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Autore: everlily    27/03/2015    22 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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21

21.

Accidental babies


- Do you come together ever with him?
And is he dark enough, enough to see your light? […]

And I know I make you cry
I know sometimes you wanna die
But do you really feel alive without me?-


(Damien Rice, Accidental Babies)


Damon


Ho circa trenta chiamate perse. Quarantadue messaggi non letti, e venticinque inascoltati nella segreteria vocale. Innumerevoli email non aperte.

Una sola risposta per tutti.

Fanculo.

Ecco la portata delle mie interazioni con il mondo esterno durante gli ultimi … diavolo, non lo so, qualcun altro faccia il conto.

Le cose non vanno poi così male, da quando Elena se ne è andata.

Ho trovato un paio di bottiglie quasi piene di ottimo bourbon e un mezzo pacchetto di sigarette lasciato in giro vai a sapere quando da qualche dimenticabile avventura da una notte e via. Basta aggiungerci qualche consegna a domicilio 24 ore su 24 per ogni volta che il mio stomaco mi ricorda che devo metterci dentro qualcos'altro oltre a liquidi piuttosto infiammabili, e la pace dei sensi è servita. L'unica vera scocciatura è stata quella di infilarmi il primo paio di jeans e maglietta trovati sul pavimento per andare a rifornirmi di nuove scorte quando sia il bourbon che le sigarette sono finite. Che credo sia stato piuttosto presto. Anche se la cosa mi ha fatto guadagnare cinque dollari da una impietosita donna di mezza età fuori dal mini-market, che deve avermi scambiato per un senzatetto o robe simili. Chi sono io per protestare.

Rovescio all'ingiù il mio nuovo pacchetto di sigarette, ma niente ne esce fuori. Merda. Non ho intenzione di fare la fatica di uscire un'altra volta.

Sto ancora controllando se per caso non ci sia un'ultima maledetta sigaretta sul fondo che gioca a nascondino, quando qualcuno entra nel mio appartamento. Non guardo chi, troppo impegnato a scandagliare il pacchetto in cerca di un indizio.

"Avrei potuto essere un ladro," dice Ric appoggiandosi contro la soglia.

Scrollo le spalle. "Non lo sei."

Mi arrendo e getto il pacchetto vuoto sul tavolo di fronte a me. Lo manco completamente. Però era un tiro piuttosto difficile, considerando che sono seduto sul pavimento e che la mia testa sta ancora nuotando nei dolci e nauseanti effetti della mia dieta bourbon-e-nicotina.

"Ti serve qualcosa?"

"Sì, cazzo di coglione, tirarti fuori da questo tuo festino di autocommiserazione."

"Sto bene," rispondo con la voce rauca di troppo fumo. "Ho solo avuto un paio di giornatacce."

"Lo sai che giorno è?"

"Martedì?"

"Venerdì."

"Cazzo."

Ric mi passa davanti, scavalcando le mie gambe distese, per andare ad aprire la finestra.

"Sei ridotto uno schifo. Penso che ci sono case di confraternite in condizioni migliori. E quello è …" Ric getta uno sguardo inorridito verso la tv accesa su cui sono concentrato, che emette una delicata musica di sottofondo. "… balletto classico? Cristo santo, Damon."

Appoggio la testa all'indietro contro la base del divano, mi stringo nelle spalle. Ric sospira e viene a sedersi sulla poltrona accanto, si sporge in avanti con i gomiti sulle ginocchia, e per un lungo momento restiamo entrambi in silenzio, a guardare il cazzo di balletto.

"Fammi indovinare," dice corrugando la fronte perplesso mentre un tizio fa una perfetta piroetta per aria. "Se ne è andata."

Non rispondo. Faccio leva con una mano sul pavimento e mi alzo in piedi, ricacciando indietro l'ondata di nausea che mi minaccia lo stomaco nell'attimo in cui mi devo riabituare alla gravità e alla postura verticale. Vado a prepare del caffè che magari riesce a farmela passare completamente. Mi ci vuole uno sforzo industriale per azzeccare la posizione del filtro, che continua a non entrare come dovrebbe.

Ric non molla. "Cosa è successo?"

"Lo hai detto tu. Se ne è andata. Ha mollato. Fine della storia. Questa cazzo di cosa non funziona," sbotto dando una manata alla maledetta macchina da caffè. Il filtro traballa, ma resta sempre storto.

"Tornata dal fidanzato?"

Piego le labbra in una smorfia. Non ho davvero intenzione di farlo, stare qui a domandarmi cosa faccia o non faccia Elena, ma prima di potermi fermare, sono già con lo sguardo fisso sulle mattonelle a riflettere sulla cosa. Se so una cosetta o due riguardo ai tormentati sensi di colpa di Elena, a quest'ora dovrebbe già aver vuotato il sacco, quindi c'è una discreta possibilità che per il suo fidanzato il bentornato non sia stato dei migliori. D'altra parte però, il caro vecchio Elijah ha tutta l'aria di essere uno di quei cazzo di tipi che sono tutti compassione e perdono e bla bla bla, da grande uomo quale è, quindi alla fine chi diavolo lo sa. In ogni caso, fidanzato o no, non cambia il fatto che mi ha lasciato con nient'altro che una telefonata dall'aeroporto ed un inutile "mi dispiace" che neanche ci sarebbe stato se non l'avessi chiamata io.

Scrollo le spalle. "Ha importanza?"

"Sai cosa non capisco," prosegue Ric alzandosi per raggiungermi in cucina. Adesso che ci prova lui, la macchina da caffè parte senza problemi, piccola merdina traditrice che non è altro. "Sei qui mezzo ubriaco, con una barba di quattro giorni e la tua migliore faccia scazzata. E questa ragazza chiaramente significa tanto per te. Eppure," incrocia le braccia sul petto e si ferma ad osservarmi. "In cinque anni in cui abbiamo condiviso più whiskey e confessioni notturne di quanto i nostri fegati dovrebbero sopportare, non l'hai mai menzionata una sola volta. Perché?"

Ingoio un fastidioso grumo che mi raschia la gola peggio dei due pacchetti di Marlboro che ho svuotato.

Non mi piace dire cazzate ad Alaric. E' una di quelle poche cose che mi fanno davvero sentire in colpa, e poi tanto il bastardo non se le beve mai in ogni caso. Ed è vero, che Elena è sempre stato un argomento da cui ho preferito girare alla larga - sia perché dimenticarla una volta è già stata una delle cose più fottutamente difficili che abbia mai dovuto fare, sia perché in ciò ho chiaramente fatto schifo dal momento che … Beh. Sono qui.

Ma l'ultima cosa che voglio fare in questo momento, o in qualsiasi altro a venire, è stare qui a raccontare di Elena, discutere di Elena, pensare ad Elena - per non parlare di tutto quel capitolo che si porta dietro e che, no grazie, sta bene lì chiuso dove sta.

"Non c'era niente da dire."

"Certo …" annuisce Ric sarcastico, porgendomi una tazza di caffè che fa fare le fusa al mio stomaco martoriato.

Sta per aggiungere qualcosa, ma il mio telefono suona. Di nuovo.

"Odio questo cazzo di telefono," biascico mentre mi allungo sul tavolo per prenderlo, dibattendo internamente se sia il caso di spegnerlo una volta per tutte (e se fosse Elena a chiamare, dice la patetica tormentosa vocina dentro la mia testa ogni volta che mi ha attraversato il pensiero di farlo - e che non l'ho fatto mai) o usare chiunque mi stia rompendo le palle questa volta come scusa per troncare lì le domande troppo ficcanaso del mio migliore amico.

Perciò, per un paio di secondi, rimango imbambolato come un idiota a guardare il display, preso alla sprovvista dal nome che compare. Questa sì che è una novità. Corrugo la fronte e poi, lentamente, rispondo.

"Si è congelato l'inferno per caso?" domando. "Non riesco a pensare ad altri motivi per cui a te possa venire in mente di chiamare me."

"Sei ubriaco?" risponde scocciata l'altra voce dall'altro lato della linea. "Hai la voce da ubriaco."

"In pieni postumi." Prendo un sorso di caffè. "Che si dice, Bonbon?"

"Non chiamarmi in quel modo."

"Troppo intimo?"

"Decisamente troppo intimo."

"Che succede?"

"E' per …" La piccola rompiscatole esita un attimo. "Tuo fratello."

Mi immobilizzo con la tazza a tre centimetri dalla bocca. Per un orribile momento, tutte quelle chiamate perse pesano come sassi, dritti sul mio stomaco.

"Cos'è successo a mio fratello?"

"Lui e Caroline si sono lasciati."

"Aspetta …" Aggrotto la fronte, poso la mia tazza. Sicuramente non ho capito bene. L'inferno che si congela era davvero un'alternativa più probabile. "Cosa? … Perché?"

"Non posso … dirlo."

"Che cazzo vuoi dire, che non puoi dirlo? Sei tu che hai chiamato!"

"Quello che voglio dire è che Care è la mia migliore amica e che non sta a me … Senti, è solo che sono passata da casa vostra a prendere alcune delle cose di Caroline, e mi è sembrato piuttosto distrutto, e lo so che probabilmente non sono affari miei, ma ho pensato … Non lo so, non lo so se sistemeranno le cose, ma magari … ha bisogno di te." Bonnie fa una pausa, quasi dovesse prendersi un attimo per riaversi dallo shock di aver appena fatto una cosa carina per me. "Tutto qui."

"Lo … apprezzo," rispondo titubante. C'è un imbarazzante mezzo momento di silenzio, mentre penso a cosa dirle. "… Grazie?"

"Grazie? Era una domanda?" ribatte mezza offesa. "Certo che sei un bel tipo."

"Me lo dicono spesso."

Bonnie chiude la chiamata, io mi rigiro il telefono tra le mani.

Ric mi getta uno sguardo interrogativo. "Cos'è successo?"

Sospiro. "E' successo che i miei eccitanti piani per il week-end sono appena andati a farsi fottere."


***


Chevrolet Camaro convertibile del '67, struttura e pezzi di ricambio originali, sedili in pelle, colore Blu Marina. Prezzo: 11.200 dollari. Trattabili.

Un cazzo di regalo praticamente, per cui il mio cuore sanguinava ad ogni nuovo volantino che lasciavo in giro.

Quella era la mia macchina. L'avevo trovata ridotta a poco più che uno scheletro, pagata 4.300 dollari (e quello sì, che era stato un cazzo di furto), rimessa a nuovo nei successivi sei mesi con ogni straccio di centesimo risparmiato. E ora la stavo dando via a meno del sessanta per cento del suo valore. Monetario, s'intende, quello sentimentale neanche volevo mettermi a calcolarlo.

Ma avevo bisogno di quei soldi, adesso più che mai. Tra mio padre che aveva messo in chiaro che dovevo andarmene di casa se non ero intenzionato a fare come diceva lui, e il bisogno bruciante di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non dovermi torturare dietro alla ragazza che era stata l'unica vera ragione per cui avevo rimandato una decisione fin troppo a lungo, il bus in direzione New York che avrei preso con Enzo di lì a pochi giorni sembrava non arrivare mai abbastanza in fretta. Anche se prendere quel bus voleva dire dissanguarsi sopra a quei cazzo di volantini.

Qualche metro più in là, cheerleaders e squadra di football avevano da poco finito i loro allentamenti. Stefan compreso, che, non appena vennero sciolti i ranghi, si gettò ad allacciare labbra e lingua con la pimpante bionda in divisa e pompon da cui ormai nessuno lo staccava più, per poi guardarla allontanarsi verso gli spogliatoio con uno sguardo trasognato. Tornai ad affiggere il mio annuncio sulla bacheca all'ingresso della struttura del campo sportivo.

"Ehi," mi chiamò mio fratello, raggiungendomi. Si tolse le spalline protettive per gettarle sull'erba ai suoi piedi, mi scrutò incuriosito passandosi una mano tra i capelli sudati. "Che stai facendo?"

"Vedo se qualcuno di questi tutti muscoli e niente cervello vuole la mia macchina," risposi con una smorfia indicando con un cenno della testa verso il resto della combriccola.

Il mio cuore sanguinò un po' di più soltanto nel dirlo ad alta voce.

Stefan mi strappò un volantino dalle mani e mi guardò allibito.

"Ma tu ami questa macchina," protestò.

"Mi servono i soldi, Stef."

"Ok. Quanto? Perché se è per questo, ho ancora ciò che ho guadagnato quest'estate con il tirocinio da papà, e posso-"

"Non ho intenzione di prendere i tuoi soldi," lo interruppi. Un moto di delusione gli attraverso lo sguardo, così aggiunsi, più conciliante. "Mi servono per stare a New York. Non mi basterebbero comunque."

Stefan annuì e non argomentò oltre. Ma aveva quella faccia da Stefan - quella di quando ha qualcosa da dire, ma preferisce tenerla per sé e buttarla sul passivo-aggressivo. Era la stessa faccia che metteva su praticamente ogni singola volta che saltavano fuori i miei piani di mettere tra me e questo posto più distanza fisica possibile. L'ho mai detto che mio fratello ci è nato, un immane dito al culo?

"Vieni stasera?" mi domandò, deviando l'argomento.

"Ho scelta?" risposi sarcastico. Passare la serata a recitare la parte del figlio esemplare per assecondare le mire politiche di mio padre non rientrava esattamente tra le cose per cui fare i salti di gioia.

Stefan aprì la bocca per controbattere, sicuramente qualcosa sul fatto di provare a sforzarmi di stabilire una mezza tregua su qualcosa a cui nostro padre teneva così tanto, ma io avevo già spostato la mia attenzione sui quattro tutti muscoli niente cervello che ci stavano passando accanto.

"Cosa diavolo hai oggi, Donovan? Non riuscivi a prenderne una."

"E' il suo cazzo," rispose un altro, facendo il gesto di sfottere Donovan prendendolo per il pacco.

Donovan si sottrasse infastidito. "Sta' zitto, Tyler."

Tyler zitto non ci stette. "Si è scopato la sua ragazza appena prima di mollarla, e adesso sta già pensando che magari avrebbe prima dovuto scoparsela un po' di più."

Il mio stomaco sprofondò, si attorcigliò sul colpo appena ricevuto, e il mio cervello piombò nel buio. Un momento, ed avevo afferrato Donovan per la maglietta, l'avevo sbattuto contro il palo di acciaio delle gradinate e colpito così forte, con un pugno dritto in faccia, da far gridare le mie nocche di dolore.

"Che cazzo?!" mi urlò contro, incespicando per rimettersi in equilibrio.

Lo spintonai a terra, tenendolo fermo con una mano attorno alla gola. Altra gente si radunò attorno a guardare, a gridare qualche "Dagliele, Donovan!" di incitamento, ma erano un sottofondo confuso che a malapena sentivo, sovrastato dal fiato corto di una rabbia esplosa all'improvviso che stava implorando disperatamente di essere sfogata - per tutto il cazzo di male al pensiero di questo idiota che faceva sesso con Elena (lo sapevo che forse, forse, sarebbe successo, mi ero costretto a farmi andare bene la cosa - oh fanculo, no che non mi andava bene), e a quello ancora peggiore che poi si fosse pure permesso di mollarla come se fosse una qualsiasi scopata di poco conto (sto con Matt, amo Matt). In quel preciso momento, avrei potuto ammazzarlo, il coglione.

"L'hai lasciata, testa di cazzo?!" gli gridai di rimando.

Ero già pronto a dare il secondo colpo, ma Donovan lo parò a mezz'aria allungando la mano.

"Io la amo!" si sgolò. "E' lei che ha lasciato me! Quanto cazzo sei coglione?"

Matt mi spinse con forza inaspettata, ed io caddi all'indietro atterrando sulle ginocchia. Si alzò a sedere e si asciugò con il dorso della mano la striscia rossa di sangue che dal naso gli stava colando sulla bocca. Mi aspettavo che contrattaccasse, ma non lo fece. Rimase a guardarmi con il respiro affannato, lo sguardo ferito, ed estrema circospezione. Ma quella era reciproca.

Deglutii con sforzo, sia la rabbia che qualcosa di molto più indefinito.

"E perché lo avrebbe fatto?" domandai, senza abbandonare il mio tono di sfida.

Glielo vidi lampeggiare negli occhi. La conoscevo quella cosa, la bruciatura amara lasciata dal rifiuto da parte di ciò che desideri con tutto ciò che hai, la conoscevo così bene.

"Come se tu non lo sapessi," sputò fuori.

Si alzò e s'incamminò, verso gli spogliatoi, scostando le mani dei compagni di squadra che si avvicinavano per dargli delle pacche in solidali dimostrazioni di cameratismo. Dalla mia parte c'era solo Stefan, che si avvicinò per aiutarmi ad alzarmi, ma anche quando mio fratello mi tese la mano, invece di afferrarla rimasi immobile a fissare l'aria.

... Cosa cazzo aveva voluto dire?


***


Smaltisco tutti gli effetti dell'alcol e prenoto il primo aereo disponibile, con la stessa sensazione di chiusura alla bocca dello stomaco che ho avuto nel fissare il volo dopo aver saputo della morte di mio padre, quello per il suo funerale che poi non ho mai preso.

Non voglio tornare. Là, c'è Elena con il suo matrimonio imminente. Là, c'è un consiglio di amministrazione che non vede l'ora di sbattermi in faccia il fallimento che sono. Là, c'è la stronza da cui sto cercando di liberarmi ma che, come il mio avvocato si è gentilmente premurato di farmi sapere in uno dei messaggi vocali che mi sono finalmente deciso ad ascoltare, continua a mandare indietro qualsiasi proposta di accordo per un divorzio economico e indolore con tanto di note a margine in stile ti-faccio-passare-l'inferno tutte per me. Perciò no, non voglio tornare.

Voglio stare il più lontano possibile da tutto questo esattamente come il giorno del volo che non ho mai preso. Ma, come la mia coscienza ci tiene a ricordarmi, là c'è anche mio fratello che ne ha bisogno e - così come ha fatto tre mesi fa, così come ha fatto sempre - è quello che finisce per mettere in secondo piano tutto il resto.

E' quasi buio quando apro il pesante portone della villa, che trovo avvolta nella penombra serale e nell'odore di legno di pino, vuoto e disperazione Salvatore. Non c'è che dire, quando ci deprimiamo, lo facciamo come si deve.

Sento la voce di Stefan provenire dalla cucina. Poso il mio borsone sopra il divano e lo raggiungo, trovandolo impegnato in quella che deve essere una sfibrante lotta con la segreteria telefonica.

"… dannazione, Care, almeno … parlami. Lascia che ti veda. Non posso …" Gli si incrina la voce, gli si abbassano le spalle. "Richiamami. Per la centesima volta, richiamami."

Busso con le nocche contro lo stipite. Stefan salta su e si volta così velocemente che gli scivola il telefono di mano. Poi però vede che sono io, e si affloscia di nuovo sulla sedia.

"Oh," dice deluso. "Sei tu. Pensavo …" Scuote la testa come per liberarla degli ultimi residui delle false speranze che deve aver avuto per circa mezzo secondo.

Apro un armadietto, ne prendo una bottiglia di scotch, riempio un bicchiere e glielo faccio scivolare davanti. "Brutta giornata?"

Stefan mi guarda incerto. "Non dovresti essere qui."

"Lo so."

Cazzo se lo so.

Prendo una sedia, mi siedo di fronte a lui. Stefan posa la fronte sulle mani, sospira e allunga la mano verso il bicchiere che gli ho versato. Ne fa sparire mezzo.

"Caroline mi ha lasciato."

"Così ho sentito dire. Che diavolo è successo?"

Cambia appena posizione così da poter arrivare alla tasca dei suoi jeans. Getta qualcosa verso di me, una scatolina di velluto che afferro al volo a mezz'aria.

Oh, merda.

"Le ho chiesto di sposarmi." Finisce di svuotare il bicchiere, prende il resto della bottiglia, aggiunge con la voce mezza roca. "Ha detto di no."

"Avevi intenzione di fidanzarti?" domando allibito. "Perché diavolo non mi ha detto niente?"

Stefan mi getta un'occhiata per chiedermi se lo stia per caso prendendo per il culo. "Non eri esattamente … raggiungibile, negli ultimi giorni."

Beh, sì. Giusta osservazione. Insomma, non sono solo una pessima persona, sono anche un pessimo fratello. Poso la scatolina sopra il tavolo.

"Da quanto ci stavi pensando?"

Stefan accenna un sorriso amaro.

"Da un po'." Il suo sguardo si fa un po' più distante, si sposta su un punto non precisato alle mie spalle, lui rimane con lo scotch fermo a mezz'aria. Ne butta giù un altro bel sorso. "Un bel po'."

Prende la scatoletta e inizia a rigirarsela tra le dita.

"L'ho comprato mesi fa, poco dopo la laurea. Poi papà lo ha trovato. Mi ha fatto un discorso," lo dice con lo stesso sarcasmo con cui abbiamo sempre detto quella parola tra me e lui, i discorsi di papà, e per un attimo i nostri occhi si incrociano ed entrambi sorridiamo per quella sfumatura che conosciamo solo noi. Una fitta inaspettata si infiltra da qualche parte in mezzo a crepe che non so neanche quando di preciso si siano aperte, nel momento in cui, per la prima volta in tre mesi, vengo colpito dall'improvvisa consapevolezza che non sentirò mai più nessuno di quei terribili discorsi, e non ho idea di come la cosa mi faccia sentire.

"Mi ha detto che ero così giovane, e che adesso che avevo appena finto il college le cose sarebbero cambiate molto velocemente per me nei mesi a venire. Di darmi almeno un anno o due, fino a che non avessi avuto qualcosa di più stabile, o più concreto. Era tutto molto ragionevole, come discorso. Poi è morto, il mio lavoro è un azzardo incasinato appeso a un filo, e stabile e concreto io non so neanche cosa vogliano dire." Getta via la scatolina, contrae le labbra in quello che è un po' un sorriso ed un po' una smorfia amareggiata. "Ma poi vedo Caroline che canta e balla su quella stupida Call me maybe a pieno volume in tutta casa, e lei è fatta così, lo sai, capace di farti sorridere con niente e rendere tutto più luminoso anche nelle giornate peggiori. E ho pensato, chi se ne frega se non ho niente in mano, voglio questa luce nella mia vita ogni singolo giorno. Quindi al diavolo con l'aspettare, o essere ragionevoli." Si passa una mano tra i capelli, l'abbozzo di sorriso svanisce. "Magari avrei dovuto."

"Cosa ti ha detto?"

Stefan scuote la testa. "Ha pianto. Ha detto che sarebbe un errore. Che siamo insieme da sempre, e magari un giorno vorremo qualcos'altro, o stare con altre persone, e cose del genere. Le ho detto che non me ne frega niente di altre persone. Non mi ha ascoltato. Se ne è andata due giorni fa e non mi ha più parlato." Mio fratello rialza lo sguardo su di me, e non penso di averlo mai visto così perso come in questo momento. "Sette anni, Damon. Finiti così. E' la mia migliore amica, è una parte di me. Non so … Non so neanche come esistere senza di lei."

La botta di avvilimento che segue lo fa rattrappire completamente su se stesso, facendo scattare in me qualche ancestrale meccanismo di solidarietà maschile e fraterna che va anch'esso ad alimentare l'indefinita incazzatura che da giorni non riesco a farmi passare, e di cui pure Caroline è appena diventata parte.

"Dov'è adesso?"

"Si è trasferita da Elena."

Stefan si blocca. Spia cauto la mia reazione, come se si fosse di colpo reso conto di aver appena detto qualcosa di molto pericoloso.

"Ovvio che è lì," borbotto sarcastico andando a sfilargli la bottiglia dalle mani.

Mio fratello mi osserva mentre prendo un secondo bicchiere e ricarico le dosi sia per me che per lui.

"Ho sentito anche io," dice.

"Me lo vuoi dire, “te l'avevo detto”? Perché se è così, fai pure, riccioli d'oro che ti scarica ti garantisce un lasciapassare, per questa volta. Però guarda che non durerà."

Stefan resta serio. "Mi dispiace."

"Già, a te dispiace, a Elena dispiace, a tutti dispiace," ribatto con una smorfia amara. Giro la mano ed inclino il mio bicchiere verso il suo. "All'essere infelici e depressi. E alle donne responsabili di ciò."

Butto giù l'intero bicchiere in una sorsata. Stefan fa lo stesso, e nessuno dei due ha bisogno di aggiungere altro.


Mi costrinsi a non fermarmi troppo a pensare a quello che Donovan aveva detto. Quindi lui ed Elena avevano rotto. Bene. Non significava niente. C'erano un milione di ragioni per cui potevano essersi lasciati, per cui lei poteva averlo lasciato. Giusto? Un milione di ragioni che non implicavano … Non lo so, cosa pensavo che dovessero implicare.

Non avevo neanche intenzione di formularlo fino in fondo, quel pensiero. La breve, inutile, stupida illusione che si portava dietro non valeva l'immediato schiaffo della delusione che poi ne sarebbe seguito, perciò tanto voleva non pensarci proprio.

Ma ci avevo pensato. Solo per un secondo. Forse, solo forse … Nah. Elena non avrebbe lasciato ragazzo d'oro Donovan per … cosa, me? Quello era un concetto che aveva messo fin troppo in chiaro.

E poi, se anche davvero ci fosse stata quella infinitesimale remotissima possibilità, sarebbe venuta lei stessa a dirmelo che con Mr Brady avevano chiuso, e non lo aveva fatto.

Perciò quello chiudeva la questione. Non era cambiato niente.

Non cercarmi più. Ho chiuso con te.

Ok, forse … Forse c'era un piccola probabilità che non mi avrebbe cercato in ogni caso.

Il modo in cui le si era frantumato lo sguardo quando le avevo detto quelle cose, sputate fuori più per un ultimo disperato tentativo di auto-conservazione che per volontà di farlo davvero, mi tormentava ancora ogni singola volta che il pensiero di Elena mi attraversava la testa. Il che accadeva, più o meno, praticamente ogni cavolo di minuto. E più mi sforzavo di spingerla fuori dalla mia testa una volta per tutte, più l'unica conseguenza che ottenevo era invece quella di spingerla fin dentro ogni fibra del mio essere - nello stomaco, nei muscoli, nelle ossa, tutti doloranti ognuno a modo suo davanti all'idea di non volerla più, di volerla ancora, di averla persa, di non aver chiuso davvero.

Il mio essere era un posto fottutamente incasinato.

E lo era stato tanto di più quando, dilaniato da tutte quelle seghe mentali, mi ero ritrovato a mettere piede dentro al Grill, quello stesso pomeriggio. Avevo però trovato solo Jenna.

"C'è … Elena in giro?" avevo domandato con fare casuale.

"Oh, mi dispiace, è appena uscita, l'hai mancata di poco," mi aveva risposto dispiaciuta. "Vuoi che le riferisca qualcosa?"

"No." Avevo dovuto schiarirmi la voce, tamburellare sul bancone. "No, non era importante."

"Damon," mi aveva richiamato quando ero stato sul punto di voltarmi. "Si può sapere che succede, tra te ed Elena? Tu smetti di farti vedere, lei smette di menzionarti … E' tutto a posto?"

Lo aveva chiesto tranquillamente, iniziando ad asciugare e a mettere a posto alcuni bicchieri, ma c'era stato un non so che di protettivo nella sua domanda che non mi era sfuggito.

"Non è niente. Davvero, lascia stare."

"Sorride molto meno quando non ti ha vicino, lo sai vero?"

Ero stato costretto ad inghiottire con sforzo, quando su quelle parole aveva alzato gli occhi dal bicchiere verso di me, lo sguardo frantumato di Elena che invadeva ogni fibra del mio essere ancora una volta.

"Non dirle che sono passato, ok?"

Non sapevo se alla fine lo avesse fatto oppure no. Speravo di no. Speravo di sì.

Ma il mio cervello era in sostanza ancora più impantanato di prima, quando alla sera mi presentai alla residenza del governatore per la cena politica a cui mi aveva costretto mio padre.

Lui e Stefan erano già lì, insieme ad almeno un'altra trentina di persone - politici di medio livello con famiglie al seguito, un paio di giornalisti in veste informali, qualche altro uomo di affari. Dovetti sorbirmi tutto il tour della residenza infarcito di lagnosi fatti storici e aneddoti su inquilini e ospiti illustri, varie risate su battute che non facevano ridere, porzioni di cibo crudo formato mignon servite da camerieri in divisa bianca nel giardino sul retro che avevano l'unico effetto di lasciare lo stomaco ancora più insoddisfatto.

Nessuno che di nome non facesse Salvatore notò i tanti mini momenti di tensione che rischiarono più di una volta di sfociare nell'incidente diplomatico - come quando mio padre mi aveva fermato e preso da parte poco prima di sederci a tavola, "Sul serio?" mi aveva chiesto asciutto tenendo in mano la canna già fatta che Enzo mi aveva passato prima di venire qui e che aveva appena tirato fuori dal taschino interno della mia giacca nera, facendola sparire il secondo dopo prima che nessuno si fosse accorto di alcunché.

E a dispetto del fatto che avessi valanghe di commenti sarcastici pronti a mordermi la lingua ogni cinque minuti, feci ugualmente la mia parte, e la feci pure dannatamente bene, ogni volta che mio padre mi presentava a qualcuno e insieme davamo il via al tragicomico duetto di deviare con grazia qualsiasi conversazione si avvicinasse troppo a domande spinose, come quale college frequentassi e quanto avessi intenzione di seguire le orme del mio vecchio.

La cena finì, drink vennero serviti, altre chiacchiere riempirono l'aria, ed era chiaro che tutti stavano aspettando il momento in cui il governatore uscente avrebbe annunciato la candidatura di mio padre ed il suo appoggio, offrendo in sostanza ottime probabilità che quella adorabile residenza sarebbe tra qualche mese diventata casa nostra. Beh, di certo non mia, ma comunque sia. Evviva.

"Finirò per ammazzarmi se questa cosa non finisce al più presto," bofonchiai a Stefan, infilando la mani giù nelle tasche del completo elegante che avevo pure fatto lo sforzo di andare a ripescare.

Stefan aveva a malapena sollevato lo sguardo dal telefono. "Non è così male …"

"Lo dici solo perché stai scrivendo i messaggi sconci alla tua ragazza ogni due minuti."

"Io non sto … Ehi!"

Gli presi il telefono di mano, lessi le sdolcinatezze che c'erano scritte e glielo restituii con una smorfia.

"No, non stai scrivendo i messaggi sconci. Dovevo immaginarlo che saresti stato così noioso. Ci fai sesso almeno?"

Stefan non rispose, ma sorrise a tutta faccia.

Grandioso. Quindi pure quella palla allucinante di mio fratello era messo meglio di me - e dio quanto mi mancavano i tempi in cui potevo scoparmi chi volevo senza sbattermene di niente. Adesso, se lo facevo, c'era comunque Elena ad invadere ogni fibra del mio essere; se non lo facevo, c'era sempre Elena ad invadere ogni fibra del mio essere. Praticamente, era una fregatura da qualsiasi angolazione guardassi la cosa.

Avevo voglia di quella canna che mio padre mi aveva confiscato prima più che mai. Maledetto lui.

"Ho bisogno di un po' di alcol per sopravvivere."

Stefan mi gettò un'occhiata corrugata. "Non te lo serviranno. Non hai 21 anni."

Risposi con un sorrisetto. "Sicuro?"

Documenti falsi e un mezzo sorriso inclinato nel modo giusto possono fare miracoli con le ragazze del catering. E mentre tutti, mio padre incluso, erano estremamente impegnati a mettere in piedi il prossimo affare, a fare colpo gli uni sugli altri, e ad esporre la progenie prodigio, il me ventiduenne si teneva per le sue dedicandosi ad un'improvvisata degustazione di whiskeys alle gentili spese del governatore della Virginia, salute a lui.

La candidatura di mio padre fu annunciata. Applausi seguirono. La mia testa ronzava, piacevolmente, lì su quel limite del sorso di troppo tra l'essere alticcio ad essere un po' meno in controllo di pensieri e azioni.

Ero di ritorno da una discretamente lunga pisciata, e forse avevo imboccato il corridoio sbagliato, quando passai accanto al salottino laterale dove stavano belli seduti sulle loro poltrone, bicchieri alla mano e nella sicurezza di non essere interrotti da nessuno.

"E' una cosa sicura?"

"Lo è. Ci stiamo lavorando da almeno un anno e mezzo. Ristrutturazione e rinnovo completo del centro cittadino, più un paio di complessi residenziali di alta fascia nelle periferie dove il paesaggio è migliore, e tempo un anno Mystic Falls potrà passare da sosta semi-sconosciuta per campeggiatori di passaggio ad una delle migliori piccole gemme turistiche di tutto lo stato. Ho stimato migliaia di nuovi posti di lavoro, entrate per la città nel giro di qualche milione."

"E altrettanti voti."

Mio padre sorrise al suo interlocutore. "Anche quello."

"Pensavo che Gilbert ti stesse dando ancora problemi."

"Non ne hai idea. Si rifiuta di vendere, e quel posto è un tale spreco lasciato in quelle condizioni. Ma è coperto di debiti, che abbiamo recentemente acquistato. Non durerà altri due mesi. Me ne accerterò io."

"Mi stai prendendo per culo," dissi.

Entrambi si zittirono, si voltarono nella mia direzione. I drink sempre in mano e le facce sorprese, mentre in me sdegno, collera e alcol si mischiavano in un mix a dir poco pericoloso.

Mio padre abbassò il bicchiere, lentamente, si alzò. Il suo sguardo si fece più duro quando mi fu vicino. "Ti sei messo a bere? Lo posso sentire da qui."

"Che diavolo è questa storia, papà?" risposi marcando di proposito quell'ultima parola con tutto il sarcasmo di cui ero capace.

"Niente che ti riguardi," disse piano.

Si voltò in direzione del tizio con cui stava parlando, che molto elegantemente fece lo sforzo di concentrarsi sul sorseggiare il suo whiskey e far finta di non ascoltare, e poi di nuovo verso di me. Che col cavolo che avevo intenzione di lasciar perdere.

"Vuoi far chiudere il Grill," ribattei, con l'incazzatura a farmi tremare la voce. "Come cazzo ti viene in mente di fare una cosa del genere?"

"Smettila, Damon. Mi stai mettendo in imbarazzo. Ne parliamo quando siamo a casa. Adesso," abbassò la voce ancora di più, "cerca almeno di non sembrare troppo ubriaco."

Fu il tono, quel cazzo di tono condiscendente e finto conciliante che aveva sempre avuto la rispettosa decenza di non usarmi - potevamo scannarci, ma non mi aveva mai trattato come un idiota. E se voleva un idiota, era esattamente ciò che avrebbe ottenuto.

"Quale casa? Tu mi ci stai buttando, fuori di casa. Esatto, hai capito bene," dissi rivolto al tizio nella poltrona, chiunque cazzo egli fosse, il presidente degli Stati Uniti d'America per quel che me ne poteva fregare. "Perché non lo dice che suo figlio è un buono a nulla che fuma erba, beve illegalmente, e se ne sbatte il cazzo di fare ciò che vorrebbe lui."

Rabbia e ferimento gli lampeggiarono negli occhi, si depositarono amari nella mia bocca.

Incespicai all'indietro. "Sul serio, papà. Vai a farti fottere."


Tornai alla mia macchina, ancora tremante di bile. Che testa di cazzo. Non avevo mai provato tanto odio e disgusto per lui quanto in quel momento.

Le chiavi scivolarono sopra la serratura dello sportello, non presero il buco, caddero in mezzo all'erba.

"Cazzo," imprecai mentre mi piegavo per riprenderle, strizzando gli occhi per vedere dove fossero finite, compito piuttosto arduo tra la luce artificiale piena di ombre che illuminava lo spiazzo dove avevo parcheggiato e la mia testa che intanto vorticava lo swing.

Un altra mano me le sottrasse da sotto le dita prima che riuscissi ad arrivarci.

"Che diavolo stai facendo?" mi domandò Stefan alzandosi in piedi.

Mi alzai anche io, facendo leva sul cofano della Camaro.

"A te che sembra? Me ne sto andando. Non ci resto un attimo di più in questo maledetto posto. Dammi le chiavi," gli intimai.

Scosse la testa. Cazzo di Stefan. "Non ti lascio guidare. Aspetta almeno fino a che non ce ne andiamo anche io e papà, puoi tornare con-"

"Non ho," dissi deciso, sputando fuori le parole con violenza, "Nessuna cazzo di intenzione di andare da nessuna parte insieme a lui. Dammi le chiavi, Stef, o lo giuro che le cose finiranno davvero, davvero male."

Mi studiò per un lungo momento, e dovette aver deciso - dalla collera che mi agitava lo sguardo e le mani, dal veleno nel mio tono - che non stavo scherzando. Diede un ultimo sguardo alla villa alle nostre spalle.

"Va bene," sospirò. "Sali. Ma guido io."

"Non hai ancora la patente."

"E quindi?" ribatté offeso. Vai a dire ad uno a malapena sedicenne che non è grande abbastanza da stare tra gli adulti e farà qualsiasi cosa per dimostrarti il contrario, specialmente un perfettino come lui che deve sempre dimostrare di essere capace in tutto quello che fa. "E' solo perché devo aspettare altri due mesi. So guidare."

"Ok," concessi, incamminandomi verso il sedile del passeggero. "Guidi tu."


"Cos'è successo?" mi domandò Stefan, quando stavamo già sfrecciando giù per l'ultimo tratto di interstatale cha collega Richmond verso l'interno e porta a Mystic Falls.

"Abbiamo litigato," bofonchiai stravaccandomi con il culo più in basso sul sedile, appoggiando i piedi contro il lato del cruscotto. La mezza sbornia mi stava uccidendo. "Beh, tipo. Si vergognava troppo per mettersi a fare una scenata."

"Perché avete litigato?"

Guardai fuori dal finestrino, buio e luci che filavano via e mi facevano girare la testa e lo stomaco. Un grumo amaro mi crebbe in mezzo alla gola. "Abbiamo davvero bisogno di un motivo?"

Stefan si voltò a guardarmi intento. Sentii le note di All along the watchtower passare alla radio, mi sporsi per alzare il volume fino a che non riempì tutto l'abitacolo.

"E pensi davvero che mettere 300 miglia di distanza possa migliorare le cose?" proseguì alzando la voce per sovrastare la musica.

"Non le può peggiorare, no?" Scrollai le spalle. "E poi sarebbero state centinaia di miglia anche se lo avessi assecondato, e fatto quel che dovevo fare andando ad un dannato college della Ivy League. Anzi, me ne sarei già andato da un pezzo. Non è poi tanto diverso."

"Ma ho l'impressione che lo sia. Che stai bruciando i ponti, e mettendo sempre più distanze."

Stefan rimase in silenzio un lungo istante. Mi girai verso di lui, e cazzo sembrava così giovane a vederlo lì nella penombra con la fronte corrugata, e così il mio fratellino, con quella voce seria, che mi si bucò un po' il petto quando proseguì, "Ho come la sensazione che non ti vedrò praticamente più."

"Ehi," mi raddrizzai sul sedile, gli misi una mano sull'avambraccio. "Certo che mi vedrai. Tornerò di tanto in tanto. Così per il Ringraziamento potrai guardarci discutere da una parte all'altra del tacchino e dire ad entrambi di darsi una calmata prima che inizino a volare le forchette."

Stefan annuì, ma senza convinzione.

"In più," aggiunsi, "Sei fin troppo preso da questa nuova ragazza. Devo tornare per controllarti ed assicurarmi che ne avrai anche altre e che non ci resterai incastrato troppo a lungo."

Si girò a guardarmi, mi scrutò come per cercare conferma, e infine accennò un sorriso. Accennai un sorriso di rimando anche io.

Fu appena prima che tutto andasse completamente fuori controllo.


***


Salgo l'ultimo gradino del portico, ma aspetto qualche secondo prima di muovere la mano verso il campanello. L'ultima volta che sono stato qui, ero fradicio di pioggia battente ed è stata una delle migliori notti della mia vita. Adesso, è una brillante mattina di sole e solo ripensarci è come mettersi a schiacciare un livido fresco soltanto per vedere quanto male possa fare, anche se il verdetto è sempre lo stesso: dannatamente tanto.

Il fatto che io sia anche di pessimo umore non aiuta.

Di questo, devo ringraziare Katherine.

Me la sono ritrovata tra i piedi poco prima di venire qui, nel mentre che, rasoio alla mano, in un residuo moto di orgoglio mi liberavo della barba incolta segno visibile di quanto malmesso Elena mi avesse lasciato. Katherine era apparsa nello specchio alle mie spalle, tra i vapori nebbiosi lasciati dalla doccia, le braccia incrociate sul petto a spingerle il seno particolarmente all'insù ed un arricciamento aspro nella curva delle labbra.

"Guarda guarda chi ha deciso di farsi rivedere."

"Un po' di privacy? Di confini?" avevo tentato di cacciarla via indicando me stesso avvolto solo in un asciugamano attorno alla vita, ma ottenendo in cambio soltanto un infastidita alzata di occhi al cielo.

"Ti ho visto nudo anche una volta di troppo per i miei gusti. Stai diventando timido?"

"No, sto diventando Meno vedo la tua faccia e meglio sto."

Avevo ripreso a radermi e ad ignorarla. Lei aveva preso a girarmi intorno, un felino che studia la sua preda, ma che per una volta non è tanto bravo a nascondere tutta la sua impazienza. Deve aver iniziato a rendersi conto che le sue possibilità di mettere mano sulla quasi totalità del mio patrimonio di recente acquisizione sono prossime allo zero. Dio benedica le leggi della California.

"Non mi hai richiamato. Dobbiamo parlare."

"Quella cosa del meno ti vedo?" avevo replicato secco, posando il rasoio e finendo di sciacquarmi la faccia. "Vale anche per meno sento la tua voce. Infatti, c'è un avvocato pagato profumatamente per farlo al posto mio. Qualsiasi cosa tu abbia da dire, dilla a lui. Non sono davvero in vena di stare a sentire anche le tue cazzate."

Il "Fottiti, Damon!" che mi aveva gridato dietro mentre gettavo via l'asciugamano e uscivo da lì mi aveva a malapena sfiorato, ma anche solo quel breve incontro era stato abbastanza da farmi iniziare la giornata nel peggiore dei modi. E presentarsi volontariamente da Elena dubito che sia il modo giusto per farla migliorare.

Ripenso a Stefan e alle condizioni in cui l'ho trovato. Allungo la mano e mi decido a suonare.

Dopo alcuni secondi, sento i passi che si avvicinano dall'altro lato, smorzati dalla barriera della porta, piccoli e veloci.

Di colpo, si fermano. Tutto si fa improvvisamente molto immobile, ed è così che lo so. Che sia stato perché mi ha visto attraverso lo spioncino o attraverso quella fessura tra le tendine della finestra che non si chiudono mai del tutto, non ha importanza. Lo sa che sono io.

Ho avuto un sacco di tempo per immaginare questa conversazione e questo momento, cosa le avrei detto quando l'avrei rivista di nuovo. Infinite variazioni sullo stesso tema, spaziando da educati e freddi "è bello rivederti" altri dieci anni nel futuro, quando ormai me la sarei tolta dalla testa o almeno avrei finto di averlo fatto, fino a imploranti e appassionate dichiarazioni nelle quali avrei fatto e giurato qualsiasi cosa pur di riavere una sola possibilità di far funzionare le cose tra noi, durante quelle notti in cui il bourbon colpiva più forte.

Adesso, non è nessuna di queste cose. E' un gusto agrodolce che oscilla tra il bisogno pulsante che ho di vederla ed esserle fisicamente vicino e l'altrettanto pulsante amarezza che mi chiude la gola quando tutto ciò che ci siamo gettati addosso - la rabbia, i rimpianti, le accuse - torna a mordermi di nuovo.

Poso una mano contro il portone. "Lo so che sei lì, Elena."

Lentamente, vi appoggio sopra anche la fronte, assaporando ogni istante del miscuglio di amaro e di voglia di lei che mi dà il solo pensiero di Elena al di là di questa porta.

"Non me ne vado finché non apri."

Estremamente lunghi secondi passano, prima che io senta scattare il click della serratura.

Altri estremamente lunghi secondi passano, prima che il portone si apra.

E' la morbida, appena percettibile, traccia del suo profumo che si mischia con un soffio caldo di aria estiva, la prima cosa che riporta tutto a galla con ancora più forza - è un odore in cui mi sono immerso troppe volte, troppo di recente. La seconda è il battito di esitazione che passa prima che quell'incisivo sguardo scuro si alzi e incontri il mio. Elena sa raccontare intere storie, con un solo battito di ciglia.

Eccetto che in questo momento è una che è troppo simile a tutte le contraddizioni che stanno divorando dentro anche me, e finisce che nuovi estremamente lunghi secondi passano - a guardarci da un lato all'altro della soglia, a nutrirci in quelle contraddizioni e affogarci in mancanza di meglio - prima che uno di noi dica qualcosa.

Elena prende più fiato di quanto le serva, la punta della coda in cui ha legato i capelli dondola appena sfiorandole le spalle nude. "Cosa ci fai qui?"

Lo dico più secco e perentorio di quanto ce ne sia bisogno. E' più facile così. "Voglio vedere Caroline."

Mi scruta incerta, o forse solo presa momentaneamente alla sprovvista dalla mia risposta brusca. Avanza di un passo, socchiude con attenzione la porta alle sue spalle.

"Questo non è un buon momento," scuote la testa. "Sta avendo delle giornate difficili. Lasciala in pace, Damon."

"Ti pare che me ne importi?" replico con una smorfia. "Fammici parlare."

Faccio un passo in avanti, deciso ad entrare, ma Elena si sposta prontamente di lato bloccandomi il passaggio. Incrocia le braccia sul petto, entra in modalità da atteggiamento fiero e protettivo.

"No."

"Mio fratello," un altro mio passo, lei non si muove, "E' a pezzi per causa sua. Le voglio parlare. Adesso."

"Parlerà," ribatte, sostenendo il mio tono di sfida, "Quando si sentirà di farlo. Adesso, va' via."

Serro le labbra. La sua espressione decisa mi intima di non tentarci neanche a contraddirla. Ma nessuno dei due è chiaramente intenzionato a fare un passo indietro, e, quando restiamo di nuovo a fronteggiarci tra silenzi e sguardi sostenuti per un minuto troppo a lungo, ho l'impressione di non sapere neanche più per cos'è che stiamo davvero prendendo posizione.

Alzo le mani in segno di resa, faccio per ritirarmi. Nel momento in cui Elena abbassa appena la guardia, la sorpasso e spingo con decisione la porta alle sue spalle, entrando senza invito in casa sua mentre lei mi urla dietro un infuriato, impotente, "Damon!"

Ma mi blocco sulla soglia della sala, quando vedo lo sconforto con cui Caroline è raggomitolata sul divano. Solleva appena la testa per osservarmi con i gonfi occhi azzurri, e poi torna ad appoggiarsi sul cuscino e a guardare di fronte a lei.

"Non voglio parlare, Damon. Vattene. Per favore," aggiunge in un piccolo sussurro che manda un po' a puttane tutto il mio piano di urlarle contro fino a farla sentire un rottame, perché quel piccolo sussurro mi dice che lo è già.

Non che mi aspettassi davvero di trovarla a sorseggiare margaritas ridendosela alle spalle di mio fratello. Ma fa uno strano effetto vederla così, come se qualcuno le avesse staccato quelle stramaledette pile sempre fastidiosamente cariche, e per quanto io stesso me lo sia augurato in più di un'occasione, adesso … oh, fanculo.

Non le urlo contro. Invece, vado a sedermi sul bordo del divano, nel piccolo spazio tra le sue gambe rannicchiate. Allungo le dita per scostarle un ciocca bionda dalla fronte, lei continua ad ignorarmi.

"Ha sbagliato qualcosa, per caso?"

Caroline chiude gli occhi e un paio di lacrime rotolano via dalle palpebre chiuse, vanno a lasciare una sfumatura più scura sul cuscino colorato sotto la sua guancia. Elena si appoggia in silenzio contro lo stipite della porta. Mi costringo a non guardare verso di lei.

"Perché se è così, se ha fatto qualche cazzata, lo posso sempre prendere a calci in culo. Anche se è mio fratello. Anzi, soprattutto perché è mio fratello. La cosa mi dà dei privilegi speciali quando si tratta di fargli il culo, nel caso non lo sapessi."

Caroline ride, un ibrido incerto a metà tra una risata e un singhiozzo, e altre lacrime vanno a raggiungere le altre e ad allargare la macchia bagnata sul tessuto. Tira su col naso, si asciuga sotto gli occhi con il dorso della mano e scuote la testa.

"E' solo che …" Si tira su a sedere, finisce di togliersi gli ultimi residui bagnati da sotto le palpebre.

"E' solo che non penso che potrebbe funzionare."

"Sei ammattita?" le dico. "Cristo, se non ce la fate voi due allora non c'è speranza per nessuno di noi."

"Non capisci."

"E allora fammi capire."

"Lui …" Esita, prende a giocherellare con un filo di tessuto solitario che sporge dalla cucitura di un cuscino. Mi getta un'occhiata di lato. "Vuole una famiglia, lo sai? Voglio dire, non adesso, forse tra qualche anno, ma lo so che è così, si vede nel modo in cui a volte ne parla, o guarda i bambini immaginando come sarebbero con quei suoi stupidamente meravigliosi capelli anti-gravità." Sorride. "E lo amo per questo, è fatto per queste cose." Si interrompe un secondo, aggiunge più piano. "Io no."

"Andiamo, Care, se è solo perché stai avendo un po' di paranoie potete sempre-"

"No, non capisci!" ripete spazientita, accartocciando il cuscino in un moto frustrato. "Non posso. Letteralmente, non posso."

Continuo a guardarla senza capire. Lei sospira.

"Era la settimana della prevenzione ginecologica qualche settimana fa, ed io ero tra i volontari perché, beh, è quello che faccio, e così ho fatto anche qualche esame, e da lì sono venuti fuori altri esami e …" Caroline deve notare la mia espressione completamente disorientata fin dalla parola "ginecologica", perché alza gli occhi al cielo davanti alla mia reazione ritardata. "Non posso avere figli, ok? Insomma, quelle vie … sono chiuse."

Sbircia cauta la mia reazione, mentre, finalmente, anche io inizio a realizzare.

"Volevo dirglielo. Davvero. Ci ho provato. Ma non sapevo come l'avrebbe presa, e poi lui mi chiede di sposarlo, ed io … Non posso fargli questo. Non posso e basta."

C'è un lungo momento di silenzio, mentre Caroline torna a tormentare le cuciture del guanciale che ancora si tiene stretto e io brancolo nel vuoto più totale. Smarrito, incapace di pensare a cosa dovrei dire davanti a questa cosa o cosa dovrei fare, sollevo lo sguardo verso Elena.

Mi sta osservando, senza dire niente, e so che lo ha fatto tutto questo tempo. Le sto chiedendo di venire in mio soccorso, di dirmi cosa fare. E lei lo fa. Inclina appena la testa in piccolo cenno - ed è abbastanza.

Mi sporgo in avanti e prendo la mano di Caroline nella mia, stupendomi di quanto sembri davvero piccola e fredda.

"Ascoltami bene. Conosco mio fratello. Ti ama, e non sarà questo a cambiarlo."

Caroline annuisce. "Lo so. Lo so questo. Ma cambia tutto il resto. Perché ci ho pensato, anche se non lo avevo mai fatto prima, dio sa quanto ci ho pensato, e credo … credo che posso accettarlo. Ma può accettarlo anche lui? Cosa succede tra cinque o dieci anni, quando non sarà più abbastanza, e vorrà quel che ha sempre voluto, ed invece sarà incastrato con me, che succede allora?"

"Non lo saprai finché non gliene parli, Care."

"Esatto," replica lei, voltandosi a guardarmi con gli occhi allargati. "Finché non gli parlo non stiamo insieme, e finché non stiamo insieme, non ho la conferma che non staremo più insieme."

Corrugo appena la fronte. "Questo … è un ragionamento molto contorto."

"Ugh, lo so!" sospira lei, nascondendosi la faccia tra le mani. Ne riemerge spostandosi i capelli via dal volto. "E' solo che non sono pronta a perderlo."

"Lo so. Ma o sarai tu a parlarci, o lo farò io, nell'attimo in cui esco da quella porta. Penso comunque che preferirebbe fossi tu. Decidi tu, biondina."

Guarda Elena. Guarda me. Di nuovo Elena. Di nuovo me. Lascia uscire un altro sospiro tormentato.

"Puoi … aspettare qualche minuto? Mentre mi vesto. Vengo con te."

Annuisco, mentre Caroline si alza e si dirige al piano di sopra. Elena la guarda allontanarsi. Quando poi riporta lo sguardo su di me, sono in piedi e diretto verso la porta a tempo di record.

"Puoi dirle che sono fuori."

"Damon, aspetta."

Mi fermo. Ovvio che mi fermo. Maledizione, quanto odio me stesso a volte.

Siamo entrambi sulla soglia della sala, io mezzo fuori e lei mezza dentro, la solita dannata contraddizione a cui forse siamo da sempre condannati. Volto lentamente la testa verso di lei.

"Possiamo … parlare?" mi domanda incerta, piegando appena la testa di lato.

"Quindi adesso vuoi parlare?" replico, piegando la bocca in una smorfia. "E che mi dici di parlare quando hai impacchettato le tue cose e sei scappata nel mezzo della notte?"

Incassa il mio tono tagliente stringendo le labbra, ma non distoglie lo sguardo. "Mi dispiace."

"Già, questo l'ho capito," commento sarcastico.

"Ci sto provando, ok?" ribatte con più forza, avvicinandosi di un altro passo. "Credi che sia facile per me? Ma ci sto provando, ci sto provando davvero, a capire co-"

"Era solo sesso?"

Elena si blocca, gli occhi le si allargano di colpo. Il silenzio immediato che segue e il cambiamento che passa sul suo volto, quell'espressione accorata che poi si smonta in un istante come se l'avessi pugnalata allo stomaco, mi fanno quasi rimpiangere di averlo detto.

"Come puoi chiedermi una cosa del genere?" risponde piano, ferita. "Lo sai che non è così." Una piccola pausa, prima di aggiungere, ancora più a bassa voce. "Non lo è mai stato."

Voglio crederle. Anzi, di più, una parte di me non l'ha mai davvero pensato neanche per mezzo nanosecondo. Ma non è quella parte che è qui adesso, qui e adesso ci sono le contraddizioni, c'è la voglia e c'è la rabbia, c'è il volere scottante di non averla mai ritrovata e un aggrapparsi folle per non perderla ancora.

Mi avvicino fino a che non sento il suo respiro sulle mie labbra, e percepisco il modo sottile ma evidente in cui cambia ritmo e profondità quando il mio viso è a così poca distanza dal suo. Elena abbassa lo sguardo sulle mie dita, che le stanno sollevando l'orlo della maglietta sulla linea dei fianchi. Appoggia piano la schiena contro lo stipite alle sue spalle.

"Davvero lo so?" chiedo mentre il bottone che chiude gli shorts compare alla mia vista, sfiorandole la pelle nuda che sta appena sopra, e quella ancora più calda che invece sta appena sotto. La pelle d'oca che spunta sotto ai miei polpastrelli quando accarezzo il bordo delle mutandine si tende di colpo per il brusco respiro che ha appena inalato.

"Smettila," esala in un sussurro che dice tutt'altro. "Per favore."

Non lo faccio, anche se giocare con il fuoco sta facendo male soprattutto a me, come dimostra il tono roco e smorzato con cui esce fuori al mia voce. "Perché?"

Elena chiude gli occhi, respira sulla mia bocca, il suo corpo si inarca leggermente verso la carezza della mia mano, ed io sto bruciando dalla voglia dal tirare via quel maledetto bottone, cadere in ginocchio e perdermi con la bocca su di lei fino a ricordarle quanto forte sono capace di farla gridare.

"Sei così anche con lui?" domando risalendo con il dorso delle dita su verso la linea delle costole, quel nodo amaro e bisognoso nella mia gola più pressante che mai. "Lo sa … quello che hai fatto con me? Gli hai davvero …" Avvicino le labbra al suo orecchio, "… raccontato tutto quanto?"

So che sono andato troppo oltre quando allontano appena il volto ed incontro la colpa e l'imbarazzo che brillano nel suo sguardo, così intensi e profondi da farmi provare un istantaneo moto di odio nei confronti di me stesso e di qualunque sia la dannata ragione per cui quando ci facciamo del male, dobbiamo sempre farcene in queste proporzioni.

I passi che scendono dalle scale ci fanno allontanare e porre distanze nuovamente tollerabili, ma nessuno dei due riesce a rompere quel lungo sguardo da animali feriti. I passi rallentano, si fermano del tutto.

"Io …" Caroline è rimasta incerta sull'ultimo gradino. Si schiarisce la voce, fa finta di togliersi qualche pelucco dal vestito. "Sapete cosa? E' una così bella giornata, penso che andrò fuori per … mmh, vedere il sole e … oh, per l'amor del cielo, ora mi tolgo di torno, ok?"

Ci passa davanti in gran fretta, diretta verso la porta, ma non mancando di lanciare ad Elena uno sguardo interrogativo che ha ben poco di sottile.

Non appena il portone si è richiuso, Elena mi passa davanti, senza guardarmi in faccia. Dal basso tavolino al centro della sala prende qualcosa tirandolo fuori da una pila di riviste, torna verso di me e me lo sbatte con furia contro il petto. E' un'anonima cartelletta con alcuni fogli al suo interno, la afferro prima che cada.

"No, Damon, non gliel'ho detto," prosegue secca. "Vuoi sapere perché? Perché tuo fratello mi ha chiesto di non farlo per non metterti Elijah contro, suggerendomi di aspettare ad annullare il matrimonio fino a che voi due non avete finito con le vostre piccole macchinazioni, così da non metterle a rischio. E quando mi sono rifiutata di tenere in piedi una menzogna del genere, mi ha ricattato emotivamente. Con questo. Perché secondo lui mi avrebbe fatto cambiare idea."

Corrugo la fronte, sposto lo sguardo da lei a ciò che mi ha appena sbattuto addosso, lo apro lentamente. E mi congelo. Sono così impietrito da ciò che sto tenendo in mano che sul momento registro a malapena cosa sta dicendo, incluse frasi come "annullare il matrimonio".

Sollevo gli occhi su di lei, deglutisco. "Lo hai letto?"

"No!" sbotta. "Io non voglio essere parte di tutto questo. Non voglio mentire ad Elijah, mi odio già abbastanza così senza doverci aggiungere il fatto di prenderlo in giro. Ma sai qual è la parte peggiore?" chiede cercando il mio sguardo, e ci vedo tutto il tormento e tutta la battaglia interna che vi si agita dietro, forse troppo perso dietro alla mia per vederla davvero fino a questo momento. "E' che per te, lo farei. Se me lo chiedessi, se è davvero così importante … Andrei contro tutti i miei principi, per te. E senza aver bisogno di leggere ciò che c'è lì dentro."

Sono un idiota. Ed anche uno bello grande. Richiudo il fascicolo, lo arrotolo e me lo infilo nella tasca posteriore dei jeans.

"Mi dispiace. Stefan non aveva il diritto di chiederti una cosa del genere, e di sicuro non aveva il diritto di chiedertelo così o farti sentire ricattata."

"Dove stai andando?" mi segue lei, quando mi giro verso la porta.

"Caroline mi sta aspettando."

Elena posa una mano sulla mia, mi ferma dal girare la maniglia. Guardo le sue dita chiudersi sulle mie, alzo lo sguardo su di lei. Sono sempre lì, tutte le nostre contraddizioni, tutti i passi avanti e quelli indietro, insieme a tutto quello che siamo stati così attenti ad evitare, quella ferita rimasta sospesa che forse pesa ancora molto più di quanto vorrei.

"Stefan ha detto che è il motivo per cui non sei più tornato."

"A Stefan piace essere melodrammatico."

Elena stringe appena la presa sulla mia mano.

"Non l'ho letto," prosegue, "Perché voglio che a dirmelo sia tu, Damon."

Forse dovrei. Forse voglio farlo. Nel momento in cui penso che potrei, però, quel minuscolo spiraglio su tutto ciò che ho chiuso e schiaffato dove non sono costretto a doverlo affrontare torna a richiudersi violentemente come un portone sbattuto di colpo.

"E' solo una vecchia storia che non ha più nessuna importanza."

Increspa appena le sopracciglia, la sua dita scivolano ad accarezzare leggermente le mie. E non è Elena a chiedermelo. E' la ragazzina che ho ferito, almeno quanto lei ha ferito me, tutti quegli anni fa.

"Ce l'ha per me," dice piano.

Ma lei non è più quella ragazzina, e non lo sono più neanche io. O forse, invece, il problema è che lo sono ancora fin troppo.

Scuoto la testa, sciolgo la mano dalla sua e finisco di aprire la porta. "Ci vediamo, Elena."


***


Caroline mi fissa per tutto il tragitto di ritorno. E' inquietante.

"Un altro secondo a guardarmi così, Barbie, e finisce che mi scavi un buco dritto nel cervello."

"Io non stavo-"

Scalo una marcia, le lancio un'occhiata. "Ti stai letteralmente consumando nello sforzo a te sconosciuto di non dire quello che lo so che vuoi dire." Cazzo, so già che me ne pentirò. Sospiro. "Perciò, avanti, dillo e facciamola finita."

Caroline cambia posizione nel sedile, ruota dei novanta gradi che le servono per essere rivolta tutta verso di me.

"Non lo sposerà. Me lo ha detto lei."

Serro la mascella e continuo a tenere gli occhi fermi sulla strada, le mani decise sul volante, e non dico niente. Un secondo dopo, Caroline mi schiaffeggia sul braccio.

"Oh, andiamo! Non fare finta di non stare gongolando dentro!"

Ok, lo ammetto. Mi sfugge un mezzo sorriso. Solo per mezzo secondo. E lo so, lo so benissimo che non cambia niente di come stanno le cose tra me e Elena, che non è un matrimonio annullato a cambiare ciò che siamo e siamo sempre stati e non siamo stati mai, ma … mi sfugge un mezzo sorriso.

"Non sto gongolando," rispondo serio. Le getto un ironico sguardo di traverso. "Che persona orribile sarei?"

Caroline sorride, e torna a sedersi al suo posto con aria soddisfatta. Posa il mento sulle braccia incrociate sopra il finestrino tirato tutto giù, e per il resto del tragitto lei guarda fuori e io guardo la strada e non c'è altro oltre all'aria calda che dai vetri aperti soffia dentro l'auto.

Non parla più finché non parcheggio nel viale accanto all'ingresso della villa.

"Grazie."

Mi volto incerto verso di lei. Sta giocherellando con la maniglia dello sportello, gettando occhiate nervose verso il portone, e temporeggiando con l'idea di scendere e vedere cosa succederà quando quel portone lo avrà passato.

"E' fortunato ad averti," mi sento dire.

Caroline si volta stupita a guardarmi, ed io corro ai ripari.

"E se lo dici a qualcuno, sappi che lo negherò fino al giorno della mia morte. Diciamo che mi sono abituato ad averti intorno. Perciò sarebbe una seccatura immensa dover imparare daccapo a sopportare qualcun'altra al posto tuo."

Mi strozzo sul respiro successivo, perché mi ha soffocato buttandomi entrambe le braccia le collo, e adesso se ne sta lì appesa come un koala. Tento titubante di farla smollare.

"Sei una persona migliore di quello che vuoi far credere, Damon Salvatore."

Resto un po' interdetto, anche quando mi rilascia ed esce dalla macchina. Mi getta un abbozzo di sorriso, prima di aprire il portone e sparire al suo interno.

Con il petto un po' contratto da non so bene cosa, tiro fuori i fogli spiegazzati che escono dalla mia tasca posteriore, li poso sul volante. Stefan è fortunato ad avere altre questioni per le mani in questo momento, perché andare da Elena con questo è una di quelle cose che in situazioni normali gli avrebbe fatto guadagnare una di quelle sfuriate alla fine delle quali solo tiragli un pugno su quella mascella dritta mi avrebbe dato la giusta soddisfazione.

Dovrei essere incazzato nero con lui. E forse, qualche mese fa lo sarei stato eccome.

Ma non sono incazzato con Stefan, realizzo mentre siedo sul cofano della Camaro in uno spiazzo d'ombra ai lati di un sentiero nascosto del bosco sul retro fino al quale ho guidato con uno scopo preciso. Sono più incazzato con me stesso e con l'idea che anche dopo tutti gli sforzi che ho fatto per seppellire quella parte della mia vita e il buco che ha lasciato, sono ancora a qui a farmici condizionare.

Voglio quella parte chiusa e seppellita due metri sotto terra dove lo è anche fisicamente. Perciò non lo so perché mi sembra più presente che mai, mentre prendo i fogli dentro a quella dannata cartelletta, ci avvicino l'accendino, ed uno ad uno li guardo bruciare.


***


Dissero che cappottammo un paio di volte, prima di fermarci al limitare della strada, il tettuccio schiacciato della Camaro appoggiato contro uno degli alberi che iniziavano dove l'asfalto finiva. Dissero anche che persi conoscenza immediatamente per via della botta alla testa, e che è per questo che di quel che seguì, o almeno delle due ore successive, ho solo pezzetti e frammenti sconnessi. Un momento c'era Jimi Hendrix che cantava cupo e a tutto volume, e quello dopo c'era Stefan che aveva riportato lo sguardo sulla strada e sterzato bruscamente dal lato opposto per non finire nell'altra corsia, e tutto era andato sottosopra. Dopo ancora c'erano un sacco di luci lampeggianti rosse e blu, e un qualche idiota col giubbotto medico che mi puntava un piccolo fascio di luce dritto negli occhi chiedendomi cose stupide tipo se potevo guardare verso destra invece che rispondere a cose che importavano davvero come dove cazzo è mio fratello. C'era la barella nel mezzo del pronto soccorso dove mi misero dicendomi di calmarmi e di stare tranquillo, ma continuando a non dirmi un assoluto cazzo di niente. Venni tastato, tamponato, infilzato, e chiesto un sacco di domande senza che nessuno si degnasse di rispondere alle mie.

Ti fa male se premo qui? Dove è mio fratello.

Quanto hai bevuto? Come sta, sta bene.

Sai come possiamo contattare un genitore? Non ho bisogno di punti, ho bisogno di sapere di mio fratello!

Poi una di loro ebbe pietà di me, disse che avrebbe chiesto e sarebbe tornata, mentre io dovevo solo stare lì fermo con un ago gigante infilato nel braccio che mi pompava nelle vene qualche soluzione trasparente per farmi smaltire più in fretta l'alcol dal sangue. Aspettai per quelle che parvero delle ore, e quando tornò mi disse che lo stavano operando. "Che tipo di operazione" avevo domandato invaso dal panico, e a quel punto eravamo già tornati ad un serio "Abbiamo davvero bisogno di riuscire a contattare un genitore" e "Resta calmo, torno quando ne saprò di più, adesso però dobbiamo farti quella TAC, ok?"

Fanculo la TAC. Nel momento in cui venni lasciato di nuovo da solo, strappai l'ago via dal braccio senza neanche curarmi di mettere un cerotto sopra al buco, e presi a vagare per corsia dopo corsia, il ronzio in testa che di tanto in tanto si faceva più forte, la nausea quando giravo un angolo troppo in fretta e dovevo fermarmi finché non passava - tutto in una triste e irreale processione di camici bianchi, dell'aspetto consumato dei malati, di chiacchiere degli addetti all'accettazione, di persone che aspettavano e aspettavano e aspettavano. Ma non sapevo dove andare e non sapevo a chi chiedere, e dopo altri quindici "mi dispiace, non lo so" e altrettanti "vado a chiedere, aspetta qui", mi sentivo solo e impotente, e stanco e esasperato, e disperato fin nelle ossa.

Uscii dall'ingresso principale, senza neanche sapere come ci fossi arrivato, mi appoggiai contro il muro e mi accasciai sul pavimento.

Era una così piacevole, perfetta, tiepida notte di fine estate là fuori - non più così afoso da non lasciarti respirare, ma con l'aria lo stesso più calda di come fosse di solito quel periodo dell'anno, come se l'estate si rifiutasse testardamente di finire e cedere il passo a ciò che veniva dopo. Non ho idea di quanto rimasi lì, senza la forza di rialzarmi, ronzio e nausea che a tratti si facevano più forti e a tratti sparivano completamente, a tormentarmi in pensieri che non volevo avere ma che avevo, Stefan così giovane con la voce seria, non avrei dovuto farlo guidare, e se avessi, e se non avessi, come cazzo avevo potuto distrarmi e lasciare che accadesse.

Fu il suono della breve corsa sopra l'asfalto, che risuonò così chiaramente nella notte che intanto si era fatta più silenziosa, a farmi sollevare la testa.

Elena era di fronte a me. Con i capelli legati disordinatamente in una coda affrettata, le converse su un vestitino a piccoli pallini bianchi, gli occhi lucidi sotto alla luce bianca dei lampioni, il respiro accelerato. Era così fuori posto in quel mio scenario alienato e surreale, e la prima cosa veramente a fuoco da Jimi Hendrix che cantava All along the watchtower.

"Cosa ci fai qui?"

"Sono venuta con Care, lo ha sentito da sua madre alla radio della polizia, stava dando di matto …" Parlava affrettata, ansiosa. "Stai bene?"

La mia gola crebbe di tre taglie. "Stefan …"

"Lo so."

Si lasciò cadere inginocchiandosi lì nello spazio tra le mie gambe piegate, con le ginocchia nude a graffiarsi contro l'asfalto. Incrociai il suo sguardo, quello stesso sguardo che aveva tutto il potere di tenermi insieme e stravolgermi dentro ed entrambe le cose nello stesso momento. Le sue braccia mi circondarono e l'attimo dopo ero completamente premuto contro di lei, aggrappato stretto attorno alla sua vita quanto lei lo era al mio collo, la faccia seppellita nell'incavo del suo collo e nel vago odore fruttato dei suoi capelli. La strinsi così forte da farle male, la strinsi fino a che non mi sembrò di stare per romperla, così piccola e morbida come era. Ma non si ruppe. Quello fui io.

Qualcosa si tese, si incrinò, e si spaccò, e per la prima volta in non ricordavo quanto tempo, forse da quando ero bambino, mi sembrò di essere ad un secondo dalle lacrime. Forse in lacrime ci ero già.

"Andrà tutto bene," mi sussurrò piano nell'orecchio, e lo sapevo che non ne sapeva niente, e che non ero un ragazzino che aveva bisogno di sentirsi dire qualche stronzata per stare più tranquillo, ma dio se fu un momento meno schifoso degli altri quello in cui l'unica cosa che volevo era crederle, seppellito nel suo odore e avvolto nel suo calore.

"Damon."

Elena mi lasciò andare lentamente, delicatamente, ed entrambi ci voltammo in direzione della voce di mio padre, in piedi lì accanto, che mi aveva appena chiamato. Lei spostò il peso sedendosi sui talloni, io incespicai per alzarmi, rivolgendogli il più implorante degli sguardi, per favore per favore fammi sapere qualcosa.

"Sta bene," disse, e se quelle non furono le più belle parole mai uscite dalla sua bocca io non lo so cosa erano. "La sua milza si è rotta, hanno dovuto operare e rimuoverla. Ma è stato bravo, è andata bene, sta bene. Starà bene."

La sua voce era traballante mentre lo ripeteva, quai dovesse farlo per rassicurarsi davvero.

Elena si alzò in piedi. "Vado a dirlo Care. Così sarà più tranquilla."

Annuii nella sua direzione, abbastanza incapace di parlare per via della gola sempre troppo spessa (se stessi piangendo o no, ancora non lo avevo capito), e lei mi restituì un lungo sguardo e l'accenno di un sorriso di rassicurazione, prima di passare oltre le porte scorrevoli.

Mio padre si passò una mano sulla faccia. Adesso, stava davvero tremando. Non avevo mai visto mio padre tremare.

"Cosa diavolo stavi pensando?"

"Non lo so," strozzai fuori. "Non ho pensato …"

"Lo so che non hai pensato, perché non lo fai mai! Lo sai quanto è stato da irresponsabili, quando non eri chiaramente in grado di tenerlo d'occhio o-"

"Mi dispiace!"

Credeva che non ci avessi pensato da solo? Che l'unica volta dove avrei dovuto controllarlo un po', solo per assicurarmi che tenesse le mani sul volante e gli occhi sulla strada, una cosa così basilare, lo avevo quasi ammazzato? Pensava che non lo sapessi?

Non replicò. Cazzo se sembrava miserabile. Cazzo, quanto mi sentivo miserabile pure io.

"Sei tutto intero?"

Annuii.

"Cristo santo," lasciò uscire in un respiro incerto. Chiuse la mano attorno alla mia testa, scostò via dalla fronte i capelli che coprivano il taglio superficiale ancora aperto, mi tirò a sé e mi tenne lì. Fu goffo e stranamente rassicurante, nonché la cosa più vicina ad un abbraccio che avessimo avuto da davvero parecchio, parecchio tempo. "Vai a farti controllare la testa, per favore. Ci sono almeno tre infermieri e due dottori che ti cercano per farti quella dannata TAC. Poi ti porto a casa."


***


Mi etichettarono come commozione cerebrale di secondo grado, il che voleva che il mio cervello non era né danneggiato né in procinto di esplodere, e che gli effetti peggiori erano già passati, ma anche che sarei dovuto rimanere lì per la notte per restare in osservazione e avere la mia dose di quel "riposo assoluto" scribacchiato con grafia incomprensibile nei risultati che mi diedero. Quindi la prima cosa che feci fu chiedere i fogli per le dimissioni, meticolosamente spuntando qualsiasi casellina ci fosse da spuntare per sollevare chiunque altro da ogni responsabilità.

Andai nella stanza di Stefan. Era ancora addormentato, messo ko dall'anestetico, e se ne stava lì a giacere nel bianco - bianche le lenzuola, bianca la sua faccia - con nostro padre seduto in una sedia accanto al letto.

"Che diavolo è successo qui?" domandai guardandomi attorno.

A parte il bianco che avvolgeva Stefan, il resto della stanza sembrava qualcosa uscito da un arcobaleno ubriaco, tra post-it color evidenziatore, gialli, verdi, blu, fucsia, arancio, e fiori, foto, e altri ammennicoli vari che rischiarono seriamente di farmi tornare su la commozione.

Giuseppe si stirò il collo. "Una ragazzina bionda è venuta a mettere su tutto. Ha detto qualcosa sul non volere che si svegliasse in una stanza triste. Credo, parlava davvero tanto per riuscire a starle dietro."

Andai a sedermi sull'altra sedia, dove c'era una coperta di quelle afghane con dieci fantasie diverse attaccate insieme che immaginai fosse anche lei parte della scena.

"Quella è la sua ragazza."

"Me l'ero immaginato."

Restammo in silenzio per quello che sembrò un tempo infinito, rotto solo dal quieto bip bip delle macchine a cui avevano attaccato mio fratello con tutti quei fili e tubicini. Seguii con lo sguardo il percorso di ognuno di essi, quelli che gli finivano nel braccio e quegli che gli finivano sul petto. Era più facile che guardare quella faccia pallida. Mi chiesi quanto ci avrebbe messo ad uscire di lì, se avrebbe potuto ancora giocare a football, se la sua vita sarebbe cambiata in qualche modo. Avevano detto di no, solo qualche accortezza, ma io avevo mille paranoie e sensi di colpa per ognuna di esse.

"Là fuori …" disse infine mio padre. "Era la figlia di Gilbert."

Sentii il petto contrarsi appena, e una scintilla di collera riemergere da dove le ultime ore e il pensiero di Stefan l'avevano momentaneamente eclissata. Continuai a seguire i giri dei fili e tubicini, ricominciando daccapo, e non dissi niente.

"Sembra una ragazza a posto."

"Non ti azzardare," dissi aspro.

Si sporse in avanti, appoggiando gli avambracci sulle ginocchia, guardandomi dall'altro lato del corpo addormentato di Stefan.

"Lo so cosa stai pensando."

"No, non lo sai."

"E tu non sai come stanno le cose. Non è niente di personale, Damon."

"So che stai prendendo ad una famiglia l'unica cosa che hanno, mandandoli per la strada per quanto ne sai. Li stai rovinando."

Scosse lentamente la testa. "Quell'uomo si sta rovinando. Ho cercato di ragionarci, ho fatto offerte vantaggiose. Lui ha continuato a rovinare le cose, se stesso, gli affari, la sua famiglia con lui. Ti comporti come se io fossi il cattivo qui, quando sto solo cercando di fare qualcosa di buono e quel che è meglio per una città di cui mi importa, e di farlo come meglio posso. Stiamo parlando di migliaia di posti di lavoro, e benessere per l'intera area-"

"Se è quello che ti racconti per sentirti meglio," lo interruppi asciutto, sentendo la rabbia tornare a pulsarmi contro le tempie.

Si raddrizzò, tirandosi su. "Non ho bisogno di sentirmi meglio. Vuoi venire a dirmi che te ne fregherebbe davvero qualcosa, se non fosse per una ragazza? Sappiamo entrambi la risposta, quindi non venirmi a fare la morale."

Mi alzai di scatto, tirai a me la porta aprendola con un colpo brusco.

"Me ne vado."

Fece per alzarsi. "Ti accompagno."

"No," risposi secco senza neanche voltarmi a guardarlo. "Non voglio niente da te."


Attraversai il corridoio a passo così inamovibile e incazzato che sul momento quasi non me ne accorsi. Fu il vestitino nero a minuscoli pallini bianchi ad entrare sfuocato nella mia visuale laterale e farmi fermare.

Era addormentata. Le gambe rannicchiate sopra il sedile in plastica da ospedale, incrociate alle caviglie e con le converse mezze slegate, la testa appoggiata su una mano.

Tornai indietro, e mi inginocchiai di fronte a lei, tenendomi in equilibrio sui talloni. Allungai una mano per spostarle una ciocca scura dal viso che era sfuggita dalla sua coda allentata, su cui il suo respiro stava soffiando facendola muovere appena, e mi sentii un po' triste e un po' patetico e anche un po' un idiota, quando rimasi lì a guardarle il viso pensando che fosse davvero la cosa più bella dentro a questo posto. Le accarezzai piano la guancia con il retro delle dita.

Elena si svegliò con un sobbalzo, sospirando un "Oh, dio, sei tu." Si stropicciò gli occhi con le mani, premendo i palmi contro le palpebre per svegliarsi del tutto.

"Cosa ci fai ancora qui?" le chiesi.

"Ti stavo aspettando, per sapere come stavi. Stavi finendo di fare altri controlli."

"Ho paura che hai aspettato per notizie già risapute. Ho una testa pessima, ma a quanto pare anche molto dura."

Curvò appena le labbra all'insù. Quanto ero egoisticamente felice che avesse aspettato, solo per vedere quella piccola curva all'insù.

Si sfaldò un poco. "Non sei … arrabbiato che sono qui? Voglio dire, non sapevo se davvero mi volessi qui, visto che avevi detto …"

Il mio cuore si infilzò da solo, malamente, sopra alle parole che le avevo detto e che lei lasciò sospese, sullo sguardo frantumato di Elena che adesso si mischiava a quello esitante con cui mi stava scrutando in attesa. Lo spinsi via - ciò che avevo detto, ciò che non avevo detto - e cambiai discorso prima che fossi costretto a darne conto.

"Sono le quattro del mattino passate, Elena, ed è stata una notte già fin troppo lunga. Ti accompagno a casa."


***


Non seppi in che stato ero veramente ridotto finché non mi ritrovai davanti allo specchio, in un bagno piastrellato di rosa.

La ferita che scoprii sollevandomi i capelli sulla fronte, e che era stata infine incollata e incerottata, era solo l'inizio. Avevo graffi e altri taglietti superficiali sugli zigomi, la mascella e le mani, che spiccavano arrossati contro il pallore del resto della faccia e gli occhi vagamente cerchiati, non sapevo se da un'altra botta o solo dalla stanchezza. Mi sfuggì una smorfia quando mi tolsi la camicia, nonostante la cautela con cui la feci scivolare via dalle spalle, rivelando lividi pesti sotto alle costole e sul fianco destro, nonché la macchia bluastra nell'incavo del braccio dove doveva essersi rotta la vena quando avevo tirato via l'ago. Solo in quel momento li avvertii, tutti insieme, ognuno di quei colpi, sentendomi per davvero danneggiato fino all'osso.

Mi sciacquai la faccia, la bocca, il collo, qualsiasi cosa nel tentativo di togliermi di dosso l'odore di guasto e disinfettante che ancora mi portavo dietro, e mezzo sorridendo quando l'unico sapone che trovai fu un bagnoschiuma alla pesca e mandorle che sapeva di ragazza da un metro di distanza. Ma se non altro avrei avuto addosso l'odore di Elena, che come prospettiva era decisamente molto meglio.

Ancora non mi ero del tutto capacitato di cosa ci facessi nel suo bagno, ad usare il suo sapone ed un asciugamano con un fiore ed una E ricamati sul lato. Probabilmente era la commozione, che mi stava ancora giocando qualche ultimo scherzo facendomi perdere altri pezzi.

Eccetto che i pezzi ce li avevo più o meno tutti, da quando avevamo varcato in silenzio l'uscita dell'ospedale, a quando in silenzio avevamo camminato in silenzio per le strade deserte, ed in silenzio eravamo arrivati sull'ultimo gradino del suo portico avvolto nel buio, la luce di servizio già spenta chissà da quanto. Ma non era stato un silenzio strano o imbarazzato. Era invece stato uno sorprendentemente confortante, nel modo in cui lo sono i silenzi riempiti da tutt'altra vicinanza, da braccia appena sfiorate di tanto in tanto, da un ritmo naturale in cui era così facile ricadere. Le avevo davvero detto di non volerla più vedere? Perché quella notte, in quel silenzio, una cosa del genere sembrava essere successa in una qualche dimensione parallela.

Sul portico al buio le avevo dato la buonanotte, ed Elena mi aveva guardato come se mi fossero appena spuntate tre teste. Ero pazzo, aveva detto, se pensavo davvero di andarmene in giro da solo, di notte, a piedi, dopo un incidente e la peggiore nottata della mia vita, quando anzi avrei dovuto essere ancora in un letto d'ospedale se solo non fossi stato troppo stupidamente testardo. Dopo una breve discussione che tanto sapevo in partenza di non avere alcuna speranza di vincere, non con quell'Elena almeno, quella in versione piccola cosina cocciuta, mi ero ritrovato sulla soglia del suo bagno mentre lei mi schiaffava in mano l'asciugamano ricamato con i fiori e straparlava istruzioni come se la scienza dei rubinetti caldo-freddo fosse diventata materia da ingegneria nucleare. Si era interrotta e mi aveva guardato da sotto in su per un momento troppo a lungo, quando si era resa conto che mi stava sfiorando le dita con la mano che ancora teneva stretto il telo, e subito dopo era scappata via mormorando un impacciato "ti lascio da solo."

Rimisi su la camicia e ne chiusi qualche bottone, troppo stravolto però per riuscire ad abbottonarli tutti o anche solo metterli nell'ordine giusto. Fu un piccolo momento di beatitudine, quando toccai il letto. Anche perché, ammettiamolo, in una condizione in cui ero talmente sfinito che avrei probabilmente detto di sì anche ad un letto di chiodi, fiori e rosa a parte, la camera di Elena non era certo la peggiore prospettiva del mondo.

(Delicate - Damien Rice)

Non la sentii tornare. Mi accorsi di lei solo quando il materasso si incurvò appena sotto al suo peso, mentre si sdraiava accanto a me. Attesi qualche secondo, lei non disse niente.

Lo sapevo cosa stava facendo.

"Alcune persone lo trovano piuttosto inquietante essere guardate mentre dormono," borbottai.

Le infinite volte in cui lo aveva fatto - tutte quelle ore folli del mattino presto in cui temporeggiava e si metteva lì a guardarmi prima di sgattaiolare via dal mio letto, come se io non fossi stato tremendamente, perdutamente consapevole di ogni suo movimento e di ogni contorno del suo essere.

"Non stai dormendo, o non staresti parlando."

Piegai un angolo della bocca in un mezzo sorriso. Sentii le sue dita sfiorare le mie, sopra al cuscino.

"E' stato orribile, lo sai? Il momento in cui ho sentito dell'incidente e non sapevo cosa ti fosse successo. Avevo pregato di non dover mai più provare niente del genere." Il tremore nella sua voce mi fece riaprire le palpebre. C'era ancora accesa la fioca luce sul comodino alle mie spalle, e lì in quelle ombre lunghe e sfumate, i suoi occhi su di me mi parvero più grandi, più scuri e più intensi che mai. Dopo un attimo di esitazione, mi sfiorò con le dita la base del collo, lì dove il colletto della camicia si apriva tutto storto, fissando quel punto tutta assorta come se solo toccandolo potesse assicurarsi che fosse reale. "Sono stati solo pochi minuti, ma è stato orribile," sussurrò piano, forse a me, forse solo a se stessa.

"Sto bene," dissi, posando la mano sul suo avambraccio.

Realizzai in quel momento che avrei dovuto parlarle di un milione di cose - di mio padre e di cosa aveva intenzione di fare, di Donovan che avevo pestato e di cosa fosse successo davvero tra loro - ma dio che sensazione che era poterla toccare, ed invece di dirle tutto quello che avevo da dirle, rimasi lì muto ad accarezzare la peluria impalpabile del braccio che diventava elettrica sotto alle mia dita. Spostò la mano più su verso la mia nuca, la intrecciò con i capelli dietro al collo, stropicciandoli piano, ed io chiusi gli occhi centellinandomi ogni istante del balsamo che era quel suo gesto.

Sentii il suo respiro prima di sentire le sue labbra. Una pressione delicata ed esitante mezza sulla bocca e mezza no.

Aprii gli occhi. E lei era lì, infinitamente vicina, più di quanto lo fosse mai stata, con lo sguardo acceso e su di me, pieno di milioni di cose, ognuna in grado di farmi agitare il sangue ognuna in un modo diverso.

La tirai a me.

Sapeva di sere d'estate, dentifricio alla fragola e tutto ciò che c'è di buono a questo mondo.

Con la mano salii dal suo braccio al retro della testa, per non farla scappare, per premere su di lei, per assaggiarla lentamente in ogni nota e sfumatura familiare che sapevo ci avrei trovato e in quelle completamente nuove che non avrei mai immaginato di scoprire, e permetterle di fare lo stesso, con le sue dita sottili nell'incavo del mio collo e la lingua piccola a modellarsi sulla mia.

Esalò un respiro più roco e tremolante, e fu quel respiro che davvero cambiò tutto.

Prememmo più forte l'uno contro l'altra, il mio corpo tutto sopra al suo, e non c'era più niente di lento o esitante nelle mani impigliate nei capelli di entrambi, nelle dita che correvano dove la pelle era più calda, nel toglierci e restituirci e toglierci tutto il fiato che avevamo da togliere. Smisi di pensare, smisi di avere lividi, smisi di esistere, perché non c'era più niente oltre al modo in cui Elena teneva appena il mio labbro tra i denti per rilasciarlo l'attimo dopo e poi riprenderselo ancora, alle sue dita affondate nelle mie spalle attraverso la camicia, costosissima stupidissima camicia sollevata e storta sul mio addome, al suo corpo che si inarcava e premeva e cercava le mie mani. Stavo bruciando in un bisogno che non avevo mai conosciuto, e non me ne resi conto fino a che Elena non prese il mio volto tra le mani, per sollevarlo dalla scollatura su cui era sceso e riportarlo verso il suo, che con le ginocchia le avevo aperto le gambe e la mia erezione stava premendo in movimenti lenti ma decisi contro il cotone delle sue mutandine. La mia mano destra era sull'esterno della sua coscia, le aveva appena tirato completamente su la gonna del suo bel vestitino a pallini arrotolandola intorno ai fianchi.

Mi fermai, la guardai. Le guance arrossate, gli occhi grandi, il respiro corto.

Posai la fronte contro la sua - riprendendo fiato, riprendendo il contatto con la realtà, riprendendo il controllo.

"Mi ... mi odi?" mormorò in un sussurro spezzato contro il mio orecchio.

La strinsi più forte.

"Ti amo."

Scivolai ad appoggiare la testa nell'incavo del suo collo. La sentii smettere di respirare. La sentii circondarmi più stretto. Non la sentii dire niente.

Non mi importò. Restai con l'orecchio contro il suo petto, il battito pulsante al di sotto che correva quasi impazzito, morbido thump thump contro la mia testa pulsante, fino a perdere la cognizione del tempo e addormentarmi lì. Era appena iniziata l'alba.


***


"Non avresti dovuto farlo," ripeto per la seconda volta.

Sposto il telefono nell'altra mano, e continuo a camminare avanti e indietro per il corridoio gettando un'altra occhiata verso l'orologio alla parete. Un paio di metri più avanti, dietro alla porta a vetri di una meeting room che ho con deliberata nonchalance preso in prestito per un paio d'ore dagli uffici della Salvatore & Associates appositamente per l'occasione, Katherine sta parlando animatamente con una donna dai capelli scuri che presumo essere il suo avvocato. La sua faccia sembra tutt'altro che contenta. Bene.

"Avresti preferito che Elijah se la rifacesse su di te per essere andato a letto con la sua fidanzata, mandando all'aria tutti i nostri piani?" replica Stefan con quel suo irritante tono da "so io cosa è meglio".

Non ho idea di come siano andate le cose tra lui e la biondina. So solo che lo Stefan medaglia olimpica in impiccio con triplo salto carpiato di seccatura è tornato, ed è tornato per rompermi le palle.

"Elena non è parte di tutto questo e avresti dovuto lasciarla fuori."

"Sì che lo è," ribatte. "Ce l'hai fatta diventare tu andandoci a letto."

"Non avevi comunque il diritto di andare a ritirare fuori quella cosa! Cosa pensavi di fare, poi, usarla davvero come sporco trucchetto per convincerla?"

"O magari pensavo che dovrebbe saperlo. Magari pensavo di farti un favore. Magari ti farebbe bene, almeno così riusciremmo a parl-"

"Non c'è niente di cui parlare," lo interrompo brusco.

Stefan fa una lunga pausa prima di rispondere.

"Papà è morto, Damon," dice ammorbidendo i toni. "Devi far pace con la cosa."

"Sono perfettamente in pace con la cosa, grazie per l'interessamento," replico con una smorfia. Il ding dell'ascensore risuona nel corridoio, e questo signori e signore è il mio segnale per porre fine a questa conversazione. "Sai invece con cos'è che non sono in pace? Con la mia presto-ex moglie. E ho fatto volare un avvocato fin qui da Los Angeles apposta per questo scopo, perciò meglio non farlo aspettare. Devo andare."

Chiudo la chiamata senza neanche salutare, proprio mentre le porte scorrevoli si aprono su un'alta, sexy, bionda in uno stretto tailleur nero dall'aria eccessivamente costosa, che digita rapidamente sul suo cellulare mentre avanza nel corridoio accompagnata dal ticchettio di tacchi follemente alti e follemente sottili.

Alza lo sguardo, fa un veloce scan della mia persona. "Damon Salvatore?"

Corrugo la fronte. "Chi diavolo sei?"

Rotea lo sguardo, mette via il telefono.

"Sono il tuo dannato avvocato," dice mentre mi sorpassa a passi decisi diretta verso la meeting room. "O, come tu stesso hai sottolineato quando hai assunto il nostro studio, quel qualcuno che ti libererà della più grande stronza esistente."

Si ferma davanti alla porta chiusa, quando vede che non l'ho seguita. "Beh?"

Sollevo un sopracciglio, dubbioso. "Sei … Klaus? Credevo di aver parlato con un certo Klaus."

La bionda si produce in una faccia scocciata, sottolineata da un arricciamento delle labbra piene e imbronciate, che sembra voler dire uomini, e non in un'accezione particolarmente lusinghiera. Mi guarda come se fossi la cosa più mentalmente inetta ad andare in giro sulla faccia della Terra. Insieme a tutto il genere maschile là fuori, si intende.

"Ti sembro un uomo, per caso?"

"Decisamente no."

"Sono Rebekah, Klaus è mio fratello. Siamo tutti avvocati in famiglia. E allo studio abbiamo pensato che io fossi più … adatta, per il tuo caso. Credimi," aggiunge appena prima di aprire la porta, con un sorriso compiaciuto che mette vagamente paura. "Non è lei la più grande stronza esistente."


Non è un trattativa. E' una catfight in versione legale ma non per questo meno sanguinosa giocata secondo regole e logiche che non riesco ad afferrare del tutto, e non perché ad essermi sconosciuti siano i termini giuridici. Ad essermi sconosciuti sono i complimenti che per qualche motivo suonano come insulti, detti col sorriso appena prima di affondare le richieste dell'altra parte con freddo distacco e tempismo perfetto. Katherine interviene, il suo avvocato Nadia le dice di non preoccuparsi.

Beh, fossi in lei mi preoccuperei eccome. Rebekah è spietata, volge clausole a suo favore, rigira le questioni, riduce a pezzi tutte le sue richieste.

Il succo del discorso è facile. Senza accordi pre-esistenti, senza figli, senza proprietà condivise, senza fondate pretese su soldi che ho acquisito dopo il matrimonio, senza di fatto essere stati insieme per l'ultimo anno e mezzo, senza neanche unpesce rosso o un animaletto domestico, Katherine rimane con le briciole.

"Il mio cliente si offre di pagare le spese legali così da poter chiudere la questione ancora più in fretta," sorride Rebekah. "E questo perché siamo generosi. Oh, adoro quella borsa. E' dello scorso anno, vero?"

Katherine mi osserva. Io osservo lei. A differenza sua io non ho aperto bocca da quando abbiamo cominciato, lasciando alle signore il privilegio di tirare fuori gli artigli e le unghie, per una cazzo di volta sentendomi piuttosto al sicuro nel mio angoletto, con la mia arma legalmente bionda di nuova scoperta.

Le sorrido, pacifico. Katherine fa una smorfia. E' una bella sensazione vederla agitarsi.

"Sto per vomitare."

Allontana la sedia facendola stridere contro il pavimento, esce velocemente dalla stanza.

Faccio roteare gli occhi al cielo, mi alzo anche io.

Rebekah mi lancia un'occhiataccia e mi fa cenno di no con la testa. "Ci tengo a sconsigliare qualsiasi trattativa privata."

"Voglio solo prendermi la soddisfazione di darle il colpo finale," rispondo con un sorrisetto, sistemandomi le maniche della camicia.

Lei mi risponde con di nuovo quella faccia da uomini.

Cammino verso il bagno delle signore dall'altro lato del corridoio dove l'ho appena vista entrare.

"Andiamo, Katherine, è finita," dico al bagno vuoto, appoggiandomi contro il muro accanto ai lavandini. "Accetta la sconfitta con grazia così che possiamo entrambi andarcene per le nostre strade e finalmente far finta che niente di tutto questo sia mai accaduto."

Uno sciacquone parte da uno dei cubicoli. Katherine esce e va verso il lavabo per sciacquarsi la faccia, si scrolla le goccioline d'acqua dalle mani.

"Sono incinta, stronzo."

Scoppio a ridere. "Certo. Come no. La carta della donna incinta. Solo tu potevi inventarti una cosa del genere. Davvero la tua bassezza non conosce limiti?"

Getta con violenza nel cestino la carta con cui ha appena finito di asciugarsi, inizia a frugare nella borsa e ne tira fuori una manciata di test di gravidanza che sparpaglia sopra il ripiano.

"Tieni."

Ne conto sei. Mezza dozzina di segni più che lì su quei bastoncini hanno tutta l'aria di essere una pessima presa per il culo in formato gioco shanghai. Quando alzo lo sguardo e incontro il suo nello specchio, è quello il momento in cui qualcosa di terribilmente simile al panico, vero panico, inizia a strisciarmi su lungo la pelle. Penso a quella notte quando … No. Dio, no, non voglio neanche finire di formulare quel pensiero.

Katherine vede il cambiamento nella mia espressione e solleva un angolo delle labbra, ma non sta sorridendo, non è divertita, non è neanche sarcastica.

"Non mi chiedi di chi è?"

"No."

La mia debole replica non è una risposta alla sua domanda. E' negazione pura e cruda.

Mi passa davanti, diretta alla porta, e quando mi guarda dritto in faccia vedo esattamente quanto sia incazzata per la cosa. Fredda, aspra, aggiunge, "Mi scuserai se non faccio le congratulazioni."

La porta del bagno sbatte alle mie spalle. Pietrificato, immobile dove sono, l'unica cosa che mi viene da pensare è che adesso sono io quello che sta per vomitare.


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Nota. Mi sono scervellata alla ricerca di una scusa plausibile per cui Caroline potesse essersi sottoposta ad esami in grado di diagnosticare un'infertilità-è piuttosto debole, ma passatemela per buona se potete (o questo capitolo non usciva più)


Spazio autrice

Buonasera! Non chiedo se mi perdonate il ritardo perché ... beh. Ecco.

Ammetto di non avere nessuna idea di che reazioni possa suscitare questa "svolta" finale (se il grido di dolore di Pippo che mi perseguita da due giorni é un'indicazione, direi non bene xD), ma qui é dove la storia ed i personaggi mi hanno portato, e quindi é qui che ci ritroviamo. Personalmente sono un sacco elettrizzata all'idea di cosa significherà per Damon - ma a me c'è chi mi chiama sadica, quindi sentitevi libere di unirvi al grido di dolore, non ve ne farei una colpa.

Mi dispiace per i due mesi di attesa per il capitolo, ma sono stata sommersa di lavoro e visto che questi sono gli ultimi capitoli hanno bisogno di prendersi il loro tempo per venire fuori. Spero che comunque, al di là di tutto, possa aver ripagato.

Ne ho contati altri 2, forse 3, prima di mettere la parola fine.

Grazie a IGBD per la pubblicazione delle anteprime, e grazie a tutte voi che ancora mi accompagnate leggendo questa storia, con il vostro supporto e i vostri pensieri. Mi emozionate tutte le volte, non scherzo.

Un bacio, a presto

ever

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