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Autore: Lilith in Capricorn    07/04/2015    1 recensioni
"A prima vista, insomma, non era particolarmente diversa da una qualsiasi ragazza di sedici anni. Aveva un solo difetto, il che può sembrare poco, ma questo era tanto grave da condizionare molti aspetti della sua vita. Facendo qualche ricerca su Google, un giorno, aveva scoperto che il suo problema aveva anche un nome: sociofobia, o fobia sociale."
Prima classificata al contest "Visioni Ispiratrici", indetto sul forum da zenzero1.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è stata scritta per il contest Visioni ispiratrici, organizzato sul forum di EFP da zenzero, ed è ispirata all'imagine n°18:
 


Dopotutto, sei solo una ragazza un po' troppo timida!

Atto I
 

Sabrina non era una brutta ragazza, anzi: col suo metro e settanta abbondante, il collo lungo e delicato accarezzato da sottili ciocche biondicce, il viso dai tratti dolci e i grandi occhi chiari non era per niente da buttare. Certo, non era una bellezza da passerella, ma comunque non aveva nulla da invidiare a nessuna delle sue compagne di classe. Era anche discretamente intelligente, riusciva a cavarsela in ogni materia ed era persino la prima della classe in chimica. Era un po' goffa e non eccelleva nello sport, ma si poteva dire altrettanto di molte delle sue compagne. Aveva due genitori, un fratellino e un cane bianco di taglia media. Ascoltava musica pop, aveva due migliori amiche, un profilo facebook, un diario scolastico semi-distrutto e dei crampi fastidiosissimi durante il ciclo.

A prima vista, insomma, non era particolarmente diversa da una qualsiasi ragazza di sedici anni. Aveva un solo difetto, il che può sembrare poco, ma questo era tanto grave da condizionare molti aspetti della sua vita. Facendo qualche ricerca su Google, un giorno, aveva scoperto che il suo problema aveva anche un nome: sociofobia, o fobia sociale. Sabrina era abbastanza intelligente da sapere che l'autodiagnosi era una cosa sciocca, a volte persino pericolosa, ma era anche più che sicura che fosse proprio quello il suo problema.

Come spiegare, altrimenti, la sgradevole sensazione di panico che provava ogni volta che l'attenzione delle persone si focalizzava su di lei? Ma già anche nell'attesa, nell'anticipazione degli sguardi fissi su di lei, o persino quando quella di essere osservata non era altro che una mera sensazione senza alcun fondamento reale, le capitava di sentire il panico farsi strada dentro di lei.

Il percorso che quest'ultimo compiva all'interno del suo corpo era sempre lo stesso: prima di tutto le assaliva il cuore, facendo aumentare i battiti e schizzare il sangue alla testa, che subito si indolenziva, talvolta colorandosi di un imbarazzante rosso sul viso. Immediatamente dopo era la volta dei polmoni, che iniziavano ad immagazzinare aria ad un ritmo scoordinato, sempre meno efficiente, portandola a volte all'iperventilazione. Tutto questo, spesso, si accompagnava ad un fastidioso tremore alle mani, debolezza nei muscoli delle gambe e, disgraziatamente, anche vomito nervoso.

Il vomito, ormai, era diventato quasi un compagno d'avventura, o meglio, uno sgradito invasore che aveva fatto breccia nella sua fortezza, devastandola. Da diversi mesi, ogni mattina, si ritrovava in ginocchio davanti al water. Ci aveva quasi fatto l'abitudine, tanto che aveva smesso di piangerci sopra subito dopo, pensando a quando i suoi denti sarebbero diventati verdastri e sottili come quelli delle ragazze che soffrono di bulimia da alcuni anni.

Anche solo il pensiero di tutti gli studenti che saturavano l'autobus con i loro sguardi bastava a farle rivoltare lo stomaco. Aveva provato a convincere sua madre a continuare ad accompagnarla a scuola in macchina, ma quella, a settembre, aveva preso l'irremovibile e definitiva decisione che in futuro Sabrina avrebbe preso l'autobus. Hai sedici anni, aveva detto, è ora che impari a cavartela un po' da sola, che diventi un po' più autonoma.

Il viaggio durava sì e no quindici minuti, ma Sabrina li percepiva come quindici ore: tutti quei ragazzi e quelle ragazze che parlottavano tra di loro, che guardavano, ma soprattutto che ridevano. E ogni volta Sabrina non riusciva ad impedirsi di pensare che stessero ridendo di lei. Dei suoi capelli spettinati, di una macchia di dentifricio sul mento, della cerniera dei pantaloni aperta, di un buco nella maglia proprio sul seno, dello zaino lasciato mezzo aperto, di un assorbente che sporgeva dal taschino ...

Ad ogni risata che arrivava alle sue orecchie, si faceva un "check-up completo" per accertarsi di non avere nulla fuori posto. Fatta eccezione per la cerniera leggermente aperta un pomeriggio, non aveva mai trovato nulla. Assolutamente nulla. Questo, tuttavia, non era una rassicurazione sufficiente, pensava sempre che la prossima sarebbe stata la volta in cui avrebbe fatto qualcosa di imbarazzante. Aveva persino smesso di ascoltare musica in pubblico, per paura che l'audio, per qualche motivo, d'improvviso non venisse più riprodotto soltanto negli auricolari e che tutti avrebbero trovato ridicoli i suoi gusti musical, prendendola in giro.

Il primo giorno di scuola aveva fatto di tutto per piantare la sua bandiera su uno dei banchi dell'ultima fila, quello nell'angolo sinistro, dove nessuno avrebbe potuto guardarla senza che lei se ne accorgesse. Eppure, quando era costretta a presentarsi in piedi davanti alla cattedra o alla lavagna per un'interrogazione, sembrava non avere problemi e, benché parlasse sempre con un timido filo di voce, era sempre riuscita ad esprimersi senza sentirsi troppo sotto pressione. Finché non capitava che non riuscisse a rispondere subito ad una domanda.

Allora, ecco che il panico strisciava nuovamente insidioso dentro di lei, serrandole il cuore, tappandole le vie respiratorie e rubandole la voce, finché qualcuno non ridacchiava. Allora, il più delle volte chiedeva di poter uscire, per poi precipitarsi di corsa in bagno. Oppure, se il prof era uno di quelli che sapeva non le avrebbero concesso di uscire se lo avesse chiesto, si alzava direttamente e andava a rifugiarsi in bagno, a volte semplicemente per piangere, ma spesso per vomitare.

Il fatto era che per lei non c'era niente di più devastante e umiliante che mettersi in ridicolo, fare qualcosa di sbagliato, di imbarazzante o di stupido ed essere giudicata dagli altri, da chiunque, anche da un perfetto estraneo, come stramba, brutta, stupida, inopportuna, inadeguata, ridicola, o addirittura disgustosa. E sebbene la logica e il buon senso le suggerissero che non solo lei non era tutte queste cose, ma che se anche qualcuno lo avesse pensato, quel giudizio non avrebbe avuto alcuna importanza nella sua vita, la sua fobia era un nemico troppo forte. Era anche consapevole dell'irrazionalità e dell'esagerazione dei propri pensieri e del proprio comportamento, ma la consapevolezza non sembrava essere un'arma sufficiente per combatterli.

Così, profondamente terrorizzata dal giudizio altrui, e per questo incapace di chiedere aiuto, Sabrina aveva finito con l'arrendersi alla propria debolezza, lasciando che la sua condizione peggiorasse al punto tale che, durante una gita scolastica, aveva addirittura aggredito una compagna di classe. Una volta, durante una lezione di biologia, la prof aveva spiegato che, in una situazione di stress intenso, l'ancestrale istinto di autoconservazione dell'uomo provoca la risposta fisiologica dell'organismo atta a preparare il corpo alla fuga o al combattimento. Il panico, fino ad allora, le aveva sempre suggerito la prima opzione. Quella volta, invece, un velo nero le aveva oscurato la vista e poi, senza che neanche se ne rendesse conto, si era praticamente trasformata in una belva.

La causa? Una battuta di troppo su un singolo pelo un po' più lungo e scuro del normale che le era spuntato in faccia e che lei, guardandosi allo specchio, per qualche motivo non aveva notato.
 
   
 
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