28/02/2015, Edinburgo
Ore 20.45
I dream by day
and choke myself at night.
The
Mirror Trap
E’ incredibile, che si sia trovata mille volte a sognare
davanti allo specchio, a provare make up
e aggiustarsi i capelli, e quando si ritrova davvero davanti al palco, abbia
appena preso così tanta acqua e freddo, da ispirare soprattutto una gran
tenerezza, se andrà molto bene.
Aspettare di nuovo che cominci il concerto, in una città che
non è la sua, sola, ma sempre meno stupita di trovarsi in situazioni e con
persone, così differenti da quelle a cui era abituata… quell’atmosfera le è
mancata così tanto, ma se ne accorge solo quando, dopo una breve corsa in
quella sala un po’ deprimente, si posiziona di nuovo davanti alle ragazze in
transenna, pigiata abbastanza da sentire il calore delle persone a fianco, ma
senza che questo le dia davvero fastidio, dopo tutto il vento gelido che ha
preso nel pomeriggio.
Non c’è niente di nuovo, in nulla di quello che sta per
accadere, a parte che è riuscita perfino a godersi l’opening act dei Mirror Trap; è tranquilla, o forse no, è euforica,
ma si sta abituando, e quello stato alterato di coscienza, in cui le sembra di
sentire e vedere tutto quello che accade con più intensità, con il tempo che
scorre in maniera diversa dal solito, sta diventando la sua comfort zone.
E ora, fa finta di non sapere quello che sta per accadere e
pensa ad una ipotetica nuova scaletta. Le piacerebbe tanto sentire una canzone
proibita come Nancy Boy. Una ipnotica
come Pure Morning. Una iconica come Protège-moi, e una epica come Sleeping with Ghosts. Una filastrocca
facile come English Summer Rain, ed
una confessione difficile, come Bosco.
Vorrebbe il mullet, ma si accontenterebbe anche dei capelli
spettinati di Angkor Wat. Vorrebbe vederlo truccato e vestito nel tubino di
Brixton ’98.
Le piacerebbe vederlo sfatto e bellissimo, rotolarsi in
terra suonando l’armonica, come 10 anni prima, senza che per questo lui debba
mai morire.
Magari, sarebbe bello averne solo una, musica e parole mai
sentite. Sarebbe bello se lui, almeno per una volta, l’assolo di chitarra di The Bitter End lo facesse inginocchiato
di fronte a loro, e non di spalle.
Invece, il concerto dei Placebo inizia come è sempre
iniziato, in tutti i concerti a cui ha assistito, con quella canzone, che parla
di rinascita e che non aveva mai particolarmente sentito sua. Ma ora, è quasi
automatico che l’attacco di B3
coincida con una scarica di adrenalina, che si trasforma quasi subito in
energia, e nasconde lo squallore di quella specie di grande palestra e la farà
uscire, come sempre, con la paura di non poter assistere di nuovo a quel
concerto.
Quando sente I Know,
è completamente ipnotizzata dalla musica, e da quelle parole, che disegnano il
Brian di 20 anni prima in maniera così perfetta e vera, che si stupisce che lui
si senta a suo agio nel cantare quella, ma non Nancy Boy.
Ma nella seconda strofa, Brian gioca a fare il moralista,
mentre lei pronuncia le parole originali e lo guarda sorridendo e agitando il
dito indice, mimando “wrong lyrics” con la bocca.
Brian, che mentre canta sembra non vedere nulla, incrocia i
suoi occhi solo un istante e poi li rivolge di nuovo sulla folla, ma gli scappa
un sorriso, che vale tutto quel viaggio.
Ore 23.10
Drug (It’s Just a State of Mind)
Duran
Duran
Matt ce la mette tutta, ed è stato salutato con più applausi
di quanto fosse lecito attendersi.
Brian pensa stancamente che sta andando bene, visto che, in
fondo, ancora si limita a eseguire meccanicamente le tab, e una drum machine
coperta da una sua foto avrebbe più o meno lo stesso effetto.
Ma lui, è ancora piuttosto seccato. Soprattutto, di non
essere riuscito a evitare il colpo. Lo sapeva benissimo, che sarebbe successo,
e ciò nonostante sente che l’ha colpito più di quanto si aspettasse. E sente
che quel senso di vuoto, quella specie di voragine che si apre ancora quando
abbassa la guardia, non dovrebbe essere lì.
Steve era sempre stato un accessorio di lusso, nel gruppo.
Un tassello che fin dall’inizio aveva fatto fatica a trovare
il suo posto nel puzzle. Un puzzle che era già completo, solo con Stef e Brian,
che invece si erano perfettamente incastrati da subito, contro ogni aspettativa,
lui con mille spigoli, l’altro pronto ad adattarsi, e a completarlo.
Un miracolo si imperfezione che non aveva bisogno di altro,
di altri, mai.
Quindi, perché aveva fatto di tutto per far sentire il
ragazzo protetto, e importante, e perché lo aveva trattato con tanta
attenzione, e condiscendenza?
Il nostro Sunshine. Il mio Raggio di Luce.
Aveva illuminato per un attimo l’oscurità che si era creata
dentro di lui, dopo l’addio dell’altro Steve. Un attimo solo, abbagliante,
perché non se l’aspettava, non era protetto, e gli aveva fatto bene, finché non
si era accorto che stava abituandosi a quella luce, e questo non era, non
doveva, essere possibile.
Brian non deve dipendere da nessuno. Non vuole diventare di
nuovo quello che subisce le regole che qualcun altro ha stabilito, in amore, in
amicizia, nel lavoro. Ha giurato che non deve accadere mai più, deve essere lui
a decidere i tempi e i modi e i confini, di qualunque rapporto che lo
coinvolga.
Ecco perché Steve se n’è andato. Di chi sia stata realmente
la decisione, in quel momento non ha importanza, l’importante è che sia di
nuovo padrone di ogni dettaglio nella vita del gruppo, e nella sua vita.
Padrone se vuole di spegnere per sempre qualunque luce
dentro di sé, padrone di eliminare qualunque possibilità che qualcuno cerchi di
nuovo di guarirlo.
Lui non vuole guarire. Lui vuole solo avere un po’ di
tregua, ogni tanto, dalla paura di quel buio, ma non vuole che il buio vada
via. E non vuole nessuno, che guardi in quel buio, per dirgli che lo aiuterà ad
uscirne.
Fanculo. Alla fine, è stato lì tutta la sua vita, e non può
che essere fatto della stessa cosa di cui è fatto Brian.
Di niente. Niente assoluto. Almeno per un po’. Solo un altro
po’. E poi uscirà da quella stanza, e se sarà fortunato non incontrerà nessuno
fino al tourbus.
Sente bussare alla porta, oppure è nella sua testa?
“Brian?”. Stef. Lo dice senza riuscire ad emettere un suono.
“Brian. Ti aspettiamo, per andare via”.
“Vi raggiungo.”
Qualche secondo di silenzio, forse Stef se ne è andato.
Strano, pensa Brian. Un pensiero veloce e doloroso, che
nella sua mente è cresciuto come un’onda, che si abbatte con violenza, e poi si
ritira, lasciando la terra nuda, e ancora incredula, che l’acqua che l’ha
sempre accarezzata possa averla distrutta, in un attimo solo.
“Ti
aspettiamo.”
Ore 23.50
Because a heart that hurts
Is a heart that works.
E’ più di un’ora che sta cercando di andarsene di lì.
Tutti i taxi sono occupati o prenotati o scomparsi da
qualche parte, non saprebbe dirlo.
E ora, è anche senza cellulare, perché la sua batteria ha
deciso di rendere omaggio alla legge di Murphy.
Non può fare altro che entrare di nuovo nel Corn Exchange e
sperare di incontrare qualcuno che possa aiutarla.
Attraversa un lungo corridoio, alla ricerca degli uffici o
del bar o di qualsiasi altro posto possa ospitare un essere umano,
possibilmente di madrelingua e possibilmente bendisposto verso una sconosciuta
in difficoltà.
Finalmente vede qualcuno, ed è l’ultima persona che si
aspettava di trovare in quel corridoio, illuminato da una luce bassa e un po’
angosciante.
Brian non ha bevuto altro che la sua solita tisana durante
il concerto, ed era assolutamente tranquillo. O molto bravo a simulare. Ora
sembra un po’ stordito , è appoggiato al muro con tutto il corpo e tiene gli
occhi semichiusi, i capelli spettinati e ancora umidi.
Potrebbe essere solo stanchezza. Ma quando lei lo chiama, e
lui la guarda, sembra che ci sia qualcos’altro. Lei apre e chiude la mano come
una bambina per salutarlo, e lui alza la sua, che ricade subito pesantemente
lungo il fianco.
“Sto andando… devo tornare con gli altri.”
Lei tace, un po’ imbarazzata.
“Perché sei ancora qui?”
“E’ impossibile trovare un taxi, è più di un’ora che ci
provo, sto morendo di freddo e non ho più batteria. Ecco perché sono ancora
qui.”
Occhi ancora chiusi.
“…facciamo così. C’è una macchina che può accompagnarti. Ma
mi fai stare un po’ fuori di qui.”
Sei nell’anima
E lì ti
lascio per sempre
Sei in ogni
parte di me
Ti sento
scendere
Fra respiro
e battito
Gianna
Nannini
Si dice che forse Brian, semplicemente, non ha voglia di
vedere gli “altri”, chiunque siano. Annuisce brevemente, e lo segue fino alla
fine del corridoio, che sbuca in un cortile, dove un uomo, alla guida di un van
grigio chiaro, aspetta, mentre digita qualcosa su un cellulare.
Si siedono l’una di fronte all’altro, e lei fa il nome del
suo albergo, sono solo pochi minuti di viaggio nel buio della città,spazzata da
un vento gelido e abbastanza deserta.
Per fortuna la macchina è riscaldata e può dimenticare il
freddo che c’è la fuori.
Ma è l’espressione di Brian che pian piano diventa più
lucida a metterla a disagio. Lui guarda fuori e non parla, perso in qualche
pensiero, che disegna piccole rughe sulla sua fronte.
Ogni tanto Brian si gira verso di lei e le fa un sorriso
breve, ineccepibilmente educato, ma per il resto sembra assorbito da qualcosa,
in cui lei non c’entra.
“Brian. Qualche problema?”
Brian inclina la testa e le lancia uno dei suoi sguardi
sprezzanti. “Nessun problema. E grazie, ti ho solo offerto un passaggio, non è
necessario ricambiare il favore con una seduta di psicanalisi.”
Lei china la testa e sorride, sarcastica. “Ti farà piacere
sapere che non girano voci infondate sul tuo carattere. Le maldicenze sono
sempre spiacevoli”. Un veloce sguardo di sufficienza, e Brian torna a guardare
fuori.
Probabilmente non c’è mai stato un momento, in cui ha avuto
più chiaro il fatto che lui non è suo, in nessuna piccola parte. Non lo è di
più, solo perché è una presenza costante da molti mesi nella sua testa, o
perché si sbatte in continuazione con le loro canzoni e perché è andata a così
tanti concerti, o perché invece lei lo sente in ogni parte di sè.
O perché non ha mai avuto davanti qualcuno, da cui sia stata
più attratta in tutta la sua vita, per cui la testa prima ancora che il corpo
sia andata così fuori giri e che sia riuscito a rovesciare d’un colpo tutte le
regole, che gli altri usano per governare il gioco.
A lui non servono.
Lei, invece, si sente già nuda.
And it all breaks down
At the role reversal
Got the muse in my head
She’s universal
Spinning me round
She’s coming over me
Sono arrivati, e quando salgono in camera, succede tutto
molto più velocemente di quanto vorrebbe.
Si spogliano l’un l’altra, e si ritrova sul letto, supina,
con la testa leggermente sollevata da un cuscino, e ciononostante si sente la
testa vuota come per mancanza di ossigeno, come se stesse sotto 10 metri
d’acqua e non riuscisse a tornare su, e vedesse il mondo allontanarsi.
Brian è a cavalcioni sul suo bacino, l’espressione sembra distante,
ma non può dirlo con certezza, ha il viso e gli occhi leggermente coperti dai
capelli, che gli ricadono sulle guance.
“Se non vuoi continuare, è il momento di dirlo.”
Lei scuote impercettibilmente la testa, non dice niente, e
gli poggia le mani sui fianchi. Come se in quel modo potesse trattenerlo lì per
sempre. Ma Brian deve giudicarlo un contatto troppo intimo, comunque più di
quello che possa sopportare, perché le prende le mani, e tenendole tra le sue,
le porta sopra le loro teste, e si sdraia sopra di lei. Sente la sua erezione,
ma non può fare nulla, non è molto pesante, ma è il modo in cui la guarda, ad
essere insostenibile.
Cercherebbe di convincersi che è reale, se non fosse che la
mente è fottuta già da un po’, e non riesce a staccare gli occhi da quei
capelli, sul viso di lui, che sfiorano il proprio.
Conosce l’odore di quello shampoo, e si ritrova
improvvisamente in un’altra stanza, in un altro letto, con la luce di Parigi
che filtra dalle tende.
Ora Brian tiene le sue mani imprigionate in una delle sue, e
con l’altra finalmente si scopre il viso, portandosi le ciocche dietro le
orecchie, e si abbassa di nuovo sul viso di lei, ma non la bacia.
La accarezza, ma non la bacia.
Entra in lei, ma non la bacia.
Porta la mano sulle sue labbra, e lei sente il calore delle
sue dita in bocca, e lo sente dentro, con più dolore di quanto si aspettasse,
ma sa che lui non è davvero lì.
Poi Brian le lascia le mani, alza la testa e chiude gli
occhi. Per un attimo sembra perdere il controllo e non reagisce quando lei si
avvicina e cerca la sua bocca. E’ bello sentire le labbra di nuovo tra le sue,
accarezzare i suoi denti con la lingua, per cercare un varco.
Ripensa a quando un paio di ore prima l’ha visto sul palco,
durante i momenti finali del concerto, mentre applaudiva al pubblico per
salutarlo. Si è scostato i capelli dal viso, e ha sorriso. Proprio come una
donna, e questo l’ha paralizzata per un attimo.
Una donna. Non sono i capelli, e non è l’eyeliner. E’ che
mentre ti sta scopando, tu hai una dannata voglia di invertire i ruoli, come se
fosse la cosa più naturale del mondo.
Nonostante il fatto che lo senti ancora muoversi in te e
stai per venire, ed è già finita, e non è stato nulla, ti rimarrà solo questo.
Lo guarda spostarsi e sdraiarsi accanto a lei, perso di
nuovo. Si accende una sigaretta e respira piano tra una boccata e l’altra. “Se
volevi essere una groupie… beh, direi che ci sei riuscita.”
“Sbagliato. Ho avuto il tuo corpo, ma volevo la tua anima,
che non ho visto.” Sorriso amaro, un altro tiro.
“Sbagliato. Probabilmente ora sai come mi sono sentito per
tanto tempo, dopo le esibizioni, dopo i tour infiniti, dopo i photoshoot, dopo
le interviste e dopo tutto quello che dovevo farmi per non morire. Usato da
sconosciuti per il proprio personale piacere, senza aver avuto indietro niente,
per cui ne valesse davvero la pena.”
Altro sbuffo di fumo. Le porge il pacchetto stancamente. “Se
ora ti senti male, se domani starai ancora peggio... hai avuto un pezzo della
mia anima”.
Lei fa quello che lui si aspetta, e si accende una
sigaretta. Tace per un paio di lunghissimi minuti, in cui assapora il tabacco,
e assapora il dolore, che sente scendere piano piano nel sangue come un liquore
forte, aspettando che le dia alla testa.
“Brian.” Si alza da letto, e comincia a vestirsi. Non per la
vergogna di essere nuda, ma per prendere ancora tempo. “Forse siamo sconosciuti
come dici, o forse no. Comunque, visto che ci stiamo dicendo addio, è stato un
piacere conoscerti, Brian.”
Discussioni infinite su quegli occhi, che ora illuminano il
buio della stanza, o perlomeno quello che li divide, più di quanto potesse
credere possibile.
“Il piacere è stato mio. Ora, vuoi dirmi come ti chiami?”
“Ma lo sai. Mi hai autografato e dedicato il tuo libro. “
Sorriso compiaciuto di lui, mentre guarda la sigaretta tra
le proprie dita.
“E comunque, hai torto. La cosa più stupida che abbia mai
fatto per te non è il tatuaggio.”
La guarda interrogativo, come a dire, nemmeno io posso
essere stato così bastardo.
“La cosa più stupida è stata comprare quel libro, pieno di
errori.”
Brian ride. “E quindi, immagino che ora vorresti essere
risarcita.”
“E quindi, ora me ne vado. Esco da questa stanza e tu farai
la cosa più ragionevole. Mi dimenticherai in un attimo.”
Lui distoglie gli occhi dai suoi per una frazione di
secondo, e poi torna a fissarla.
“Ci posso stare, ma ti chiedo un favore. Quel giorno in cui
ti innamorerai di qualcuno in maniera folle, irragionevole. Ti sentirai
talmente fregato, da desiderare di essere quella persona, ancora più che
averla. E lo troverai così simile a te, o a quello che avresti voluto essere,
da avere l’impressione di sentire i suoi pensieri e i suoi dolori, come se
fossero i tuoi. Pensa a me un solo momento, perché avrai un pezzo della mia
anima.”
Brian scuote la testa. Vorrebbe fermarla mentre esce da
quella porta, vorrebbe dirle che non succederà mai, e ringraziarla, perché sa
che ci ha provato davvero.
Ma questo non sarebbe da lui.
Perciò, mentre la porta si chiude, fa quello che è normale
per uno come Brian, gira la testa, e la scaccia dalla propria mente. E’ l’unico
modo per far tornare le cose come devono essere, far tornare quel maledetto
buio dentro, un buio caldo in cui sta bene, che non lascia passare quasi nulla
del mondo esterno. Nessun Sunshine, nessun maledetto Raggio di Luce. Nessun
contatto con nessuno. Solo buio. Quello che, senza che lui sappia più come o
perché, lo tiene ancora in vita.
Per quello che vale.
01/03/2015, Roma
She'll take a tumble on you
Roll you like you were dice
Until you come out blue
She's got Bette Davis eyes
Jackie
DeShannon
Certo che il giorno dopo è peggio.
E probabilmente, lo sarà anche quello dopo.
Prende l’aereo e torna a casa e riprende la sua vita
normale, o comunque, è facile far credere di essere ancora scombussolata dal
concerto.
Torna al lavoro, sorride a tutti, è allegra, anche se c’è
molto ancora da sistemare, perché sia tutto passato.
Sorride, perché c'è una cosa che Brian le ha insegnato.
Quando ti senti in cima al mondo, e quando ti senti nella polvere, senza amici
e senza amore.
Quando con lo spettacolo che devi inscenare tutti i giorni
trovi la gloria, e quando piove e fa freddo e siete più sul palco, che
giù in sala.
Ti sentirai solo, anche quando sarai con lui, che ti rimane
sempre accanto, a proteggerti da te stesso, e ti sentirai in colpa, perché ti
sembrerà che i sorrisi che gli regali ogni tanto in cambio non siano abbastanza
per meritartelo.
Ma non ci puoi fare niente.
Perciò, continua a suonare.
E alla fine, inchinati, sorridi, e alza le mani in segno di
vittoria.
Peace, and love.