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Autore: _Trixie_    28/03/2015    4 recensioni
[Seguito di Quattro volte in cui Emma e Regina furono felici e la quinta in cui non lo furono e Quando un cuore si spezza.]
«Io e Regina abbiamo un figlio da proteggere. Pensavamo sarebbe stato meglio andarcene, tornare a Storybrooke, se questo fosse stato ciò che Henry desiderava. Dopo quello che abbiamo saputo non lo lasceremo in un mondo pericoloso come questo, senza di noi. Ma quando non ci sarà più motivo di temere della sua vita, sarà lui a decidere se ci vorrà accanto o meno» rispose Emma.
Regina sospirò e chiuse gli occhi. Emma aveva ragione, ma non c’era motivo di parlarne in quel momento.
«Ma questo è il tuo mondo, tesoro, è la tua casa» rispose Biancaneve con un filo di voce.
Emma scosse la testa.
In quel momento, il grido di una donna squarciò l’aria.
Genere: Angst, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Altri, Emma Swan, Henry Mills, Regina Mills
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'This is your heart, can you feel it?'
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Capitolo XIII
Per evitare un addio
 
 
 
«Sei sicuro che funzionerà?» domandò David per l’ennesima volta, preoccupato per il piano che coinvolgeva la moglie.
«Oh, non si può mai esser certi di nulla a questo mondo, caro» rispose Tremotino, stringendosi nelle spalle.
David sospirò. Almeno questa volta aveva ottenuto una risposta diversa da una semplice risata.
«Non ci resta che scoprirlo» disse Regina indicando il diamante posato al centro del pavimento.
Sospirò. Non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui Cora glielo aveva regalato.
Per ricordarti che tu sei come questo diamante, mia cara, le aveva detto. Splendente, tagliente, indistruttibile. Fa’ in modo che i potenti uccidano per averti, Regina.
Non era esattamente quello che molte persone avrebbero giudicato un ricordo felice, ma era quanto di più vicino all’affetto ci si fosse potuto aspettare da Cora Mills.
Regina non era entusiasta all’idea di usare quel diamante per catturare la coscienza di Marvos e non solo per via di sua madre.
Ci aveva riflettuto a lungo, ma non aveva mai avuto il coraggio di farlo.
Aveva pensato di scalfirlo e ricavarne una scheggia piccola, ma abbastanza grande da poter essere levigata e montata su un anello.
Con quello, avrebbe voluto chiedere a Emma Swan di sposarla.
Aveva considerato di farlo diverse volte, ma ogni volta si era detta che era una pazzia, che era troppo presto e non voleva spaventare Emma, che non c’era motivo di affrettare le cose e che ci sarebbe stato tempo, per sposarsi. E poi, c’erano sempre problemi. Henry, il loro cuore, la guerra.
Regina non voleva che Emma pensasse che la volesse sposare solo per paura di perderla, come se volesse sistemare ogni cosa, prima di separarsi di nuovo a causa di questo o di quello.
Voleva sposare Emma perché la ragazza sapesse che lei non se ne sarebbe mai andata.
Farlo all’alba di una battaglia, forse, sarebbe stato romantico, ma irreale, artificioso e terribilmente melodrammatico.
Regina voleva solo chiedere alla sua Emma in jeans e canottiera di aggiungere cinque lettere, “Mills”, al suo cognome e avere il permesso di aggiungere “Swan” al proprio.
La donna scosse la testa, scacciando quei pensieri.
Tremotino fece apparire un ago da fuso dal nulla, porgendolo, con il diamante, verso Biancaneve, che lo guardò scandalizzata.
 «Sul serio?» fece David, mettendosi di fronte alla moglie con fare protettivo.
Tremotino si strinse nelle spalle.
«Ho pensato che un tocco di classe sarebbe stato carino» rispose l’uomo, ridacchiando e facendo sparire il fuso dalle proprie mani, così come era apparso. «A Cora piacevano questi piccoli dettagli drammatici».
Regina roteò gli occhi al cielo.
«Cosa mi sto chiaramente perdendo?» domandò Emma, spostando lo sguardo dai propri genitori a Regina e viceversa.
«La Bella Addormentata si punse con l’ago di un fuso. E poi dormì per i seguenti cento anni» rispose David.
Emma si strinse nelle spalle.
«Sarebbe stato carino usare un fuso, sembra adatto all’atmosfera» commentò la ragazza.
«Emma!» esclamarono all’unisono i suoi genitori.
Tremotino guardò Regina.
«Wow, credevo che solo gli uomini potessero avere il Complesso di Edipo».
«Ho dato la laurea in psicologia ad Archie, non a te, Tremotino. Chiudi quella boccaccia fetida» rispose immediatamente Regina. «Quanto altro tempo abbiamo intenzione di perdere?»
Biancaneve, alla domanda esasperata della matrigna - o nuora - sembrò riscuotersi e ritrovare un po’ del suo buonsenso. Dal corpetto estrasse uno stiletto - dopotutto, c’era una guerra alle porte - con il quale si provocò un leggero, ma profondo, taglio sull’indice sinistro.
Fece gocciolare il sangue sul diamante, sulla cui superficie apparvero immediatamente striature rossastre e irregolari.
«E ora?» domandò Biancaneve, quando la terza goccia del suo sangue cadde sul gioiello.
«E ora è meglio che tu ti metta a correre quanto più velocemente te lo permettono le tue regali gambe, mia cara» rispose Tremotino. «Non so quanta fame di rimorsi possa avere, questa Coscienza».
 

«Quel pezzo di m-»
Il resto della frase di David venne inghiottito dal rumore degli zoccoli dei cavalli, che si acuì all’improvviso quando gli animali passarono dal galoppare sull’erba alla terra battuta.
«Aveva detto che non avresti corso pericolo!» urlò l’uomo, rosso in viso per la rabbia. «Che gran figlio di-»
«Ma dove diavolo hai imparato a parlare così?!» domandò sua moglie, che galoppava accanto a lui sulla propria giumenta.
«Nostra figlia» rispose David. «Ma se Tremotino dovesse capitarmi tra le mani, ti giuro che gli infilo la spada su per il buco del culo!»
Biancaneve sperò di aver capito male le parole del marito. Del resto, sarebbe stato del tutto probabile prendere fischi per fiaschi, con il vento che soffiava contro di loro e i cavalli che si allontanavano dal castello quanto più velocemente era permesso alle loro zampe.
Si stavano dirigendo alle proprie sezioni dell’esercito, con quello che speravano essere un ampio anticipo rispetto all’arrivo dei soldati di Marvos, per permettere a Biancaneve di stare lontana dal castello e da quella Coscienza vagante che si sarebbe nutrita dei suoi rimorsi.
«Ferma!» gridò David, tirando le redini del proprio cavallo. Biancaneve lo imitò immediatamente, senza nemmeno dubitare che il marito stesse facendo la cosa giusta.
Non era la prima guerra che combattevano fianco a fianco e avevano imparato a fidarsi l’uno dell’altra sul campo di battaglia, senza esitazioni.
«Cosa c’è?»
David le si affiancò e, con il braccio, indicò alla propria destra. Biancaneve seguì la direzione del dito del marito, fino a individuare una sagoma scura, dai contorni poco definiti a causa della lontananza.
«Un uomo a cavallo?» ipotizzò la donna, più per la velocità con cui si muoveva che per ciò che riusciva a distinguere.
David annuì.
«Uno dei nostri soldati?» domandò Biancaneve. «Credi che Marvos abbia già attaccato?»
David scosse la testa.
«Non ne ho idea. Immagino che lo scopriremo prima, andandogli incontro».
Entrambi, spronarono i propri cavalli.
 

«Ti serve aiuto?»
Tremotino trasalì e si voltò.
«Belle…»
«Ruby mi ha detto che eri qui, solo, ad aspettare la Coscienza di Marvos» rispose la ragazza. «Mi chiedevo se avessi bisogno di qualcosa».
«Grazie, Belle. Sto bene» rispose l’uomo.  «Ma tu dovresti andartene. Potrebbe essere pericoloso rimanere qui».
«Non ho mai ucciso nessuno, non posso avere rimorsi di coscienza peggiori di quelli di Biancaneve» rispose la ragazza, facendo un passo avanti.
«Belle, mi-»
Lei alzò una mano per interromperlo e Tremotino tacque.
«Sono ancora furiosa. Mi vedi ancora come la ragazzina piena di voglia di avventura, che si lancia tra la braccia di uno sconosciuto per salvare le persone che ama, ma io sono cresciuta. Sono una donna. Una donna che ha scelto di sposarti e avere un figlio con te. Non puoi semplicemente decidere cosa è meglio per me, tenendomi nascosto ciò che sai con la scusa di proteggermi.
Sono tua moglie. Non importa quanto difficile o doloroso possa essere il futuro, lo affronteremo insieme. Ma smettila di trattarmi come se potessi rompermi da un momento all’altro in mille pezzi. O come se dovessi provarmi, continuamente, qualcosa. Ti ho conosciuto durante il periodo più buio della tua vita, Tremotino, e mi sono innamorata di te. Ho conosciuto anche la parte migliore di te, e mi hai mostrato ogni tua debolezza, ogni tua paura. Mi hai mostrato il tuo passato e le tue ferite. E, ogni volta che mi rivelavi un pezzetto della tua anima, mi sono innamorata ancora un po’ di te.
Ti amo e voglio che i tuoi turbamenti siano i miei turbamenti e i tuoi sorrisi siano i miei e… non può funzionare, se non la smetti di provare ad apparire come un eroe ai miei occhi. Lo sei già, per me. Ma quello di cui ho bisogno è un marito. Perciò… sono ancora furiosa» disse Belle, prendendo un respiro profondo, riempiendosi i polmoni. Da quando aveva iniziato a parlare, velocemente, inciampando sulle lettere, balbettando, aveva preso a gesticolare vistosamente a camminare avanti e indietro, freneticamente, guardando a terra e poi al soffitto, ma in quel momento Belle si fermò di fronte a Tremotino, accennando un sorriso.
«Però puoi tornare a dormire nella nostra camera. Mi hanno detto che il letto in cui dormi ora è uno dei peggiori dell’intero reame».
L’uomo sospirò e annuì.
«Ho dormito in posti peggiori».
Si strinse nelle spalle e questa volta fu il turno di Belle per annuire.
«Allora, io…» fece la ragazza, girando il busto verso la posta. «Io vado».
«Aspetta» la fermò Tremotino, facendo un passo avanti.
Avrebbe voluto baciarla. E dirle che l’amava. E che non sarebbe mai stato degno di lei, o di Aiden.
Ma Belle aveva sentito quelle parole tante volte, nel buio della loro stanza a Storybrooke, con la schiena del marito premuta contro il petto e le braccia bianche avvolte attorno a lui. Lo aveva ascoltato, baciandogli il collo, scostandogli i capelli del volto, asciugandogli le rare lacrime che non riusciva a trattenere con il dorso della mano.
Del suo animo, Belle sapeva ogni cosa.
Era la sua mente, che Tremotino continuava a tenerle celata. Forse era il momento di cambiare le cose.
«Voglio barattare la Coscienza di Marvos per la Lancia di Achille. Un antico manufatto magico che mi-» Tremotino fece una pausa, «che ci permetterà di aiutare Aiden. Immagino che la signorina Lucas ti avrà accennato qualcosa, a riguardo».
«Sì» annuì Belle, «ma restituire la Coscienza a Marvos…»
«Oh, non ho davvero intenzione di restituirgliela. Marvos è solo un conte da strapazzo con un anello da quattro soldi che a quanto pare ha ottenuto da Venere, da cui, si dice, discenda la sua famiglia. Questo anello lo protegge da ogni incantesimo nato dalla magia oscura, come ho avuto modo di appurare una decina di giorni fa, quando ho tentato di ottenere la lancia nella via più diretta» rispose Tremotino. «Ma se gli taglio la mano con una normalissima spada, non dovrebbero esserci prob-».
«Tremotino!» esclamò Belle, esasperata.
L’uomo esitò.
«Posso riattaccargliela, dopo».
Belle lo fulminò con lo sguardo.
«D’accordo, gli restituirò la sua dannata Coscienza, ammesso che questa cada nella trappola. In fondo, è solo un’ombra in grado di ascoltare i segreti altrui e mandare in tilt il tuo sistema nervoso, nulla di davvero pericoloso».
«Sul serio, Tremotino. Non fare del male a Marvos. Già non mi sento a mio agio all’idea di ricattarlo in modo così meschino».
«Dobbiamo pensare a Aiden» le ricordò l’uomo.
Belle annuì.
«Promettimi che non lo ucciderai».
«Te lo prometto» rispose Tremotino, dopo un momento di esitazione. «Ma ora credo sia meglio che tu te ne vada. L’aria sta cambiando».
Belle non aveva notato nulla, ma d’altra parte lei non aveva alcun senso della percezione della magia, perciò si limitò a muovere veloci passi verso la porta.
Non appena fu in corridoio, un piccola macchiolina viola apparve di fronte a lei e, dopo pochi secondi, venne sostituita da una pergamena che iniziò a planare dolcemente, a zig zag, verso terra.
La ragazza la raccolse e, dopo aver letto, se la strinse al petto.
Ti amo anche io, era scritto sulla superficie ruvida, nell’inconfondibile grafia di suo marito.
 

La figura in sella al cavallo ruzzolò a terra e solo in quel momento David e Biancaneve si resero conto che non si trattava di uno dei loro soldati, ma di due persone. Un uomo e una donna, a giudicare dalla loro costituzione.
Per un folle istante, Biancaneve pensò si trattasse di... No, non poteva essere.
«Frederick!» urlò David, qualche istante dopo.
A quanto pare, aveva notato la stessa somiglianza.
Il cavallo che aveva disarcionato le due figure fece un ampio cerchio attorno a loro, prima di mettersi a brucare stancamente l’erba.
Quella che, secondo Biancaneve era una ragazza, si mise faticosamente in piedi e avvolse il braccio di Frederick - ora facilmente riconoscibile - attorno alle proprie spalle.  La giovane mosse un passo, poi cadde di nuovo a terra.
David e Biancaneve strattonarono le redini e smontarono da cavallo. Ormai, solo un paio di metri li separavano dai due nuovi arrivati.
«Aiutatemi, vi prego, aiutatemi» ansimò la ragazza, che tentò nuovamente di mettersi in piedi. «Mi chiamo Epicari, ho bisogno di aiuto, devo raggiungere il castello di Biancaneve al più presto, aiutatemi».
«Sono io Biancaneve».
Epicari spalancò gli occhi.
«Perché Frederick è con te? Cosa è successo? Re Mida?» intervenne David, affrettandosi a stendere l’amico, supino, sull’erba.
Sganciò la borraccia dalla propria cintura, l’aprì e verso l’acqua in bocca a Frederick e poi una generosa spruzzata sulla sua faccia.
L’uomo iniziò a tossire e David passò l’acqua a Epicari, perché la ragazza potesse dissetarsi. Quando questa ebbe la borraccia tra le mani, guardò titubante Biancaneve.
«Puoi bere» la incoraggiò la donna, con un sorriso. Evidentemente era una serva e certo non era solita bere l’acqua di un membro della casa reale.
«Da-David» disse Frederick, cercando di sorridere. Tutto ciò che l’uomo ottenne dai suoi muscoli fu una dolorosa smorfia, che per poco non lo fece svenire di nuovo.
«Siamo salvi» aggiunse, chiudendo gli occhi con un sospiro. «Mar-».
«L’esercito di Marvos è vicino, molto vicino. Raggiungeranno il castello in un paio di ore, forse meno» intervenne Epicari, incapace di sopportare che Frederick soffrisse ulteriormente nel tentativo di parlare. «Re Mida è morto, subito dopo avermi ordinato di portare il Principe Frederick in salvo. Vostra Maestà» aggiunse dopo una breve pausa, come se avesse momentaneamente dimenticato con chi stavo parlando.
David imprecò.
«Epicari, riesci a cavalcare ancora per qualche miglio?» le domandò invece Biancaneve.
Dovevano agire in fretta, se volevano mantenere quel poco di vantaggio che avevano su Marvos. In fondo, il conte credeva ancora di trovarli impreparati, no?
La ragazza annuì.
«Prendi la mia giumenta e-»
«No», intervenne David. «Prendi il mio cavallo e porta Frederick con te. Io prenderò il cavallo con cui sei arrivata e lo scambierò con uno di quelli di riserva una volta giunto tra i nostri soldati. Tu hai bisogno di allontanarti il più possibile dal castello» continuò poi l’uomo, rivolto alla moglie, «e per risalire la collinetta avrai bisogno di un animale in forze».
Biancaneve annuì, non potendo obiettare altrimenti, e si sciolse dai capelli un nastro con il proprio nome ricamato sopra, poi lo porse ad Epicari.
«Da’ questo ai nani all’ingresso e di’ loro che l’esercito di Marvos sta per attaccare. Loro sapranno cosa fare» disse Biancaneve, porgendo il pezzo di stoffa alla ragazza.
Epicari annuì, poi si alzò e montò cavallo con l’aiuto dell’altra donna.
Si sistemò sul retro della sella, in modo che David potesse issare Frederick, solo parzialmente cosciente, davanti a lei.
Non sarebbe stato facile non farlo scivolare da cavallo, ma era l’unica scelta che avevano.
Quando Epicari partì, anche David e Biancaneve recuperarono le rispettive cavalcature e si scambiarono un bacio, dolce, delicato, le ginocchia di una premute contro quelle dell’altro, dopo aver montato in sella.
«A più tardi, tesoro» disse Biancaneve, in tono grave.
«A più tardi» rispose il marito.
Era quello che si dicevano sempre, prima di doversi separare per affrontare una battaglia. Non si dicevano mai addio, perché nessuno dei due voleva contemplare l’ipotesi che quello avrebbe potuto anche esserlo.
 

«Cazzocazzocazzocazzocazzocazzo» disse Emma Swan, cercando di infilarsi quella che Regina aveva chiamato armatura, ma che la faceva sentire come se fosse un tonno in scatola. Non avrebbe mai più mangiato del tonno in scatola. O piselli in scatola. O cetriolini in scatola. O qualsiasi altra cosa venisse confezionata in barattoli di latta. Non era una bella esperienza.
Emma fece cadere un gambale. O forse andava sull’avambraccio?
«Cazzo!» esclamò di nuovo. «Regina!»
L’altra donna, che stava indossando il suo vecchio completo di pelle di drago che usava in battaglia, si affacciò dalla camera adiacente.
«Guarda che ti ho sentito, Emma».
La ragazza la ignorò.
«Non voglio mettere questa roba, non sono un tonno» piagnucolò Emma, sedendosi sul letto.
Regina la guardò confusa.
«Lo vedo, che non sei un tonno» disse entrando nella stessa stanza di Emma e provocando il totale stupore della ragazza.
«Tu…»
Emma si schiarì la gola, completamente secca.
Regina era….
«Tu sei…» tentò di nuovo, sbattendo le palpebre un paio di volte. «Ti va una sveltina?»
«Oh, per l’amor del cielo, Emma, indossa quell’armatura!»
«Ma non ci riesco! Voglio un completo sexy anche io, Regina!»
«Questo non è-» iniziò la donna, alzando gli occhi al cielo, decidendo immediatamente che discutere di quello, al momento, avrebbe solo fatto perdere loro tempo. «Questo completo è fatto di pelle di drago ed è molto, molto resistente, ma non fornisce la protezione che un’armatura, per di più incantata, può darti. Ora, io starò sulla collinetta con tua madre. Un’esperienza che sarà oltremodo snervante e noiosa, ma necessaria se vogliamo che la mia magia sia di qualche aiuto. Indossare un’armatura sarebbe solo d’impaccio ai miei compiti. Tu, invece, hai deciso di scendere in prima linea con David. Non mi soffermo a sottolineare di nuovo quanto questa tua decisione sia stupida e pericolosa, e mi limito a dirti, Emma Swan, che se non indossi quella dannata armatura, il campo di battaglia non lo vedrai nemmeno con il binocolo».
Emma rimase in silenzio, nuovamente stupita da come Regina potesse usare così tante parole per esprimere un concetto.
«E con un telescopio posso vederla, la battaglia?» domandò poi.
Regina strinse i pugni ed emise un verso esasperato. Emma sogghignò, trovandola comica.
«Scusa, è che quando sono nervosa dico cose insensate» disse poi, prendendo una mano di Regina tra le proprie e poi avvicinandosi, per baciarle, dolcemente, le labbra. «Ma se ci fossero state due nuvolette di fumo che ti uscivano dalle narici, saresti sembrata un drago sul serio».
Regina, suo malgrado, rise e scosse la testa.
«D’accordo» disse infine, facendo un passo indietro e sollevando le mani verso l’alto, «vediamo cosa posso fare con la magia».
Emma si ritrovò avvolta in una familiare nube di fumo viola, il potere di Regina che agitava il suo e lo richiamava.
Quando la stanza ricomparve di fronte a lei, si voltò verso uno specchio e ammirò l’operato di Regina.
«Fico» commentò, mettendosi di tre quarti per osservarsi da un’altra angolazione. «Un po’ pesante, ma fico».
Regina aveva optato per un completo di cuoio, con solo qualche inserto in metallo sul petto e sulla schiena, dove c’era maggior bisogno di protezione.
In fondo, Emma non era crescita in quel mondo. Per lei, la mobilità in battaglia poteva essere una difesa molto più potente e vitale di quella che il metallo avrebbe potuto offrirle.
«Riguardo a quella svel-» iniziò di nuovo Emma, immediatamente interrotta da quelle che sembravano «…campane?»
Regina la guardò con gli occhi spalancati e le fece segno di tacere con un dito.
«Tre ritocchi lunghi. Pausa» disse poi, in un sussurro. «Marvos sta attaccando».
 

L’ombra si gettò sul diamante insanguinato a terra, senza nemmeno accorgersi della presenza di Tremotino, e l’uomo sorrise, osservando la Coscienza di Marvos venire risucchiata nel gioiello e scurirlo.
Raccolse il diamante nero con le striature rosse nel momento esatto in cui le campane iniziarono a suonare.
Tre rintocchi lunghi. Pausa.
A quanto pare, Marvos gli stava facilitando le cose, presentandosi a lui.
 

«Rimani con me, Henry, per favore» lo supplicò per l’ennesima volta Oliver, stringendogli la mano. «Non andare, sei giovane, sei inesperto e quella è una battaglia vera!».
«Lo so, per questo devo andare» rispose il ragazzo, l’elmo sottobraccio e il suono delle campane che si ripeteva in continuazione, riverberando in tutto il castello. Tre rintocchi lunghi. Pausa. Tre rintocchi lunghi. Pausa. E poi di nuovo.
«Henry!» urlò Oliver, ma l’altro ragazzo si era già divincolato dalla sua presa e stava scendendo dei gradini a due a due. Il più giovane lo inseguì e, non essendo ostacolato dall’armatura, riuscì a raggiungerlo alla base della scala.
Oliver, sul gradino più basso, si ritrovò improvvisamente ad essere il più alto dei due, seppur di pochi centimetri.
«Per favore, non andare» lo supplicò, di nuovo, con le lacrime agli occhi.
Henry scosse la testa, lo abbracciò.
«Sono un Principe» disse, come se quello potesse porre fine alla discussione, ma tutto ciò che ottenne furono nuovi singhiozzi da parte di Oliver.
«Ho un brutto presentimento» sussurrò il più giovane, tirando su con il naso, stringendosi al collo dell’altro ragazzo.
«Tornerò sano e salvo, te lo prometto».
«No» rispose Oliver, «ho il presentimento che se ci separiamo ora, non ci rivedremo mai più. Succederà qualcosa di brutto, Henry, a me».
«Qui sarai al sicuro, Oliver» disse Henry con fermezza perché, dannazione, ci credeva sul serio. Quel castello era il posto più sicuro che avesse mai conosciuto in vita sua. Afferrò Oliver per le spalle, dopo aver sciolto l’abbraccio, e lo guardò dritto negli occhi, per un lungo istante, prima di appoggiare la fronte alla sua. «Qui sei al sicuro, Oliver. Tornerò, mi rivedrai, te lo prometto».
«Se non vuoi rimanere, verrò io con te» disse Oliver.
E Henry considerò l’idea di baciarlo.
In realtà, Henry aveva considerato l’idea di baciare Oliver molte volte, ma non l’aveva mai fatto. Non gli sembrava giusto.
Oliver ne aveva passate tante e non voleva approfittare del suo stato di confusione e debolezza in quel modo. Una volta che tutto si fosse concluso avrebbero avuto tempo per trovare una loro quotidianità e, forse, considerò Henry, avrebbero fatto parte l’uno della vita dell’altro in modo più importante che come semplici amici.
E poi, i nonni gli avevano raccontato che non si erano mai detti addio, prima di una battaglia, perché sapevano che non si trattava di un saluto definitivo e che presto si sarebbero ritrovati.
«Non dire sciocchezze, Oliver» disse Henry, accarezzandogli una guancia e sorridendo. «Ci vediamo tra un po’».
«Rimani o io verrò con te» disse di nuovo il ragazzo più giovane.
Henry sospirò.
Fece cenno a una guardia, che non aveva mai abbandonato Oliver da quando era uscito dalla segrete, di avvicinarsi e, prima che il ragazzino se ne accorgesse, si sentì sollevare di peso.
«Mi dispiace, ma voglio che tu sia al sicuro» disse Henry, in risposta allo sguardo terrorizzato dell’altro.
«Henry, ti prego!» urlò il giovane, provando a divincolarsi. «Henry!».
Il suo nome gridato da Oliver fu l’ultima parola che il ragazzo in armatura sentì riecheggiare tra le mura del castello, prima di dirigersi verso la battaglia.
 

«Conte Marvos» disse Tremotino, apparendo di fronte al cavallo dell’uomo, che si impennò. «Ho da poco scoperto che ai vostri illustri titoli avete aggiunto quello di ladro oltre che di usurpatore».
L’uomo a cavallo tentò di governare l’animale, mentre la sua scorta si frapponeva tra lui e Tremotino.
Dopo qualche minuto, il conte ordinò ai suoi uomini di scostarsi e di lasciarlo parlare con l’Oscuro Signore.
«Non posso dire di essere felice di vederti, ma susciti senza alcun dubbio la mia curiosità. Vedi, ora indosso-»
«L’anello di Venere, sì, d’accordo, so tutto a riguardo» lo interruppe Tremotino, annoiato. «Ma sono venuto solo per proporti un accordo. Ora sono un uomo sposato e mia moglie non ama la violenza, perciò…»
Il conte Marvos rise teatralmente.
«Tu, sposato? Oh, andiamo!»
«E ho avuto persino un secondogenito. Ma ora basta parlare di me, piuttosto, vediamo di chiarire in fretta i termini del nostro patto».
«Non ho intenzione di stringere alcun patto con te».
«Vedo che la tua arroganza è rimasta intatta» disse Tremotino, «ma fortunatamente la mia generosità è aumentata a dismisura, perciò fingerò di non aver sentito il tuo sdegnoso rifiuto e ti propongo di restituirmi ciò che è mio. La Lancia di Achille».
Marvos rise di nuovo e la sua scorta con lui.
«Ho fatto l’errore di piegarmi ai tuoi giochetti una volta, Tremotino, ma ora non puoi più minacciarmi in alcun modo. La Lancia di Achille è e rimarrà mia».
«Vorrà dire che mi terrò la tua Coscienza» ridacchiò l’Oscuro Signore, estraendo il diamante nero.
Silenzio.
Marvos fissò il gioiello con un misto di orrore e impotenza. Nell’euforia di iniziare la sua offensiva, si era lasciato travolgere dall’adrenalina della battaglia e aveva completamente ignorato quella parte di sé stesso che gli trasmetteva in continuazione informazioni sullo stato della sua Coscienza. Nulla di elaborato, solo primitive sensazioni di caldo e di freddo, le emozioni più violente captate dall’ombra negli altri esseri umani che venivano imitate dalla sua Coscienza, ma ora, tutto quello che sentiva Marvos, era una continua sensazione di soffocamento.
All’improvviso, il conte divenne pallido.
Avrebbe potuto vivere con la propria Coscienza intrappolata? Avrebbe imparato a ignorare quella parte di sé come se non fosse mai esistita?
Era una tortura.
Imprigionata, su ogni lato.
Freddo, il freddo del diamante. Il lieve torpore nei punti in cui Tremotino reggeva il gioiello.
Il sapore metallico del sangue e quella sensazione che sembrava divorarlo. Cosa era? Sembrava che trapassasse la sua Coscienza, bucandola, trafiggendola con migliaia e migliaia di acuti e implacabili spilli.
E proprio perché non aveva mai provato nulla del genere in vita sua, Marvos capì che doveva trattarsi di rimorso, il rimorso di un’altra persona, certo, ma non meno reale per lui.
Era insopportabile.  
Il conte Marvos sganciò la Lancia di Achille dal supporto della sella cui era agganciata, poi scese da cavallo, camminando lentamente verso Tremotino.
Tese entrambe le mani all’uomo, una reggeva la lancia e l’altra era vuota, pronta a ricevere la sua Coscienza.
«Abbiamo un accordo» disse, sputando ogni sillaba con disprezzo.
Tremotino sogghignò, isterico.
Appoggiò il diamante sul palmo del conte nello stesso istante in cui chiuse le proprie dita, lunghe e affusolate, sul mezzo che gli avrebbe permesso di alleviare la tortura di suo figlio.
Un battito di ciglia e Tremotino era comparso e, con lui, anche la Lancia di Achille.
Ciò che rimase fu Marvos, con la propria Coscienza in un diamante e un’ira implacabile.
«Mangiafuoco» chiamò allora con rabbia.
Uno dei suoi uomini si avvicinò al conte, affiancandolo con il proprio cavallo. «Sì, Mio Signore?»
«Metti a frutto i tuoi poteri e incendia quel castello dalle fondamenta alla torre più alta. Non deve rimanerne nulla, ci siamo capiti?»
Mangiafuoco annuì.
«Portati un paio di uomini e se trovi la moglie di Tremotino o suo figlio, catturali e portali da me, mi assicurerò di ucciderli di fronte ai suoi occhi».
   
 
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