arcaena, direi che ormai sono uno scrigno di segreti».
La mia asprezza non le piacque e si ritirò in se stessa come una chiocciola spaventata.
Sospirai. «Perdonami, sono solo molto stanca. Puoi dirmi qualunque cosa e io la porterò con me nel vuoto». Anche se non capivo perché dovesse confidare qualcosa a me.
«Non voglio che lo porti con te nel.. vuoto» replicò con inaspettata energia. «Voglio che tu ne parli a qualcuno, non appena io non ci sarò più, voglio che tutti sappiano chi sono quando ormai non potranno più nuocermi. Così almeno la mia famiglia non cadrà totalmente nell'oblio».
«E perché io?»
«Perché tu vivrai per molti secoli e hai l'autorità per essere creduta».
Annuii. «Sta bene. Mi impegno a mantenere il segreto fino alla tua morte, a meno che non si riveli dannoso per il benessere delle razze di Alagaësia». Non giurai nell'antica lingua, ma la giovane sembrava soddisfatta.
La sentii inspirare profondamente, prima di parlare: «Io sono l'ultima erede dei Broddring».
Diamine! «Davvero?»
«Davvero. La mia bisnonna aveva il mio stesso nome, Athala, ed era la sorella minore del re Angrenost, colui che Galbatorix ha deposto. Il tiranno non poteva permettersi che la mia stirpe sopravvivesse, nessuno poteva minacciare il suo potere, ma lasciare dei Broddring in vita era comunque un rischio che non valeva la pena di correre, così ci diede la caccia e ci sterminò. Athala però si trovava a Teirm, a quel tempo, ed era in procinto di combinare un matrimonio con un nobile della città. Le dame che la accompagnavano furono abbastanza pronte da sostituire la principessa con un'altra bambina di dieci anni e due di loro fuggirono con lei dalla città, fino a Kuasta. Lì vissero in segreto fino a che la natura non fece il loro corso e morirono, ma la principessa era ormai diventata un'adulta e, ormai sull'orlo della vecchiaia, decise di accettare la proposta di un povero pescatore. Non lo amava, ma aveva avuto notizia della morte dei suoi parenti e aveva intenzione di proseguire la stirpe. Mise al mondo un solo figlio, Dietfried, e morì un pugno di anni dopo, non prima di averlo segretamente educato sulle sue origini. Dietfried imparò il mestiere di fabbro e sposò a sua volta una popolana, una lavandaia, ed ebbe da lei tre figli: Ehren, Kerta e Ragnol. Il maggiore morì molto giovane, Kerta, la secondogenita, morì dando alla luce suo figlio, mentre Ragnol sopravvisse. Sulle sue spalle cadeva l'oneroso compito di portare avanti la linea di sangue dei Broddring, ma il peso del compito lo rese paranoico e, temendo di essere stato scoperto, si rifugiò a Dras-Leona. Qui si unì ad una donna chiamata Volga, mia madre, e la sposò. Da quell'unione nacqui io e fino ai quindici anni di età vissi con i miei genitori, imparando da mio padre il mestiere di fabbro. Poi Ragnol morì di febbri durante il duro inverno che corse quell'anno e Volga, dopo tre anni di vedovanza, sposò un altro uomo, il mio patrigno. L'uomo che tu immagino abbia visto a Dras-Leona». Il tono della sua voce si fece duro. «Lui era un pazzo ubriacone e non appena mia madre si lasciò sfuggire qualche parola di troppo sul conto mio e di mio padre si spaventò a morte.. Lui la ammazzò di botte».
Per parecchi minuti non trovai le parole per esprimermi su quella frettolosa storia. «Il tuo racconto è incredibile», mi decisi infine, «e anche terribile».
Athala fece un sorriso. Era bella, quando sorrideva, il suo viso si illuminava tutto. «Devo sembrarti una pazza».
«No, non credo che nulla potrebbe più sembrarmi folle». Non dopo aver perso tutte le persone che amavo per colpa di un folle, non quando l'unica famiglia che mi era rimasta era la figlia di uno spettro che avevo amato profondamente.
«Non posso darti la certezza assoluto che ciò che ti dico sia vero, ma credo che se si cercasse nelle genealogie si troverebbe Athala, sorella minore di re Angrenost. Io porto il suo stesso nome, che dovrebbe significare “di stirpe nobile”, o qualcosa del genere» quasi si scusò.
Ricordai il giorno in cui la giovane mi aveva detto di non potermi confessare la sua vera identità. Quel giorno avevo pensato che io l'avevo nascosta tra i Varden per non mettermi in pericolo, e incredibilmente lei aveva fatto lo stesso.
«Posso verificare, se vuoi, ma non ci sarebbe nessun motivo, da parte dei tuoi antenati, di inventarsi una simile storia. E per cosa poi? Per rischiare di essere perseguitati e uccisi da Galbatorix? No, non credo. Per quanto incredibile, il tuo racconto mi sembra reale» la rassicurai. «Tuttavia mi chiedo il perché della tua scelta. Sono certa che Nasuada ti accoglierebbe nella sua corte se le rivelassi la tua identità, non cercherebbe certo di ucciderti se non avanzerai pretese al trono -e neanche in quel caso, credo- e potresti vivere una vita agiata dopo tutte le fatiche che hai attraversato».
Athala sorrise di nuovo. Il sorriso sereno di chi sa di aver trovato il suo posto nella vita. «Questo inverno raggiungerò i venti anni. Quindici di questi li ho passati sotto le pressioni di un padre che riusciva solo a pensare alla stirpe, al sangue, al diritto al trono e al regno. Altri tre sono trascorsi sotto la tristezza di mia madre, prima e sotto le botte del mio patrigno, poi. Alla fine è arrivata Augyra, e lei mi ha strappato da quella vita che mi stava soffocando. Non voglio il regno, non voglio la corte e non voglio il mio titolo. Forse sarebbe il mio posto, per diritto di sangue, ma io non sono come i miei antenati, io sono una persona nuova, io ho dei sentimenti e dei pensieri che vanno al di là delle voci dei morti. Se diventassi regina non ne sarei mai capace e ne odierei ogni istante. Non ho l'attitudine al comando, non mi so muovere nella politica, non sono abile nelle sottigliezze di linguaggio e di pensiero». Si fermò e guardò le prime stelle che sorgevano in cielo. «Augyra proseguirà la sua caccia ai Ra'zac. Dobbiamo perlustrare ancora Gil'ead e Ceuron e allora forse avremo finito. Questa vita non è forse quella che la mia bisnonna aveva prospettato per i Broddring, ma a me piace, mi fa sentire viva e parte di qualcosa più grande. Arcaena non risolverà i problemi dell'umanità, ma ci prova, muovendosi a piccoli passi, e io sono fiera di farne parte».
La capii perfettamente. I suoi pensieri erano i miei. Stava traducendo in parole tutto quello che avevo provato quando avevo deciso di diventare ambasciatrice degli elfi.
Sollevai un braccio e le strinsi il polso quando lei serrò il mio. «Capisco il tuo punto di vista e lo rispetto. Sei una donna di grande valore, Athala, nonostante tu ti nasconda dietro una maschera di timidezza».
Arrossì. «Sei troppo gentile».
«Quindi Augyra ti ha salvata dal tuo patrigno?»
«Circa.. diciamo che lui aveva parlato alle persone sbagliate delle mie origini e aveva attirato l'attenzione di alcuni soldati. Augyra mi aveva consigliato di andarmene prima che il dubbio si consolidasse e così ho fatto, la sera in cui sono andata a scioglierla dall'altare sotto il monte nero». Ridacchiò. «In quel caso si è rivelato utile essere un fabbro».
Sentii un sorriso affiorarmi alle labbra, insieme ad una strana tenerezza per quella ragazza così giovane, così provata dalla vita eppure così positiva.
«Terrò fede alla mia promessa» rinnovai. «Ovunque tu vada, ti auguro buona fortuna».
«Ti ringrazio infinitamente» disse, con un nuovo sorriso. «Addio! E che la buona sorte assista anche te, ambasciatrice».
Lasciò la mia mano e fece qualche passo. Poi si fermò, come se avesse ricordato qualcosa all'improvviso, e parlò: «So che avete perso la vostra regina. Mi dispiace».
La gola mi si serrò. «Già, è una grave perdita per noi elfi, ma la supereremo».
Lei non sapeva che Islanzadi era mia madre o le sue condoglianze sarebbero state probabilmente più sentite, ma in un certo senso preferivo così. Sarei stata circondata da espressioni contrite per parecchi mesi a seguire e non ero certa di volerle sopportare.
Poi mi sovvenne una nuova rivelazione: ero viva.
Fäolin, Glenwing, Durza, Ajihad, Oromis, Glaedr, Wyrden, Galbatorix e mia madre erano morti. Ma io no. E nemmeno la mia piccola, la creaturina di pochi giorni che univa in sé il sangue di un'elfa e di uno spettro, che chiunque avrebbe temuto e disprezzato, se si fosse conosciuta la sua identità.
La guerra era finita e io potevo tornare a casa. Non con l'amarezza che mi aveva accompagnata dopo la battaglia del Farthen Dur, ma con la malinconia delle perdite che avevo subito e la lieve gioia di un futuro.
Casa. Persino quella parola sembrava dolce-amara.
Casa non è il posto dove viviamo, dove siamo nati noi o i nostri antenati, dove sono seppelliti i nostri morti, o dove troviamo successo e ricchezze. Casa è il luogo dove sono le persone per cui varrebbe la pena di vivere. E morire.
E io sarei stata a casa con mia figlia, come lo ero stata con Durza. Lei era lui, me, noi. Era la prova che si può risorgere dalle ceneri e sperare sempre in qualcosa, anche quando tutto sembra scivolare tra le dita. Era la mia famiglia, la mia piccola famiglia.
Forse guardandola crescere avrei recuperato la mia serenità.
Con questi pensieri rassicuranti, mi diressi verso la tenda di Alba e le chiesi ospitalità per la notte. Ma a dispetto di ciò che avevo appena constatato, i morti non mi abbandonarono nemmeno per concedermi un sonno sereno.
La mia notte fu funestata dagli incubi e addolcita dal pianto della mia bambina.

Non vidi più né Cantalama né Occhi di Lupo. Non sapevo se fossero alloggiate da qualche parte in città o se fossero già partite in direzione di Gil'ead, ma mi sembrava che con la loro scomparsa si fosse chiusa una grande fase della mia vita.
Tre giorni dopo la sconfitta di Galbatorix, Nasuada fu ufficialmente incoronata regina di.. dell'Impero? Più che un impero era ormai un regno, dato che una buona fetta era passata ad Orrin e la figlia di Ajihad non era intenzionata ad usare nessuna terminologia che rimandasse al secolo buio di Galbatorix.
Nasuada mi parlò della sua intenzione di sottomettere i maghi dell'intero regno. Capivo il suo timore e la sua incertezza al riguardo, ma ero altrettanto certa che non sarebbe mai riuscita ad applicare un controllo effettivo su tutti coloro che praticavano la magia.
Il giorno dopo la sua incoronazione, Däthedr condusse nuovamente gli elfi nella Du Weldenvarden. Portavano con sé i corpi di molti morti, compreso quello di mia madre.
            Il giorno seguente partirono anche Eragon e Saphira, ma io non ero certamente sola, dato che passavo buona parte della mia giornata con la mia bambina tra le braccia, affidandola ad Alba quando qualcosa di impellente richiedeva la mia presenza.
L'elfa era alloggiata con me in una stanza di un'ex caserma e continuava a lamentarsi dei continui piagnistei notturni di mia figlia, ma se fossi riuscita a farle un Fairth mentre guardava la bambina, avrei potuto ricattarla a vita. Non andavamo propriamente d'accordo e ci scambiavamo sì e no una decina di parole al giorno, ma qualcosa era cambiato dal momento in cui mi aveva praticamente consolata per la perdita di mia madre e aveva confessato di non volermi affatto uccidere.
            Non avevo intenzione di trattenermi più del necessario ad Ilirea, ma prima volevo assicurarmi che Blödhgarm e gli altri elfi fossero in grado di gestire gli Eldunarí che erano stati costretti a servire Galbatorix, poi volevo accordarmi con Nasuada circa il destino dell'ultimo uovo di drago, quello verde.
Il giorno che mi presentai al suo cospetto, nel ricco palazzo che aveva assunto come momentanea residenza, mi trovai di fronte ad una donna forte che celava negli occhi un'ombra scura di sofferenza sopita. Chissà se anche lei si svegliava in piena notte, zuppa di sudore gelido, con la sensazione dei ferri roventi sulla pelle. Avevo avuto quel genere di incubi, quando Durza mi torturava.
La figlia di Ajihad mi concesse senza storie di portare con me l'uovo, assicurandomi che gli elfi sarebbero stati ripagati per il loro aiuto non appena i tesori sepolti sotto il palazzo di Galbatorix fossero stati portati alla luce.
«Il vostro reggente aveva una gran fretta di andarsene» mi disse, un po' incerta.
«Lord Däthedr non aveva intenzione di offenderti» le assicurai. «Il mio popolo ha solo fretta di allontanarsi dal sangue e dalla sofferenza. Se devi trattare qualcosa con noi puoi rivolgerti a me, sono ancora l'ambasciatrice».
La regina parve rasserenarsi. «Mi avete già dimostrato la vostra amicizia quando mi avete sostenuta nella mia candidatura alla corona, e per ora non chiedo altro che essa sia forte e duratura».
«Lo sarà».
«Lasciateci» mormorò, rivolgendosi ai Falchineri in piedi intorno e dietro al suo modesto trono.
Loro eseguirono e Nasuada si alzò per venirmi incontro. Era ancora ben visibile la sua magrezza eccessiva, diretta conseguenza dei giorni di prigionia sotto le grinfie di Galbatorix. Le ferite erano state curate e le cicatrici cancellate da Trianna in persona, anche se mi aveva detto che la donna aveva voluto a tutti i costi mantenere quelle della prova dei lunghi coltelli.
«Come ti senti?» le chiesi automaticamente, prima di potermi fermare. Era ovvio che non stava ancora bene e che avrebbe impiegato mesi per tornare in piena forma, com'era ovvio che, per orgoglio, mi avrebbe detto che tutto andava alla perfezione.
«Vorrei che tu mantenessi per te ciò che hai sentito fuori dal palazzo di Galbatorix» disse invece. «Ciò che è accaduto tra me e Murtagh è qualcosa di strettamente personale e sarebbe meglio che non si sapesse in giro. Murtagh è malvisto da molti uomini e io non posso e non voglio mettere in pericolo la mia posizione».
«Puoi fidarti di me».
Forse si aspettava un rimprovero, o almeno delle domande, perché parve sorpresa alla mia pronta risposta.
«I cavalieri sono immortali, non è vero?» chiese infine, retoricamente.
«Sì» le dissi comunque.
Le tremò il mento. «Non tornerà mai più, non è vero?»
Esitai. «Ha subito violenze inimmaginabili. Più di quante ne abbia dovute subire Eragon o io o te. E inoltre la gente è lenta a dimenticare. Non posso dirti se Murtagh manterrà la sua promessa, Nasuada, ma temo che non lo vedrai tornare prima di un decennio».
«Non sono una debole», si affrettò a giustificarsi, «non lascerò che una sciocchezza come l'amore annebbi il mio giudizio e metta a rischio ciò che ho conquistato. Credo di poter essere una buona regina e so che per esercitare questo mio ruolo non potrei mai e poi mai sperare in un'unione con Murtagh».
«Non ufficiale, almeno».
Nasuada mi parve un poco scandalizzata dal mio commento, ma poi lo sconvolgimento lasciò spazio a nuovo dolore. «Io non mi sposerò mai, Arya. Mai. Forse mi priverò delle gioie che ogni donna anela, ma non voglio essere come tutte le altre. Ci sono avventure molto più grandi di quella di sposarsi e avere figli e io sarò sempre e prima di tutto una regina».
«Questa è una scelta che ti fa onore, ma fossi in te non sarei così precipitosa. Sei ancora molto giovane».
I suoi occhi scurissimi si socchiusero. «A volte ti invidio. Te e ogni altro elfo. Voi avete davanti l'eternità, a me sembra di avere così poco tempo a disposizione per realizzare tutto ciò che ho in mente. Io posso vivere una vita sola, con un'unica direzione, mentre voi avete anni e anni per potervi reinventare un'infinità di volte».
«Chi vive di più ha più tempo per soffrire» osservai.
«E più tempo per dimenticare».
Le regalai un cenno ammirato. «Hai ragione, ma sono sicura che riuscirai a fare grandi cose nei pochi anni che ti restano da vivere».
«E tu? Cosa farai una volta tornata ad Ellesméra?»
«Vorrei continuare a fare da tramite tra i due popoli, ma non è escluso che io mi prenda qualche anno di riposo. Sono settant'anni che corro incessantemente da un angolo all'altro di Alagaësia e credo di volermi fermare, per un decennio o due».
Così da crescere mia figlia adeguatamente, magari.
Aggrottò la fronte. «Mi piacerebbe che tu mi confidassi ciò che mi nascondi da mesi, prima o poi».
«Forse un giorno lo farò».
«Allora spero che il nostro prossimo incontro avvenga molto presto. Parti pure quando vuoi. E porta alla tua gente i miei ringraziamenti e i miei omaggi».
«Sarà fatto».
«Che le stelle ti proteggano, Arya» disse, ricordandomi all'improvviso che ero stata proprio io ad insegnarle le formule di saluto del mio popolo.
«Lo stesso per te».
            Riferii a Blödhgarm la mia intenzione di dirigermi a mia volta verso la Du Weldenvarden, poi andai alla ricerca di Angela, per salutarla. L'incontro finì per durare almeno un'ora, perché la Venerabile insistette affinché le raccontassi le mie disavventure tra i Sacerdoti.
Lo feci, ma mi concentra molto sugli aspetti della dottrina che avevo imparato da Gagnsamr e poco sulle persone che avevo conosciuto. Cercai di parlare il meno possibile di Durza e non accennai proprio ad Athala ed Augyra. Fui sul punto di chiederle se fosse un Inarë e nel caso di una risposta affermativa, cosa fosse. Ma poi mi dissi che avrei solo rischiato di mettere in pericolo Augyra e Arcaena, anche se l'erborista sembrava conoscere bene la setta, dato che aveva detto di conoscere il suo più eminente scrittore -che doveva essere Eslant. Mi fidavo del giudizio di Angela, ma temevo anche la sua ira, quindi mi cucii la bocca.
«Buon viaggio Arya! Fai la brava e non invischiarti in cose che preferiresti non fare».
«D'accordo» replicai, incerta. «Buona permanenza ad Ilirea».
«Le hai dato un nome, alla fine?» domandò scuotendo la selva di ricci.
«Non ancora, ma un giorno te la presenterò come si deve» promisi.
«Perfetto! A presto allora! Ah e salutami Alba, era molto allegra quando è venuta a trovarmi, ieri sera».
            Tornai alla stanza che mi era stata assegnata, nella vecchia caserma dei soldati imperiali.
«Sei pronta a partire, principessina?» fece Alba, con il suo solito tono annoiato.
Non so chi dei due avesse trasmesso l'abitudine all'altro, ma era un modo di parlare che aveva in comune con Durza.
«Partirò domattina. Ho chiesto a Däthedr di lasciarmi due cavalli elfici nelle scuderie» dissi, poi rimasi in silenzio, aspettando che l'elfa assimilasse l'informazione.
«Due» ripeté dopo un po'. «Ma la tua bambina non sa ancora andare a cavallo, che io sappia».
«Mia madre è morta e con lei il tuo esilio. So che hai covato rancore nei confronti degli elfi per decenni, ma in realtà nessuno di loro -a parte il Consiglio- è al corrente di ciò che hai tentato di fare. So che i membri del Consiglio avrebbero preferito una soluzione meno estrema per te e sono sicura che se tornassi non ti scaccerebbero, non dopo tutte le perdite che abbiamo subito in questa guerra».
Pensavo ad una simile soluzione dal giorno seguente alla sconfitta di Galbatorix. Oramai mi sentivo in debito profondo con Alba e anche ancora un poco in colpa per il trattamento che la mia defunta madre le aveva riservato. Ogni suo passato tentativo di farmi del male era dimenticato.
Tuttavia Alba non sembrava entusiasta dell'idea. «Mi stai parlando di “se” e “forse”. Non voglio rischiare assolutamente che si replichi ciò che mi è già accaduto in passato, quindi capirai che non posso accettare la tua proposta, non finché non avrò la certezza che non mi sarà fatto alcun male». Mi guardò di sbieco. «Io e te non siamo amiche, lo sai, vero?»
Accennai un mezzo sorriso. «Lo so bene di non piacerti. Ma da ciò che mi hai detto mi pare di capire che non ti disgusti l'idea di tornare ad Ellesméra».
«No» confessò, pettinandosi i capelli biondi tra le dita e cominciando ad acconciarli sulla testa. «Ma prima di tutto voglio tornare a far visita a Tenga, poi se mi dirai che posso tornare in tutta sicurezza, potrei anche pensare di raggiungerti ad Ellesméra». Alzò gli occhi su di me. «Immagino che diventerai regina».
«Alba io non diventerò regina, non voglio» spiegai, al limite della pazienza. Perché tutti sembravano tanto ansiosi di darmi il titolo che era appartenuto ad entrambi i miei genitori?
Si strinse nelle spalle. «Come vuoi tu. Pensi di riuscire a metterti in contatto con me?»
«Parlerò con Däthedr e gli chiederò di sottoporre la tua questione al Consiglio. Quando avranno emesso il loro verdetto ti manderò un messaggio con una barchetta d'erba».
«Ma davvero?» mi sfotté con una smorfia.
«Sono molto brava» mi difesi scherzosamente.
«Non ne dubito. Come farai con la bambina?» chiese annuendo nella direzione della piccola.
«Non la nasconderò, ma credo che continuerò a mentire. Dirò che mi occupo di lei, ma che non sono sua madre. Il racconto delle sue origini sarebbe troppo complicato e potrebbe costarle il futuro».
Alba legò l'estremità della treccia con un legaccio. «Sarà dura mentire dovendo parlare nell'antica lingua».
«Me la caverò».
«Il secondo cavallo elfico.. Posso usarlo?» I suoi occhi scintillarono. «Non ne cavalco uno da decenni».
Le feci cenno di accomodarsi. «È rimasto qui solo per te. Lo riporterai nella sua patria quando verrai ad Ellesméra».
«Allora sbrigati a mandarmi la tua fantomatica barchetta, Principessina». Rise.
Mi chinai su mia figlia e la strinsi a me. «Buon viaggio!»
«Aspetta, ho un regalo per te» mi bloccò, rovistando sotto al pagliericcio. Mi porse uno strano insieme di stecche di legno e pelle, poi lo aprì e capii finalmente di cosa si trattasse.
«Uno zaino per la bambina?»
«Così la porterai più comodamente. Gli umani sono geniali in queste cose».
«Grazie».
«Non voglio più nemmeno questa» bofonchiò sfilandosi la collana di Durza.
La riaccolsi con gioia e indossai addirittura l'anello di ametiste, che da mesi non mi cingeva più l'indice sinistro. «È bello riaverla».
«E trova un nome a quella marmocchia o lo farò io al posto tuo!»

Partii il mattino seguente, quando il sole non era ancora sorto e Aiedail brillava nel cielo. Avevo lasciato a Nasuada una lettera da consegnare ad Eragon e poi avevo deposto l'uovo verde in una bisaccia di pelle che mi ero messa a tracolla. Come facevo un tempo con quello di Saphira.
Speravo che il Cavaliere non considerasse presuntuosa la scelta di prendere con me l'uovo, ma ritenevo che il mio popolo avesse diritto al primo tentativo.
Usai lo zaino di Alba per trasportare la mia bimba e mi premurai di avvolgerla bene in coperte imbottite. L'inverno era alle porte e il freddo cominciava a calare. Entro un mese le prime nevi avrebbero coperto le regioni settentrionali di Alagaësia.
A quasi un anno dalla mia cattura da parte di Durza, la mia vita era totalmente rivoluzionata, ma ancora non era finita.
Era il tramonto del dodicesimo giorno di viaggio quando, dopo essermi occupata di mia figlia, misi sulle ginocchia l'uovo verde -come facevo ogni giorno- e lo sfiorai con la malinconia, saggiandone la superficie liscia sotto i polpastrelli.
L'intento era quello di rilassarmi un poco in vista della nottata che mi attendeva: gli incubi non mi avevano ancora abbandonata e spesso la piccola si svegliava nel bel mezzo della notte.
Quando l'uovo iniziò a tremare non riuscii a credere a ciò a cui stavo assistendo. Lo posai a terra, sbigottita, fino a che il tremito non divenne convulso, la superficie piana fu solcata da crepe e una testa serpentina emerse dai frammenti.



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Saaalve! Sono in ritardissimo, lo so! >_<
Ma almeno consolatevi con un capitolo un bel po' più lungo del solito ;)
D'ora in poi se avrò un imprevisto scriverò qualcosa in fondo all'ultimo capitolo pubblicato, quindi se domenica dovessi tardare a pubblicare il prossimo capitolo aggiungerò una scritta qui sotto!
Per quello di oggi non so esattamente che dirvi.. Ho dato la mia interpretazione di Occhi di lupo e Cantalama e capisco benissimo che può non piacere (Chissà cosa aveva in mente Paolini!) ma a me non dispiace così ^_^
Vi saluto e ci vediamo spero domenica!
Baci, baci,
Lalli
  
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