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Autore: Calliope49    28/03/2015    2 recensioni
*COMPLETA*
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Treville vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».

Una calma insolita è piovuta su Parigi, ma la situazione non è destinata a durare. Strani incidenti, un omicidio e la comparsa di un misterioso bandito daranno filo da torcere agli uomini del re. Nel mezzo, una ragazza e troppe cose che non sono quello che sembrano…
[AthosXNuovoPersonaggio; Accenni Constagnan e Annamis]
[N.B. La storia non tiene conto degli sviluppi della seconda stagione perché è stata ideata prima che ne cominciassero gli episodi]
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Captain Treville, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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IX
Cinque minuti o anche dieci
 
 
«Come sta Aramis?»
«Meglio di voi».
Diane respirava a fatica, il naso congestionato e la gola gonfia in fiamme. La sua voce sembrava quella di un bizzarro ventriloquo.
«E vi prego, maestà, non vi avvicinate». La ragazza lasciò cadere la testa all’indietro sul cuscino. «Potrei contagiarvi».
«Vi siete raffreddata, non avete la peste». La regina le rivolse un sorriso adorabile e le passò la tazza con il decotto che il medico aveva fatto preparare per lei. Non era stato del tutto inutile portarsi dietro il dottor Lemay - anche se a un certo punto Diane lo aveva sentito parlare di sanguisughe e altre cose terrificanti. 
Le suore le avevano anche dato un unguento per le escoriazioni che ai polsi e alle caviglie. Con un po’ di fortuna, suo zio non le avrebbe notate quando sarebbero tornati a Parigi.
Escoriazioni o meno, Treville si sarebbe fatto venire un colpo.
Diane starnutì violentemente, la regina le passò un fazzoletto.
«Mi dispiace tanto, vi sto dando troppi pensieri. E dire che avrei dovuto prendermi io cura di voi»
«Diane, se lo dite ancora una volta giuro che vi faccio condannare a…non lo so, a qualcosa».
La ragazza fece un mezzo sorriso e, contro ogni buon senso, la regina si andò a sedere sul bordo del letto, accanto a lei.
Le candele accese dentro bugie di terracotta spandevano una luce calda e dorata tutt’attorno. Una strana, inattesa serenità aleggiava in quella stanza, ma Diane si sentiva come soffocare.
Se le sue condizioni non fossero migliorate, avrebbero rimandato il ritorno ed era l’ultima cosa che voleva. A Parigi, i moschettieri avevano i loro affari e lei aveva i suoi.
«Stavo pensando» disse titubante Anna. La ragazza sapeva che i pensieri di una sovrana sono sempre qualcosa di più che semplici pensieri, lo stava imparando. «Stavo pensando che forse non è il caso di raccontare al re di tutto questo».
Stando alle storie che le avevano raccontato i moschettieri, un’altra cosa che Diane aveva capito era che il re non veniva a sapere mai niente. Un’informazione in più o in meno non avrebbe fatto molta differenza.
«Non ho intenzione di rinvangare l’accaduto» assicurò con un’occhiata complice. «Ma non è a me che dovete chiederlo».  
La regina strinse le labbra, riducendo a una fessura la sua bella bocca a cuore.
«Dite che potremmo domandare ai moschettieri…».
Come se fossero stati evocati da una specie di incantesimo, gli uomini del re comparvero sulla soglia della porta. Videro sua maestà e si inchinarono prima di entrare.
«Mio Dio, Diane, avete una faccia che…» esordì Porthos.
La regina alzò la testa di scatto per fulminarlo con lo sguardo. Aramis e Athos ai due lati gli assestarono una leggera gomitata, d’Artagnan tossicchiò.
«Bellissima» disse subito il giovane.
«Come sempre, meglio di sempre» gli fece eco Aramis.
«Assolutamente» confermò Athos.
Diane li guardò tutti e quattro accigliata, poi sbuffò. «Il dottore cosa ha detto? Posso alzarmi?»
«Avete fretta? Dovete andare da qualche parte?».
La ragazza capitolò e tornò con la testa sul guanciale.
«Stavo pensando» disse poi, deglutendo per schiarirsi la voce roca e nasale. «Mio zio. Si inquieterà moltissimo quando saprà di tutta questa storia»
«Non possiamo certo nascondergliela». Athos lo disse come se fosse ovvio. Ah, uomini: sempre così privi di fantasia!
«Perché no?».
I moschettieri si scambiarono un’occhiata ma nessuno rispose. Era quasi irritante quando sembrava che pensassero con un unico cervello in comune.
«Voi non volete che mio zio si inquieti, no?».
Aramis corrugò la fronte. «Diane, cosa state cercando di dire?»
«Che io non lo dirò a mio zio se voi non lo direte al re. O al cardinale. O a chicchessia»
«È quello che faccio tutte le domeniche dopo la messa: scambio pettegolezzi con il cardinale» bofonchiò Porthos.
D’Artagnan storse il naso. «Perché questa cosa mi suona vagamente come un ricatto?».  
«Perché lo è» confermò la regina.
I moschettieri fissarono imbarazzati le due donne, quel loro cervello spartito in quattro non poteva reggere il confronto. Ci sono situazioni in cui un uomo non può fare altro che capitolare.
Athos stava guardando Diane con il sopracciglio alzato, una virgola di disapprovazione. Non gli piaceva mentire, meno che mai al suo capitano, ma lo avrebbe fatto. Era più facile che uccidere un uomo.
Diane non aveva più pensato al ladro morto a cui il moschettiere aveva sparato, ma ora il ricordo le pizzicò la mente.
La regina si alzò, il materasso si smosse per lo spostamento di peso.
«Mi aspettano per la preghiera serale» disse e sfiorò la mano di Diane.
Anna aveva il cuore e l’anima di una grande sovrana, si portava una luce dentro che forse con il tempo le avrebbe permesso di uscire dal cono d’ombra proiettato su di lei dal re e dal cardinale. La ragazza la invidiò, invidiò la sua bellezza, la sua regalità, la sua purezza.
I moschettieri si avviarono a seguire la regina e poi tornare ai loro posti di guardia.
«Athos». Diane lo chiamò che era già sulla soglia.
Lui si voltò e mosse qualche passo nella stanza con quella sua andatura elegante - persino troppo per un semplice soldato. Misurava i movimenti e le parole come se conoscesse l’esatto peso di ogni respiro, sembrava saldo come una statua eppure perso come solo chi nasconde grandi fantasmi può essere.
«Athos, fate in modo che il ritorno a Parigi non venga rimandato».
L’uomo mosse appena il capo. «Non ve ne dovete preoccupare».
«Non sono preoccupata, ma con tutto quello che sta succedendo, mio zio avrà bisogno di voi».
Lui annuì e fece un cenno di saluto, poi si voltò per uscire.
«Athos».
Girò su se stesso con la cappa azzurra che gli svolazzava sulla schiena. «Sì?».
«Che ne è stato di quei ladri? Quelli ancora vivi, intendo».
«Li abbiamo portati al villaggio, sono stati messi in prigione, abbiamo firmato una dichiarazione. Non faranno una bella fine, la parola dei moschettieri vale ancora qualcosa, anche fuori Parigi»
«Capisco»
«Avreste voluto vederli graziati?».
Diane mosse la testa sul cuscino e represse uno starnuto. «Credo nel valore della legge. È giusto che un crimine venga punito».
Athos fece uno dei suoi sorrisi non-sorrisi. «Non credevo aveste convinzioni così ferree». Avanzò nella stanza, prese uno sgabello e lo avvicinò al letto: aveva capito che Diane non voleva rimanere sola.
«I miei genitori sono stati uccisi da dei criminali quando avevo dodici anni» disse la ragazza. «La legge assume un certo valore davanti a cose come questa».
L’uomo spostò lo sguardo come se le implicazioni di quel discorso fossero troppo pesanti per lui. Eppure parlare di legge e giustizia non avrebbe dovuto essere così difficile per un moschettiere del re. «Sono stati presi, quei criminali?»
«Gli assassini, sì».
Il volto di Athos si incupì per qualche secondo. «Ho visto quelle cicatrici sul braccio, come ve le siete fatte?».
Diane ebbe un sussulto, di istinto si toccò il braccio destro, poco sotto la spalla, dove c’erano i due sfregi a forma di X.
«Oh, il collegio. Una vita fa» disse.
Athos contrasse le labbra. «Anche questa era una punizione?».
In un certo senso… «No, è stato un incidente. Non era un posto così brutto, quell’istituto, in realtà. Il fratello di mio padre aveva scelto con cura il luogo dove farmi istruire».
«Parlate sempre di lui come il “fratello di vostro padre”, non lo chiamate mai “zio”, come fate con Treville».
Diane abbozzò un sorriso quasi divertito. «Sì, lo confesso, Treville è il mio zio preferito. Il fratello di mio padre… lui è, be’, non è mai stato cattivo con me o altro, solo disinteressato. Non aveva né tempo né voglia di occuparsi di me, ma ha fatto quello che riteneva più giusto pensando al mio bene». E forse anche troppo.
«Perché non rimaneste con Treville, dopo la morte dei vostri genitori?»
«Lui era un soldato, ritenne che affidarmi a un duca ricco e con una certa influenza mi avrebbe offerto più prospettive»
«Sì, la vita nobiliare è piena di prospettive».
Qualcosa nel tono di Athos lo fece apparire buffo, e che Athos apparisse buffo era un evento alla stregua del diluvio universale. Diane si trovò a ridere senza ragione, e poi la risata si trasformò in un attacco di tosse.
Il moschettiere le allungò un bicchiere d’acqua.
«Cercate di dormire, Diane» le disse, alzandosi. «Dovete tornare in forze se non vogliamo rimandare la partenza e non raccontare niente a vostro zio»
«Grazie, comunque» mormorò lei, sistemandosi meglio sotto le coperte, la trapunta di lana che le pizzicava il mento.
Athos annuì come risposta a quel ringraziamento che voleva forse includere tutto, troppe cose che non potevano essere dette a parole.
Il moschettiere richiuse la porta dietro di sé senza fare rumore e Diane rimase sola.
Una delle candele si era consumata, si spense con un impercettibile sfrigolio e uno filo di fumo che si andò a mescolare alle ombre della stanza. La ragazza lo seguì con lo sguardo mentre si trasformava in minuscole volute contorte e poi spariva, lo immaginò continuare a salire e assumere forme di serpenti nel cono d’ombra sotto il soffitto a volta. Lo vide diventare la crepa che c’era sul muro nel cortile abbandonato dietro al monastero dove aveva vissuto da ragazzina, un solco a forma di saetta sulla pietra liscia.
L’erba e il muschio avevano mangiato il lastricato del cortile, la pavimentazione spuntava in chiazze grigie attraverso le sterpaglie. Ai margini di quella che una volta era stata una piazza adiacente alla parte più vecchia del convento, i cardi e l’ortica crescevano pronti a mordere e graffiare con le loro spine. 
Sebastiano era un’ombra alta e sottile, la cintola della tonaca da frate stringeva fianchi magrissimi, le maniche ampie nascondevano braccia lunghe e nodose piene di cicatrici che sembravano merletti fatti male.
Diane non aveva idea di dove il finto monaco avesse trovato quelle due spade. Le lame erano segnate e avevano da tempo perso l’affilatura, l’elsa era macchiata e ossidata.
«Non dirò a nessuno chi sei, se mi insegni a combattere» aveva detto la ragazzina con i suoi quindici anni ciechi di incoscienza. Un ricatto subdolo che non avrebbe tentato se avesse potuto, se avesse avuto altra scelta.
«Perché una mocciosa come te, con la sottoveste di seta, dovrebbe imparare a combattere?»
«Guardi le sottovesti delle ragazzine?»
«No. Ma tu ce l’hai scritto in faccia che sei ricca»
«Non lo sono, il fratello di mio padre lo è».
Parlavano urlandosi contro nel cortile spazzato dal vento che portava l’odore della pietra e delle acque melmose del Tevere che scorreva poco distante. Sebastiano aveva il suo italiano perfetto e privo di inflessione, Diane lo parlava goffo, inciampando nelle R.
«Ti faresti del male, mocciosa». Negli occhi scuri del soldato l’ombra di una minaccia.
«Se mi facessi male, dovrei poi raccontare chi me lo ha fatto e perché».
Il disertore dovette trovare qualcosa di divertente in quella ragazzetta sfrontata.
«Va bene, mocciosa. Ma il patto è un altro: ti insegno, se mi dici perché ci tieni tanto a imparare».
Diane assottigliò lo sguardo, scrutò il viso scavato del soldato, il velo di barba sfatta che ne metteva in risalto i lineamenti spigolosi.
«Per quando tornerò in Francia» fu la risposta.
«Ah, è da lì che vieni? E cosa vuoi fare, quando tornerai in Francia?»
«Vendicare i miei genitori»
«Non ti serve imparare a usare la spada se devi solo piantarla nel petto di qualcuno che ti ha fatto arrabbiare»
«Voglio una vendetta, non un assassinio».
Gli occhi di Sebastiano si accesero di una scintilla strana, il luccichio di chi scorge una sorpresa nascosta in un luogo impensabile.
Che cosa vide in lei quel giorno, Diane non fu mai in grado di capirlo.
«Hai la mente di una manipolatrice» le disse il soldato. «La spada è solo un di più».
Manipolatrice sembrava un insulto, ma lui lo pronunciò con indolenza, quasi sarcastico.
«Mi insegnerai?».
Sebastiano aveva già deciso. Se ne stava in piedi davanti a lei con le spade incrociate dietro le spalle, le nocche che sbiancavano nello stringere le else rovinate.
I due tagli sul braccio destro vennero dopo, quando erano passati anni e Diane sapeva già maneggiare una lama.
«Non sei mai concentrata abbastanza». Sebastiano era una maestro severo e poco paziente, persino crudele a volte. «Usi la spada come se dovessi danzare, ma l’abilità nel movimento non è tutto, è l’intenzione che fa la differenza»
«L’intenzione verrà da sé» disse la ragazza. Il corpetto le stringeva un seno acerbo, un torace magro, sotto la pelle c’era la consistenza solida dei muscoli allenati.
«È che tu pensi che io non ti farò del male. Se pensi che il tuo avversario non sia pericoloso, combatterai sempre come uno sciocco».
L’attaccò all’improvviso, con forza. Diane riuscì a parare per un pelo e a indietreggiare.
«Va bene, mocciosa, un pregio ce l’hai: sei veloce». Nella voce del soldato c’era l’esitazione di chi cerca di riprendere fiato. «Ma non sei astuta nel duello come lo sei nelle altre cose».
Un altro attacco, più rapido, più forte. Diane si piegò per schivare la spada e tentare un affondo, Sebastiano la colpì alla schiena con il piatto della lama. Quando cadde, la giovane si tagliò le mani contro il ruvido della pietra .
«Questo,» le disse, voltandosi e strisciandole la punta della spada sul braccio, «è perché tu ricordi che io posso farti del male, come qualsiasi avversario».
Diane guardò attonita il rivolo di sangue che impregnava la manica strappata, il taglio aperto sulla pelle candida bruciava.
«E questo è perché te lo meriti». Con una leggera torsione del polso, Sebastiano affondò di nuovo la lama, infliggendole un altro taglio che si andava a incrociare con quello precedente.
Il bruciore le fece vedere rosso e la ragazza si trovò a boccheggiare, l’orgoglio ferito e la pelle marchiata per sempre a causa del suo stesso gioco.
«E ora, va’ a raccontare chi ti ha fatto male e perché» la sfidò il soldato.
Diane gridò il suo nome, furiosa.
Aprì gli occhi. Sopra la sua testa il soffitto intonacato della stanza.
Il sogno era stato così reale che non riusciva a credere di essere in un luogo diverso da quel cortile.
La gola le bruciava come i tagli sul braccio nel suo ricordo che già si andava dissolvendo.
Si alzò a sedere in mezzo al letto e provò a versarsi dell’acqua ma la brocca era vuota.
Aveva la lingua secca come un pezzo di cuoio, decise di sfidare il freddo che c’era fuori dal suo tiepido bozzolo di coperte di lana per andare a cercare da bere. Forse nel refettorio avrebbe trovato qualche caraffa ancora piena.  
Indossò la vestaglia e si gettò una coperta sulle spalle, avvolgendosi come un pipistrello nelle sue ali.
Doveva da poco essere passata l’ora della cena. Dal cortile arrivava la luce dei falò accesi ogni sera dalle guardie nel loro accampamento, dal piano inferiore si sentiva il rumore attutito dei passi delle suore che si adoperavano per portare a termine gli ultimi compiti della giornata.
Diane sospirò. «Sto proprio male se penso che mi mancherà questo posto» disse a se stessa, storcendo il naso.
L’angusta anticamera dava su un corridoio privo di finestre, con una lanterna come unica fonte di illuminazione. Dall’altro lato si trovava la stanza della regina. Diane vide la lama di luce accesa filtrare da sotto l’uscio e pensò che fosse il caso di andare a controllare se sua maestà avesse bisogno di qualcosa; si sentiva così in colpa per non essersi potuta occupare di lei in quei giorni, ma voleva mostrarle che a dispetto di tutto era abbastanza in salute da poter affrontare il viaggio di ritorno.
Diane attraversò l’anticamera con quel passo per abitudine sempre silenzioso e leggero. La porta della stanza della sovrana era leggermente socchiusa, quando la ragazza fece per bussare si aprì un po’ in avanti mostrando uno squarcio dell’interno spoglio e spartano come tutte le altre stanze del monastero.
Mosse un passo. Il suo sguardo si allineò alla fessura lasciata dall’anta non chiusa.
La mente di Diane fece fatica a ricomporre l’immagine che si trovò davanti e ad attribuirle un senso. Era come se un elefante fosse appena entrato in quell’anticamera spuntando dal pavimento; allo stesso modo la ragazza trovava inspiegabile e incomprensibile la vista della regina che baciava Aramis. O di Aramis che baciava la moglie del re, tenendole una mano sulla pancia.
Bacio. Pancia. Bambino. Aramis.
Lo stupore emerse pian piano da dietro un velo di incredulità e scoppiò nella mente di Diane come un fuoco d’artificio.
Sconvolta, la ragazza girò su se stessa per allontanarsi da lì. Alle sue spalle trovò Athos che reggeva un piatto fumante e una brocca d’acqua.
«Ero venuto a… portarvi la cena».
Il moschettiere guardò oltre il profilo di Diane, in piedi, immobile come una statua. Vide la porta socchiusa della stanza della regina, vide lo sguardo completamente stravolto della giovane e capì.
E se ha capito, allora…
Diane corse via, travolgendolo e scappando attraverso il corridoio. La coperta le scivolò giù dalle spalle e finì a terra da qualche parte nella penombra.
 
***
 
Athos era rimasto totalmente basito, incapace di collegare corpo e cervello. Il piatto e la brocca tra le sue mani erano un impaccio di cui non sapeva come liberarsi e per un istante gli sembrarono un ostacolo insormontabile.
«Dio!» sibilò, voltandosi di colpo e appoggiando gli oggetti su una sedia. Lasciarli cadere avrebbe attirato l’attenzione ed era meglio di no - decisamente.
Si lanciò verso il corridoio, dietro Diane.
Quanto poteva correre una ragazza malaticcia in camicia da notte? Be’, mademoiselle Leroux correva come se fosse inseguita dal demonio.
Il moschettiere rischiò di inciampare nella coperta che lei aveva lasciato cadere dietro di sé, da lontano la vide imboccare le scale che portavano alla distilleria nelle cantine.
La porta di legno massiccio della distilleria doveva essere stata chiusa a chiave perché Diane ci si buttò contro per aprirla ma finì solo per andare a urtare addosso al battente con tutto il suo peso.
Mandò un gemito, indietreggiando quasi stordita dall’impatto.
Athos la raggiunse e l’afferrò per le spalle, stringendola perché non scappasse di nuovo.
«Che cosa ho appena visto?» piagnucolò la ragazza, divincolandosi.
«Niente, non avete visto niente».  
Diane smise di agitarsi e voltò il capo verso il moschettiere. Athos la superava in altezza di tutta la testa; la vide spalancare gli occhi sotto il peso di un’altra rivelazione.
«Voi!» gli gridò. «Voi lo sapevate!».
Provò la tentazione di tapparle la bocca con una mano, ma tutto quello che fece fu alzare l’indice con fare ammonitore. «Non è come sembra»
«Questo è il genere di frase che si dice quando le cose sono esattamente come sembrano»
«Diane, vi prego…»
Diane non lo stava ascoltando. Aveva distolto lo sguardo e sembrava inseguire il filo dei suoi pensieri come un fiume in piena. E chissà quali conclusioni avrebbe tratto la sua testa dannatamente troppo perspicace. 
«Oh, mio Dio… il figlio che la regina aspetta…»
«No!». Lo sguardo di Athos si fece duro, senza volere la strattonò con malagrazia per farla voltare verso di sé, tenendola spalle al muro, bloccata tra la porta e il suo torace. «Prima di dire, prima anche solo di pensare quello che state pensando, vi supplico, valutate le conseguenze».
Diane parve sul punto di dargli uno schiaffo, e anche se non lo fece, Athos se lo sentì bruciare sulla guancia.
«Le conosco, le conseguenze». Spinse per costringere il moschettiere a spostarsi. Lui barcollò all’indietro, sorpreso dalla veemenza della spinta. «Solo, concedetemi cinque minuti per essere sconvolta, va bene? Facciamo anche dieci minuti, magari» 
«Sconvolgetevi in silenzio, però».
Diane gli rivolse un’occhiata astiosa. «Chi altri lo sa? Porthos, d’Artagnan? Mio zio?!»
«Solo io. E credetemi, vorrei non averlo mai scoperto»
«Non me ne parlate».
Athos si stropicciò il viso con la mano, lisciandosi nervosamente la barba incolta. «È successo… è successo solo una volta». Si sentì un idiota, gli sembrava di essere un marito che doveva giustificarsi con la moglie per qualche grave trasgressione.
La ragazza fece un’espressione esasperata. «Una volta, a parte questa, dite? E comunque credo che una volta sola basti per essere alto tradimento. Oddio, tecnicamente siamo traditori anche voi e io adesso». Si voltò, dando le spalle al suo interlocutore e mosse qualche passo, valutando il peso delle sue stesse parole.
Athos strabuzzò gli occhi. «Grazie per avermelo ricordato, è la mia parte preferita. Sentite, avete tutto il diritto di denunciare la cosa e io non posso impedirvelo, solo…»
Diane si girò verso di lui con uno scatto stizzito, a pugni serrati. «Smettetela di pregarmi! Io vi voglio bene. A… a voi, e a Aramis, a voi tutti e quattro maledetti moschettieri boriosi. Non direi una sola parola che possa nuocervi. Però i dieci minuti non sono ancora passati. Penso che li trascorrerò da qualche parte, al chiuso, tipo molto lontano da voi, da lui e dalla regina».
La ragazza sorpassò il moschettiere, spintonandolo per costringerlo a lasciarla andare.
Athos aprì la bocca ma tacque. Lo sguardo deluso di Diane lo aveva ferito: la chiamò per poterla guardare in faccia e accertarsi che tutto sarebbe tornato alla normalità, che la tenerezza che la ragazza aveva mostrato verso tutti loro fosse ancora lì, resistente a qualsiasi disappunto. 
«Diane…»
«Molto, molto lontano» ripeté lei senza voltarsi.
«Diane!»
«Quale parte di “molto lontano” non vi è chiara?».
 
  
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