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Autore: TheNewFrontiersman    13/04/2015    1 recensioni
Una ragazza come tutte le altre, persa nella Grande Mela. Una ragazza pervasa da una curiosità illimitata e un essere misterioso. Entrambi non possono sopportare la propria immagine riflessa nello specchio. Due vite monocromatiche. Ma c'è chi vede grigio e chi vede bianco e nero...
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Rorschach/Walter Kovacs
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Percepii un lieve tepore scaldarmi pelle, aprii un occhio, poi l’altro. Era il sole, che filtrava da una finestra. Una finestra? Mi guardai intorno, accorgendomi di trovarmi all'interno dell'ufficio del gestore della tavola calda. Lo riconoscevo perché c'ero stata il giorno prima. Sì, per accettare un lavoro che si prospettava massacrante ma produttivo. Una morbida coperta mi avvolgeva le spalle; fu in quel momento che realizzai: alla fine ero crollata dal sonno e il proprietario doveva avermi portato lì dentro di peso.

 

Dio, che vergogna. 

 

Guardai l’orologio. Le 6 del mattino del 20 Ottobre; pensai fosse una stranezza il fatto di trovare il sole già alto nel cielo così presto. 

 

Le  6 del mattino… 

 

C'era qualcosa che mi sfuggiva, ma cosa? Le sei del mattino.

 

…un momento… io tra un’ ora …Cavolo! Come faccio? Sono in condizioni indecenti! 

 

Perlustrai l'ambiente con lo sguardo alla ricerca di un posto dove sistemarmi. Vidi qualcosa sul tavolo, un biglietto che diceva: “Qui c’è la divisa, usa pure il bagno per darti una rinfrescata. Walter mi ha spiegato cosa ti è successo, non ti preoccupare. John (il tuo capo).” 

 

Ok, mi ero un po' commossa. 

 

John, che uomo gentile sei, una bravissima persona, pensavo mentre un ridicolo coro angelico mentale accompagnava la mia sensazione di felicità. 

Walter mi ha spiegato cosa ti è successo, non ti preoccupare… e come diavolo aveva fatto? A parte qualche monosillabo o qualche parola usata come risposta esaustiva, solo per darmi il contentino e zittirmi, non l'avevo mai sentito parlare, fare un discorso normale. Era come provare ad immaginare un muto mentre cerca di fornire indicazioni stradali a uno sconosciuto passante.

 

Davvero si era preso l’impegno di spiegare al mio nuovo capo perché ero ridotta così? Come al solito mi stupivo del suo comportamento, era così freddo ma anche così presente…o forse l'aveva fatto giusto per tranquillizzare John, che sembrava conoscerlo da un bel po' di tempo. Si, doveva per forza essere quello il motivo. Io non c'entravo proprio niente. Dovevo solo pensare al lavoro, al momento. Finii di aggiustarmi come potevo e indossai la divisa mentre cercavo di convincermi che in realtà ciò che faceva Walter non era poi così importante. Mentivo a me stessa, ovviamente.

 

“Alex? Ci sei?” Mi fiondai fuori dall’ufficio appena udita la voce del capo. “Sì, sicuro! certo che ci sono!" mi affrettai a rispondere con goffaggine mentre inciampavo tra le piastrelle del locale cercando di legarmi i capelli come potevo. Tutti i miei sforzi di apparire professionale erano vanificati dalla presenza costante della trivella che mi trapanava di continuo le tempie, in quel periodo. Mi arresi al pensiero che probabilmente per un po' di tempo sarebbe stato così, ma mi dissi, cercando di assumere un atteggiamento positivo, che finalmente avrei potuto pagarmi un posto dove stare, e questo significava la possibilità di riposarmi e rifocillarmi a dovere. Mi raddrizzai cercando di darmi un tono dignitoso e di ignorare quella tartassante ma non invincibile - almeno per me -spossatezza.

 

“Ah, sei già pronta! Fantastico… e vedo che indossi il completo che ti ho dato! Mi pare proprio che la misura vada bene, tu e mia moglie avete più o meno la stessa taglia” 

“Si, è perfetto!” sorrisi, e così fece anche lui, di rimando. “Ancora grazie…davvero non so cosa mi sia preso… è solo che ieri…” 

 

Guardavo in basso mentre cercavo qualche scusa per giustificare la mia lunghissima dormita, che comunque non mi aveva ricaricato del tutto, e provai un'infinita vergogna. Mi dissi che era inutile però, perché tanto John sapeva già della mia condizione, dato che era stato informato poco prima da lui. Il mio sguardo doveva palesare il mio disagio interiore fin troppo chiaramente, perché il capo se ne uscì con un improvviso “non importa”, anche se io non avevo ancora detto nulla. La gentilezza e i continui sorrisi di quell'uomo mi confondevano un po'…era davvero troppo cordiale. Doveva essere quel genere di persona che lega proprio con tutti, o comunque si fa benvolere un po' da chiunque, cani o porci che siano. Non mi sembrava un poco di buono però, così scartai l'ipotesi di un corteggiamento nei miei confronti. Pensandoci m'imbarazzai ancora di più, ma per fortuna era arrivato il momento di aprire i battenti, e mi venne chiesto di andare ad accogliere i primi clienti del locale. 

 

Scoprii ben presto a mie spese che l'orario di punta era il lasso di tempo che andava dalle sette alle otto del mattino; a quell'ora nella tavola calda si riversava davvero il finimondo. C’era così tanta confusione che mi domandai come il titolare avesse fatto fino ad allora a mandare avanti la baracca da solo. Comunque, le ore passarono abbastanza in fretta nonostante quel via vai infernale perché anche se ero impegnata a farmi vedere come  una cameriera molto efficiente, avevo un solo pensiero che martellava incessante sulle ipotetiche pareti del mio cervello: aveva detto che sarebbe venuto proprio oggi. Era già mezzogiorno e il rosso ancora non si vedeva…John cercò di tranquillizzarmi, dicendo che non era strano, dato che non si riusciva mai a sapere dove fosse e cosa facesse, "quello". Non aveva un'ora fissa, non aveva un posto fisso, come un randagio. Ma di solito le promesse le manteneva. Per questo, quindi, forse era davvero un po' strano che non si fosse fatto vivo. Cercai di non pensarci troppo: alla fine lo conoscevo da poco, cos'aveva da spartire con me? Poi, poteva benissimo darsi che avesse avuto un contrattempo dell'ultimo minuto. Alla fine però, verso l'una, improvvisamente sentii il campanello della porta suonare, annunciando così l'arrivo di qualcuno. Niente di strano, suonava di continuo a quell'ora - e la mia testa, d'istinto, ne seguiva ogni volta il suono - ma quella volta, quel qualcuno era lui, l'uomo dai capelli rossi, quello strano tappezzato di lentiggini. Il solito, insomma.

 

Eccolo!

 

Fremevo tutta e non sapevo il perché, l'unica cosa che sapevo era che mi sentivo molto stupida, conciata in quel modo. Si avvicinò al bancone e potei scorgere qualche livido sul suo viso. Mi chiesi cosa avesse fatto per ridursi così. Mi lanciò di sfuggita uno sguardo penetrante e subito abbassò la testa, cercando di coprirsi la faccia, un po' con la mano ancora avvolta dal suo guanto di lana verde acido senza dita, un po' sollevando con l'altra il bavero della giacca, che era sempre dello stesso verde dei guanti. Pensai che anche da nuova non doveva essere stata un granché come giacca, ma che a lui stava maledettamente bene, seppur fosse abbastanza messa male: voglio dire, oltre al fatto che la polvere si fosse impadronita del tessuto in un modo che pareva tanto essere permanente, ormai le tarme ne avevano fatto uno scolapasta, anche se alcuni buchi erano stati rammendati con precisione. Frutto della sua esperienza in campo sartoriale, conclusi. Se ne andava in giro con la cravatta e tutto, sempre in ordine, anche se gli abiti si trovavano in condizioni piuttosto tragiche. Malandati, come lo erano adesso i suoi già aspri lineamenti. Mi chiesi perché si coprisse la faccia solo in quel momento, se poco prima era entrato dalla porta come se non gli importasse proprio un bel niente degli sguardi preoccupati della gente. Preoccupati del fatto che fosse un criminale, ovvio, non che si fosse fatto male. Lui invece pareva inquietato da qualcos'altro, come se tutt'a un tratto una forma di vergogna quasi infantile si fosse appropriata di lui. Finii di raccogliere i piatti da lavare con l'intento di potarli in cucina, e con questa scusa ne approfittai per salutarlo. 

 

“Walter, ciao! Sei venuto alla fine!” 

“…” 

“Walter …” 

 

Alzò riluttante lo sguardo continuando a tacere e compresi perchè ci tenesse a non far vedere lo scempio abbattutosi sul suo volto. Era peggio di quello che avevo intravisto un attimo prima.

Aveva un occhio nero come mai ne avevo visti (e io di occhi neri, davvero, me ne intendo), il livido si estendeva fino allo zigomo sinistro, macchiandolo di viola. Il labbro inferiore era talmente gonfio che era difficile pensare che non gliel'avessero spaccato contro i denti a suon di pugni, e un taglio che aveva tutta l'aria di bruciare come il fuoco si estendeva da metà fronte fino quasi alla palpebra, attraversando il sopracciglio destro. Non c'è che dire, era conciato abbastanza male, mi ricordava la mia faccia quando facevo a botte con Beth , quella del quinto anno. Un po' ci rimasi secca, sul momento, perché a dirla tutta in effetti la sua era messa molto peggio della mia.

 

“Che…ti è successo…?” 

“Niente” 

 

Si certo, e io sono Nixon. Niente, come no, a chi voleva darla a bere? Corsi sul retro del locale, avevo intravisto uno di quei piccoli kit per il pronto soccorso nell'ufficio di John. Era davvero essenziale, e sembrava essere stato usato più volte. C'era rimasto dentro un solo cerottino striminzito, che bastava appena a coprire il taglio sulla fronte. Walter rimase immobile con gli occhi socchiusi e lo sguardo basso e apatico mentre lo applicavo alla ferita, ma quando feci per disinfettargli il labbro si ritrasse di colpo. Certo, le labbra devono essere zona proibita, per uno che trova disagevole il minimo contatto fisico. Arrossii notando che i miei occhi erano fermi a osservare la sua bocca bagnata di sangue da almeno una ventina di secondi, tempo che mi parve interminabile.

 

Improvvisamente arrivò John: “Accidenti … hai di nuovo fatto a botte? ….” Grugnito. Il labbro inferiore era messo particolarmente male, non riuscivo a staccarci gli occhi di dosso. Non ci pensai due volte, decisi che non m'importava se gli dava fastidio, la ferita doveva essere disinfettata, o sarebbe peggiorata. Presi un fazzoletto, lo bagnai con dell'acqua ossigenata e glielo misi sul labbro prima che potesse accorgersene e protestare. 

 

"Perdonami, va fatto, s'infetterà".

 

Realizzavo in quel momento la mia sfacciataggine. Ma che diavolo faccio? adesso si arrabbia, me lo sento. Invece nulla, almeno per i primi due o tre secondi parve accettare il mio tentativo di soccorso, ma poi alzò un sopracciglio e sgranò gli occhi con l'espressione di un bambino indignato dopo aver subito una ramanzina, mi guardò per un istante e si rigirò di scatto; si alzò senza spiccicare parola e si avviò verso la porta a grandi passi.

 

"Ehi amico, dove vai! Sei appena arrivato!" gli gridò il capo. Il rosso si fermò sul ciglio della porta e senza nemmeno girarsi disse "scusa, John. Devo andare".

 

Quella precisazione…quel “John” mi fece male. L'avevo combinata grossa. Sentii la mano del principale appoggiarsi sulla mia spalla, in segno di comprensione. 

 

“Non è colpa tua, non hai fatto niente di male … è lui che non riesce ad accettare il contatto con altri esseri umani. Beh, detto così.." - rise - "mi sembra di parlare di un alieno. Ma è una persona buona, in realtà". Tentava di consolarmi come poteva mentre io maledicevo la mia incapacità di rispettare la volontà altrui, o di tenere a bada la mia testardaggine.

"Non so come si rimedi certe ferite, ma è probabile che la sera se la veda brutta, magari a causa di qualche suo vicino…da quello che so non ha tanti soldi e quindi tutto quello che si può permettere è una misera abitazione nei pressi di uno dei quartieri più malfamati di New York…io ho imparato a lasciargli il kit medico sul tavolo, quando lo vedo così. Con disinvoltura, insieme al cibo che ordina. E' una forma di preoccupazione distante, l'unica che lui accetta volentieri. Perché non lo mette in difficoltà. Perché così può arrangiarsi da solo. E' proprio come avere a che fare con un randagio, o con qualche maledetto animale selvatico" - quando si trattava di Walter, la parola randagio occupava sempre la bocca di John. Doveva essersi affezionato parecchio a quello strano ometto - "Sì, quel tipo è davvero strano. Ma in fondo il suo presentarsi nel locale una volta ogni tanto è diventata una specie di routine un po' per tutti, qui, e i clienti non li allontana perché sono per la maggior parte abituali e ormai sono consci della sua presenza, anche se non è che stravedano per lui, ecco”. Quando attaccava un discorso, John sapeva essere indubbiamente prolisso. Venire a conoscenza delle abitudini di Walter mi interessava più di ogni altra cosa, ma sul momento quel discorso mi richiamava alla mente quello che era appena successo, rendendomi consapevole della mia impulsività. Mi faceva sentire stupida, quindi non mi sarebbe dispiaciuto ignorarlo e stare un po' sola con me stessa.

 

“Capisco…” cercai di tagliar corto, ma lui riprese: “Sai, non devi pensare che ti odi, lui è così e basta. Lui è Walter. Bisogna accettarlo com'è”. Dovevo accettarlo com'era…su questo aveva ragione da vendere. La pazienza non è una virtù che mi appartiene, ma decisi che avrei dovuto cominciare a ingabbiare la mia cocciutaggine e provare a diventare un po' più saggia: avrebbe solo potuto giovarmi.

  

“Già…è Walter…” sussurrai. Gettai nel cestino il fazzoletto leggermente macchiato del suo sangue e tornai al lavoro. Era Domenica, quindi quel giorno avrei dovuto staccare alle quattro, perché come mi aveva specificato John all'atto di firmare il contratto di lavoro, gli orari ai quali aveva accennato riguardavano i giorni compresi tra Lunedì e Venerdì. Ma non sapevo che fare, e nonostante non fossi riuscita a dormire un granché rimasi lì ad aiutare Mary a preparare l'impasto dei pancakes. Non avrei nemmeno potuto cercare casa, perché le agenzie immobiliari erano chiuse. John però non era d'accordo sul farmi lavorare troppo, così dopo avermi offerto un panino per il lavoro extra - dovevo rimettermi in forze, diceva- mi consigliò, data la rara e tristemente anomala giornata serena, di andare in un parchetto lì vicino che a sentir lui era “molto carino e colorato" e non c'entrava proprio niente con quei posti caotici come Central Park, "dove i bambini schiamazzano come solo i marmocchi iperattivi sanno fare". Decisi che avrei seguito il suo consiglio, un po' d'aria fresca non mi avrebbe fatto male.

 

Misi alcuni dei vestiti che Mary, a detta sua, non usava più e che poteva regalarmi, perché tanto aveva intenzione di buttarli. In effetti erano un po' piccoli per lei, ma pensai comunque che era stata molto gentile. Abbozzai un sorriso pensando che in quel periodo, nonostante tutto, la vita mi sorrideva di rimando, e mi diressi verso il Madison Square Park. 

Effettivamente il parco era carino, aveva molti fiori anche in quella stagione - il clima era ancora vagamente mite - e nonostante non fosse molto grande c’erano un bel po' di zone d’ombra, grazie alla moltitudine di alberi di cui era costellato. E, finalmente, le uniche panchine non imbrattate di graffiti su cui avessi mai posato gli occhi. Mi ci sedetti subito, perché odio il sole autunnale e molte erano sormontate da imponenti sempreverdi che offrivano un sicuro riparo dalla luce dell'enorme stella.

 

Intorno a me tranquille famigliole passeggiavano sul tappeto di foglie aranciate che copriva la ghiaia dei sentieri che fungevano da camminamenti. Qua e là scorgevo qualche coppietta godersi la tranquillità del luogo e scambiarsi sguardi diabetici. Mi sembravano felici…ah, ma chi volevo darla a bere…stavo cercando - o per lo meno speravo che sarebbe successo - di riuscire a scorgere Walter, che magari si aggirava da quelle parti, ma niente. Dopo mezz’ora decisi finalmente di alzarmi: fissare il nulla nella speranza di vederlo spuntare, così come sobbalzare alla vista di ogni testa rossa che faceva capolino al di là della recinzione di pietra, iniziava a diventare triste.

Volevo parlargli. Sono invadente, me ne capacito, per questo dovevo chiedergli scusa, perché non avrei proprio dovuto comportarmi in modo così irrispettoso…ma era ferito e quindi mi ero sentita in dovere di…no, niente scuse. 

 

Persa ogni speranza mi alzai, passai di fianco al vecchio ammiraglio Farragut e mi diressi verso la caffetteria. Era sulla Venticinquesima, non avrei dovuto fare molta strada e il mio tempo passato all'aria aperta sarebbe finito anche troppo in fretta…quando ad un tratto l'occhio mi cadde su qualcosa di molto ingombrante abbandonato in un cestino: era uno di quei grossi cartelli di legno che la gente usava costruire in occasione di quelle odiose manifestazioni che perlopiù erano una perdita di tempo, una scusa per fare casino…ma mi ricordò lui, e quindi lo esaminai più da vicino.

 

“The end is nigh”. Quella scritta…era il suo cartello, il suo inseparabile cartello. Strano, perché avrebbe dovuto buttarlo via? Dubbiosa, alla fine decisi di lasciarlo lì e di tornarmene a “casa”. Guardai l’orario: erano solo le cinque di pomeriggio lì a Broadway, forse era un po' presto per tornare a rinchiudermi in un posto affollato e senza pace, così decisi di percorrere tutta la 5th Avenue, destinazione ignota. 

 

Non mi guardavo nemmeno intorno, ero troppo assorta nei miei pensieri.

 
   
 
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