Buonasera!
A voi la seconda parte del mega-capitolo iniziato la settimana scorsa.
Come vi renderete presto conto, nonostante io l'abbia diviso, il
capitolo che leggerete è molto più lungo rispetto
a quelli che vi ho proposto fin'ora. E devo avvisarvi che
saranno più o meno tutti di questa lunghezza, d'ora in
avanti. Perciò potrà anche darsi che la cadenza
con cui posterò sarà diversa, magari vi
darò più tempo, per permettervi così
di leggere in tutta tranquillità questi papironi. Spero in
ogni caso che non sia un problema e che vi piacciano comunque :)
Come vi ho anticipato la scorsa volta, in questo capitolo verranno
introdotti ben tre nuovi personaggi originali - di cui vado onestamente
molto fiera - e ne ritornerà uno dal passato di Merlino e
Artù. Qualcuno forse avrà già capito
di chi si tratta... ad ogni modo, ciò che porterà
con sè sarà a tratti scioccante e straziante. Mi
auguro con tutto il cuore di riuscire a raggiungere i vostri e che il
tutto sia credibile.
Detto ciò, non voglio spoilerare altro e vi lascio alla
lettura.
Un grazie a chi ha letto e recensito lo scorso capitolo e a chi ha
messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate! Alla prossima!
Vostra,
________________________________________
10. A remedy to cure all ills – Part
II
Alex
non si voltò quando sentì la porta della stanza
aprirsi e poi richiudersi delicatamente; si limitò ad
abbassare le ginocchia che si era stretta al petto fino a quel momento
e a passarsi le dita sotto gli occhi stanchi.
Merlino l’affiancò, lo sguardo apprensivo posato
sul piccolo Steve, ora nuovamente stabile ma molto, molto debole.
«Hai bisogno di fare due passi?», le chiese a bassa
voce.
«No, sto bene, grazie».
Si schiarì la voce, passandosi una mano sulla nuca.
«I suo genitori hanno chiamato ancora, hanno detto che sono
quasi a Newport».
«Bene».
«Vuoi che ti porti una tazza di caffè?».
Alex sospirò stancamente e alzò il viso verso il
suo, guardandolo con una punta di irritazione. «A meno che tu
non sia in grado di guarire Steve sussurrando una formula magica, non
voglio proprio niente da te».
Merlino non rispose e l’infermiera si beò del
silenzio ottenuto fino a quando non si rese conto di averlo fatto
ancora: aveva riversato su di lui – quella volta ad alta
voce, per giunta – tutta la frustrazione, il senso di
inutilità e la paura che provava, nonostante non se lo
meritasse affatto.
Era tutto un controsenso, a rappresentazione di quanto si sentisse in
conflitto con se stessa: avrebbe voluto dirgli di restare,
perché aveva bisogno di averlo al suo fianco, e invece gli
aveva risposto in quel modo, alzando un muro invalicabile tra loro,
perché quello che era successo alla caffetteria la
spaventava più di quanto spaventava lui.
Aprì la bocca per scusarsi, ma quando girò il
capo per incrociare i suoi occhi realizzò, con un doloroso
nodo alla gola, che Merlino l’aveva lasciata sola, in quel
silenzio angosciante.
***
Odiava
non avere con sé il suo cavallo, odiava quel malridotto
quanto ridicolo mezzo di trasporto a due ruote che aveva trovato nel
vecchio fienile utilizzato da Merlino come garage per la propria auto e
dal quale era caduto quattro volte prima di prenderci la mano. Avrebbe
potuto raggiungere Avalon a piedi, certo, ma ci avrebbe messo davvero
troppo tempo, rischiando di farsi scoprire dallo stregone.
Perciò non si era arreso e al quinto tentativo era riuscito
a stare in equilibrio tanto a lungo da capire che era tutta una
questione di coordinazione.
Sotto una luna stranamente non velata dalle nubi, con la sua maglia di
ferro infilata sopra la felpa e il cappuccio sulla testa, una balestra
simile a quella che usava di solito durante le battute di caccia
(sgraffignata dalla stanza in cui Merlino aveva accumulato molti
ricordi del passato) appesa sulla schiena, il suo pugnale stretto alla
cintura e il cellulare nella tasca dei jeans, aveva pedalato
velocemente attraverso la campagna, tra le stradine secondarie che
aveva percorso quella mattina con Alex e infine lungo il sentiero che
costeggiava il fiume emissario del lago.
Aveva lasciato il suo destriero di ferro a qualche metro dalla sponda
di Avalon e aveva atteso che quella voce di donna gli parlasse. Aveva
atteso per quella che gli era sembrata
un’infinità, camminando avanti e indietro e
controllando quasi ossessivamente i minuti che passavano sullo schermo
del suo smartphone. Alla fine si era voltato verso la superficie piatta
del lago e aveva urlato a squarciagola tutta la sua impazienza, cosa
che se qualcuno lo avesse visto o sentito l’avrebbe
sicuramente fatto rinchiudere per davvero in uno di quegli ospedali
psichiatrici.
Artù sospirò, svuotato e stanco, e si
lasciò cadere sull’erba umida di fronte alla riva
del lago, proprio dove si era seduto a parlare con Alex quella mattina.
Quella ragazza iniziava a piacergli, per quanto strana e alle volte
irritante; gli piacevano la sua spavalderia e la sua determinazione,
gli piaceva il fatto che dicesse tutto quello che le passava per la
testa. Forse si sentiva così in sintonia con lei
perché di carattere era molto simile a lui, come aveva detto
Merlino, e proprio per questo sapeva che non sarebbe stato facile
risolvere pacificamente tutte le questioni aperte con lo stregone.
Poteva quasi veder scorrere di fronte ai suoi occhi il corso degli
eventi, cosa sarebbe successo e cosa no, e sapeva per certo che, in un
modo o nell’altro, tutto si sarebbe risolto per il meglio.
Perché se davvero lui e Alex si assomigliavano
così tanto, allora anche lei avrebbe accettato Merlino per
ciò che era, legata a lui da un sentimento ben
più forte di qualsiasi pregiudizio.
Un’improvvisa vibrazione all’interno della tasca
della sua felpa lo fece sobbalzare. Tirò fuori il cellulare
e lesse a mezza voce il messaggio che Merlino gli aveva appena inviato:
«Ci vorrà più tempo del previsto, non
aspettatemi alzato».
Artù scosse il capo con delusione e iniziò a
rispondergli, lentamente e ancora un po’ impacciato con
l’uso della tastiera touch: «Non…
sei… la… mia… balia.
Smet–». Uno splash improvviso,
come se qualcuno avesse appena lanciato in acqua un sasso, gli fece
alzare di scatto gli occhi, stretti per scorgere il più
piccolo movimento. E lo vide, perfettamente in diagonale rispetto a
lui: una piccola barca, con la vernice blu scrostata e i remi ricoperti
di alghe, si dondolava pigramente sulla superficie del lago, creando
onde semicircolari che increspavano l’acqua limpida.
Era quasi certo che quella barca non ci fosse, quando era arrivato, ma
ingoiò il rospo e in risposta a quell’esplicito
invito optò per un più semplice
«Okay» prima di alzarsi.
Sperando che non fosse così malridotta come sembrava,
salì sull’imbarcazione e remò fino al
centro del lago.
«Ehi, sono qui!», esclamò, guardandosi
intorno un po’ spaesato.
Quell’intera situazione era surreale. Come aveva fatto
Merlino a stare così in contatto con la magia e a non
perdere il senno? Pensò tristemente che sarebbe stato meglio
diventare pazzo, piuttosto che vedere tutte le persone a lui
più care morire a causa della magia o per aver avuto troppa
fiducia in essa.
«Non pensavo sareste venuto davvero, Pendragon».
Alla buon’ora,
pensò prima di rispondere in tono sarcastico:
«Conosci altre persone in grado di darmi qualche spiegazione
riguardo al motivo del mio ritorno?». Artù
continuò a guardarsi intorno, ma non aveva la più
pallida idea da dove arrivasse la voce di quella donna.
«Potresti farti vedere? È irritante parlare al
vento».
«Allora abbassate lo sguardo».
Artù si protese verso l’acqua e sbuffò
vedendo soltanto la propria immagine riflessa, ma non fece in tempo a
lamentarsene ad alta voce che una mano cancellò il suo viso
come se fosse stato disegnato su un vetro appannato. Lentamente
iniziò a scorgere dei lineamenti femminili, due occhi scuri
e una folta chioma di capelli neri. Si trattava di
un’immagine non perfettamente nitida e spesso e volentieri
diventava una semplice ombra a pelo dell’acqua, come se non
possedesse l’energia necessaria a mostrarsi chiaramente, ma
Artù la riconobbe subito e trasalì con
così tanto trasporto che la barca si agitò con
furia, rendendo ancora più sfocato il viso della giovane
donna.
«E così vi ricordate di me? Questo sì
che è davvero sorprendente».
Artù deglutì faticosamente e ritrovando il
proprio regale contegno disse: «Tu sei la
ragazza-pantera».
Un pallido sorriso comparve sulle labbra cianotiche della ragazza.
«Il mio nome è Freya, e grazie a Merlino sono
diventata la custode di Avalon».
***
Alex
uscì dalle porte scorrevoli dell’ospedale e
l’aria fredda della sera le fece venire la pelle
d’oca sotto la leggera divisa azzurra. Quello però
non era uno dei problemi in cima alla lista – a dire il vero
non lo riteneva nemmeno un problema – perciò
cercò subito Merlino con lo sguardo e lo trovò,
seduto su una panchina in ferro dall’altro lato della strada,
vicino ad un lampione che dava una strana sfumatura arancione ai suoi
capelli e alle fronde degli alberi alle sue spalle.
Si fece coraggio con un bel respiro, ma sapeva che non sarebbe affatto
bastato per il tipo di conversazione che avrebbero avuto, quindi si
diresse verso un gruppetto di paramedici in pausa vicino ad
un’ambulanza.
«Ehi ragazzi, come procede il turno?», chiese
stirando un sorriso e gettandosi dietro le spalle i capelli ormai
ribellatesi completamente alla presa del mollettone.
«Meglio del tuo. Ho sentito di Steve», rispose
l’unica ragazza del trio, con dei vivaci occhi nocciola, i
capelli rosso sangue raccolti in un compostissimo chignon –
in contrasto col suo aspetto un po’ gotico – e il
viso pallido tempestato di efelidi.
Alex annuì, chinando il capo quasi con vergogna.
«Avrei voluto solo…».
«L’importante è che ora si sia
stabilizzato e che i suoi genitori siano qui», la interruppe
il paramedico, tirando fuori da una delle ampie tasche dei pantaloni
dell’uniforme blu un pacchetto di sigarette con
l’intenzione di offrirgliene una.
Alex le rivolse un debole sorriso, contenta di aver comunque raggiunto
il suo scopo, e se la infilò tra le labbra.
«Cathleen, giusto?», le chiese mentre
gliel’accendeva tenendo una mano intorno alla fiamma per
proteggerla dal vento.
Il paramedico mostrò una fila di denti bianchissimi e
bastò per farle capire che ci aveva preso giusto, oltre al
fatto che l’aveva piacevolmente sorpresa.
«Finalmente posso dire di conoscere di persona la dottoressa
Alexandra Greenwood», le sussurrò, ancora ad un
palmo dal suo viso.
Alex arrossì violentemente. Poche, pochissime persone
– tra cui Merlino – sapevano che il suo sogno nel
cassetto era quello di diventare dottoressa specializzata in oncologia
infantile. Come faceva perciò Cathleen, con cui non aveva
mai parlato prima d’allora, ad esserne a conoscenza?
Come se le avesse letto nella mente disse: «Ho le mie fonti.
Ma se vuoi che rimanga un segreto non hai di che temere con
me».
L’infermiera annuì, riconoscente, ed
arretrò di un passo, rendendosi improvvisamente conto che la
distanza che c’era tra loro era troppo poca, tanto da
metterla a disagio. Tirò avidamente la sigaretta ed
accennò un sorriso soffiando fuori il muro, esclamando:
«Grazie mille, ne avevo proprio bisogno. Ci
vediamo».
«Ci conto», rispose Cathleen, strizzandole
l’occhio.
Alex si voltò, più che altro confusa dal suo
comportamento, e aveva fatto solo qualche passo verso Merlino quando
sentì alle sue spalle il paramedico esortare in modo
piuttosto colorito i suoi colleghi sghignazzanti a fare silenzio.
L’infermiera comunque si impose di non voltarsi e cercando di
godersi appieno la sua prima sigaretta dopo quasi otto mesi –
quando aveva deciso di togliersi quel vizio che le aveva passato Keith
– si sedette accanto a Merlino sulla panchina vicino al
sentiero che attraversava il parco.
«Lo sai che sei incoerente?», fu la prima cosa che
le disse in tono pacato, massaggiandosi il viso per poi guardarla
obliquamente, con i gomiti sulle ginocchia. «Che senso ha
tutto quel tenersi in forma col jogging se poi ti vizi in questo
modo?».
Alex ricambiò l’occhiata e dopo qualche istante di
silenzio gli porse la sigaretta tenendola tra indice e medio.
«Smezziamo?».
Il moro si concesse un sospiro di estremo sollievo dicendo:
«Pensavo non me l’avresti mai chiesto»,
prima di afferrarla delicatamente tra le dita e portarsela alle labbra.
Aspirò a lungo, tanto da incavarsi le guance e mettere
ancora più in risalto i suoi zigomi affilati, e quando
espirò il fumo verso l’alto chiuse gli occhi,
libero e in pace con il mondo.
«Promettimi che non lo dirai ad Artù»,
le disse, ripassandole la sigaretta.
«Come vuoi».
«Grazie».
Alex scrollò le spalle, picchiettando il filtro tra le dita
per far cadere la cenere oltre la panchina. «Non devi
ringraziarmi, ma perdonarmi».
«Per che cosa?».
«Ero preoccupata per Steve e me la sono presa con te, e non
te lo meritavi. Non ti meritavi nemmeno la scenata che ho fatto questa
mattina, davvero. È che a volte non riesco a non…
Non so come spiegartelo, Merlino».
«Ti capisco benissimo».
Alex si voltò verso di lui e lo guardò
intensamente, con un sorriso mesto sulle labbra. Il moro aveva gli
occhi puntati nel vuoto di fronte a sé e la fronte solcata
di rughe, sintomo che si era perso nei propri pensieri, di quelli seri
e difficili da sbrogliare.
«Ricordi com’eri impaurita quando per la prima
volta mi raccontasti della tua famiglia?», le chiese ad un
tratto.
«Non ero… impaurita»,
cercò di sdrammatizzare, ma non ci riuscì: la
verità era che era stato come lanciarsi nel vuoto e la sua
non era stata semplice paura, bensì terrore.
«Per me è la stessa cosa, elevata alla potenza. Il
mio passato… ciò che sono stato… non
piace a me, come potrebbe piacere a te?».
Alex sentì una grande tristezza pesarle sulle spalle, come
una coperta umida che fino a quel momento Merlino aveva sostenuto con
le sue sole forze e che ora stava condividendo con lei. In uno slancio
di empatia si avvicinò a lui ancora un po’,
infilò il braccio sotto al suo e posò la testa
sulla sua spalla. Sentì Merlino irrigidirsi, ma si
beò del suo calore e della scossa elettrostatica che le
corse sottopelle, la stessa che aveva sentito quando l’aveva
baciata in quel bagno.
Gli mise la sigaretta vicina alle labbra, dicendo: «Come hai
detto tu, che io conosca o meno il tuo passato non cambierò
idea su di te: rimarrai sempre il mio Merlino».
Il ragazzo afferrò ciò che rimaneva della
sigaretta tra le labbra e se solo Alex l’avesse guardato
avrebbe trovato un sorrisino intriso di malinconia dipinto sul suo
viso, un sorrisino che la diceva lunga su ciò che pensava a
proposito di quella sua ultima frase.
Merlino finì la sigaretta e la spense sul retro del ferro
della panchina, ma la tenne in mano: probabilmente perché
non voleva gettarla a terra e non voleva essere lui a dirle di
spostarsi, ma ad Alex piacque pensare che stava bene lì
dov’era, sotto quel lampione dalla luce arancione, con il
vento che gli scompigliava i capelli e la sua testa sulla spalla. In
realtà, il motivo per cui era rimasto fermo su quella
panchina era un altro.
«So quello che Artù ti ha detto questa
mattina».
Stava solo prendendo tempo per trovare il modo migliore per aprire
l’argomento.
Alex si schiarì la gola e sollevò la testa per
poterlo guardare negli occhi, sfuggenti come mai.
«Non dobbiamo parlarne per forza, se non vuoi»,
disse, consapevole che lei era la prima a non voler affrontare quella
conversazione, o almeno non in quel momento.
«Io penso che dovremmo, invece. Anche di quello che
è successo questa mattina».
Di bene in meglio,
pensò l’infermiera passandosi stancamente una mano
tra i capelli scompigliati dal vento.
Respirò profondamente e si batté le mani sulle
ginocchia, raddrizzando la schiena con determinazione, pronta ad
accettare qualsiasi cosa Merlino le avrebbe detto, ma non fece in tempo
ad aprire bocca che dalle porte scorrevoli uscì la
capo-infermiera, la quale si diresse subito verso il gruppetto di
Cathleen.
«Oh-oh, credo proprio che stia cercando me. Devo
andare», esclamò Alex saltando giù
dalla panchina proprio mentre uno dei paramedici la indicava
dall’altra parte della strada.
«Ci vediamo dopo», la salutò Merlino con
un tono che non ammetteva repliche e l’infermiera
annuì con un sorriso tranquillo, palesemente falso.
***
Alle
sue innumerevoli ed insistenti domande, Freya aveva risposto tendendo
una mano pallida verso di lui e, afferrandolo con forza per la nuca,
costringendolo ad immergere il viso nell’acqua gelata del
lago.
Artù aveva pensato che si fosse stancata di lui e volesse
ucciderlo o, ancora peggio, volesse imprigionarlo di nuovo sul fondo di
Avalon, perciò si era dimenato con tutte le sue forze,
rischiando più e più volte di cadere
dall’instabile barchetta, fino a quando la stessa Freya non
gli aveva sussurrato con voce suadente di calmarsi e di aprire gli
occhi. Artù, come sotto l’effetto di un
incantesimo, aveva fatto come gli era stato chiesto e con suo enorme
stupore si era ritrovato a Camelot.
Rivisse quei giorni con gli occhi di Freya, scoprendo che era stato
Merlino a liberarla dalla prigionia con l’uso della magia, a
tenerla nascosta nei sotterranei del castello, a portarle acqua e cibo
– il suo cibo! – e persino uno
dei vestiti di Morgana.
Ora il comportamento del mago aveva tutto un altro significato e
Artù iniziò a sentirsi male, come se
l’acqua in cui era immerso fino al collo fosse riuscita a
raggiungere il suo cuore per imprigionarlo in una morsa di ghiaccio,
quando capì che Merlino si era innamorato di lei ed era
pronto ad andarsene per costruirsi una vita diversa, lontana da Camelot
e da tutti quelli che conosceva, e poter essere finalmente se stesso.
Freya però, nonostante lo amasse anche più di
quanto la amasse lui, non aveva voluto che Merlino rinunciasse alla sua
intera vita per lei e aveva provato a fuggire da Camelot, trovandosi
circondata dai cavalieri e dallo stesso Artù.
La dama del lago non mostrò alcuna pietà per il
re di Camelot e gli mostrò tutto nei minimi dettagli:
quando, una volta trasformata in pantera alata, era stata messa
all’angolo e circondata, quando Artù era riuscito
a ferirla e all’improvviso un gargoyle era caduto tra lei e i
cavalieri per evitare che la uccidessero. Era stato Merlino a crepare
la pietra, a permetterle di fuggire, ma ciononostante non era riuscito
a salvarla: era morta tra le sue braccia, proprio sulla sponda di
quello stesso lago, e lo stregone aveva pianto, allora come quando
aveva guardato il suo corpo bruciare sulla barca funeraria che con la
magia aveva fatto scivolare lontano da sé.
«Basta! Basta!», urlò con tutte le sue
forze, sentendo l’acqua dolce nella bocca. In quel momento
Freya allentò la presa e Artù poté
sollevarsi e riempirsi nuovamente i polmoni d’aria. Per
quanto tempo era rimasto sott’acqua?
Crollò esausto sul fondo della barca, ansante, infreddolito
e con gli occhi che gli bruciavano, forse per il freddo o
più probabilmente per le lacrime che stava cercando di
trattenere.
Era stato lui ad infliggere alla ragazza-pantera il colpo che
l’aveva uccisa, lui aveva ucciso il primo amore di Merlino e
non solo il mago non gliel’aveva mai confessato,
comportandosi come se si fosse trattato soltanto di un brutto sogno, ma
quando il giorno dopo l’aveva visto giù di morale
gli aveva soltanto strofinato le nocche contro la testa, credendo che
quello ed un sorriso avrebbero sistemato tutto. Quanto era stato
sciocco.
«Ora che ho risposto a tutte le vostre domande, possiamo
tornare al motivo per cui vi ho fatto venire qui? Mostrarmi a voi
richiede molte energie e non posso davvero permettermi di
sprecarle».
Artù si fece forza e aggrappandosi ai lati
dell’imbarcazione si mise seduto, gettando
un’occhiata timorosa al viso di Freya nuovamente riflesso
sull’acqua ed illuminato dai raggi lunari.
«Sto morendo, Pendragon. La magia sta morendo».
Il re di Camelot sgranò gli occhi, scostandosi dalla fronte
ciocche di capelli bagnati, e domandò nervosamente:
«Che vuoi dire? Tutta la
magia?».
Freya annuì, mortificata. «Anche Merlino,
sì».
Artù strinse forte i bordi della barca, fino a farsi
diventare bianche le nocche, e gettò uno sguardo al cielo,
come a voler chiedere il perché di tutta quella sofferenza,
perché dovessero essere loro i
possessori di un destino così infelice.
«Non doveva andare a finire così», disse
pacatamente Freya.
«E come sarebbe dovuta andare, esattamente?»,
chiese Artù, un sorriso ironico sul volto. In ogni caso non
avrebbero vissuto felici e contenti, poco ma sicuro.
«Merlino avrebbe dovuto sbarazzarsi di Mordred la prima volta
in cui ne ha avuto l’occasione, per esempio».
«Era solo un bambino, perdio!».
«Ma era scritto che quel bambino avrebbe causato la vostra
morte! Merlino lo sapeva, l’ha sempre saputo; ciononostante,
si è lasciato guidare dal suo buon cuore, dalla sua fede. Se
Merlino avesse compiuto il suo dovere, sarebbe di certo riuscito a
convincervi a riportare la magia ad Albione e successivamente in tutto
il mondo conosciuto».
Artù aprì la bocca per fare quella che si rese
conto essere la domanda più stupida del mondo.
Sogghignò, commentando con rabbia più che con
rammarico: «Io sono sempre stato un mezzo per il vostro fine,
certo. Se non fossi stato figlio del re io e Merlino non ci saremmo mai
incontrati, dico bene?».
«Può darsi, Pendragon. Voi eravate il piano A, al
quale è succeduto il piano B quando siete morto. Ma anche
questo è fallito miseramente, come avevo
predetto». Freya scosse mestamente il capo, concedendosi un
lieve sospiro che fece increspare l’acqua del lago.
«Merlino vi è sempre stato così
leale…».
Quelle parole non solo paralizzarono il re di Camelot, ma gli fecero
persino correre un brivido di freddo lungo la schiena. Tutto quello che
la custode di Avalon gli stava raccontando non lo stava portando ad
essere un fan sfegatato della magia.
«Quale era il piano B?», domandò a bassa
voce, come se volesse essere palesemente ignorato: una parte di lui
l’avrebbe davvero voluto – il dolore sarebbe stato
troppo – ma l’altra invece stava bruciando dalla
voglia di sapere fino a che punto si erano spinti.
«Che importanza ha ora?».
«È importante per me!»,
tuonò, lo sguardo fisso di fronte a sé e le mani
che avevano stretto nuovamente i bordi dell’instabile
barchetta.
Freya roteò gli occhi al cielo. «Suppongo che
Merlino vi abbia raccontato a grandi linee quello che è
successo immediatamente dopo la vostra morte».
Artù si limitò ad annuire, sentendo delle schegge
di legno penetrargli nei palmi delle mani, sempre più in
profondità.
«Vostra moglie, la regina, non avrebbe voluto rendere Merlino
solo consigliere di corte, ma addirittura re. Una mossa azzardata,
probabilmente le mura di Camelot sarebbero cadute ancora più
in fretta con due popolani come sovrani, ma almeno Merlino sarebbe
potuto venire allo scoperto, abolire la pena di morte per chiunque
praticasse la magia… sarebbe stato un inizio».
«Voi avete… avete usato la magia perché
Ginevra si innamorasse di Merlino?», ripeté a
denti stretti, furioso e con il cuore a pezzi – non tanto
perché Merlino avrebbe potuto sposare Ginevra, anzi se
avesse avuto più tempo prima di morire gli avrebbe detto lui
stesso di prendersi cura di lei, ma perché solo
l’idea che i pensieri e i sentimenti della sua Gwen fossero
stati controllati ancora una volta dalla magia lo
mandava in bestia.
«Non è stato difficile, dato che Ginevra ha sempre
provato qualcosa per lui, sin dalla prima volta in cui l’ha
visto affrontarvi a viso aperto e finire alla gogna. Ciò che
abbiamo fatto è stato risvegliare quei sentimenti assopiti e
convincerla che vedere Merlino sul trono sarebbe stato ciò
che avreste voluto voi».
Artù cadde in un silenzio tombale, immerso nei ricordi e
nella frustrazione, ma Freya non provò a confortarlo in
alcun modo: continuò imperterrita nel suo racconto, senza
curarsi del fatto che Artù non avrebbe fatto in tempo a
riprendersi da quel duro colpo che avrebbe dovuto subirne un altro
ancora più straziante.
«Merlino ha reso vano ogni nostro sforzo, rifiutando
l’offerta di Ginevra ed imputandola al dolore del momento. Ha
deciso però di starle ancora più vicino, pronto a
sostenerla e ad aiutarla nelle decisioni più difficili.
«Con la vostra morte credeva di non avere più un
destino da portare a compimento, ma che il suo destino, in poche parole
voi, sareste venuto da lui quando sarebbe stato il
momento. Non potevamo permetterlo, ma abbiamo atteso pazientemente e
quando l’opportunità è giunta non
abbiamo fatto altro che coglierla».
«La guerra. L’allenza degli altri regni contro
Camelot», fu la risposta automatica di Artù, il
quale si rese conto di aver parlato solo dopo una dozzina di secondi,
scosso dall’orribile immagine che gli aveva infilzato il
cervello non appena aveva realizzato che persino la morte di Ginevra e
dei cavalieri aveva avuto uno scopo preciso nel folle piano delle forze
superiori, chiunque esse fossero, che volevano che la magia tornasse a
regnare ovunque.
«Il nostro piano C», esclamò Freya quasi
con orgoglio. «Pensavamo che se Camelot fosse caduta e tutti
coloro che Merlino amava fossero morti lui si sarebbe dedicato
completamente alla causa, ma… ancora una volta abbiamo fatto
male i conti. Merlino ha perso tutto e non è riuscito a
salvare vostra moglie, ma invece di provare rancore e cercare vendetta,
occupandosi di tutti coloro che temevano e odiavano la magia,
l’ha rinnegata completamente, promettendo a se stesso che non
l’avrebbe utilizzata mai più. E ha mantenuto la
sua promessa, eccome se l’ha fatto. Abbiamo dovuto
improvvisare parecchio, a quel punto, e puntare un po’
più in basso».
Non ci fu nemmeno bisogno che Artù parlasse
perché Freya gli sciorinasse quello che, se non aveva perso
il conto delle lettere, doveva essere stato il piano D.
«Una volta lasciatosi le spalle Camelot, Merlino ha viaggiato
in lungo e in largo, senza fermarsi mai per più di un paio
di giorni nello stesso posto. Questo non ci ha facilitato le cose,
affatto. Ma per fortuna ad un certo punto, quando ha iniziato a sentire
la stanchezza, la mancanza di un luogo da poter chiamare
“casa”, Merlino ha dato il via a ciò che
ha fatto fino ad oggi: vivere sotto mentite spoglie, con una storia ed
un passato sempre diversi, fino ad inscenare la propria morte per
crearsi una nuova vita, con una nuova identità, altrove.
Abbiamo influenzato tutte le donne che entravano in contatto con
lui».
Artù alzò di scatto il capo, con impressa di
fronte agli occhi l’immagine di Alexandra. Era già
inorridito per ciò che stava per sentire, così
tanto che sperò con tutto il suo essere che quel piano non
avesse portato risultati e fosse stato abbandonato come tutti gli
altri, evitando così ad Alex di correre pericoli.
«Ci saremmo accontentati di maghi di serie B, eredi del
grande potere di Merlino ma estremamente più facili da
influenzare. Ne sarebbero serviti molti, e sparsi in ogni angolo del
mondo, ma in un modo o nell’altro saremmo riusciti a
diffondere la magia. Peccato che Merlino non abbia mai avuto figli in
più di millequattrocento anni, né relazioni
durature, eccetto quella del secolo scorso. Sì, ricordo che
quella Louise ci aveva fatto davvero ben sperare… Beh, ormai
non ha più importanza. Grazie alla previdenza di Kilgharrah
abbiamo sempre avuto un piano di emergenza, un asso nella manica:
voi».
Il re di Camelot posò finalmente gli occhi sulla figura
sotto la superficie del lago. «Me? Sul serio,
me?!», urlò, così sconvolto, incredulo,
arrabbiato e sofferente che avrebbe voluto prendere a pugni qualcosa,
qualsiasi cosa, pur di buttare fuori tutto ciò che lo stava
uccidendo dall’interno.
«“Nel momento in cui Albione
avrà più bisogno, Artù
rinascerà”!», gridò
a sua volta la custode del lago, come se fosse la cosa più
ovvia del mondo. «Il destino di Merlino non girava intorno a
voi, è sempre stato il contrario! E ora abbiamo bisogno di
voi perché finalmente venga portato a termine!
«Il mondo ha bisogno della magia! Ora non
starebbe collassando se Merlino avesse pensato al bene comune! Cosa
credete che siano i terremoti, gli uragani, le eruzioni vulcaniche,
l’inquinamento, il buco dell’ozono? Sono tutti
sintomi! È la Terra che, prosciugata della magia che la
rendeva sana, forte, piena di energia positiva, sta annunciando la sua
lenta ed inesorabile morte».
Artù aveva aspettato pazientemente che Freya finisse di
sfogarsi e preoccuparsi per le sorti del pianeta, anche quando il suo
cellulare aveva iniziato a vibrargli insistentemente contro
l’addome: l’aveva tirato fuori dalla tasca della
felpa e aveva lasciato che il display su cui lampeggiava il nome di
Merlino gli illuminasse il viso, poi lo aveva rimesso al suo posto. Non
era proprio un bel momento.
«Finito? Bene, è il mio turno»,
esclamò, prendendo i remi e gettandoli in acqua.
«A voi esseri magici piace proprio essere criptici, non
è vero? Oltre che codardi, ovviamente. Credete di sapere
cosa sia meglio per tutti perché conoscete a memoria il
nostro destino, ma non avete il coraggio di informarci a riguardo,
preferendo manipolarci come se fossimo solo delle stupide pedine senza
coscienza dentro i vostri gloriosi quanto fallimentari piani. Beh, io
non sono affatto come voi, perciò Freya – o come
tu ti faccia chiamare ora – ti dirò una cosa: per
quanto mi riguarda potete andare tutti all’inferno. Che la
Terra si trasformi pure in un inferno: non mi interessa, io
sono già morto!».
Aveva appena iniziato a remare con la forza del rancore verso la riva,
quando una corrente innaturale gli oppose resistenza, bloccandogli i
remi in una posizione alquanto scomoda.
Sbuffò rumorosamente, come un toro infuriato.
«Vuoi incatenarmi di nuovo nelle profondità di
questo lago? Fantastico. Ma non osare tirarmi fuori di nuovo: non ti
aiuterò ora, non ti aiuterò in futuro».
«Davvero lascereste questo mondo bruciare a causa
del vostro orgoglio ferito?», gli chiese la dama di
Avalon, facendo ribollire l’acqua intorno alla barca. La sua
immagine era sparita e la sua voce gli rimbombava nella testa, tanto
forte da fargli portare istintivamente le mani sulle orecchie.
«Non stiamo parlando del mio orgoglio qui!»,
urlò Artù in risposta, cercando disperatamente di
tirare fuori dall’acqua i remi. «Avete distrutto la
nostra casa e avete condannato a morte tutte le persone che
amavamo!». Gli ritornarono alla mente le parole che lo
stregone gli aveva detto giusto quella sera a proposito
dell’enorme errore che sarebbe stato riportare la magia a
Camelot, e lottando contro il feroce mal di testa che Freya gli stava
provocando disse: «So per certo che anche Merlino non
vorrà avere nulla a che fare con voi. E ne sarà
ancora più convinto quando gli racconterò tutta
la verità».
«Ne siete proprio sicuro, Pendragon? Merlino ha
degli amici qui, persone che non vorrebbe vedere bruciare tra le fiamme
dell’inferno. E poi c’è la ragazza».
Abbandonò ogni tentativo di raggiungere la riva, paralizzato
dal timore che si riferisse proprio ad Alex. In quel preciso istante,
per la prima volta, capì veramente quanto
si era affezionato a quella ragazza impertinente e dalla testa
più dura della sua. Nonostante tutte le incomprensioni,
nonostante a volte lo facesse davvero uscire fuori dai
gangheri… non avrebbe permesso a niente e a nessuno di farle
del male.
«Quale ragazza?», chiese, deglutendo faticosamente
il groppo che gli aveva ostruito all’improvviso le vie
respiratorie.
«Sapete benissimo a chi mi riferisco. Alexandra
Greenwood, la ragazza che si è gettata tra le mie acque
quando siete ritornato nel mondo dei vivi. Non è stato un
caso che vi abbia trovato lei, sapete? E non è nemmeno un
caso che voi vi sentiate così legato a lei,
così… protettivo nei suoi confronti».
«Smettila, fai silenzio!».
Ad Artù sembrò di sentirla ridacchiare, una
risata sardonica o forse proprio maligna. «Lei
è la vostra ultima erede, l’unica al mondo con
ancora una piccolissima traccia di sangue Pendragon nelle vene».
«Erede?», balbettò, scioccato.
«Io non… Non è possibile, io e
Ginevra…».
«Capisco… Merlino non vi ha detto nemmeno
questo. Avrei dovuto immaginarlo. Che sbadata che sono. Temo proprio
che a questo punto vorrete un po’ di tempo per riflettere.
Tornate non appena avrete deciso che cosa fare».
Freya se ne andò col solito ribollio e Artù
sentì la barca scricchiolare come se fosse sul punto di
affondare, ma fu solo un momento.
Venne ben presto avvolto da un silenzio totale, rotto soltanto da il
bubulare di un gufo, da una ranocchia intenta a gracidare, dalle fronde
degli alberi agitate dal vento freddo della notte e da un lieve
singhiozzare. Solo quando si portò una mano sul viso si rese
conto di essere lui l’autore di quell’ultimo suono.
Solo, nel bel mezzo di Avalon, si rannicchiò sotto quella
luna tanto grande e luminosa da sembrare finta e pianse senza la paura
di doversi vergognare un giorno delle proprie lacrime.
***
Merlino
sentiva ancora in bocca l’odore di fumo quando si era fatto
offrire una tazza di caffè da un infermiere che aveva
incontrato nella stanza relax. Non ché gli desse fastidio,
ma gli sembrava ipocrita parlare a dei bambini malati di tumore con
l’alito che puzzava di un qualcosa che era guarda caso una
causa di tumore.
Con la sua tazza di ceramica gialla tra le mani attraversò
il corridoio per raggiungere la stanza di Abigail, trovandosi costretto
a passare di fronte a quella in cui avevano sistemato provvisoriamente
Steve, da solo, in modo che potesse riposare tranquillamente.
Si fermò di fronte alla finestra attraverso la quale vide
sua madre, una giovane donna con i capelli biondi seduta al suo
capezzale e con le mani strette intorno alla sua piccola e pallida, e
suo padre, anche lui giovane, con i capelli scuri e gli stessi occhi di
Steve, in piedi dietro di lei, che le massaggiava le spalle per
infonderle coraggio nonostante anche lui stesse trattenendo a stento le
lacrime.
Steve era stato stabilizzato e parte del liquido che gli si era
riversato nei polmoni aspirato, ma era solo una questione di tempo
ormai: il loro piccolo Capitan America – come lo chiamava
spesso e volentieri Alex – se ne sarebbe andato, lasciando un
vuoto incolmabile e un dolore non quantificabile in ognuno di loro.
Merlino venne ancora una volta investito dalle parole di Alex, parole
dette per una semplice associazione ma per lui pungenti come poche: «A
meno che tu non sia in grado di guarire Steve sussurrando una
formula magica, non voglio proprio niente da te».
La verità era che lui avrebbe potuto guarirlo, se solo lo
avesse voluto. E lo voleva, lo voleva più di ogni altra cosa
al mondo, ma la paura era troppa. Nulla gli permetteva anche solo di
sperare che quella volta la magia sarebbe stata dalla sua parte e
l’ultima cosa che desiderava era far gridare al miracolo e
dare un’illusione ai medici, alle infermiere, agli altri
bambini, a se stesso, per poi scoprire che la guarigione era solo
temporanea. Inoltre c’era un altro aspetto di cui tenere
conto: la resistenza. Cosa sarebbe successo nel caso in cui non fosse
riuscito a tenere a freno la magia, a controllarla una volta liberata
dalla sua prigione? Non gli importava molto della propria vita, ma
quelle di tutte le persone intorno a lui sì, eccome, e non
voleva che nessuno si facesse del male per colpa del suo dono
trasformatosi in maledizione.
Si guardò per un attimo le mani, cercando di venirne a capo,
invano. Sospirò, ricordando com’era semplice
quando bastava entrare nello studio di Gaius per ricevere un consiglio
saggio che quasi sicuramente avrebbe ignorato. Ora c’era
un’unica persona a cui avrebbe potuto porre i propri dubbi e
per quanto gli sembrasse strano, quasi paradossale, sentiva che doveva
almeno tentare.
Tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e raggiunse
una delle varie uscite di sicurezza per chiamare Artù.
L’apparecchio suonò a vuoto per una dozzina di
secondi, dopodiché Merlino ci rinunciò,
sospirando con due dita sulle palpebre pesanti.
Ripassò di fronte alla camera di Steve ma quella volta
tirò dritto, gli occhi fissi sulle sue scarpe da ginnastica.
Bussò lievemente contro il legno della porta e quando
ottenne il permesso di entrare si sforzò di sorridere ad
Abigail, seduta sul suo letto, sotto le coperte e con un libro aperto
sulle gambe, e a Mark, al suo fianco sulla propria sedia a rotelle, il
viso cupo e gli occhi intrisi di rabbia.
«Ah, eccoti qui. Pensavo fossi sparito di nuovo»,
esclamò il ragazzino subito sulla difensiva, incrociando le
braccia al petto ed evitando lo sguardo di rimprovero di Abigail, la
quale invece sorrise dolcemente a Merlino, stendendo le braccia verso
di lui.
Il mago si avvicinò e ricambiò
l’abbraccio, posandole anche un bacio sui capelli corti.
«Sono così felice di vederti», gli
sussurrò all’orecchio poco prima di sciogliere la
stretta. «Come stai?».
«Non c’è male», rispose
avvicinando al letto una sedia, su cui si sedette con un sospiro
stanco. «Voi? Mi sono perso qualcosa di
interessante?».
«A parte Alex che legge in modo pessimo le tue
storie e Steve che combatte per la vita dici? No, proprio
niente».
«Mark…», lo riprese ancora Abigail, ma
il ragazzino le rivolse uno sguardo truce prima di aggiungere:
«C’era bisogno che uno di noi rischiasse la pelle
per farti tornare?».
«Adesso basta, Mark!», urlò Abigail,
facendo sobbalzare sia il coetaneo che lo stesso Merlino. Nessuno dei
due l’aveva mai vista esternare i suoi sentimenti in quel
modo: era furiosa, i suoi occhi scuri erano pozzi d’oblio e
la mascella contratta le dava l’aspetto di una leonessa
pronta a tutto per i propri cuccioli.
«Siamo tutti preoccupati per Steve, ma non devi prendertela
con Merlino», spiegò pacatamente quando riprese il
controllo.
Mark la fissò per quella che sembrò
un’eternità, per nulla incurante delle lacrime che
gli avevano inumidito gli occhi. Quindi con rabbia girò la
propria sedia a rotelle ed uscì dalla camera sbattendosi la
porta alle spalle.
Abigail sospirò chiudendo gli occhi, poi accennò
un sorriso nella direzione di Merlino: «Alex non è
brava quanto te a leggere le storie, questo è
vero».
Merlino si lasciò andare ad un mezzo sorriso e si
scompigliò i capelli, abbandonandosi contro lo schienale
della sedia.
«Mark ha ragione ad essere arrabbiato. Non mi aspettavo una
reazione differente».
«Secondo me non hai fatto nulla di sbagliato»,
esclamò Abigail. «Hai una vita, al contrario di
noi qui dentro, ed è giusto che tu la viva».
Merlino la guardò quasi con vergogna, pensando che lui aveva
vissuto ben più di una vita ed era stanco, davvero stanco
ormai, e che avrebbe dato qualsiasi cosa per poter dare un
po’ di tutti gli anni che gli rimanevano ad ognuno dei
bambini ricoverati.
«Avrei dovuto almeno avvisarvi», disse schiarendosi
la gola.
La ragazzina scrollò le spalle, per poi sorridere
più ampiamente: «Parlami di questo tuo amico
così importante. È carino?».
Merlino ridacchiò e le strofinò affettuosamente
una mano tra i capelli. «Giudicherai da te quando ve lo
farò conoscere».
«Davvero ce lo farai conoscere? È una
promessa?».
Dal suo punto di vista era sempre stato pessimo nel mantenere le
promesse, ma per quella volta decise che non avrebbe deluso nessuno,
qualsiasi fosse stato il prezzo da pagare. «È una
promessa».
Abigail annuì con un cenno del capo ed abbassò
gli occhi sul libro che stava leggendo prima che Mark si fiondasse come
un razzo nella sua camera. Aveva cercato di rassicurarlo, gli aveva
detto di tutto, ma sapeva di avergli mentito sin dall’inizio.
«A che cosa stai pensando?», le chiese Merlino,
distraendola.
La ragazzina scosse tristemente il capo. «Steve non ce la
farà, vero?».
Il moro aveva appena aperto la bocca per risponderle e darle altre
false speranze, ma gli occhi di Abigail fissarono i suoi con
un’intensità tale da ammutolirlo.
«Non ho bisogno delle bugie, Merlino. Quanto tempo gli
resta?».
«A quanto pare…», si schiarì
la gola per alleviare il magone che l’aveva
all’improvviso bloccata. «A quanto pare
sarà già tanto se supererà la
notte».
Abigail si strinse forte le braccia intorno al corpo ed
abbassò il viso, col mento contro lo sterno, per non
mostrargli le lacrime che avevano iniziato a scorrerle sulle guance.
«Non è giusto, lui è…
è solo un bambino».
Merlino serrò le labbra e si alzò per sedersi
accanto a lei sul letto; le avvolse le braccia intorno al corpo e la
invitò a trovare conforto contro il proprio.
«Che cosa credi che avrebbe fatto il Merlino delle mie
storie?», le domandò ad un tratto, a bassa voce.
«Se avesse avuto la possibilità anche solo di
dargli un altro po’ di tempo… credi che avrebbe
usato la magia?».
La ragazzina sollevò il capo per guardarlo negli occhi e
dopo un istante di profondissimo silenzio, durante il quale Merlino si
sentì completamente messo a nudo, Abigail rispose:
«Il tempo qui è ciò che più
di prezioso abbiamo, perciò… sì, senza
pensarci su due volte».
Detto questo tornò a rannicchiarsi contro di lui, col viso
nell’incavo della sua spalla, e Merlino prese finalmente la
sua decisione.
***
Alexandra,
esortata dalla capo-infermiera, aveva fatto il giro di tutte le camere
per mettere a letto i bambini e rassicurarli sulle condizioni al
momento stabili di Steve, omettendo semplicemente che quella volta una
bella nottata di sonno non l’avrebbe fatto stare meglio. Il
solo pensiero le spezzava il cuore e più di una volta aveva
dovuto tirare fuori lo stoicismo di sua madre per trattenere le lacrime
mentre rimboccava le coperte, augurava la buonanotte e spegneva le luci.
Quando era arrivato il turno di Abigail, forse l’unica a cui
non avrebbe dovuto dire di fare silenzio e provare a dormire, il nodo
che aveva in gola si era stretto un po’ di più:
Merlino era seduto al suo fianco e la stringeva delicatamente tra le
braccia, accarezzandole di tanto in tanto i capelli con le labbra,
dicendole quelle che Alex presuppose fossero parole di conforto.
In quel momento non poté fare a meno di pensare che avrebbe
voluto essere al posto di Abigail e questo la fece sorridere, prima di
proseguire verso la stanza di Mark e Danilo.
Già da fuori capì che c’era qualcosa di
insolito: la stanza era buia e silenziosa in modo preoccupante, visto
che da quando Mark era stato ricoverato non era mai successo che fosse
andato a dormire prima delle dieci.
Aprì la porta facendo più piano possibile e nella
semioscurità scorse Danilo già addormentato,
sfinito dal ciclo di chemio, e il letto vuoto, nemmeno sfatto, di Mark.
«Dannazione», disse tra i denti, sopprimendo la
tentazione di prendere a pugni la porta.
Respirò profondamente per calmarsi ed iniziò a
pensare a dove potesse essere andato. Solitamente il binomio Abby-Mark
era una sicurezza: trovavi uno e trovavi l’altro; raramente
si imbarcavano in fughe e simili senza il sostegno reciproco,
perciò le risultava chiaro come il sole che il suo intento
era stato sin dall’inizio quello di isolarsi da tutto e da
tutti.
All’improvviso capì che forse si era posta la
domanda sbagliata. Pensò a come si sentiva lei
in quel momento, a ciò che provava a causa delle condizioni
di Steve, e si domandò dove sarebbe andata per trovare un
po’ di solitudine. Le venne in mente un solo posto.
Si
avvicinò all’entrata sul retro e
sospirò vedendo una transenna con tanto di cartello
“Vietato l’accesso ai non addetti ai
lavori”, spostata quel tanto che bastava ad un ragazzino
– ma anche ad una ragazza magra e atletica come lei
– per sgusciare all’interno del cantiere.
Lì accanto, abbandonata, la carrozzina di Mark. Lui, invece,
proseguendo sulle sue gambe, era entrato nell’ampio spazio
semicircolare e si era seduto a bordo piscina con le gambe penzoloni e
i pantaloni della tuta tirati su fino al ginocchio come se ci fosse
stata davvero dell’acqua nella vasca dalle mattonelle
azzurre. Aveva il viso rivolto verso l’alto, dove la cupola
di vetro faceva intravedere le rotondità della luna in cielo.
«È un peccato che non abbiano mai finito i lavori
di ristrutturazione, eh?», esclamò Alex, facendolo
sobbalzare leggermente.
«Come hai fatto a trovarmi?», le chiese stizzito,
stringendo i pugni sulle ginocchia.
«Sono intelligente, che domande».
Si sedette al suo fianco e sospirò, appoggiandosi contro una
gamba piegata e guardando il suo profilo. «Non dovresti
essere qui, Mark. Ci sono calcinacci e impalcature ovunque,
è pericoloso».
Mark scrollò le spalle, incurante. «Morire qui,
morire a causa di un tumore… non c’è
differenza».
Alex sollevò una mano per accarezzargli i capelli ricci, ma
non riuscì nemmeno a sfiorarlo. Il ragazzino le rivolse
un’occhiata torva, gli occhi di solito pieni di vita
arrossati a causa delle lacrime ed intrisi di un dolore talmente grande
da trasformarsi in rabbia cocente.
«Senti, se sei venuta qui per portarmi di nuovo là
dentro va bene, andiamo, ma risparmiati le belle parole: fanno
schifo».
«Sì, hai ragione, fanno schifo».
L’infermiera annuì con un cenno del capo e si
alzò. «Steve probabilmente non supererà
la notte, la sua famiglia e tutti i suoi amici piangeranno fino a non
avere più lacrime, il cancro non è ancora
curabile come vorremmo e causerà dolore ad ancora molte
persone, ma non azzardarti – non azzardarti mai
più a dire che un modo di morire vale
l’altro».
Mark sollevò il viso, sul quale era scivolata una lacrima
solitaria, ma Alex non riuscì ad intenerirsi e ancora
più infervorata aggiunse: «Steve ha sempre
lottato, sta lottando anche in questo momento, mentre tu te ne stai sul
bordo di una piscina vuota e dici stronzate, dimostrando che ti sei
già arreso. Sono molto delusa, Mark, e se Steve ti vedesse
in questo momento sono certa che lo sarebbe anche lui».
Il ragazzino scoppiò a singhiozzare e si aggrappò
alla gamba di Alex, nascondendo il volto nei suoi ruvidi pantaloni
azzurri.
Era stata dura, forse più di quanto intendeva esserlo, ma
sperava che in quel modo Mark riuscisse a capire il valore della vita,
non solo di quella degli altri ma anche della propria.
«Mi dispiace», farfugliò, tirando su col
naso.
L’infermiera gli posò le mani sulle spalle per
invitarlo a lasciarle andare la gamba, dopodiché si
inginocchiò di fronte a lui. Gli accarezzò le
guance arrossate a causa delle lacrime versate e scosse lievemente il
capo: avrebbe voluto dirgli che non doveva chiedere scusa a lei, ma a
se stesso, per non essersi dato nemmeno una chance, ma Mark le
gettò le braccia intorno al collo e la strinse tanto forte
da toglierle per un attimo il respiro.
«Ho paura, Alex. Ho tanta paura»,
mormorò, tremando come una foglia.
Alex gli passò le dita tra i capelli, massaggiandogli la
schiena ancora squassata dai singhiozzi, e disse la verità:
«Anche io».
***
Fermo
sulla porta, rimase completamente di stucco quando la madre di Steve si
ricompose, asciugandosi le lacrime, per sorridergli e salutarlo.
«Merlino, giusto? Il ragazzo delle favole».
Si erano incontrati solo una volta, eppure quella donna tanto
addolorata e tanto forte si ricordava di lui.
«In persona», mormorò, porgendole la
mano. Anche il padre di Steve gliela strinse, per poi tornare subito
dopo a massaggiare teneramente le spalle delle moglie.
«Quello che fai per loro è…
è bellissimo. Un semplice grazie non può
bastare», aggiunse lei, tirando su col naso.
Merlino si strinse nelle spalle, con le mani nelle tasche dei jeans.
«Basta e avanza, mi creda».
Si avvicinò ai piedi del letto di Steve, collegato ad una
macchina per l’ossigeno e con una mezza dozzina di altri fili
che dal petto gli uscivano dalla camicia da notte
dell’ospedale; cercò di guardarlo senza mostrarsi
in pena per lui, ma la sofferenza era davvero troppa e non
c’era spazio per le finzioni.
«Ci sono novità?», domandò
quindi, schiarendosi la gola.
«Stavamo per andare a cercare qualcuno»,
spiegò l’uomo, scostando una ciocca di capelli
biondi dal viso pallido e stanco del figlioletto. «Le
dispiace…? Ci vorrà solo un attimo».
Merlino annuì sicuro e si spostò di lato per
lasciarli passare, ma la madre di Steve si abbandonò contro
di lui per un abbraccio della durata di un secondo e mezzo circa, ma
intenso come pochi.
«Grazie», gli sussurrò giusto prima di
socchiudersi la porta alle spalle e Merlino annuì di nuovo,
convincendosi ancora di più di star facendo la cosa giusta.
Non poteva tenersi in disparte, lasciarlo semplicemente andare: doveva
almeno provare a dargli un altro po’ di tempo.
Lui di sicuro ne aveva pochissimo prima che i suoi genitori tornassero,
perciò si sedette sulla sedia fino a poco tempo prima
occupata da sua madre e tenendo una mano sulla fronte di Steve lo
chiamò dolcemente: «Ehi piccolo, riesci a
sentirmi?».
Era imbottito di antidolorifici e ancora esausto a causa
dell’operazione appena subita, ma incredibilmente Steve
riuscì ad aprire gli occhi e gli regalò persino
un minuscolo sorriso, stirando appena le labbra bluastre e screpolate.
Le aprì per parlare ma dalla sua gola uscì a
malapena un rantolo soffocato che gli fece accartocciare il viso in una
smorfia.
«Shhh, non ti sforzare», sussurrò
Merlino con gli occhi colmi di lacrime. «Sono felicissimo
anche io di vederti».
Steve lo ignorò e provò a parlare nuovamente,
questa volta riscuotendo più successo. «Stanno
venendo a prendermi, li sento».
Merlino sgranò gli occhi, terrorizzato. «Chi? Chi
ti sta venendo a prendere? Steve?».
«I Dorocha», soffiò, richiudendo gli
occhi. «Ho tanto freddo…».
«No… No, Steve, i Dorocha non ti
prenderanno».
«Ma la tua magia non funziona con
loro…».
Il bambino stava delirando, a causa delle droghe oppure del poco tempo
che gli rimaneva, e Merlino si odiò per aver raccontato a
lui e agli altri bambini storie che, nonostante gli abbellimenti, erano
ancora in grado di far venire gli incubi, a lui per primo.
Non badò alla lacrima che gli rotolò lungo la
guancia, troppo occupato ad assicurarsi che non ci fosse nessuno nei
paraggi e a concentrarsi per raccogliere la magia necessaria a dargli
un po’ di sollievo.
«Facciamo un tentativo, okay? Sarà il nostro
segreto», sussurrò e con infinita delicatezza gli
posò entrambe le mani sul petto. «E se non
funziona mi metterò tra te e i Dorocha. Non ti faranno alcun
male, te lo giuro».
Steve riaprì gli occhi velati di stanchezza ed
incurvò appena le labbra. «Come ha fatto
Artù per te?».
«Esattamente», rispose annuendo e sorridendogli
incoraggiante.
Si guardò un’ultima volta alle spalle e poi
respirò profondamente, gli occhi chiusi per trovare tutta la
concentrazione possibile. Quando li riaprì, un brivido gli
corse lungo la spina dorsale trovandosi di fronte ad un paio di iridi
color dell’oro, riflesse sullo schermo stranamente spento di
uno dei macchinari a cui Steve era attaccato.
Giusto prima di realizzare che se non fosse andato via subito sarebbe
svenuto lì, dove i genitori di Steve lo avrebbero trovato,
notò che tutti gli schermi intorno a lui
erano diventati neri. Con le poche forze che gli rimanevano
tirò la cordicella d’emergenza e si
affrettò ad uscire dalla stanza, aggrappandosi a qualsiasi
cosa per aiutarsi a reggersi in piedi.
Era già fuori, diretto verso una delle uscite
d’emergenza, quando i macchinari si riaccesero tutti insieme,
mostrando segni vitali nuovamente stabili, addirittura quasi nella
norma.
***
La
sua amicizia con Merlino, tutto ciò che avevano vissuto
insieme… Possibile che fosse stato orchestrato tutto quanto
dalle forze magiche? C’era mai stato di qualcosa di vero,
qualcosa di non già scritto, negli anni trascorsi come
compagni di battaglia, di sofferenza, di gioia… di vita?
Merlino era stata l’unica persona in cui aveva sempre riposto
tutta la sua fiducia, l’unico che credeva non
l’avrebbe mai tradito, eppure già una volta
l’aveva deluso, tenendogli segreti i suoi poteri. Non poteva
davvero credere che l’avesse fatto nuovamente, dimenticandosi
di raccontargli una cosa così importante: la nascita di un
Pendragon, suo figlio.
Di nuovo in sella, diretto verso casa, continuava a pensare a tutto
ciò che Freya gli aveva detto, strofinandosi il viso
inumidito dalle lacrime con la manica della felpa.
Venne distratto da un suono breve ed acuto e da alcuni flash di luce
blu alle sue spalle. Si voltò con il capo e vide la donna
alla guida fargli cenno di fermarsi. Artù
acconsentì, più per curiosità che per
senso del dovere – dopotutto non aveva idea di che tipo di
istituzione avesse di fronte – e vide la donna parcheggiare
l’auto sul ciglio della strada e scendere, zoppicando
leggermente, lasciando i lampeggianti blu accesi sopra il tettuccio.
Era davvero una bella donna, con la pelle ambrata, i capelli neri
raccolti sotto uno strano cappello rigido, arrotondato e con uno stemma
argentato sopra la visiera, e due splendidi occhi grigio-verdi.
Probabilmente aveva anche delle forme perfette, ma il suo abbigliamento
più che insolito non le metteva di certo in risalto:
indossava una camicia bianca con al collo una cravatta a quadretti
bianchi e neri, dei pantaloni larghi e pieni di tasche e una felpa nera
sopra la quale portava una giacchetta color giallo brillante con delle
strisce argentate in grado di brillare in modo impressionante se
colpite dalla luce dei fanali dell’auto.
«Spero abbia un’autorizzazione valida per
quella», esclamò indicando la balestra che portava
sulla schiena. «Anche se non riesco proprio ad immaginare
come potrebbe usarla, visto che questa non è zona di
caccia».
Artù corrugò la fronte e si tolse la balestra
dalla schiena. «Questa, dite?», chiese,
portandosela contro la spalla per esaminarne il teniere.
La donna però non vide di buon occhio quel gesto ed estrasse
rapidamente la pistola dalla fondina, puntandogliela contro.
«La metta giù. Lentamente».
Il re di Camelot la guardò a bocca aperta, incredulo.
«Quella è una… una pistola?».
«Certo, che cos’altro potrebbe essere?»,
gli chiese innervosita, impugnandola saldamente con entrambe le mani.
«Beh, sa, è la prima volta che ne vedo una dal
vivo. Voi siete una di quelle attrici…», sorrise
malizioso, inarcando le sopracciglia. «Mi ha capito,
no?».
Lei lo fissò allibita. «Farò finta di
no, sul serio. Ora abbassi la balestra, per favore».
«Sì, certo. Perdonatemi, non volevo puntarvela
contro. Non è mia abitudine minacciare una donna indifesa,
ovviamente».
«Ovviamente. E chi minaccia
solitamente?», gli chiese ancora, allungando una mano dietro
la schiena per estrarre un paio di manette.
«Nessuno, assolutamente nessuno», rispose
d’istinto Artù, mostrandosi ancora più
sospetto di quanto non sembrasse già. «A che cosa
vi servono quelle?».
«Una piccola precauzione mentre la porto in
Centrale».
«Oh, sono lusingato, davvero, quello è uno dei
miei video preferiti, ma… non posso, davvero non
posso», rispose, avvampando ed iniziando a farsi prendere dal
panico.
Non sapeva come comportarsi, né perché quella
donna fosse così spaventata dalla balestra che teneva ancora
tra le mani, ma una cosa la sapeva per certo: se Merlino fosse tornato
a casa e non l’avesse trovato gli avrebbe fatto un milione e
mezzo di domande, fino a quando non avrebbe ceduto, e Artù
non aveva alcuna intenzione di cedere, non al momento almeno. Aveva
bisogno di tempo per pensare, per capire perché il suo unico
amico si fosse comportato in quel modo e, soprattutto, per scoprire se
Alex fosse davvero una sua lontana, ormai unica, discendente.
«Glielo ripeto un’ultima volta: metta
giù l’arma!», gridò la donna,
tornando a puntargli contro la propria.
«Mi dispiace, devo proprio andare!», rispose
frettolosamente Artù, dandole le spalle per saltare in sella
al suo destriero a pedali. Non l’aveva ancora sollevato da
terra quando un forte colpo alla nuca lo fece cadere svenuto
sull’erba umida.
***
Alex
spinse la sedia a rotelle di Mark fuori dall’ascensore ed
entrambi strabuzzarono gli occhi quando videro un capannello di gente
di fronte alla stanza in cui era stato sistemato il lettino di Steve.
Un’infermiera del pronto soccorso che conosceva solo di vista
le passò accanto di corsa e Alex non poté
trattenersi dall’esclamare, sconvolta: «Ma che
diavolo sta succedendo?».
«Un miracolo, per quanto ne so».
Alex sobbalzò sentendo quella risposta e voltandosi di
centottanta gradi vide Cathleen appoggiata allo stipite di metallo
dell’ascensore con una spalla, una mela verde morsicata in
mano e gli occhi che le stavano facendo un esame più
dettagliato di quello che avrebbe fatto una TAC. Quando finalmente
raggiunsero la giusta altezza, incrociando quelli di
un’imbarazzata quanto confusa Alex, le rivolse un sorriso
ammiccante che non fece altro che peggiorare la situazione, addentando
sonoramente la propria mela.
«Andate in un motel, vi prego», borbottò
Mark, abbastanza ad alta voce perché le due lo sentissero e
reagissero in due modi completamente differenti, opposti: Cathleen
ridacchiò, rivolgendogli uno sguardo eloquente, mentre Alex
gli diede uno scappellotto, cercando parole di rimprovero che per un
motivo o per un altro non le vennero mai in mente.
«Potresti spiegarti meglio?», le chiese anche con
un pizzico di arroganza quando finalmente riuscì a
riprendere il controllo di sé.
«Sembra che Steve non sia più in pericolo di vita,
almeno per il momento. I suoi parametri vitali sono migliorati
così, all’improvviso. Credo che, da quando
è qui, non sia mai stato così bene».
Alex non credeva nei miracoli, non ci aveva mai creduto,
perciò come Tommaso l’apostolo lasciò
Mark accanto a Cathleen e si fece largo tra la piccola folla che si era
creata per vedere con i propri occhi ciò che reputava fisicamente
impossibile.
Appiccicata al vetro da cui si poteva vedere l’interno della
stanza, sentì il cuore saltarle un battito di fronte
all’immagine di un sorridente anche se assonnato Steve, con
le guance e le labbra di nuovo colorite e gli occhi brillanti, che si
lasciava accarezzare i capelli dalla sua mamma e dal suo
papà, con le lacrime di felicità agli occhi,
mentre la dottoressa gli prelevava di persona un campione di sangue da
sottoporre alle analisi. Mettendo da parte tutta la gioia portata da
questo miglioramento, c’era un gran bisogno di risposte
scientifiche.
Alex si allontanò non appena capì di aver visto
abbastanza e con gli occhi sbarrati fissi sul pavimento
tornò verso Mark e Cathleen, ancora fermi dove li aveva
lasciati.
«Allora?», le chiese il paramedico, rivolgendole un
sorriso obliquo.
«Beh…», mormorò, senza alzare
lo sguardo. «Steve sta… sta meglio,
credo».
«Credi?», domandò
Mark, inarcando le sopracciglia. «E vieni pure pagata per
questo?».
«Quello che sta cercando di dire Alexandra è che
ci vorrà del tempo per capire come sia potuto
succedere», intervenne Cathleen, guardandolo severamente. Si
chinò di fronte al suo viso, tanto vicino da farlo addossare
contro lo schienale, e aggiunse: «Se ti sento ancora mancare
di rispetto a lei o a qualcun altro te la vedrai con me. Mi hai capito,
moccioso?».
Mark assunse la sua aria da ragazzino ribelle, trucidandola col
pensiero, ma annuì. Il paramedico sorrise mostrando la sua
perfetta dentatura e dopo essersi sollevata posò una mano
sulla spalla di Alex, facendo del proprio meglio per confortarla.
L’infermiera però non la calcolò
nemmeno e si scostò per tornare ad impugnare i manici della
sedia a rotelle di Mark.
«È tardissimo, ti riporto in camera»,
disse atona, per poi aggiungere: «Sei fortunato che tutti
siano concentrati su Steve».
Cathleen le guardò la schiena mentre andava via proprio come
se non esistesse e ad un tratto sollevò una mano in segno di
saluto, dicendo tra sé e sé: «Anche per
me è stato un piacere rivederti, buonanotte».
Alex aveva controllato nuovamente che tutti i bambini, Mark e Abigail
compresi, si fossero addormentati prima di rendersi conto che il suo
turno era finito ormai da un quarto d’ora.
Era stata una serata piena, di quelle sfibranti per il carico di
emozioni, e aveva come la sensazione – un vero e proprio
brutto presentimento in realtà – che non fosse
ancora finita.
In ogni caso non sarebbe andata via senza aver parlato prima con la
dottoressa di Steve: doveva capire che cosa era accaduto e come,
soprattutto, nel breve lasso di tempo che aveva trascorso nella piscina
in via d’abbandono con Mark.
Si era preparata un altro caffè, dato che non aveva avuto il
tempo di finirlo quando era arrivato Merlino, e poi aveva passeggiato
avanti e indietro davanti al bancone dell’accoglienza,
nervosa come il parente di uno dei pazienti del pronto soccorso.
A dimostrazione di tutta la spossatezza che le pesava sulle spalle le
era passata per la testa l’idea di scendere proprio al pronto
soccorso con l’intenzione di trovare Keith e sfogarsi con lui
– o almeno di chiedergli se conoscesse Cathleen –
ma la sua coscienza, forse nell’ultimo sprazzo di
lucidità, le aveva impedito di commettere
quell’errore madornale.
Quindi aveva aspettato pazientemente che la sua collega del turno di
notte le comunicasse che poteva trovare la dottoressa in una certa
camera o in uno dei vari laboratori al terzo piano. Aveva aspettato e
aspettato, desiderando ardentemente un intero pacchetto di sigarette,
fino a quando non aveva visto la madre di Steve uscire dalla sua stanza
per dirigersi verso la macchinetta. Fu in quel momento che decise di
tentare il tutto per tutto.
Senza attirare troppa attenzione si allontanò dal bancone e
si incamminò verso la macchinetta, quindi fece finta di
averla vista solo in quel momento e a bassa voce, con tutto il tatto di
cui era capace, disse: «Paige, ciao. Ti ricordi di
me?».
La donna, col viso struccato e sfatto più del suo, la
guardò e dopo un attimo di esitazione accennò un
sorriso. «Certo, tu sei Alexandra. Steve mi parla in
continuazione di te, dice che sei la sua infermiera
preferita».
Quelle parole le scaldarono improvvisamente il cuore, facendola sentire
profondamente in colpa per il subdolo motivo per cui l’aveva
avvicinata: cercare di carpire da lei qualsiasi informazione avrebbe
potuto aiutarla a circoscrivere quell’incredibile
miglioramento, quel… miracolo.
«Oh, il mio piccolo Cap», sussurrò
sentendo le lacrime riempirle gli occhi. «Sono
così felice che stia meglio, davvero, ma continuo a
chiedermi…».
«Come sia potuto accadere?», le rubò le
parole di bocca Paige, sorridendo mestamente. «Me lo chiedo
anche io. La dottoressa ci aveva già detto che la sua
situazione era critica e che non avrebbe fatto altro che peggiorare,
perciò… mi pongo anche io la stessa identica
domanda».
Si voltò per prendere il bicchiere di caffè che
intanto la macchinetta aveva preparato e si sedette su una delle
poltroncine a muro lì accanto.
«Tu sei credente, Alexandra?», le chiese,
mescolando ad occhi bassi il contenuto del bicchierino.
«Se credo in Dio, intendi? No, direi di no».
«Nemmeno io. Fino ad un’ora fa».
Alzò finalmente il capo e ridacchiò amaramente.
«Lo so, è il peggio dell’ipocrisia,
ma… che altro può essere? In cinque minuti
– il tempo di andare a chiedere della dottoressa –
mio figlio ha vinto la sua battaglia quotidiana contro la morte
nonostante non avesse alcuna speranza di farcela. L’unico che
potrebbe saperne qualcosa è Merlino, ma nessuno
l’ha più visto».
Venire a sapere che Merlino era coinvolto, e in modo così
improvviso, fu come ricevere una botta in testa.
Alex sbatté più volte le palpebre, scioccata.
«Hai davvero detto… Merlino? Lui che
c’entra?».
«Beh, non volevamo che Steve restasse da solo, quindi abbiamo
chiesto a Merlino se poteva… Alexandra? Alexandra,
c’è qualcosa che non va?».
L’infermiera abbassò gli occhi in quelli di Paige,
rendendosi conto della sua espressione preoccupata. Si passò
entrambe le mani tremanti tra i capelli per appiattirli ai lati della
testa e cacciarli dietro le spalle, un gesto che faceva sempre quando i
livelli di tensione raggiungevano picchi estremi: toccarsi i capelli, o
ancora meglio avere qualcuno che li toccasse per lei, era un ottimo
metodo per tranquillizzarla.
«No, è tutto okay», mentì,
sentendo del sudore freddo sulla schiena. «Scusami,
è che sono davvero stanca e mi sono distratta.
Dicevi?».
La madre di Steve non sembrava molto convinta, ma probabilmente anche
lei era troppo stanca per distinguere le bugie dalla verità,
perciò riprese da dove si era interrotta.
«Abbiamo chiesto a Merlino se poteva stare con lui nel
frattempo. Erano passati cinque minuti, forse
di meno, quando abbiamo notato un paio di infermiere che correvano
proprio verso la stanza di Steve: qualcuno aveva tirato il cordoncino
delle emergenze, ma i parametri vitali sui monitor erano perfetti,
tanto da far pensare al personale che ci fosse stato uno strano
blackout e che i valori fossero impazziti. È stata chiamata
la dottoressa e… il resto è già storia
ormai», si strinse il collo tra le spalle, bevendo un sorso
di caffè. «Il miracolo di Steve».
«E… e Merlino? Che fine ha fatto, intendo? Hai
detto che nessuno l’ha più visto, ma è
impossibile!», esclamò, afferrandosi una ciocca di
capelli biondi e rigirandosela freneticamente tra le dita.
«Non è la prima cosa impossibile che vedo accadere
questa sera», mormorò tra sé, piegando
un angolo della bocca. Poi aggiunse ad alta voce: «Ho chiesto
a chiunque fosse nei paraggi: nessuno ha la più pallida idea
di dove sia andato».
L’infermiera si guardò intorno come spaesata,
senza sapere cosa fare. Alla fine si inginocchiò di fronte a
Paige e le chiese di darle il suo cellulare. La donna non chiese
perché, semplicemente glielo consegnò e la
osservò mentre salvava rapidamente il proprio numero in
rubrica sotto il nome di “Alex”.
«Chiamami, anche nel cuore della notte, se dovessero esserci
novità. Ci proverai?».
La mamma di Steve annuì con un debole cenno e si
lasciò stringere le mani con il cellulare ancora tra loro.
«Sono davvero, davvero felice che Steve
stia meglio».
«Ti credo, Alex. Ora vai, vai a cercare Merlino».
«Come?», balbettò la ragazza, ma si rese
presto conto che fingere ancora era inutile, una gran perdita di tempo.
Annuì con maggior dignità possibile e si
allontanò quasi di corsa, improvvisamente di nuovo piena di
energie. Che fosse a causa dell’adrenalina,
dell’ansia, della “forza
dell’amore” o della magia vera e propria non aveva
alcuna importanza in quel momento.
***
«Questo
è tutto matto, te lo dico io», le disse il collega
del turno di notte, l’agente Darrell Fisher, non appena lei
uscì dalla piccola sala interrogatori.
«Cioè, guardalo! Indossa una maglia di ferro,
aveva con sé una balestra e un pugnale piuttosto autentici e
dice di chiamarsi Artù Pendragon. O è matto
oppure è un cosplayer che ci è andato
giù pesante con la birra». Corrugò la
fronte, pensieroso, e aggiunse: «O con qualsiasi bevanda
alcolica i Cavalieri della Tavola Rotonda bevessero nel
Medioevo».
«Non è ubriaco: gli ho fatto il test»,
gli rispose mentre si dirigeva a passo svelto verso la propria
scrivania, dove aveva lasciato gli oggetti personali del ragazzo.
«È matto, lo sapevo»,
borbottò Darrell prima di finire tutto d’un fiato
il suo caffè e di lanciarne il bicchiere di carta nel
cestino.
«Come ci comportiamo, Myra?».
La donna alzò gli occhi sul collega e scrollò le
spalle. «Non ha con sé documenti, solo il
cellulare. Possiamo partire da qui, che ne dici?».
Darrell si fece consegnare lo smartphone e con la fronte aggrottata,
ben poco entusiasta, esclamò: «Adoro chiamare
tutti i numeri nelle rubriche dei matti, dovresti saperlo
ormai».
Myra gli rivolse un sorriso e dopo avergli dato una pacca sul braccio
si diresse nuovamente verso la stanza interrogatori nel tentativo di
ottenere qualche altre informazione dal loro ospite.
L’agente Fisher si lasciò cadere sulla propria
sedia girevole ed incrociò i piedi sull’angolo
della scrivania, quindi si concentrò sul cellulare e senza
alcuna difficoltà accedette alla rubrica. A bocca aperta,
fissò lo schermo su cui comparivano due unici contatti
– tra cui un “Merlino”, ovviamente
– poi si voltò
verso la porta chiusa della sala interrogatori. Qualcosa gli diceva che
non ci avrebbe messo molto.
***
Alex
aveva cercato Merlino dappertutto, senza cavare un ragno dal buco,
quando aveva ricevuto quella chiamata da Artù. O meglio, dal
suo cellulare. A cercarla infatti era stato l’agente Darrell
Fisher, della polizia locale, il quale le aveva spiegato che avevano in
custodia il signor Artù Pendragon – «Mi
perdoni, questo è il nome che ci ha fornito».
– ufficialmente per detenzione di armi e oltraggio a pubblico
ufficiale, meno ufficialmente per atteggiamento sospetto.
«Non capisco, perché avete chiamato
me?», aveva chiesto, esasperata, massaggiandosi la fronte.
«Perché è il primo dei due contatti
sulla rubrica del cellulare del signor Pendragon. Da quando
è stato portato in centrale non ha detto
nient’altro che il suo nome e, in tutta onestà, io
e la mia collega siamo un po’ in
difficoltà».
Così aveva accettato di recarsi subito in Centrale, non
prima di aver consigliato all’agente Fisher di non
disturbarsi a telefonare al secondo contatto: sapeva che non
l’avrebbe trovato, dato che lei per prima aveva provato a
chiamarlo, a vuoto, almeno un centinaio di volte.
Si era cambiata e senza accorgersi minimamente dell’auto di
Merlino ancora parcheggiata poco lontana dalla sua era sfrecciata via.
La Centrale di polizia del loro minuscolo paesino era, beh…
minuscola. Le persone che ci lavoravano si potevano contare sulle dita
di una mano e a dimostrazione di quanto fosse pressoché
nullo il tasso di criminalità non vi era assegnato nemmeno
un detective. In caso di necessità – e non era mai
accaduto da quando lei si era trasferita lì – un
ispettore delle cittadine vicine, o addirittura di Newport, veniva
assegnato al caso e rispedito a casa una volta risolto, lasciando ai
poveri impiegati la sola pila di scartoffie.
Da quanto aveva capito parlando con l’agente Fisher, seduta
di fronte a lui nel piccolo ufficio con due scrivanie, quattro sedie,
un mobile ad ante e una piccola libreria, l’incontro con
Artù era stato ciò che di più
emozionante, nonché strano, avesse visto da quando era
arrivato – circa sei mesi prima.
«Non è proprio Gotham City, eh?», aveva
commentato Alex, stirando un sorriso imbarazzato prima di abbassare gli
occhi sul bicchiere d’acqua che le era stato offerto.
«Né Camelot, a quanto mi risulta», le
aveva risposto con un sorriso compassionevole, le sopracciglia
inarcate. «Lei sa dove si è procurato
quelli?».
Alex aveva seguito il dito puntato verso l’altra scrivania e
aveva avuto seriamente paura che la mascella le cadesse a terra per
l’incredulità.
Un pugnale e una… una fottuta balestra!
«Agente Fisher, io non… non penso siano
suoi», si azzardò a rispondere una dozzina di
secondi dopo, senza riuscire però a scostare lo sguardo da
quelle armi piuttosto medievali.
«Nel senso che li ha rubati o…?».
«Rubati? No, no, no! Credo facciano parte
della collezione di Merlino».
Darrell strabuzzò gli occhi e dopo un momento di imbarazzo
disse, cercando di sembrare il più serio possibile:
«Merlino… Il Merlino della rubrica? Si chiama
davvero così?».
«Così ha sempre detto di chiamarsi. Posso vedere
Artù, ora?».
«Veramente è sotto interrogatorio, al momento, e
io avrei ancora qualche domanda».
Alex si passò stancamente una mano tra i capelli e sul viso
e guardandolo implorante disse: «Senta, agente, le assicuro
che io ne so tanto quanto lei. È stata una serata piuttosto
pesante e se c’è una cauzione da pagare
è okay, lo capisco, ma l’unica cosa che voglio
è andare a dormire il prima possibile».
L’agente Fisher la fissò per quella che le
sembrò un’eternità, poi le fece segno
di aspettare e si alzò per andare a bussare alla porta della
sala interrogatori. Alex riconobbe la sua collega non appena questa si
affacciò sullo stretto corridoio e automaticamente
balzò in piedi, esclamando: «Myra!».
La donna la guardò in silenzio per qualche secondo, con
un’espressione che oscillava tra lo stupito e
l’entusiasta. «Alexandra, ciao», la
salutò infine, andandole incontro con entrambe le braccia
tese verso di lei.
Alex l’abbracciò e si sforzò di
sorriderle, non potendo fare a meno di notare che la sua bellezza era
ancora più abbagliante di quanto si ricordava.
La sua famiglia, originaria di Mumbai, si era trasferita in Galles da
ormai tre generazioni, ma nonostante tutte le influenze, nonostante sua
madre stessa fosse gallese, Myra era nata indiana per il novantanove
percento, prendendo da lei solo gli occhi grigio-verdi, da togliere il
fiato sulla sua pelle ambrata.
Quindi, dopo un attimo di esitazione, abbassò lo sguardo
verso la sua gamba destra. «Come va?».
La poliziotta scrollò le spalle, arricciando le labbra
piene. «A parte qualche dolorino ogni tanto, direi bene. Tu,
invece?».
«Sono distrutta. Come dicevo all’agente Fisher,
è stata una serata piuttosto movimentata in ospedale e
vorrei che questo disguido si risolvesse il più in fretta
possibile».
«Tu conosci quel ragazzo?», le chiese, le
sopracciglia inarcate.
Alex si sistemò ancora una volta i capelli dietro le spalle,
nervosamente, mentre annuiva con un cenno del capo.
Myra, ora impassibile, si spostò verso il distributore
d’acqua posto in un angolo dell’ufficio e se ne
versò un bicchiere. Alex osservò le bolle
d’aria salire verso la parte vuota del boccione, accompagnate
da una specie di piccola esplosione, poi le tornò alla mente
ciò che Darrell le aveva detto e si schiarì la
gola, imbarazzata.
«Mi dispiace per quello che ti ha detto, lui… non
è tanto a posto con la testa, ecco».
«Oh, ho sentito di peggio, credimi», le rispose
dopo aver bevuto la propria acqua. «Come mai lo
conosci?».
«È un amico di Merlino».
Myra posò di scatto gli occhi, stretti in due fessure,
sull’agente Fisher, il quale raddrizzò la schiena
e ricambiò lo sguardo quasi con timore.
«Tu lo sapevi? Sapevi che Merlino era coinvolto in questa
storia? Perché diamine non mi hai avvisato
subito?», gli chiese severamente.
«Io credevo… credevo che fosse un nome di
fantasia! Artù, Merlino… eh». Si
strinse il collo tra le spalle, sollevando le mani in segno di resa.
Quindi sospirò e davvero mortificato aggiunse: «Mi
dispiace».
«Lui dov’è?», chiese Myra ad
Alex, una volta ritrovata la calma.
«Non ne ho la più pallida idea. È tutta
la sera che lo chiamo, ma non risponde al cellulare».
«Strano, non trovi?».
L’infermiera annuì, anche se avrebbe voluto
rispondere che di cose strane nell’ultima settimana e mezza
– da quando era arrivato Artù, appunto –
ne aveva viste fin troppe.
La poliziotta si strinse la coda di cavallo sulla nuca, un gesto
automatico quanto il battito delle ciglia, riflettendo sul da farsi.
Alla fine indicò la porta della sala interrogatori e
puntò tutta la propria attenzione su Alex.
«Mi assicuri che non è pericoloso?», le
domandò, fissandola col suo miglior sguardo indagatore.
Alex non poté fare a meno di ricordare la mattina in cui le
aveva puntato un pugnale alla gola dandole della strega, ma scosse il
capo con violenza e cercando di essere il più convincente
possibile esclamò: «Non farebbe del male ad una
mosca».
«Va bene allora», disse Myra, sospirando.
«Viste le sue condizioni, mi sembra inutile fargli passare la
notte in cella. Portalo a casa e assicurati che non ottenga altre armi
del genere». Si avvicinò al tavolo su cui erano
stati appoggiati i pochi effetti personali di Artù e dopo
averle consegnato lo smartphone e un mazzo di chiavi indicò
la balestra e il pugnale con un dito: «Questi è
meglio se li teniamo noi».
«Ma sì, certo. Grazie Myra, davvero non so
come…».
«Una cosa ci sarebbe: se riesci a rintracciare Merlino,
portamelo qui».
L’aveva detto con un tono imperioso, quello che usava
solitamente quando indossava l’uniforme, come se vedere
Merlino fosse solo una questione di lavoro, ma Alex sapeva bene che
c’era dell’altro. Non a caso Myra non
l’aveva nemmeno guardata in faccia, consapevole che i suoi
occhi avrebbero mostrato ciò che realmente provava al solo
pensiero di vederlo di nuovo.
«’kay», mormorò
l’infermiera, sorridendole nonostante tutto.
«Darrell, te ne occupi tu?», aggiunse Myra,
sedendosi alla propria scrivania per compilare alcune pratiche.
«Sicuro», rispose prontamente l’agente
Fisher, per poi voltarsi verso Alex e farle strada.
Alex rimase sulla porta mentre Darrell si avvicinava ad Artù
per liberarlo dalle manette che gli legavano una mano al tavolo. Lo
fissò in silenzio, così stanca da non riuscire
nemmeno a commentare mentalmente la maglia di ferro che si era infilato
sopra la felpa col cappuccio. E così fece anche il biondo
non appena alzò lo sguardo e la vide: a bocca aperta, come
se la sua presenza lì e in quel momento fosse inconcepibile
tanto quanto quella di una cabina della polizia blu nel salotto di casa
sua.
L’agente Fisher lo aiutò ad alzarsi ed esclamando:
«Vedi di rigare dritto», gli diede una leggera
spintarella verso di lei. Artù la guardò negli
occhi con espressione quasi terrorizzata e Alex pensò che
era l’espressione appropriata – prima o poi
gliel’avrebbe fatta pagare, pagare cara – ma le
fece comunque uno strano effetto vederlo ridotto in quelle condizioni.
Per questo gli prese una mano e dopo aver ringraziato
l’agente Fisher lo trascinò fuori.
In silenzio e tenendolo ancora per mano proprio come avrebbe fatto una
mamma con un figlio che ha appena combinato una marachella punibile con
una settimana senza videogiochi, raggiunsero l’auto
parcheggiata proprio dall’altro lato della strada. Solo
allora lo lasciò andare e, una volta trovate le chiavi nella
sua disordinatissima borsa, gli aprì la portiera del
passeggero lanciandogli un’occhiata truce.
«Idiota», grugnì, incapace di
trattenersi, ma fu l’unica cosa che gli disse. Anche volendo
non avrebbe avuto modo di aggiungere altro, visto che
l’agente Fisher era uscito dalla Centrale e, chiamandola per
nome, l’aveva raggiunta di corsa.
«Che altro c’è, agente?»,
domandò esasperata, sbattendo con violenza la portiera
dell’auto. (Se Artù non fosse stato pronto di
riflessi gli avrebbe spaccato la caviglia, come minimo).
«Chiamami pure Darrell», disse, guardandosi alle
spalle come se non volesse essere sorpreso a parlare con lei.
«Posso chiederti una cosa un po’
sconveniente?», le chiese, sottovoce e col viso
pericolosamente vicino a quello dell’infermiera.
«Suppongo che lo farai ugualmente».
Il ragazzo si passò una mano tra i biondi capelli ricci,
umettandosi le labbra. «Volevo sapere se Myra e quel
Merlino…».
«Se Myra e Merlino cosa?»,
domandò Alex, irritata più che mai dal suo tono e
soprattutto dal sorrisino malizioso che aveva stampato in faccia.
«Insomma, se hanno avuto modo di studiare insieme quel
libricino famosissimo, pilastro della cultura indiana…
Capito a cosa mi riferisco?».
Certo che aveva capito. Forse era lui che non aveva
capito, dato che si era azzardato a farle l’occhiolino
nonostante lei fosse un’infermiera perfettamente in grado di
estrarre un occhio dall’orbita senza sporcarsi i vestiti.
«Perché non lo chiedi direttamente a Myra, Darrell?»,
gli chiese rivolgendogli un sorriso tutt’altro che
amichevole. «Mi raccomando però, quando lo fai
avvisami: potrebbe servire il mio aiuto e probabilmente quello di
qualche altro mio collega dell’ospedale quando
avrà finito di risponderti».
L’agente Fisher fece un passo indietro e leggermente
intimorito dal suo sguardo carico di ostilità si
voltò e tornò verso la Centrale per salire due a
due i pochi gradini che conducevano alle porte a spinta.
Alex si appoggiò con un gomito al tettuccio
dell’auto e si ravvivò i capelli sulla nuca,
borbottando verso la luna: «Io odio i
lunedì».
***
Trovarsi
davanti Alex così all’improvviso,
inaspettatamente, l’aveva scioccato nel vero senso del
termine: muscoli paralizzati, voce sparita del tutto e sangue
– il suo stesso sangue, secondo Freya
– ghiacciato nelle vene.
Mentre l’agente Chandra non faceva altro che porgergli una
valanga di domande, mentalmente si era dipinto diversi scenari, in cui
però c’era sempre una costante: la furia di
Merlino. (Motivo per cui aveva optato per il più religioso
dei silenzi: non voleva finire in guai più grandi di quello
in cui era già). Poteva però dire che in nessun
caso, nessuno, aveva immaginato che in suo soccorso
sarebbe arrivata proprio Alex.
Dopo averlo insultato non gli aveva più rivolto la parola
– quasi sicuramente non l’avrebbe fatto per il
resto del viaggio verso casa – e nonostante da un lato ne
fosse sollevato, dall’altro era terribilmente preoccupato che
la sua rabbia potesse sfociare davanti a Merlino, peggiorando una
situazione che vedeva già complicatissima.
Ogni tanto la guardava di sfuggita, con la coda dell’occhio,
ma la sua espressione concentrata non gli permetteva di capire se fosse
arrabbiata, pensierosa o semplicemente stanca. Un mix di tutto, forse?
Alexandra parcheggiò l’auto sulla strada sterrata
di fronte a casa e senza dire una parola spense il motore e scese,
aspettando che lui facesse lo stesso per poi chiudere le portiere col
piccolo telecomando.
Artù la guardò confuso, vagamente preoccupato,
fino a quando non si trovò costretta a rompere il silenzio
per dirgli bruscamente: «Se pensi che dopo la cazzata che hai
fatto ti lasci da solo sei proprio pazzo».
«Hai intenzione di dormire qui?», riuscì
a chiederle finalmente, seguendola verso l’entrata ma
rimanendo sempre qualche passo indietro.
Alex gli gettò un’occhiata e tirando fuori dalla
tasca dei jeans le chiavi di casa che l’agente Chandra gli
aveva sequestrato insieme al cellulare e alle armi, esclamò:
«Ci puoi scommettere il tuo regale didietro».
Il re di Camelot fu preso talmente in contropiede che anche se ci
avesse provato non avrebbe trovato nulla di adatto con cui rispondere,
perciò restò ancora una volta in silenzio.
Aspettò che aprisse la porta, quindi la seguì
all’interno e la guardò mentre accendeva le luci e
si privava di scarpe, cappotto e borsa, lasciando tutto in giro, come
se quella fosse casa sua.
Gli ci vollero un paio di minuti per capire che cosa c’era
che non andava e quando finalmente capì il suo cuore
saltò un battito. «Dov’è
Merlino?».
«Questa è una domanda da un
milione di dollari», rispose Alex con tono incurante, per poi
voltarsi di scatto verso di lui e gridare: «Credi davvero che
sarei qui a quest’ora se sapessi dove diavolo è
andato a cacciarsi quello stupido?!».
Artù iniziò a collegare i puntini: alla Centrale
si era presentata Alex perché Merlino non sapeva che era
stato messo sotto custodia; e se Merlino non lo sapeva aveva del tempo
extra per inventare una scusa convincente da rifilargli quando gli
avrebbe chiesto per quale motivo era uscito con una balestra sulla
schiena. Restava però da scoprire dove fosse finito e
perché, e gli era chiaro ormai che Alex non voleva restare
lì a dormire perché voleva tenerlo
d’occhio ma perché voleva aspettare che lui
tornasse a casa.
Un pensiero agghiacciante gli attraversò
all’improvviso la mente. E se gli fosse successo qualcosa, se
non potesse fisicamente tornare a casa e nemmeno mettersi in contatto
con loro per chiedere aiuto? Dopotutto non era da Merlino sparire
così, senza dare alcuna spiegazione – non ora che
sapeva dei suoi poteri, almeno – e dopo tutto quello che gli
aveva rivelato la custode di Avalon non pensare al peggio gli risultava
molto, molto difficile.
«Dobbiamo andare a cercarlo», disse con
determinazione.
«No, invece», rispose Alex, dirigendosi verso la
cucina.
«Non possiamo starcene qui con le mani in mano! Merlino
può essere in pericolo!».
Artù sentì il cigolio dell’anta della
credenza che veniva aperta e richiusa, poi quello del fornello a gas
che veniva acceso.
«Pericolo? Di che cosa stai parlando,
Artù? Merlino è grande e vaccinato,
può cavarsela benissimo da solo».
«No invece, tu non… non capisci».
Camminò per qualche secondo avanti e indietro, indeciso se
rivelarle o meno ogni cosa una volta per tutte, ma la stessa Alex
interruppe il filo dei suoi pensieri, comparendo nel vano della porta
con delle bustine di tè in mano.
«Al cellulare non risponde, all’ospedale nessuno
l’ha visto e io stessa l’ho cercato dappertutto. La
cosa migliore da fare è aspettarlo qui, credimi».
«Ma…».
«Shh-shh», lo azzittì sollevando
l’indice a mezz’aria. «Senza di me
saresti ancora sotto custodia, perciò sei in debito con me.
Quello che ti chiedo è di fare semplicemente come ti dico,
senza obiettare né porre domande. Sai quante domande ho io,
domande che giorno dopo giorno cerco di dimenticare? Troppe. Sii
solidale con me, solo per questa volta, e prometto che non
dirò a Merlino che la tua passione per i porno ti ha quasi
portato ad una notte al fresco con l’accusa di oltraggio a
pubblico ufficiale».
Il suo tono di voce determinato e la punta di severità nel
suo sguardo costrinsero Artù a fermarsi di colpo e a
guardarla con gli occhi sbarrati.
Aveva avuto come la sensazione di guardarsi allo specchio, cogliendo in
lei aspetti del suo carattere che conosceva a menadito. Poteva anche
essere solo un’impressione, la prova che le parole della
custode di Avalon lo stessero condizionando a tal punto da fargli
credere davvero che Alex fosse la sua ultima
discendente, ma non poteva comunque impedire al proprio cuore di
battere impazzito nella gabbia toracica.
«Va bene», mormorò alla fine, cercando
di mandare giù il nodo alla gola.
«Ottimo», replicò lei, rivolgendogli un
debole sorriso. «Vuoi una tazza di tè?».
Artù scosse il capo. «No, vado a letto».
«Okay. Buonanotte».
Il re di Camelot non rispose, troppo occupato a tenere a distanza di
sicurezza i pensieri dolorosi che, prima o poi, gli avrebbero fatto
visita durante la notte. Mentre era sulle scale però
sentì Alex borbottare: «Che ho fatto di male per
meritarmi tutto questo?» e pensò che avrebbe
potuto chiederselo fino alla fine dei suoi giorni, proprio come lui,
senza mai ottenere una risposta.