Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: Biecamente    13/04/2015    1 recensioni
La storia dell'unico posto che resta libero durante un viaggio in autobus. Tratto da una storia vera.
_________________________________________
Perché diavolo non vuoi sederti accanto a me?
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Il posto vuoto

a tale by Biecamente









Seduta sull’autobus – il posto che dava sul corridoio, il finestrino libero da cui poteva godersi il paesaggio non occultato da alcuna sagoma; seduta sull’autobus, una ragazza se ne tornava a casa. Chiunque l’avesse vista in quel frangente avrebbe stentato a credere che appartenesse al genere femminile: non ne aveva affatto l’aspetto. Favorivano quella prima impressione i capelli corti, praticamente rasi a zero; e l’abbigliamento che le nascondeva ogni forma. Sotto un giubbotto extra large dal taglio maschile, compariva un t-shirt ugualmente larga e ugualmente poco femminile con un’improbabile stampa d’un qualche gruppo metal; i jeans, raccattati ad un mercato dell’usato, non le si addicevano per niente: le stringevano la vita stretta e s’allargavano in prossimità del cavallo – lì dove un uomo avrebbe avuto qualcosa con cui riempire tanto spazio in più. Le mancava la mascella ruminante e il continuo sputare in terra per essere scambiata definitivamente per un ragazzaccio.

Non che le dispiacesse essere scambiata per un ragazzo: almeno teneva lontano gli sguardi invadenti. C’era stato un periodo in cui portava i capelli lunghi – ch’erano d’una tonalità chiara e le ricadevano in lunghe onde sulla schiena; c’era stato un periodo in cui indossava vestitini e ampie gonne e addirittura, di tanto in tanto, si passava un velo di rossetto sulle labbra e una linea di matita sugli occhi. Ma l’innervosiva come gli sguardi si spostavano col proprio passeggiare, così ci aveva dato un taglio. Definitivamente.

L’autobus si fermò alla seconda fermata. Già era abbastanza colmo e un gruppetto occupava le scale; un paio di posti ancora erano liberi: alcuni in fondo e quello che faceva il paio col suo. Come ogni persona che abbia mai viaggiato coi mezzi pubblici, lei non era mai stata granché predisposta a far sedere qualcuno. Quella sera però non aveva con sé neanche la più piccola borsettina, neppure un misero pacco che avrebbe potuto levarle il fastidio di un compagno di viaggio. Prese un respiro profondo e sprofondò le mani nelle tasche del giaccone consapevole che – se non a quella – alla terza fermata qualcuno le avrebbe portato via il finestrino.

L’autobus riprese la via. Un uomo si unì al 3gruppetto che s’accalcava sulle scale – forse si conoscevano visto come salutò gli altri; una donna riccia prese posto dietro di lei e un’altra più anziana si diresse verso il fondo. Tranquillo, tutto perfetto. Ancora nessuno aveva turbato la propria oasi di pace. Scorgeva il traffico luminoso di altre vetture dal finestrino accanto a sé e i grandi manifesti pubblicitari.

Fu allora che l’autobus si fermò per la terza volta. Ora, sicuramente qualcuno si sarebbe seduto accanto a lei. Quello era l’unico autobus di quell’ora e faceva la tratta intera fino all’ultimo paesino dove se ne sarebbe ritornato in deposito; e alla terza fermata c’era sempre più gente. Troppa gente.

Si limitò a fissare il finestrino, godendosi gli ultimi istanti la vista dal posto sul corridoio. Poi cominciò ad esaminare la gente che saliva. Almeno avrebbe potuto scegliersi il compagno – in un certo senso. Il corridoio s’affollò presto come aveva previsto; un ragazzo prese posto davanti a sé, la colonna di persone procedette verso il fondo e nessuno si fermò a chiederle se era libero. Nessuno.

Era la prima volta che capitava una cosa simile. Le sopracciglia le si corrugarono in piccole rughe d’espressione sopra il profilo del naso. Stava accadendo davvero? L’autobus strapieno e nessuno che le si sedeva accanto? Era possibile? Addirittura una ragazza le si fermò in piedi proprio accanto, reggendosi al sedile che subito precedeva il proprio – e si mise a giocare al cellulare. O a messaggiare, non c’è poi tanta differenza. E se ne stava in piedi sulle sue gambuzze senza chiederle il posto. Eppure era lì! vuoto, privo di alcun ingombro ad indicare che potesse essere occupato. Tra l’altro non vi si era neppure sdraiata, né sedeva tanto larga da riempire i due sedili invece che solo il proprio. Era magrolina, lei, e se ne stava seduta scompostamente, sì, ma solo nel proprio posto. Eppure la ragazza che le stava dirimpetto restava impettita in piedi.

Ed era una bella ragazza – no, non di quelle belle da riviste patinate, di quelle indossatrici di intimo nelle pubblicità con seni che si reggono per volontà propria e il reggiseno fa solo da accessorio. Era una ragazza bella da porta accanto. Non troppo alta, né troppo bassa; il viso dai tratti piacenti non abbellito da artificiosi cosmetici e un grande neo che le faceva capolino sulla guancia nei pressi dell’orecchio sinistro – la guancia che mostrava. A lei, avrebbe volentieri ceduto il posto. Se le avesse fatto la solita domanda di rito, avrebbe annuito, si sarebbe alzata con le mani ancora profondamente immerse nelle tasche e l’avrebbe fatta sedere. Solo per poi risedersi al proprio posto e rimirare anche l’altra guancia. Ma non le pose alcun «È libero?», se ne stette semplicemente aggrappata al sedile davanti col cellulare in mano.

Forse la stava guardando troppo, e forse se ne stava accorgendo troppo tardi. Comunque scostò lo sguardo e riprese a guardare fuori dal finestrino. Avrebbe potuto spostare il proprio culo di pochi centimetri e lasciarlo ricadere sull’altro sedile con la scusa di guardare meglio fuori, ma non lo fece: si sporse dal suo posto, piuttosto. Fuori c’era un trentenne con un buffo cappello in testa; il portellone del portabagagli era sollevato e questi si destreggiava con un lungo pannello di truciolato laminato e una bicicletta. Non riusciva a vedere tutta la scena ché in parte lo stesso portellone e assieme al punto da cui la guardava erano d’intralcio – probabilmente se si fosse spostava e avesse posato la guancia sul vetro, avrebbe goduto di una vista migliore; fatto sta che quando pareva fosse riuscito ad incastrare i due metri di compensato, l’autobus partì.

Un «Poveraccio» le scappò dalle labbra e sentì che anche la ragazza in piedi era presa dalla vicenda. Forse sorrise; così le parve di scorgere con la coda dell’occhio. Dopo uno scatto di cento metri l’autobus si fermò di nuovo e scese lo stesso autista a dare una mano al trentenne. Ci vollero un paio di manovre col pannello di truciolato prima di riuscire a destreggiarsi tra l’uno e la bicicletta; in ogni modo, alla fine entrambi erano nel portabagagli e il cappello buffo apparve nel corridoio dell’autobus. Lo spazio nel corridoio si rimpicciolì per la gente in piedi che ormai contava un cinque, sei persone e ancora la ragazza col buffo neo se ne restava in piedi.

Per un po’ si domandò come mai guardando diritto davanti a sé, la testa di chi le era seduto avanti – le braccia incrociate sul petto magro. Non si confaceva ai suoi canoni di gradevole? era seduta tanto scomposta da apparire il gobbo di Notre Dame? Rizzò le spalle, cercando di raddrizzare anche la propria malridotta colonna vertebrale con pochi risultati. Sedere scomposti con la schiena diritta non è così facile come si possa pensarlo. Forse il giubbotto largo la faceva apparire più grassa che maschia?

A quel punto girò la testa verso il finestrino dove si svolgeva il paesaggio extraurbano e la statale in tutto il suo buio splendore. Tanto era buio fuori quanto era chiaro dentro per le lucette mezze fulminate dei neon; tanto che poteva specchiarsi nel vetro. Si scoprì non essere messa tanto male, almeno per i propri standard. Appariva in ragazzo buttato letteralmente sul sedile – la schiena gobbuta premuta contro lo schienale e le ginocchia contro il sedile davanti. E in quel riflesso poteva scorgere anche il viso intero della ragazza col neo senza essere sorpresa a rimirarla troppo a lungo.

Si godette vari minuti in tal modo con la scusa del rimirare un paesaggio spoglio di fuori. Poi ritornò a guardarla da dentro. Guardò ciò che di lei aveva più vicino – quindi meno facilmente sarebbe stata notata: le sue mani, piccole e dalle dita tonde, che stringevano il rivestimento del sedile. Erano proprio delle belle dita, incorniciate da belle unghie laccate di smalto nero e ancor più belle minute nocche che saltavano sulla pelle del dorso della sua mano come capocchie di spillo. Si sarebbe volentieri fatta accarezzare da mani così. E riprese a fissare l’angolo di mascella che scorgeva e il neo più su.

Perché diavolo non vuoi sederti accanto a me?

«Pronto? Sì, sono io» disse al cellulare che aveva recuperato dalla tasca con un movimento fulmineo. Neanche l’aveva sentito squillare: doveva aver avuto la vibrazione inserita. E poi era stata tanto immediata nel rispondere al ricevitore che, sprofondata nella propria angusta posizione, cominciò a pensare l’avesse avuto sempre in mano.

«Per domani? Sì, va bene. Ricordati di portare greco ché devo ripassare» diceva ancora e se le prime parole che le aveva sentito pronunciare erano state tanto frettolose, ora coglieva finalmente il suo timbro vocale. Che era grave per una donna, ma indicibilmente sensuale. Le sillabe le uscivano dalle labbra con un suono gutturale, in un’impostazione vocale quasi inglese, e le facevano accapponare la pelle per la malizia che parevano celare.

«Che altro dovevi dirmi? …Cosa? No, aspetta. Cosa? Sam e Fra? Si sono lasciate? Ti prego, dimmi che stai scherzando. No, non ci credo neanche sotto tortura— No, il sesso non vale come tortura. E no, comunque non ci crederei». Aveva dapprima sgranato gli occhi nel ricevere la notizia e ora un sorriso le piegava le labbra - una piega particolare sul suo volto. Scrutò nel riflesso del finestrino per cercare conferma della natura che aveva scorto in quel sorriso: sì, era proprio affabile lascivia che le sollevava l’angolo sinistro della bocca. Ritornò a fissarla da dentro - ormai l’autobus s’era addentrato nel primo paesino e l’illuminazione stradale stentava a far riflettere il vetro come fosse uno specchio.

La ragazza col neo, frattanto, continuava a parlare al cellulare. La voce si faceva sempre più calda pian piano che snodava il discorso con l’interlocutore dall’altro capo; tanto calda che fu costretta ad aprirsi la giacca scoprendo una scollatura a v della maglia nera che indossava. E sentì caldo anche l’altra ragazza che aveva implorato - e ancora implorava - per averla seduta al suo fianco. Abbassò lo sguardo dalla sua guancia, alla mano che ancora era aggrappata al sedile davanti.

Stacca quella mano. Vieniti a sedere qui. È più comodo.

L’autobus si fermò alla prima fermata di quel paesino. La mano, la stessa dalle unghie laccate di nero che s'aggrappava al sedile, approfittò dell'attimo della sosta; ne approfittò per staccarsi e scivolare lenta nel l'apertura lasciata dalla zip abbassata della giacca. Vi si insinuò all'interno e la ragazza poté solo immaginare come essa toccasse e palpasse la propria pelle al di sopra della stoffa della maglia - ancor più lasciò a schiena scendere contro lo schienale e le ginocchia conficcarsi rudemente nella parte in plastica del sedile davanti.

«Sì? Sì, sono ancora qui. Siamo arrivati a Bitritto. Poi c'è Sannicandro e poi Cassano. Sono quasi a casa.» Intanto continuava a toccarsi in quel modo nascosto in cui l'immaginazione vedeva tutto ciò che vi voleva vedere. Ed era l'immaginazione a farle sentire quel calore nella sua voce?

«Nah. Non è vero. Manca ancora una buona mezz'oretta. Ma chi sono io per non illudermi? Ancora e ancora. Come mio solito.» E un secondo sorriso le sbocciò sul volto, tenero e dolce.

«Ti ho detto del provino? No?» Si passò una mano sul volto, il riso ironico che sgorgava limpido dalla bocca. «Che idiota sono! Comunque ho un provino. E questa è la cosa che conta. Ho un provino giovedì prossimo.» Allontanò garbatamente il cellulare di pochi millimetri dal proprio orecchio. «Okay che sei felice, ma non urlarmi così! Oddio, mi spaccherai un timpano. E non verrò selezionata per colpa tua.» parlava in tal modo, col ricevitore leggermente discosto dal volto.

Era un'attrice. Lo sentiva che era qualcuno di un certo rilievo culturale; l'aveva percepivo fin da subito, dal portamento austero, dalla presenza scenica che pareva emanare anche solamente in piedi sulle proprie gambe, mentre manteneva il precario equilibrio che si poteva avere in un autobus.

Il mezzo, frattanto, era ripartito vuoto di un paio di persone rispetto a quando s'era appena fermato. Sostò, poi, alla fermata principale di quel paesino - lì dove, si sapeva, parecchia gente sarebbe scesa. Non la ragazza col neo: lei era di Cassano, non di Bitritto e avrebbe benissimo potuto occupare il posto vicino al finestrino che faceva coppia col suo. Ma non lo fece. In molti passeggeri scesero a quella fermata nella piazza e molti sedili rimasero liberi. Una donna con la busta della spesa tintinnante; ella pure scese. Un uomo di colore col sorriso lucido di perle bianche; egli pure scese.

Siediti vicino a me. Non ti chiedo tanto. Lo sappiamo entrambe che ora, obbligatoriamente ti sederai; perché non qui?

La ragazza col neo prese posto, infine, dopo più di un quarto d'ora di viaggio in piedi; prese posto e lo prese dietro di lei, nel sedile subito dopo il suo. In quel sedile sul corridoio, col finestrino libero da cui poteva mirare il paesaggio non occultato da alcuna sagoma, una ragazza inghiottì un boccone amaro - il più amaro che si ritrovò mai ad inghiottire.

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Biecamente