Fanfic su attori > Tom Hiddleston
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Autore: CinderNella    03/04/2015    4 recensioni
Inizialmente si sentiva un po’ strana per il fatto che avrebbe condiviso una casa con un uomo.
Insomma, Colette aveva detto che quel Tom era simpatico e a modo, ma lei, Colette ed Elspeth erano sempre state con delle ragazze in casa… Tranne il modello. Ma lui non stava mai a casa. Laire era l’ultima aggiunta, una matricola alla loro stessa università e si trovavano benissimo, ma erano sempre state solo ragazze.
E ora Colette le mollava per tornare al suo paese natio e le lasciava in balìa di un tipo che nemmeno conoscevano. Era un po’ ingiusto.
"Ma se Colette lo conosce in qualche modo e dice che è alla mano, gentile e ha viaggiato molto, ci si potrà fidare..." pensò lei, rincuorata.
[...] Tom uscì dal portone, tirando un sospiro di sollievo: quell’Aneira era una tipa stramba. In positivo, ma lo era.
L’aveva convinto a prendere la camera sebbene non fosse la migliore opzione, ma nel suo essere strana gli aveva già fatto sentire la casa come sua, come se ne volesse fare parte.
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ohibò, siamo quasi alla fine! (E io sono in stra-ritardo, ma in anticipo a quando ho detto che avrei pubblicato, yay!) Il banner è sempre stato fatto da _Lith_, lo stile del titolo è sempre ispirato a FRIENDS (in particolare questo, essendo in NYC... <3) e la foto non è mia ed è stata modificata da me. Buona lettura! 








 

The Guy Who Turned Her Down



30. The One In New York City


 
Non si era ancora abituata alle temperature tendenzialmente più alte della media di New York: erano sei mesi che era lì, dalla parte sbagliata dell’Atlantico, e non riusciva ancora a capacitarsi della neve quasi sempre presente tra Gennaio e Febbraio e del caldo equatoriale a Giugno — a dirla tutta, ventisei gradi di massima non si poteva considerare propriamente “caldo equatoriale”… ma lei era inglese, e per lei era ben oltre la soglia quella, come temperatura!
Come aveva potuto osservare in quei mesi, gli statunitensi non avevano mezze misure – parlando di temperature, di grandezza di strade, case, gradini... tutto. Non sembravano esser proporzionati. Erano anche un bel po’ megalomani – ma forse quello era un tratto spiccato dei newyorkesi. Persino Charlie, con cui aveva legato un po’ di più lavorandoci assieme, sapeva come fare una scenata – era anche quella che l’aveva scarrozzata in giro per la East Coast, facendole notare – “Era ora!”, avrebbe detto lei – la differenza fra New York e il resto degli Stati Uniti.
E sebbene non amasse molto quella parte dello stagno, la nuova amica era rimasta contenta dal fatto che lei preferisse New York a tutto il resto che aveva potuto vedere di quel continente.
Aneira aveva trovato la sua routine perfetta anche lì, a un oceano di distanza da casa: costretta da Charlie aveva però iniziato a vedere di più il mondo, con occhi curiosi ma sempre una certa diffidenza. La nuova amica sosteneva almeno una volta a settimana che la presenza di due gatti in casa a parte lei la stava trasformando sempre più in un felino e che prima o poi avrebbe risposto al capo soffiando – ogni volta Aneira rideva, anche perché sarebbe potuta essere una cosa molto plausibile.
E sì, aveva adottato un altro batuffolino: Sherlock. Non erano propriamente fratellini – anche perché Sherlock era una femminuccia striata di grigio e col petto bianco, oltre a essere stata adottata oltreoceano – e la nuova arrivata era più piccola di Mycroft, ma erano stupendamente adorabili. Condivideva il monolocale a Brooklyn – perché aveva scoperto che era molto più a misura d’uomo di Manhattan e inoltre alcuni monolocali costavano molto meno – solo con loro due e, sebbene avesse riflettuto a lungo riguardo alla scelta di accoglierla in casa o meno, alla fine aveva ceduto: Mycroft aveva bisogno di un compagno di giochi, soprattutto se lei era costretta a stare tutto il giorno fuori di casa – e ormai era una cosa abituale, quindi non poteva stare completamente solo, o, anche con la TV accesa, sarebbe impazzito.
Si era anche abituata a passeggiare per i parchi newyorkesi – però entrava a Central Park solo quando doveva mostrarlo a qualcuno che era venuto a trovarla dall’altra parte dell’oceano, come avevano fatto i suoi genitori insieme ad Alis per Pasqua e separatamente Sevi, Eddie e Lara in ben altri periodi – e adorava Prospect Park, anche se a dirla tutta passava molto più tempo a Fort Green Park, sia con i due gattini che, con il bel tempo, da sola a leggere – ma solo se aveva abbastanza forza di volontà per alzarsi dalla sua poltrona.
Era diventata una cultrice dei viaggi in metro, e non solo perché doveva necessariamente farne almeno due tutti i giorni: era divertente osservare le persone nella loro quotidianità, vedere i turisti e anche gli artisti sui treni. Continuava a preferire il Tube di Londra, nonostante tutto.
«Aneira, è venerdì e abbiamo avuto il permesso di uscire prima, dai, muoviamoci! Stasera dobbiamo essere al Bowery per le sette e io devo prepararmi!» Charlie la osservava dall’alto, mettendole fretta tamburellando con le dita della mano destra sul divisorio, ininterrottamente.
«D’accordo, d’accordo, un attimo!» aveva terminato di aggiornare alcuni dati di un test fatto il giorno prima e aveva spento il computer, appena in tempo per afferrare borsa e giacca al volo e per inseguire Charlie verso l’ascensore, che aveva deciso in extremis che avrebbe potuto davvero metterle fretta solo andandosene da sola.
«Oh, finalmente! Allora, vieni da me a cambiarti o devi passare da casa?»
Aneira scosse la testa «Devo dare da mangiare a Sherlock e Mycroft.» Charlie soppresse una risatina: da quando l’altra aveva chiamato il suo secondo gatto Sherlock non poteva non fare battute riguardo la sua completa e totale inglesaggine – o almeno così l’aveva chiamata lei «Non posso lasciarli una sera senza cibo, Charlie. E poi devo cambiarmi...»
«Tranquilla, tranquilla, la mia era solo una proposta per renderti più semplice il trasporto. Se vuoi farti Manhattan – Brooklyn e viceversa non è un problema mio.»
«Sei così adorabilmente acida!» si complimentò ironicamente l’inglese, arricciando il naso.
«Lo sai che ti devo punire per la tua decisione di tornare a Londra, in qualche modo.»
«Non rifiuti P&G, Charlie. Non si può rifiutare un’offerta di lavoro di P&G, è un imperativo morale.»
«Sì... lo so.» sbuffò la newyorkese, camminando verso la stazione della metro più vicina «Però mi mancherai.»
«Anche tu.» Aneira sorrise sinceramente «Potrai sempre venirmi a trovare dal lato giusto dello stagno però! Magari approfittarne per vedere Londra...»
«Ehi ehi ehi, lato giusto dello stagno lo vai a dire a qualcun altro!» ribatté Charlie, sbandierandole un indice davanti agli occhi «E poi potresti anche tornare prima o poi tu qui, no?»
Aneira sorrise: aveva imparato ad amare New York e a considerarla una seconda casa... ma la prima rimaneva sempre la sua Londra «Forse... chi lo sa!»
«Non mi interessa se non ritorni a vivere qui, ma tu ci ritorni almeno in vacanza! È un ordine questo!» le aveva intimato la ragazza, scendendo gli scalini della metro seguita dall’amica, che sorrideva «D’accordo, lo farò sicuramente.»
«Promesso?»
«Promesso. E noi le promesse le prendiamo molto sul serio!» aggiunse Aneira, passando la metro card sul lettore.
«Non so se è un insulto velato alla popolazione americana, la tua dichiarazione, ma per questa volta te la faccio passare. Però stasera evita di mettere un tailleur...»
«Ma se io non ne uso!» aveva controbattuto l’altra, inorridita «Quella sei tu!»
«Sì insomma, evita le gonne svasate e le giacche abbinate. Già ti vedo tutti i giorni a lavoro così. E se proprio vuoi mettere una giacca perché è un evento “da lavoro”, mettiti almeno un dannato vestito. E i tacchi!»
«Ma ce li ho addosso!» ribatté l’inglese, alzando lievemente uno dei due piedi mentre si manteneva ad un appiglio sul vagone.
Charlie espose la sua espressione schifata migliore per poi decidersi a rispondere solo molto dopo: «Intendo tacchi seri, da almeno dieci centimetri, non da quattro!»
«Ma sono scomodi!»
«Ma cosa ti potrà mai accadere? Siamo in un hotel a bere e mangiare a spese dell’azienda... e se hai paura di cadere ti sorreggo io. Su, dai, promettimelo!»
«Posso fare uno sforzo.» ammise alla fine, stremata, Aneira, prima di controllare la fermata successiva.
«Perfetto!» aveva risposto con un sorriso sornione Charlie, iniziando a salutarla con la mano.
«Ci vediamo dopo!» Aneira uscì dal vagone e si diresse – correndo, perché Manhattan le aveva insegnato per forza di cose a correre su qualsiasi tipo di scarpe – dall’altra parte della stazione, dove avrebbe potuto prendere la linea verde.
Non voleva assolutamente andare ad una festa – premiazione, insomma, quello che era – aziendale, avrebbe di gran lunga preferito rimanere a casa con Sherlock e Mycroft a guardare pigramente qualcosa in TV, ma se le avesse dato buca, Charlie l’avrebbe ammazzata. Già di norma l’avrebbe fatto, a maggior ragione nella loro ultima settimana insieme.
Aneira identificò il treno giusto e corse al vagone più vicino, entrandovi per un pelo: per fortuna quello l’avrebbe portata fin sotto casa. Niente più corse, cambi, nulla di nulla: dopo quella sera l’attendeva un weekend fatto di relax, passeggiate tra i mercatini delle pulci di Brooklyn, o nei vari parchetti, e se fosse stata abbastanza audace avrebbe persino attraversato il ponte per portare i micetti a spasso a Central Park... pigrizia permettendo, ovviamente.
Quando venti minuti dopo rientrò a casa si gettò direttamente sulla sua poltrona, ancora con addosso i vestiti da lavoro ma con i suoi due gattini preferiti sulle gambe: facevano le fusa e pretendevano – a buon ragione – le coccole. Accese la TV: fortunatamente si sarebbe potuta godere quelle due ore di relax prima di prepararsi in fretta e furia – per scelta – e correre a Noho.

«Sei pronto?» Luke – Windsor, dell’altro Luke non sapeva che fine avesse fatto – sfregava le mani tra loro, mettendogli non poca ansia mentre si stava sistemando la cravatta.
«Quasi, Luke, quasi. Non siamo in ritardo, sai?» aveva delle occhiaie inimmaginabili: il volo di andata per New York era partito all’1, a pranzo, e non era riuscito a chiudere occhio per tutte le sette ore. Quindi il risultato erano due occhiaie da fare paura e la necessità di trovare qualcuno che le nascondesse – ma quel problema era già stato risolto.
La Press Conference e l’Afterparty erano in due punti diversi della città – non così lontani, ma era noto che il traffico newyorkese non fosse dei migliori – e Luke aveva iniziato a mettergli ansia già due ore prima dell’inizio della prima, probabilmente perché nemmeno lui si era trovato bene a volare e non dormire per tutte quelle ore. E la conseguenza effettiva era la sua iper-preoccupazione che si manifestava direttamente mettendo angoscia a lui.
«Dobbiamo essere lì un’ora prima...»
«Ma per raggiungerlo non ci mettiamo mica un’ora!» ribatté Tom, guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa che avrebbe potuto dimenticare e che invece avrebbe dovuto ricordare «Non sarò di casa qui, ma so che non ci vuole così tanto ad arrivare a Midtown da dove siamo!»
«Ma hanno chiaramente detto di essere puntuali...»
«E lo saremo, lo saremo, Luke.»
In verità non comprendeva tutta quell’ansia. Immotivata, soprattutto, considerato il fatto che Luke era una delle persone più calme che avesse mai conosciuto.
«Vi siete sentiti?» chiese dopo qualche minuto – e con calcolata nonchalance – l’altro, evitando lo sguardo di Tom: sapevano entrambi a chi si riferisse, sapevano entrambi che lei era lì da almeno sei mesi.
«No. Non ci sentiamo da Dicembre, più o meno.»
«Dicembre?»
«Gli auguri di Natale.»
«Non vi siete degnati della dovuta educazione a Pasqua?»
«Non... penso sarebbe stata la cosa migliore.» commentò Tom, cauto.
«Un semplice “Buona Pasqua” è innocuo, sai? E poi sei libero, ancora senza legami... non capisco cosa ci sia di male a risentirvi.» spiegò Luke, facendo spallucce «Non sono mai stato un vostro fan, insomma, come Lara... però non sentirsi per alcun motivo non ha neanche molto senso, considerato quanto foste legati.»
«Luke... non la richiamo giusto perché sono capitato accidentalmente a New York. Sai che lei non è mai stata una faccenda da una botta e via.»
«No, voi siete stati una coppietta di innamorati per sedici ore, vi siete probabilmente amati  unilateralmente l’un l’altra senza poi mai più riferirvelo e senza nemmeno la botta, a dirla tutta!» commentò in modo lievemente sarcastico l’amico, lanciando un’occhiata a Tom per vedere la sua reazione.
«Appunto.» sbuffò lui, trafficando con l’acqua «Che senso avrebbe? “Ehi ciao, sono qui per quarantotto ore, ti va di bere qualcosa?”»
«Non sai nemmeno se rimarrà qui, potrebbe tranquillamente essere la sua ultima sera a New York. Converrebbe sapere che fa della sua vita. Anche perché, diciamoci la verità, per quanto io a tratti non la regga, tu non è che te la sia proprio tolta dalla testa.» non si poteva sentire che stava parteggiando per l’unione di quei due: Lara ed Eddie sarebbero stati molto orgogliosi di lui.
Tom espirò profondamente e scosse la testa: «Ci penseremo dopo. Ora dobbiamo solo raggiungere la Press Conference.»
«Ah, cinque minuti fa non andava bene un’ora prima, ora che affrontiamo un discorso scomodo sì!» ribatté Luke, alzando un sopracciglio in sua direzione.
«Potremo tranquillamente continuare il discorso scomodo in auto, sebbene io ritenga che non ha assolutamente alcun senso.»
«Ti stai comportando in modo completamente da Aneira: testardo!» gli aveva gridato dietro Luke, per poi accelerare il passo e seguirlo all’ascensore.

Ringraziava la sua prudenza nell’aver scelto di fare un abbonamento a internet per il cellulare: erano più le chiamate intercontinentali che riceveva tramite Line che quelle da numeri americani. E generalmente l’unica che la chiamava da lì era Charlie, o qualcuno da lavoro.
In quel momento si trovava proprio in quella situazione: arrancava con difficoltà verso la stazione di Nevins Street e si ritrovava a sorbirsi le paturnie intercontinentali di Eddie che l’aveva chiamata perché aveva appena litigato con Jules e non sapeva come farsi perdonare.
«Eddie, non voglio giustificarla, ma.. è stressata. Ha un progetto da consegnare a lavoro, e tu fai l’acido premestruato senza ovaie. Non ha tutti i torti, insomma, lei sarebbe in diritto di farlo, non tu... sei ancora spanciato a non fare nulla.»
«Beh ma la mia era solo una battuta...» aveva adottato il tono da cane bastonato.
«Non mi conquisti con quella vocina. E comunque sappi che pur scherzando spesso rendi insofferenti le persone.»
«Va bene, ho capito, vado a chiederle scusa in ginocchio!» sbuffò lui, probabilmente incrociando le braccia, offeso «Senti ma... tu quando ritorni in Madrepatria?»
«Il sei luglio inizio da P&G, ma devo ancora trovare casa, quindi ho prenotato per il venti giugno. Domenica ventuno vi toccherà venirmi a prendere!»
«Carico in auto anche Sevi per il comitato d’accoglienza?» ecco l’altra novità: Sevi nel frattempo si era trasferita a Londra, anche lei per un internship – che però avrebbe continuato e trasformato in lavoro effettivo. E, tornando domenica, anche lei sarebbe potuta essere presente.
«Non lo so, devi chiedere a lei!» esclamò Aneira, alzando gli occhi al cielo e avvicinandosi finalmente agli scalini della metro.
«Ah, porto lei a Wimbledon. Alla finale, perlomeno. Ci sei anche tu?»
«Ma quella povera ragazza della tua fidanzata la porterai mai a Wimbledon?» chiese Aneira, scuotendo il capo.
«Ma lei non se ne frega niente! Può rivestire il ruolo di fidanzata ufficiale in pubblico alla partita di Polo!»
«Se va bene a voi... comunque sì, Ed. Non tradirei mai Wimbledon.»
«Mi dispiace che ti sia ritrovata a New York nel periodo inutile, in assenza degli US Open.»
«Magari ai prossimi ti trascinerò io da questa parte dello stagno!» ribatté lei «Anche perché se lascio Charlie per più di due mesi da sola dopo averla mollata qui mi ammazza.»
«Ah sì, la tua amica psicopatica americana.» disse lui «Beh allora la prendo come promessa!»
«Non ho promesso nulla, Redmayne! Senti, sono quasi alla fine della scala, non prenderà più!»
«Va bene, buona serata: svaccati e ubriacati pure per me!»
«Sai che non lo farei mai!»
«Ah, un’ultima cosa: per quando torni hai bisogno di un posto in casa? Se vuoi scaccio la tipa che occupa ora la tua camera. O vai da Sevi?»
«Penso starò un po’ da Sevi, mentre cerco casa. Se poi ne ho bisogno ti avviso e tu la fai scacciare, genio del male!» ridacchiò Aneira, salutandolo subito dopo e facendo passare la metro card sul lettore, per poi sedersi su una delle classiche panchine in legno ad aspettare il treno. Fortunatamente, beccando quello giusto, avrebbe dovuto soltanto aspettare per dieci fermate sul mezzo e poi, dopo una camminata di quattro isolati, sarebbe arrivata direttamente al Bowery.

A quella dannatissima premiazione cibo e bevande erano finiti appena prima che venissero presentati – e inneggiati con applausi e tante dichiarazioni di affetto da parte di esimi esponenti dell’azienda – i premiati, e Charlie e Aneira, che avevano notato che al piano di sotto c’era un’altra festa, avevano pensato bene di dileguarsi e andare a cercare cibo lì. Magari sarebbe stata anche più interessante di quella noia mortale – e tanto erano state ritratte in diverse foto, quindi la loro presenza sarebbe stata dimostrata da prove.
La musica sembrava migliore – e la location lo era sicuramente, considerato che si trovavano nel giardino interno – e il cibo non terminava mai – sembrava che qualcuno avesse incantato i vassoi per fare in modo che si riempissero nuovamente non appena vuoti.
«Mi piace questo posto!» aveva esclamato Charlie, nel suo imbarazzante – almeno per Aneira – vestito bodycon fucsia. Ma la ragazza se lo poteva permettere e non si faceva problemi a mostrare la mercanzia: era molto, molto americana. Sotto certi aspetti non riusciva proprio a capirla, mentre sotto altri erano terribilmente simili – non per altro in sei mesi avevano litigato non poco.
«Aneira?» era certa di non avere allucinazioni uditive, non ne aveva mai avute. Però sentirsi chiamare da qualcuno con quella voce – era per forza la sua, non ce n’erano di altre così al mondo – le fece avere un coccolone – e perdere almeno cinque anni di vita in una botta sola – bello e buono. Quando si voltò nella direzione da cui proveniva la voce appurò la sua effettiva presenza lì e le parve nuovamente di perdere un battito: che diavolo ci faceva lui dalla parte sbagliata dell’Atlantico?!
«Tom?!» chiese, incredula «Che cosa ci fai qui?»
Anche lui aveva chiesto contemporaneamente la stessa cosa, ma poi le fece cenno di parlare per prima.
«Ohhh, è quel Tom!» comprese solo dopo qualche momento Charlie, decidendosi a prendere il tipo da cui era accompagnato quel Tom – Luke – sottobraccio per allontanarlo dalla scena «Su, accompagnami a prendere delle tarte tatin!»
«Oh, ehm...» si aggiusto nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio, arrossendo «Eravamo qui per una festa aziendale. Una premiazione. Ma il cibo faceva schifo ed era finito, quindi siamo venute qui. Ma non sapevamo... non so ancora, in realtà, cosa sia.»
«Oh, è un afterparty. Sono qui per alcune press conference.» spiegò lui, annuendo.
«Di quel film che hai girato in Irlanda?» chiese lei, mentre lui rispondeva annuendo «Come ti stai trovando... No, prima tu.» si era interrotta Aneira, notando che avevano nuovamente iniziato entrambi a parlare nello stesso momento.
«Come ti stai trovando qui?» chiese Tom, sinceramente interessato.
«Oh, bene. Lavoro e sto a casa, ogni tanto passeggio per Brooklyn...»
«Ci avrei scommesso!» esclamò lui con sicurezza, arrossendo leggermente sotto lo sguardo lievemente inquisitorio e incuriosito della ragazza «Cosa?»
«Che avresti vissuto nella parte più hipster della città.» spiegò lui, annuendo.
«Oh beh... costava di meno.» spiegò pragmaticamente lei, facendo spallucce «E quando non sono impegnata in queste cose passo il mio tempo con Sherlock e Mycroft.»
Tom la guardò stupito, non comprendendo: allora lei si diede la briga di spiegarglielo «Ho adottato una gattina qui. E l’ho chiamata Sherlock. Sai... è un nome da femmina...» aveva deliberatamente citato una frase di un episodio dell’anno prima di Sherlock e probabilmente se ne era pentita subito dopo, poiché aveva incrociato il suo sguardo per poi separarsene e guardarsi imbarazzantemente intorno.
«Hai adottato un altro gatto...» commentò, stupito e contento, Tom «E hai trovato lo Sherlock della situazione.»
«La Sherlock.» lo corresse lei, sorridendogli.
«Ora mi tocca andare a vivere con lei e diventare il suo John Watson!» commentò lui, facendo riferimento a un loro discorso di circa un anno prima: Aneira ridacchiò, aggiungendo qualcosa «E ti tocca anche conquistarla, prima.»
«E poi tu chi sarai? Mary Morstan?» propose lui, con un sopracciglio alzato.
«Mi dai dell’intelligente assassina? Beh, non che mi dispiacerebbe...» ridacchiarono entrambi sommessamente, scambiandosi un’occhiata complice. Sorvolò sul fatto che la Morstan sarebbe diventata la moglie di Watson, perché quello le dava un breve e sottile – ma pungente – dolore al cuore.
«Beh perché no! Ti ci vedrei nei suoi panni. E ovviamente Ed sarebbe...»
«Lestrade!» terminò Aneira, incrociando nuovamente lo sguardo con Tom.
«E Luke potrebbe essere... Anderson?»
«No, mi dispiacerebbe dargli il ruolo dell’idiota. Al massimo lo scambiamo con Eddie e diventa lui Anderson.» rispose lei, divagando completamente nel nonsense.
«E Sevi sarebbe Molly?»
«Probabilmente se lo sa ti ammazza, ma io adoro Molly, quindi ci starebbe.» annuì Aneira, convinta.
«Vuoi venire a vederli dopo la festa?!» aveva pronunciato lei subito dopo senza nemmeno pensare a come sarebbe potuto suonare alle orecchie di un estraneo – o anche a quelle di Tom, dopo che non si vedevano o parlavano da mesi.
«Mi piacerebbe molto.» rispose in un sorriso sincero lui, portando poi una mano dietro la vita di lei «Dai, ti accompagno al buffet. Prima che vai in astinenza da cibo e ammazzi tutti.»
E così fece: la condusse al tavolo oltrepassando tantissime persone che sembravano ignorarli – e  probabilmente una buona parte li ignorava appositamente per la presenza della sconosciuta Aneira – mentre non si vedeva neanche l’ombra di Charlie – e di Luke appresso a lei.

Per trovare Luke aveva lasciato Aneira sola per diverso tempo – in realtà poi era stata assalita di domande dall’altro Luke e da Sienna, e quello era anche peggio – e infine l’aveva trovato relegato all’interno e – misteriosamente – da solo.
«Ti ho cercato ovunque!»
Luke alzò un sopracciglio nella sua direzione, indicando poi il bicchiere che aveva davanti: «Sono stato rapito da Charlie.» il verso che accompagnò quella dichiarazione era quasi schifato «Sul serio, quando è peggiorata così tanto in fatto di amicizie, Aneira?»
«Non ti rispondo nemmeno, non dico nulla.»
«Ma dai, è vero! Non è mica Jules o Sevi!»
Tom alzò un sopracciglio: «E tu come la conosci Sevi?»
«Eddie mi fa due palle così notte e giorno perché deve trovare un modo nuovo per prenderla in giro. Conosco quasi più cose di lei che di Jules, tramite quel ragazzo.» spiegò pratico Luke, sorseggiando il liquido ambrato.
«Comunque, non sono qui per commentare le nuove scelte amicali di Aneira...»
«Oh no, sei qui per avvisarmi che non torni in hotel.» dichiarò Luke, guardandolo poi negli occhi per cogliere l’espressione colma di stupore dell’amico: era un veggente. O probabilmente non ci sarebbe voluto molto, conoscendolo, per arrivare a quella conclusione.
«Effettivamente... sì.»
«L’avevo immaginato. In realtà spero solo che non l’abbia immaginato anche tutto il resto della gente qui presente, visto che da quando l’hai vista non hai degnato praticamente nessun’altro della tua attenzione.»
Tom non rispose a quell’asserzione, non potendo effettivamente controbattere con niente.
«Ed è ancora morbida.» commentò sempre Luke, osservando attentamente la reazione insofferente di Tom, che ribatté subito: «È splendida così com’è.»
«Bada bene, non ho detto flaccida perché tu sei ancora irrimediabilmente un piccioncino innamorato che avrebbe reagito anche peggio se l’avessi fatto. Buona tubata, piccioncini!» dichiarò sfacciatamente l’amico, sorridendogli e facendo un cenno col capo a mo’ di saluto.
Tom tornò in giardino solo per ritrovare Aneira, strapparla dalle grinfie di Luke e Sienna – che insieme potevano essere un accoppiamento peggiore di Eddie e Lara – e condurla fuori, passando nuovamente davanti a Luke, che in quel momento però era coinvolto in una discussione parecchio infervorante per Charlie e completamente deprimente per lui.

Dopo esser fondamentalmente scappati via – di nascosto – dalla festa, Aneira l’aveva costretto a camminare per quattro isolati senza dirgli dove lo stesse portando, per poi condurlo alla stazione metro senza dargli alcun indizio. Quando gli fece aprire gli occhi lui aveva esordito con un “Avresti potuto dirmelo, non sono schizzinoso!” e lei gli indicò il rivenditore automatico di biglietti, rispondendogli con un “Vai a fare il biglietto, non schizzinoso!”.
Poi l’aveva trascinato a Brooklyn fino a casa sua – in realtà l’immagine sarebbe potuta esser definita in modo contrario: dopotutto era lei che non riusciva quasi più a camminare per il dolore ai piedi e si appigliava a lui per non cadere – e fino al decimo piano, e quando riaprì finalmente la porta del suo monolocale, i suoi gatti le saltarono addosso.
«Oh, piccoli amori!» carezzò il capo a entrambi i felini, che poi diressero tutta la loro attenzione al nuovo arrivato: Sherlock lo annusò per qualche secondo, cadendo poi ai suoi piedi e richiedendo esplicitamente coccole, mentre Mycroft era più diffidente, e per nulla disposto a farlo rientrare nelle sue grazie.
Aneira calciò le scarpe in un angolo e lasciò la giacca sull’appendiabiti, crollando finalmente sulla sua poltrona: poi Mycroft le saltò sulle gambe, mentre Sherlock e Tom amoreggiavano nell’ingresso.
«Assumo che l’unico posto libero dove possa sedermi sia il letto...» iniziò lui, prendendo tra le braccia Sherlock e coccolandola, mentre Aneira, con gli occhi chiusi e Mycroft sulla pancia, annuiva dalla poltrona «Non è un appartamento molto grande.»
«Considerato il tuo grande amore per le persone ritengo che trenta metri quadri siano la misura giusta di una tua casa.» commentò lui, seduto su un angolo del letto con Sherlock che gli faceva le fusa addosso e non aveva minimamente intenzione di spostarsi da lì. Aneira, ancora con gli occhi chiusi e rilassata con la testa contro un angolo della poltrona, ridacchiò, non osando contraddirlo – perché fondamentalmente era la verità.
«Pensi che Mycroft non mi riconosca o che me la stia facendo scontare perché l’ho in qualche modo abbandonato?»
«Temo la seconda.» aprì gli occhi, incrociando lo sguardo dell’uomo che si era spostato da Sherlock per qualche secondo: «Dovrei chiedere l’affidamento congiunto, allora.» scherzò lui, ma Aneira fu pronta a controbattere «O potrei venire a vivere da te.»
«Beh sì, una casa a New York effettivamente mi manca...» annuì Tom con fare ironico.
«In realtà mi ritrasferisco a Londra.» controllò l’orologio da polso, cercando la data «Esattamente tra otto giorni sarò su un volo che mi porterà dall’altra parte dell’Atlantico. Quella giusta, si intende.»
«Oh. Hai il mio stesso volo. Da JFK, no?» chiese conferma lui, ma in realtà stava elaborando un’altra notizia molto più importante – una che non si sarebbe aspettato e che era arrivata come un fulmine a ciel sereno. Ma un bel fulmine, perlomeno «Ma davvero torni?»
Aneira annuì dalla poltrona, decidendosi a dargli qualche altra spiegazione: «Sono stata assunta da P&G. E poi non mi andava di rimanere qui, lontana da tutti e... insomma, sebbene mi piaccia, non sarà mai come Londra. Mi è mancata molto.»
«Oh.» l’aveva spiazzato ed era rimasto senza parole, accarezzando pigramente Sherlock che non ne voleva sapere di esser relegata in secondo piano: così si andò a piazzare al centro del letto, ignorandolo completamente «Hai già trovato casa?»
«Non ancora, penso andrò a piazzarmi da Sevi per un po’ mentre la cerco. In ogni caso, Eddie si è offerto di cacciare la tipa che ha occupato la mia camera, ma tengo questa opzione solo come ultima.» spiegò quella, scuotendo la testa e ridendo contemporaneamente «Temo che lo farebbe sul serio, Eddie, se qualcuno glielo chiedesse.»
«Sì, penso proprio di sì.» convenne Tom, dando uno sguardo intorno per poi ritornare ad Aneira «Hai già... trovato qualcuno con cui andare a vedere la finale a Wimbledon?»
«Me l’ha proposto Eddie, a dire il vero. Ma sta già portando Sevi, quindi a meno che non abbia pass infiniti...»
«Probabilmente avrebbe voluto appiopparti a me.» terminò il suo interlocutore, annuendo fermamente «Un’altra cosa che ci si potrebbe aspettare da lui.»
«Assolutamente.» gli diede ragione lei, venendo abbandonata da Mycroft che aveva fatto un salto atterrando sul letto e si stava dirigendo – sempre emanando diffidenza da tutti i pori – verso Tom. Si fermò accanto a lui, gli rivolse un’occhiataccia, lo annusò nuovamente e poi gli si strusciò contro. Una parvenza di fusa venne emessa dal micino, che però continuava contemporaneamente a guardarlo male e a pretendere le coccole.
«Ti ama ancora.» dichiarò Aneira, indicando con un cenno del capo Mycroft, che non sapeva come porsi nei confronti del suo altro – ex – umano.
«Così pare...» commentò Tom, prendendo il gatto in questione in braccio, che rispose con un verso contrariato, ma senza scappare via e continuando a fare le fusa «Ed è anche molto combattuto.»
«Non è mai stato troppo diverso dall’altra sua umana. Probabilmente tu saresti molto più affine a Sherlock che non a Mycroft.»
«Oh, non c’era dubbio che tu influenzassi particolarmente la bestiolina. Non per niente nei tuoi momenti no lui scappava da me.» ammise lui, facendogli una grattatina sotto il collo: ma subito dopo Sherlock si piazzò sulle sue gambe, pretendendo attenzioni «Sì, d’accordo, d’accordo...»
«Dato che sei particolarmente richiesto, io vado in bagno» prese qualcosa di appallottolato sotto al cuscino e si diresse verso la parte opposta della camera, scuotendo la testa in direzione dei due gattini che lo stavano liberamente assalendo di leccate, fusa e morsi amichevoli.
«Posso arrischiarmi a chiederti se per caso hai anche qualcosa per me?» sperava dicesse di no, perché se avesse detto sì probabilmente sarebbe stato un qualche rimasuglio di un qualche ragazzo americano – e l’aveva pensato con un tono pieno di rancore e disgusto – che era rimasto lì una notte con lei, però non voleva dormire in camicia.
La testa di Aneira sbucò dalla porta del bagno: «Ho delle pantofole che possono andarti. E ti ricordi il pigiama oversize di Snoopy...?»
Lo sguardo di Tom si illuminò: «Quelli andranno benissimo, grazie.»
«Sono nell’armadio, da qualche parte. Ti direi di cercarli, ma se distogli l’attenzione da quella primadonna di Sherlock probabilmente ti graffierebbe in pieno viso, e non voglio che tu rimanga sfigurato.» spiegò quella da oltre la porta, uscendo qualche secondo dopo da lì indossando con molta nonchalance un pigiama raffigurante un’enorme mucca.
«Mi neghi i privilegi offerti agli ospiti se ti do della mucca?»
«Forse, Hiddleston, forse.» rispose quella, lanciandogli il pigiama in questione e osservandolo camminare verso il bagno, mentre Sherlock e Mycroft lo seguivano senza ritegno.
«È normale che mi seguano in bagno?»
«Avevi forse privacy quando c’era Mycroft in casa?»
«Come non detto: prego, gatti adorabilmente impiccioni.» mantenne la porta aperta per entrambe le bestioline e prima di richiuderla osservò Aneira che si spaparanzava sul letto accendendo la tv.
Sperò che ci fosse una sorta di meta-discorso tra la volontà di Aneira di farlo stare più spesso con Mycroft e la dichiarazione – tramite la voce della ragazza – d’amore del gatto nei suoi confronti, sperava in realtà che non fossero solo “parole” del gatto... ma pensieri così profondi mentre si cambiava in un bagno un metro per due con Mycroft steso nel lavandino e Sherlock che lo osservava sognante non era il caso di farli «Ci mancava la gatta guardona...» la gatta in questione sembrò rispondergli con un “Meoow” irritato e gli voltò le spalle, saltò sulla maniglia della porta e la aprì, uscendone senza degnarlo di uno sguardo.
«Dannaz—aah.» tirò su i pantaloni del pigiama a quadri e seguì la gatta con i suoi vestiti piegati sul braccio, scuotendo la testa non appena Aneira lo vide e scoppiò a ridere «Come sei sexy con Snoopy addosso.»
«Sherlock ha aperto la porta.» dichiarò lui, stendendosi sull’altro lato del letto e passandosi una mano tra i capelli.
«Sì, lo fa.» rispose la ragazza, soddisfatta «È brava, eh?» non appena la gatta in questione saltò sulla pancia di Tom – si era proprio innamorata di lui – Aneira le arruffò il pelo, beccandosi subito dopo un’occhiataccia. Mycroft, invece, si era piazzato al centro tra loro due, come faceva molto tempo prima, e osservava interessato la tv.
«Avresti potuto dirmelo.»
«Nah, vederti uscire imprecando dal bagno è stato molto più divertente.» rispose quella, tirando fuori il telefono – uno nuovo, non quello dell’anteguerra che aveva l’anno prima – e scattandogli una foto in pigiama e tra gatti «Non posso non mandarla a Eddie. E a Luke. E a Lara.»
«Fai. Prego. Non ho più dignità con loro, tanto!»
«Fatto!» dichiarò quella, mettendolo via per poi osservare Tom alle prese con Sherlock: l’essere umano muoveva l’indice, dal quale il felino non staccava gli occhi. E ogni tanto lo acchiappava per morderlo.
«Direi che è imprinting.» commentò allora, continuando a osservarli ma prendendo il pelosetto Mycroft tra le braccia: il gatto emise un verso seccato, ma dopo un po’ prese a fare le fusa, mentre guardava il programma con la sua umana.
«Sai, ti porterò a Wimbledon.» dichiarò Tom, dopo un po’ di tempo che erano in silenzio, chi amoreggiando con Sherlock e chi impegnato alla tv «E non te lo sto chiedendo proprio per non darti la possibilità di dare di matto come l’anno scorso per altri motivi.»
«Io non sto obiettando nulla, Hiddleston, stai facendo tutto tu.» ribatté quella, scambiando un’occhiata con lui per poi tornare alla sua occupazione. Un tacito accordo, appuntamento, non era in realtà importante che cosa fosse: era importante il loro essersi trovati in sintonia su qualcosa che sarebbe potuto essere tanto un ritrovo tra amici quanto un vero e proprio appuntamento sotto l’occhio di tutti – e ancora, tutti – e nessuno dei due aveva avuto il bisogno di specificarne la natura. Andava bene a entrambi qualsiasi forma esso avrebbe preso e nessuno dei due si sarebbe tirato indietro – non più, perlomeno.
  
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